Un viaggio fra le colline e un'intuizione sulla tonalità
Una sera di primavera del 1976, guidando su un crinale tra le colline della Sierra ebbi una rivelazione, non proprio come Paolo sulla via di Damasco, ma piuttosto come Dogjam sulla via di Downieville. All'epoca ascoltavo la musica su un ingombrante mangianastri Sony portatile, un TC-158, più o meno delle dimensioni di una piccola borsa con altoparlante incorporato e tracolla. Il walkman non esisteva ancora e registravo assiduamente i dischi della mia raccolta in modo da poterli portare ovunque andassi. Nel mucchietto di custodie di plastica in continuo aumento c'era una scansione completa delle mie ascendenze musicali, compresa tra i Vespri di Monteverdi (1610) e Bitches Brew di Miles Davis, oltre a un brano intitolato Silver Apples of the Moon, una composizione di musica elettronica di Morton Subotnick per il sintetizzatore Buchla.
Quella sera, sul sedile del passeggero della mia vecchia Karmann Ghia decappottabile, il Sony suonava un'incisione del primo atto del Crepuscolo degli Dei. Mentre guidavo tra le curve brusche e osservavo la nebbia indugiare nelle strette gole e sui letti dei fiumi sotto le cime scoscese delle montagne, ascoltavo attentamente le armoniose ascese e discese delle melodie di Wagner e il ricco mondo armonico in continuo mutamento che esse delineavano. Non pensavo molto a Wagner, in quel periodo, e sicuramente l'universo della sua teoria drammatica, dei suoi poemi mitologici e delle sue lunghe e complicate opere era ben lontano dalle mie riflessioni sull'avanguardia musicale contemporanea.Questa musica, tuttavia, in particolare le placide battute d'apertura di "Aurora e viaggio di Sigfrido sul Reno" con i suoi eleganti intervalli di sesta e settima e i morbidi cuscini di accordi degli archi, mi parlò. Dissi a voce alta, quasi senza pensarci: "Gli interessa". Ero disorientato dalla mia stessa affermazione. A chi "interessa"? A Wagner, evidentemente. "Che cosa gli interessa?". Qui era più difficile rispondere. Stavo sperimentando un'intuizione non tanto su Wagner, quanto piuttosto su di me e sulla natura del mio rapporto con la musica. Negli ultimi anni dell'adolescenza, mentre studiavo l'armonia cromatica, mi erano stati fatti conoscere i cicli di Lieder di Robert Schumann, un universo in miniatura di stati emotivi intensificati e improvvise eruzioni bipolari di costellazioni di modi di sentire, il tutto espresso su una tavolozza armonica che includeva le più sottili gradazioni di ambiguità tonale.Una parte dei miei esercizi prevedeva l'ascolto di una singola nota, un do diesis, per esempio, per poi osservare attentamente il modo in cui mutava il ruolo di quel do diesis nel corso di un movimento o di un Lied. Sia per Wagner sia per Schumann ogni singola nota era sempre relativa, poiché per un momento era il centro di gravità e poi, in un istante, veniva all'improvviso ridotta allo stato di remoto satellite, la sua autorità defraudata a causa della misteriosa alchimia dei rapporti tonali. Il mio modello era "Im wunderschönen Monat Mai", il Lied di apertura del Dichterliebe di Schumann, il più intimo dei monologhi confessionali messi in versi da Heine. "Im wunderschönen Monat Mai" è un Lied in cui la stasi armonica oscilla su un delicato centro di ambiguità per poi precipitare in una cadenza di grandissimo calore e dolcezza.
Ciò che creava su di me un'impressione tanto profonda nella musica di questi compositori tedeschi era la pura espressività della loro arte. Ciò che a Wagner e Schumann interessava era rendere palpabile all'ascoltatore l'intensità delle loro emozioni. Le armonie, inquiete e in continua migrazione verso un nuovo centro tonale, si muovevano tra tensione e risoluzione in un modo misterioso, che stimolava costantemente l'ascoltatore. Gli intervalli melodici, sempre cantabili, sempre perfettamente vocalizzati, davano forma e direzione all'animato movimento armonico sottostante. Erano indescrivibilmente incantevoli.
