Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, settembre 26, 2009

Paolo Perezzani: pensiero creativo

Una fortuna che, ripensandoci bene, vale forse un destino. Paolo è un ragazzino che vive nella Bassa mantovana. In casa la musica è quella della radio - quando ancora la cultura non era un investimento inutile e i programmi osavano proporre anche due, tre serate settimanali di contemporanea - e quella delle straordinarie pubblicazioni discografi che della Fratelli Fabbri Editori, che il fratello maggiore non manca di acquistare in edicola. L´altra musica, più nascosta, è nel cuore del padre, ottimo violoncellista dilettante, ferroviere per ragioni prima di guerra, e poi di economia famigliare. C´è anche un pianoforte, su cui Paolo impara - da solo, per irreprimibile curiosità - il primo alfabeto dei suoni. Un alfabeto che nulla ha a che fare con le accademie e tutto con le emozioni. Si registra, si mette alla prova, sperimenta, gioca. Poi il padre giunge alla pensione e può dedicarsi a quell´antico amore mai dimenticato. Si arma di nuovo di archetto e torna a suonare. Non solo per sé, ma anche nelle sedi ufficiali: nella Scuola di Musica di Suzzara, in Conservatorio! Lo chiamano a collaborare con i saggi dei ragazzi, a supportare gruppi da camera con il suo violoncello. Lui accetta con slancio. Ad attenderlo in sala, da artista e da docente, c´è anche l´ex ragazzino rapito dalla musica e nel frattempo divenuto musicista. Un cerchio che si chiude.

Cosa ricorda del suo avventuroso “apprendistato” di bambino immobile davanti alla radio o al giradischi?
«Mi immergevo totalmente in una composizione riascoltandola infinite volte per comprendere la ragione delle emozioni che riusciva a suscitarmi. Ricordo l´incontro con le Sinfonie di Beethoven, quello con la musica di Luigi Nono...»
Un amore prima disordinato che nel tempo si fa sempre più centrale, fino a una precisa scelta, almeno di studi...
«Sono arrivato ad uno studio più strutturato della musica muovendo da una prospettiva piuttosto diversa rispetto a quella tradizionale. Prima ho infatti continuato ad indagare la musica e la sua forza anche frequentando i corsi di estetica di Luciano Anceschi alla Facoltà di Filosofia dell´Università di Bologna».
Quali, in questo percorso anomalo, gli incontri clou?
«Tra i tanti, devo menzionare quelli cardinali: Armando Gentilucci, che ho conosciuto a metà degli anni Settanta, e soprattutto Salvatore Sciarrino, con il quale ho studiato per diversi anni, per poi diventarne per qualche tempo l´assistente ai corsi estivi di Città di Castello».
A quando risale la prima vera prova di compositore?
«Nel 1980, a 25 anni, con Diario, un piccolo pezzo per due flauti e pianoforte. È stata quella la volta in cui ho vissuto la mia prima vera esperienza di incontro con il lavoro compositivo: ricordo ancora l´emozione, l´entusiasmo di quei giorni e di quelle notti di lavoro febbrile».
Nel 1992 si è aggiudicato il Concorso internazionale di composizione di Vienna con Primavera dell’anima, eseguita dalla Mahler Jugendorchester diretta da Claudio Abbado. A quasi 20 anni da allora, cosa pensa del suo lavoro? È ancora possibile considerare l’arte e la musica come un compito etico?
«Il progressivo degrado culturale a cui stiamo assistendo si manifesta nella musica nei termini di una sua progressiva messa ai margini. Il pubblico non viene neanche posto nelle condizioni di poter scegliere oltre i limiti di un orizzonte rigidamente definito dalla logica dominante del mercato orientata più ad indirizzare il consumo che a permettere l´incontro con i fatti della cultura. È come se stesse riemergendo il timore nei confronti delle potenzialità critiche e innovative del sapere e del pensiero. La musica del nostro tempo, quando non ‘addomesticata’ e ridotta a pura occasione di intrattenimento, fatica ad essere accolta non perché incompresa ma esattamente per il motivo contrario: è la forza creativa e destabilizzante della sua presenza che la società di oggi pare sempre meno disposta ad accogliere. Impaurita dal nuovo, anche così mostra la sua debolezza e la sua decadenza».
Cosa significa allora per lei essere artista?
«L’artista agisce sulle abitudini percettive e sulla configurazione estetica del proprio tempo, modificandole entrambe e inaugurando altri, nuovi, orizzonti di senso. Per questo condivide con lo scienziato la responsabilità derivante dall’avere a che fare con la costruzione e la trasformazione di ciò che diciamo ‘mondo’».
E l’esperienza didattica? Da sempre è in perfetto contrappunto alla composizione...
«Vivo come imprescindibile il mio impegno didattico perché è proprio su questo piano che le valenze educative della musica possono venire esaltate o annullate. Da qui la mia collaborazione con la Scuola di Musica di Suzzara - che ho contribuito a fondare nel 1980 - e i diversi progetti con le scuole superiori e le scuole e nidi d´infanzia di Reggio Emilia».
Come vede la realtà mantovana rispetto alla salute della musica, nelle istituzioni solastiche e nei cartelloni?
«Nel panorama alquanto arretrato e confuso dei Conservatori italiani, quello di Mantova in cui insegno mostra potenzialità importanti: penso alla quantità e qualità delle proposte, ma anche all’attenzione nei confronti della prima formazione musicale. Quanto a Tempo d’Orchestra: oggi fare cultura significa tentare di reagire alla situazione che abbiamo ricordato. Su questo piano la prestigiosa rassegna mantovana sta dando un contributo enorme alla vita culturale della città».
Sabato 14 marzo 2009, Tempo d´Orchestra ospiterà a Suzzara l´esecuzione del suo Folly for to... per pianoforte ed elettronica.
«È un pezzo del 2002 - una commissione dell’Amsterdam Fund for Art - il cui titolo è tratto dall’inizio di What is the world, l’ultimo testo di Samuel Beckett. In esso, anche grazie alla elaborazione digitale, le trasformazioni della materia sonora oltrepassano spesso i limiti che le umane possibilità esecutive avrebbero loro imposto: da qui una sorta di smania (folly) verso un dire altro, il dire a cui accediamo muovendo dallo stupore dell’esperienza estetica, un dire a cui aspira questa musica».

intervista di Elide Bergamaschi ("Musicalmente", Anno 5, numero 2, Marzo 2009)

venerdì, settembre 18, 2009

Richard Strauss: "Enoch Arden"