Inerpicandomi ancora più in alto sulle montagne, incominciai a riflettere sulla direzione che la musica aveva preso dopo che Wagner aveva scritto quelle note, e sul modo in cui la sua mescolanza di armonie cromatiche, la liberazione dei poteri evocativi dell'orchestra e la sognante tessitura, psicologicamente acuta, dei suoi testi poetici avevano in pratica tenuto avvinti tutti gli altri compositori classici per più di un secolo. Non si trattava semplicemente di musica sul desiderio. Era il desiderio. Era impossibile sfuggire al potere emotivo e sensuale che possedeva, e il suo influsso si era esteso ben oltre i musicisti e aveva contagiato altri artisti, intellettuali e quasi chiunque fosse sensibile al mezzo di comunicazione musicale. Come mai questa musica - malgrado la complessità, la prolissità, il continuo e divagante rinvio della risoluzione - si era conquistata un pubblico tanto appassionato e riconoscente? Ovviamente i motivi erano molti, ma il primo fra tutti era la sincerità. Wagner, come Schumann e Chopin prima di lui, era stato responsabile di mutamenti epocali nel modo in cui facciamo esperienza della musica. Le sue armonie erano letteralmente sciolte, libere di girovagare per campi di opposta polarità che creavano un mondo espressivo di desiderio in costante mutamento, sempre ambiguo, dalla preoccupante umanità. Quel mondo sonoro era luminoso e misterioso, risultato di una mente indagatrice e instancabile e di un interesse insaziabile per le possibilità acustiche degli strumenti dell'orchestra. Nessuno, dall'epoca di Beethoven in poi, aveva ricevuto il dono di comprenderne il potenziale espressivo, sia come singole voci solistiche sia come grandi sezioni.
Agli storici piace riflettere su quel che accadde alla musica classica europea dopo il wagnerismo, e in reazione alla sua soffocante egemonia. Sostengono che l'energia animale di Stravinsky e il lirismo compresso e iperespressivo della Scuola viennese - Schoenberg, Berg e Webern - furono risposte o reazioni all'estesa influenza che la musica di Wagner, o meglio la sua ideologia complessiva, aveva esercitato nel campo dell'estetica musicale e teatrale.
La mia esperienza tuttavia mi dice che gli artisti non fanno arte in modo negativo. Non attraversano i tormenti necessari a forgiarsi un linguaggio personale, a creare a fatica qualcosa dal nulla, soltanto per reagire a una figura paterna oppressiva o per ribellarsi contro una maniera acquisita di fare le cose. È ovvio che in un giovane artista la ribellione probabilmente rappresenta un tonico, un'energia liberatoria e positiva. Ma opere come Le Sacre du Printemps, Pierrot Lunaire e la Quarta Sinfonia di Ives non sono nate perché i compositori stavano reagendo contro Wagner e i suoi epigoni, ma piuttosto perché i compositori avevano bisogno di crearle, perché i tempi erano cambiati ed era necessaria una nuova espressività, un nuovo modo di esperire il mondo.
Come un albero con le radici affondate nel suolo più fertile, l'arte di Wagner continuò a dare i propri frutti a lungo, dopo la morte del compositore. Nel 1911, l'anno di nascita di mio padre, quei frutti erano ormai maturi in tutta Europa, da Strauss a Mahler e al giovane Schoenberg, fino a Debussy, Ravel, Elgar e Sibelius. Quando poi il suo influsso declinò, lo fece in un lampo. E quel lampo fu la Prima guerra mondiale. [...]
Il linguaggio armonico sviluppato da Schumann e da Wagner non morì con l'avvento del modernismo, ma si trasferì semplicemente oltre Atlantico, dove fu fatto proprio da compositori, molti dei quali afroamericani ed ebrei immigrati, che crearono una delle più grandi tradizioni musicali di tutti i tempi, la canzone popolare americana. Si tratta della tradizione con cui sono cresciuto io, e quando ho incominciato a studiare seriamente l'armonia cromatica ho subito notato che ciò che rendeva un particolare passaggio del Liederkreis di Schumann tanto dolente e struggente era lo stesso elemento che creava lo hook, la frase indimenticabile, impossibile da togliersi dalla testa, delle più belle canzoni di Broadway o del jazz americano.
Ora capisco che il momento della rivelazione mentre guidavo tra le montagne riguardava esclusivamente l'armonia. Anni dopo, durante un dibattito pubblico con il compositore e direttore Esa-Pekka Salonen, sorse una domanda su che cosa pensassimo noi compositori, che vivevamo nel mondo postmoderno, dell'armonia tonale. La risposta di Esa-Pekka fu illuminante. Disse che quando pensava ai dieci momenti che più lo emozionavano in ambito musicale, nove di essi avevano a che fare con un cambio di armonia.