Melologo, melodrama, mélodrame, Monodram, Duodram, Melodram. Sono i tertuini che in varie lingue e in diversi moinenti storici definiscono la recitazione non musicalmente intonata e di solito ritmicaniente libera di un testo con accompagnamento musicale strumentale, un genere, che non affonda le sue radici nei secoli dei secoli ma che risale soltanto alla seconda metà del Settecento, che fino al Novecento appare, scompare, riappare e riscompare come un fiume carsico e che come un fiume carsico - lo spiegherò poi - sfocia alla fine in un mare, in un mare grande.
L'idea del melologo è da attribuire, sembra, a Rousseau e al suo Pygmalion, rappresentato a Lione nel 1770. Nella querelle fra i sostenitori dell'opera italiana e i sostenitori dell'opera francese, Rousseau si era schierato con i primi sostenendo che la lingua francese, adattissima per la recitazione, non era adatta per il canto. Rousseau salvava così Corneille, Racine, Molière, e buttava a mare Lully, Campra, Rameau. O forse non li buttava proprio a mare, perché non li condannava in quanto musicisti: condannava la lingua che avevano avuto la disgrazia di mettere in musica. E per dimostrare la validità della sua tesi scrisse il testo e in parte la musica del Pygmalion. Che fu un successo.
Ma Rousseau, fatto il primo passo, non fece mai il secondo. Le fortune del melologo passarono nelle mani del boemo Georg Benda, residente a Gotha, che nel 1775 fece rappresentare il «duodramma con musica» Ariadne auf Naxos e il «dramma misto con musica» Medea und Jason, e che nel 1779 fece tradurre e riadattare il testo del Pygmalion di Rousseau, aggiungendovi la musica. Anche Benda ebbe successo, molto e più di Rousseau. Persino Mozart ammirò l'Ariadne auf Naxos e pensò di provarcisi anche lui, con il melologo. Aveva intenzione di musicare una Semiramis, ma poi lasciò perdere perché il melologo, per quanto accolto con entusiasmo, non attecchì: era un «genere ibrido», definizione che si sente ripetere anche oggi da critici attardati, rimasti fedeli alle formule antiche. Parecchi altri compositori vi si dedicarono però, dopo Benda, senza riuscir a far vincere al melologo la concorrenza dell'opera e soprattutto del Singspiel. Più del melologo andò così di moda, fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la musica di scena, che differisce dal melologo, almeno in linea di principio, perché non accompagna la recitazione ma la precede e la segue, commentandola senza... sposarla.
Qualche esempio altissimo di melologo lo troviamo in Beethoven (la scena del secondo atto del Fidelio in cui Fidelio-Leonora e Rocco scendono nella segreta dove langue Florestano) e in Schubert (una breve pagina con pianoforte). Un po' più largo il contributo al genere di Schumann e specialmente di Liszt. Ma la vera riemersione del fiume carsico avviene verso la fine dell'Ottocento, con Strauss e Fibich. Zdenék Fibich, che era boemo come Georg Benda, compose melologhi con orchestra nel 1875, nel '77, nel '78, nell'83 e nell'88, e impiegò largamente il melologo nella trilogia Hippodamie (1889-91). Richard Strauss scrisse due melologhi per recitante e pianoforte su sollecitazione di un famoso attore, Ernst von Possart. Il primo di essi, Enoch Arden, fu composto nel 1897 su testo di Alfred Tennyson tradotto da Adolf Strodtmann; il secondo Das Schloss am Meer, su testo di Ludwig Uhland, vide la luce nel 1899. Nel 1897, a trentatrè anni, Strauss era già un musicista famoso. Aveva scritto i poemi sinfonici Don Juan, Tod und Verklärung, Till Eulenspiegel, Also sprach Zarathustra, che avevano ottenuto un successo internazionale, ed aveva al suo attivo un'opera, Guntram. Non era quindi un novellino che dovesse cercare occasioni di mettersi in mostra, e nel comporre Enoch Arden fu mosso da un genuino interesse per il genere.
Gli ampi melologhi teatrali con orchestra prevedevano più attori, i melologhi con pianoforte prevedevano un recitante ma erano brevi. Strauss impegnò un solo recitante e il pianoforte in una dimensione temporale enorme e difficile da reggere: circa un'ora. Nel poema di Termyson sono presenti un narratore e più personaggi che parlano in prima persona. Se ne sarebbe potuto trarre un melologo-oratorio. Ma il committente di Strauss era un attore, e un attore di fine Ottocento, dell'epoca degli Ermete Novelli, delle Adelaide Ristori and Company. Strauss affidò così al recitante il compito di differenziare i personaggi e scrisse musica sia unita alla declamazione, sia, per brevi tratti, indipendente da quella, lasciando anche ampio spazio alla declamazione senza musica. Il risultato è un capolavoro di teatro da camera che, grazie anche alla forza emotiva del testo e alla epicità con cui il poeta sa trattare un argomento che avrebbe facilmente potuto diventare lacrimevole, tiene avvinto il pubblico per tutta la sua durata e che - cosa da non disprezzare - lo lascia con gli occhi umidi di pianto.
Mentre Enoch Arden appartiene in senso lato al teatro naturalista Das Schloss am Meer è simbolista. Una pagina splendida, sospesa in un tempo onirico e allucinato, ma «normale» come durata: una decina di minuti, e cioè la dimensione che era stata praticata da Schumann e da Liszt. Non si creda che la durata di una composizione sia un elemento secondario. Il rapporto fra durata e forma è uno dei maggiori problemi della creazione musicale, che non è costruibile per addizione ma che dev'essere invece unitaria. La riuscita felicissima di Enoch Arden, in un genere privo di una lunga e consolidata tradizione, è dunque un piccolo miracolo di cui non è forse facile rendersi conto ma che in sede critica va valutato. E questo melologo entra perciò nel «paniere» delle cose che fanno di Richard Strauss una delle carte che il Novecento può giocare per sostenere il confronto con il secolo che l'ha preceduto.
Ernst von Possart indusse altri musicisti a scrivere melologhi. I risultati più rilevanti furono ottenuti da Max von Schillings, che in qualche caso indicò una recitazione non libera ma ritmicamente organizzata. Qualche anno più tardi Arnold Schoenberg, con il Pierrot lunaire, trovò con il « canto parlato », lo Sprechgesang, una forma intermedia fra recitazione e canto, in verità non ben definita e che presenta problemi di interpretazione. Il melologo, anche come Sprechgesang, venne adottato da vari compositori del Novecento, sia nella forma 'pura' (Kol Nidre, con coro parlato, Ode a Napoleone, Un sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg, Pierino e il lupo di Prokofiev, Ritratto di Lincoln di Copland, ecc. ecc.), sia insieme con il canto (vari lavori di Wladimir Vogel con coro ordinario e coro parlato o con cantanti e recitanti, e molte opere teatrali di diversi autori: tra le più recenti sono da ricordare Blimunda e Divara di Azio Corghi).
Lo sfruttamento novecentesco del melologo nella musica sinfonica e nel teatro musicale non è tuttavia il grande mare di cui parlavo all'inizio: il fiume carsico sfocia invece nel cinema sonoro. Qui veramente le ragioni drammatiche del melologo trovano la loro piena estrinsecazione e nessuno parla del film sonoro come di un «genere ibrido» (fors'anche perché nessuno si preoccupa più della teoria dei generi). La tecnica cinematografica non è la tecnica teatrale, la musica cinematografica non adotta le forme della musica teatrale, la proporzione del rapporto musica-testo e musica-immagine è nel cinema diversa da quella del melologo tradizionale. Ma il cinema sonoro è melologo: che peccato, che Mozart non l'abbia conosciuto!