John Adams
Hallelujah Junction
Autobiografia di un compositore americano
© EDT 2010
Una sera di primavera del 1976, guidando su un crinale tra le colline della Sierra ebbi una rivelazione, non proprio come Paolo sulla via di Damasco, ma piuttosto come Dogjam sulla via di Downieville. All'epoca ascoltavo la musica su un ingombrante mangianastri Sony portatile, un TC-158, più o meno delle dimensioni di una piccola borsa con altoparlante incorporato e tracolla. Il walkman non esisteva ancora e registravo assiduamente i dischi della mia raccolta in modo da poterli portare ovunque andassi. Nel mucchietto di custodie di plastica in continuo aumento c'era una scansione completa delle mie ascendenze musicali, compresa tra i Vespri di Monteverdi (1610) e Bitches Brew di Miles Davis, oltre a un brano intitolato Silver Apples of the Moon, una composizione di musica elettronica di Morton Subotnick per il sintetizzatore Buchla.
Quella sera, sul sedile del passeggero della mia vecchia Karmann Ghia decappottabile, il Sony suonava un'incisione del primo atto del Crepuscolo degli Dei. Mentre guidavo tra le curve brusche e osservavo la nebbia indugiare nelle strette gole e sui letti dei fiumi sotto le cime scoscese delle montagne, ascoltavo attentamente le armoniose ascese e discese delle melodie di Wagner e il ricco mondo armonico in continuo mutamento che esse delineavano. Non pensavo molto a Wagner, in quel periodo, e sicuramente l'universo della sua teoria drammatica, dei suoi poemi mitologici e delle sue lunghe e complicate opere era ben lontano dalle mie riflessioni sull'avanguardia musicale contemporanea.Questa musica, tuttavia, in particolare le placide battute d'apertura di "Aurora e viaggio di Sigfrido sul Reno" con i suoi eleganti intervalli di sesta e settima e i morbidi cuscini di accordi degli archi, mi parlò. Dissi a voce alta, quasi senza pensarci: "Gli interessa". Ero disorientato dalla mia stessa affermazione. A chi "interessa"? A Wagner, evidentemente. "Che cosa gli interessa?". Qui era più difficile rispondere. Stavo sperimentando un'intuizione non tanto su Wagner, quanto piuttosto su di me e sulla natura del mio rapporto con la musica. Negli ultimi anni dell'adolescenza, mentre studiavo l'armonia cromatica, mi erano stati fatti conoscere i cicli di Lieder di Robert Schumann, un universo in miniatura di stati emotivi intensificati e improvvise eruzioni bipolari di costellazioni di modi di sentire, il tutto espresso su una tavolozza armonica che includeva le più sottili gradazioni di ambiguità tonale.Una parte dei miei esercizi prevedeva l'ascolto di una singola nota, un do diesis, per esempio, per poi osservare attentamente il modo in cui mutava il ruolo di quel do diesis nel corso di un movimento o di un Lied. Sia per Wagner sia per Schumann ogni singola nota era sempre relativa, poiché per un momento era il centro di gravità e poi, in un istante, veniva all'improvviso ridotta allo stato di remoto satellite, la sua autorità defraudata a causa della misteriosa alchimia dei rapporti tonali. Il mio modello era "Im wunderschönen Monat Mai", il Lied di apertura del Dichterliebe di Schumann, il più intimo dei monologhi confessionali messi in versi da Heine. "Im wunderschönen Monat Mai" è un Lied in cui la stasi armonica oscilla su un delicato centro di ambiguità per poi precipitare in una cadenza di grandissimo calore e dolcezza.
Ciò che creava su di me un'impressione tanto profonda nella musica di questi compositori tedeschi era la pura espressività della loro arte. Ciò che a Wagner e Schumann interessava era rendere palpabile all'ascoltatore l'intensità delle loro emozioni. Le armonie, inquiete e in continua migrazione verso un nuovo centro tonale, si muovevano tra tensione e risoluzione in un modo misterioso, che stimolava costantemente l'ascoltatore. Gli intervalli melodici, sempre cantabili, sempre perfettamente vocalizzati, davano forma e direzione all'animato movimento armonico sottostante. Erano indescrivibilmente incantevoli.