di Piero Rattalino

venerdì, settembre 11, 2009

Schumann profila Niels Wilhelm Gade

In un giornale francese si leggeva recentemente: «Desta attenzione in Germania un giovane compositore danese; si chiama Gade, viaggia spesso da Copenaghen a Lipsia e viceversa, col violino in spalla, e rassomiglia a Mozart in carne e ossa». La prima e l'ultima frase sono esatte; in quella di mezzo si è inserito qualcosa di romantico. Il giovane danese, con la sua testa di Mozart dalla forte capigliatura che par scolpita in pietra, venendo in realtà qualche mese fa a Lipsia (sebbene tanto lui quanto il violino in carrozza) ha corrisposto alle simpatie che già avevano destato fra i nostri musicisti la sua ouverture per l'Ossian e la sua prima sinfonia.
Della sua vita esteriore v'è poco da dire. Nato a Copenaghen nel 1817, figlio di un fabbricante di strumenti di quella città, nei suoi primi anni deve aver sognato più fra gli strumenti che fra gli uomini. Ricevette la sua prima istruzione musicale da uno dei soliti maestri che, ovunque, badano alla diligenza meccanica e non all'ingegno, e si dice anzi che il mentore non fosse particolarmente contento dei progressi dell'allievo. Egli imparò a suonare la chitarra, il violino e il pianoforte, ma senza eccellere in nessuno di questi strumenti. Soltanto in seguito ebbe in Wexschall e in Berggreen maestri più seri, ed ebbe anche più volte consigli dall'eccellente Weyse. Produsse opere di diverso genere, di cui ora il compositore non vuole tener conto, perché sono, secondo lui, esplosioni di una orribile fantasia. Più tardi entrò come violinista nella cappella reale di Copenaghen, dove ebbe occasione di strappare agli strumenti tutti i loro segreti, segreti che qualche volta ci narra nelle sue opere strumentali. Questa scuola pratica, negata a tanti, inavvedutamente utilizzata da molti, lo educò principalmente a quella maestria della strumentazione che deve essergli riconosciuta senza discussione. L'ouverture Ricordi d'Ossian, che per giudizio di Spohr e di Schneider fu coronata del premio proposto dalla Società di musica di Copenaghen, deve avergli attirata l'attenzione del re, amatore dell'arte; cosicché egli ricevette, come molti altri ingegni suoi compatrioti, uno stipendio veramente regale per un viaggio all'estero, e cominciò da Lipsia, che per prima lo aveva introdotto al grande pubblico musicale. Vi si trova ancora, ma tra breve si recherà a Parigi, e di là in Italia. Approfittiamo dunque del momento, in cui la sua figura è ancor fresca davanti a noi, per illustrare alcuni tratti della personalità artistica di quest'uomo notevole, quale da tempo non s'è presentata fra i giovani.
Chi dalla sua somiglianza con Mozart, che ha realmente qualcosa di sorprendente, volesse trarre anche una somiglianza musicale, s'ingannerebbe di molto. Ci sta innanzi un carattere d'artista affatto nuovo. Sembra che le nazioni confinanti con la Germania vogliano emanciparsi dal dominio della musica tedesca; ciò forse potrà dispiacere a un teutomane, ma al pensatore dall'occhio acuto e al conoscitore dell'umanità parrà invece una cosa naturale e di cui rallegrarsi. Così Chopin rappresenta la sua patria, Bennett l'Inghilterra; J. Verhulst in Olanda dà speranze di diventare un degno rappresentante della sua patria, e in Ungheria si fanno ugualmente sentire delle aspirazioni nazionali. E poiché tutti considerano la nazione tedesca come la loro prima e più cara maestra nella musica, nessuno deve meravigliarsi se essi vogliono tentar di parlare per la loro nazione una lingua propria, senza perciò rendersi sconoscenti agli insegnamenti della loro maestra. Giacché nessun paese del mondo ha maestri che possano paragonarsi ai nostri grandi, e nessuno ha finora voluto negarlo.
Anche nell'Europa del nord abbiamo già visto manifestarsi tendenze nazionali. Sindblad, di Stoccolma, ci ha tradotto i suoi vecchi canti popolari; Ole Bull, per quanto non sia un ingegno creatore di prima grandezza, ha tentato di renderci familiari gli accenti della sua patria. Gli importanti poeti della Scandinavia, recentemente apparsi, devono aver dato un potente impulso al suo ingegno musicale anche se i monti, i laghi e le aurore boreali di lassù non gli abbiano ricordato che il Nord poteva parlare una sua lingua particolare.
I poeti della sua patria hanno ispirato anche il nostro giovane musicista; egli conosce e ama tutti; i vecchi racconti e le vecchie saghe lo accompagnavano nelle sue escursioni da ragazzo e l'arpa eolica di Ossian gli risuonò dalle sponde dell'Inghilterra. Così nella sua musica, e soprattutto in quell'ouverture d'Ossian, si mostra per la prima volta un carattere nordico molto spiccato; ma certo Gade stesso non negherà quanto deve ai maestri tedeschi. Essi hanno ricompensato la sua grande diligenza e il grande studio dedicato alle loro opere (conosce quasi tutte le loro composizioni) con il dono che concedono a tutti coloro che si mostrano loro fedeli: con la consacrazione della maestria.
Fra i nuovi compositori è riconoscibile, sopra gli altri, l'influsso di Mendelssohn in certe combinazioni strumentali. Ciò risulta in modo particolare nei Ricordi d'Ossian; invece nella sinfonia, molte cose ci ricordano F. Schubert; ma ovunque domina uno stile melodico interamente originale come non s'era ancora presentato in un modo così popolare nei generi più elevati della musica strumentale. In genere, la sinfonia si solleva sull'ouverture sotto ogni rapporto, sia nella forza naturale, sia nel magistero della tecnica.
Resta da desiderare ancora una cosa: che l'artista non si perda nella sua nazionalità e che la sua fantasia «creatrice d'aurore boreali» (come la definì qualcuno) si mostri ricca e varia, tanto da poter volgere lo sguardo anche ad altre sfere della natura e della vita. Così si potrebbe dire a tutti gli artisti, di raggiungere prima l'originalità per poi rifiutarla; al modo di un serpente, l'artista si spogli quando l'abito vecchio comincia a sdrucirsi.
Ma l'avvenire è oscuro; accade che la maggior parte delle cose vada altrimenti da come pensiamo; per ora possiamo soltanto esprimere la speranza che noi attendiamo da questo ingegno distinto opere più solide e più belle. Quasi che già il caso del nome (G-a-d-e = sol-la-re-mi), come Bach, l'avesse spinto verso la musica, le quattro lettere del suo nome formano in strana guisa le quattro corde vuote del violino. Nessuno contesterà questo piccolo segno di un più alto favore, e neppure quest'altro: che il suo nome si può scrivere in quattro chiavi con una nota sola, che sarà facile da trovare per i cabalisti.
Entro questo mese attendiamo una seconda sinfonia di Gade, essa è diversa dalla prima, ossia più delicata e leggera, e ci fa pensare alle piacevoli foreste di faggi della Danimarca.