Inerpicandomi ancora più in alto sulle montagne, incominciai a riflettere sulla direzione che la musica aveva preso dopo che Wagner aveva scritto quelle note, e sul modo in cui la sua mescolanza di armonie cromatiche, la liberazione dei poteri evocativi dell'orchestra e la sognante tessitura, psicologicamente acuta, dei suoi testi poetici avevano in pratica tenuto avvinti tutti gli altri compositori classici per più di un secolo. Non si trattava semplicemente di musica sul desiderio. Era il desiderio. Era impossibile sfuggire al potere emotivo e sensuale che possedeva, e il suo influsso si era esteso ben oltre i musicisti e aveva contagiato altri artisti, intellettuali e quasi chiunque fosse sensibile al mezzo di comunicazione musicale. Come mai questa musica - malgrado la complessità, la prolissità, il continuo e divagante rinvio della risoluzione - si era conquistata un pubblico tanto appassionato e riconoscente? Ovviamente i motivi erano molti, ma il primo fra tutti era la sincerità. Wagner, come Schumann e Chopin prima di lui, era stato responsabile di mutamenti epocali nel modo in cui facciamo esperienza della musica. Le sue armonie erano letteralmente sciolte, libere di girovagare per campi di opposta polarità che creavano un mondo espressivo di desiderio in costante mutamento, sempre ambiguo, dalla preoccupante umanità. Quel mondo sonoro era luminoso e misterioso, risultato di una mente indagatrice e instancabile e di un interesse insaziabile per le possibilità acustiche degli strumenti dell'orchestra. Nessuno, dall'epoca di Beethoven in poi, aveva ricevuto il dono di comprenderne il potenziale espressivo, sia come singole voci solistiche sia come grandi sezioni.
Agli storici piace riflettere su quel che accadde alla musica classica europea dopo il wagnerismo, e in reazione alla sua soffocante egemonia. Sostengono che l'energia animale di Stravinsky e il lirismo compresso e iperespressivo della Scuola viennese - Schoenberg, Berg e Webern - furono risposte o reazioni all'estesa influenza che la musica di Wagner, o meglio la sua ideologia complessiva, aveva esercitato nel campo dell'estetica musicale e teatrale.
La mia esperienza tuttavia mi dice che gli artisti non fanno arte in modo negativo. Non attraversano i tormenti necessari a forgiarsi un linguaggio personale, a creare a fatica qualcosa dal nulla, soltanto per reagire a una figura paterna oppressiva o per ribellarsi contro una maniera acquisita di fare le cose. È ovvio che in un giovane artista la ribellione probabilmente rappresenta un tonico, un'energia liberatoria e positiva. Ma opere come Le Sacre du Printemps, Pierrot Lunaire e la Quarta Sinfonia di Ives non sono nate perché i compositori stavano reagendo contro Wagner e i suoi epigoni, ma piuttosto perché i compositori avevano bisogno di crearle, perché i tempi erano cambiati ed era necessaria una nuova espressività, un nuovo modo di esperire il mondo.
Come un albero con le radici affondate nel suolo più fertile, l'arte di Wagner continuò a dare i propri frutti a lungo, dopo la morte del compositore. Nel 1911, l'anno di nascita di mio padre, quei frutti erano ormai maturi in tutta Europa, da Strauss a Mahler e al giovane Schoenberg, fino a Debussy, Ravel, Elgar e Sibelius. Quando poi il suo influsso declinò, lo fece in un lampo. E quel lampo fu la Prima guerra mondiale. [...]
Il linguaggio armonico sviluppato da Schumann e da Wagner non morì con l'avvento del modernismo, ma si trasferì semplicemente oltre Atlantico, dove fu fatto proprio da compositori, molti dei quali afroamericani ed ebrei immigrati, che crearono una delle più grandi tradizioni musicali di tutti i tempi, la canzone popolare americana. Si tratta della tradizione con cui sono cresciuto io, e quando ho incominciato a studiare seriamente l'armonia cromatica ho subito notato che ciò che rendeva un particolare passaggio del Liederkreis di Schumann tanto dolente e struggente era lo stesso elemento che creava lo hook, la frase indimenticabile, impossibile da togliersi dalla testa, delle più belle canzoni di Broadway o del jazz americano.
Ora capisco che il momento della rivelazione mentre guidavo tra le montagne riguardava esclusivamente l'armonia. Anni dopo, durante un dibattito pubblico con il compositore e direttore Esa-Pekka Salonen, sorse una domanda su che cosa pensassimo noi compositori, che vivevamo nel mondo postmoderno, dell'armonia tonale. La risposta di Esa-Pekka fu illuminante. Disse che quando pensava ai dieci momenti che più lo emozionavano in ambito musicale, nove di essi avevano a che fare con un cambio di armonia.
John Adams
Hallelujah Junction
Autobiografia di un compositore americano
© EDT 2010
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