di Robert Schumann (da "La musica romantica", SE, 2007)

sabato, settembre 05, 2009

Lettera di Baudelaire a Wagner

Venerdì 17 febbraio 1860

Signore,
ho sempre pensato che un grande artista, per quanto possa essergli familiare la gloria, non sarebbe affatto insensibile a un complimento sincero, quando tale complimento fosse come un grido di riconoscenza, e quando questo grido avesse un valore particolare, per il fatto di venire da parte di un francese, cioè di un uomo poco incline all'entusiasmo e nato in un paese dove non si sa di poesia e di pittura più di quanto non si sappia di musica. Anzitutto vi devo confessare che vi sono debitore del godimento musicale più profondo ch'io abbia mai provato. Ho un'età nella quale non ci si diverte più davvero a scrivere a persone famose, e avrei del resto a lungo esitato a testimoniarvi per lettera la mia ammirazione, se ogni giorno non mi capitassero sotto gli occhi articoli indegni, e ridicoli, che si dan da fare in mille maniere per diffamare il vostro genio. Non siete il primo, signore, a causa del quale ho dovuto soffrire e arrossire per il mio paese. Ma ora l'indignazione m'ha spinto a esprimere in modo esplicito la mia riconoscenza. Mi son detto: non voglio essere confuso con questa pletora di imbecilli.
La prima volta che mi son recato al Théátre des Italiens, per ascoltare le vostre opere, ero abbastanza maldisposto, e persino, lo confesso, pieno di pregiudizi. Ma son da scusare, sono stato tanto spesso ingannato: m'è capitato troppe volte d'ascoltare musica composta da ciarlatani. Da voi sono stato immediatamente conquistato. Non si può descrivere quel che ho sentito, e se vi trattenete dal sorridere, proverò a tradurvelo in parole. In un primo momento m'è parso di conoscere quella musica, ma più tardi, riflettendovi, ho capito da che nasceva tale miraggio: mi pareva che quella musica fosse mia, e la riconoscevo così come ognuno riconosce le cose che è destinato ad amare. Per chiunque non abbia finezza di spirito una frase di questo tipo risulterebbe estremamente ridicola, soprattutto se scritta da uno come me, che non sa di musica, la cui educazione si limita al fatto d'avere ascoltato (d'accordo, con grande godimento) alcuni brani di Weber e di Beethoven.
Inoltre mi ha molto colpito, più di ogni altro aspetto, il senso di grandezza. Un carattere che rappresenta ciò che è solenne, e tende verso il solenne. Dappertutto nelle vostre opere sento la solennità degli immensi sussurri, delle grandi visioni della Natura, la solennità delle forti passioni dell'uomo. Subito ci si sente soggiogati e trasportati in alto. Uno tra i brani più singolari, e tra quelli che mi hanno dato una sensazione musicale davvero nuova, è il brano che ha la funzione di descrivere uno stato di estasi religiosa. L'effetto dell'Ingresso degli invitati e della Festa nuziale è immenso. Ho avvertito il senso maestoso d'una vita che ha un respiro più grande della nostra. Ancora: ho spesso provato un sentimento di genere assai bizzarro, la fierezza e il godimento nel comprendere, del lasciarsi penetrare profondamente: piacere davvero sensuale, simile al piacere che si ha nel salire su in aria o nel lasciarsi portare dalle onde. La musica talvolta respirava il senso forte del vivere. Complessivamente quelle armonie profonde mi parevan somigliare a quegli eccitanti che accelerano le pulsazioni dell'immaginazione. E ho anche provato, e vi prego di non sorridere, sensazioni che derivano probabilmente dalla conformazione del mio animo e dalle mie consuete preoccupazioni. Dappertutto c'è qualcosa di elevato e che eleva, qualcosa che aspira a salire sempre più in alto, qualcosa che ha il sapore dell'eccesso e della straordinarietà. Faccio un esempio: per usare immagini tolte al linguaggio della pittura, mi immagino d'aver davanti agli occhi una vasta distesa d'un rosso intenso. Se questo rosso rappresenta la passione, io lo vedo gradualmente attraversare tutta la gamma del rosso e del rosa e giungere all'incandescenza della fornace. Sembrerebbe difficile, persino impossibile giungere a qualcosa di più ardente, ed ecco che ancora un'ultima scintilla sprizza tracciando un solco più bianco sul bianco che le serve da fondo. Si tratterà, se così vogliamo dire, dell'estrerno grido dell'animo elevatosi sino al parossismo.
Avevo cominciato a scrivere qualche breve meditazione sui brani del Tannhäuser e del Lohengrin che abbiamo ascoltato, ma ho dovuto ammettere che è davvero impossibile dir tutto. E così potrei continuare senza fine questa lettera. Se avete potuto leggermi vi ringrazio. Mi resta da aggiungere solo qualche parola. Dal giorno in cui ho ascoltato la vostra musica, continuo a dirmi senza sosta, soprattutto nelle ore tristi: potessi almeno sentire stasera un po' di Wagner. E non c'è dubbio che anche altri avranno i miei stessi sentimenti. In conclusione, voi avreste dovuto esser soddisfatto del pubblico, il cui istinto è stato ben più forte della cattiva scienza dei critici giornalisti. Perché non prendete in considerazione l'idea di dare ancora qualche concerto, aggiungendo nuovi pezzi? Ci avete fatto gustare un assaggio di delizie mai provate: avete il diritto di privarci di quel che segue? - Ancora una volta, signore, vi ringrazio: in ore cupe voi siete riuscito a ricondurmi a me stesso e all'immenso.
Ch. Baudelaire

Non metto il mio indirizzo, non voglio che crediate ch'io abbia da chiedervi qualcosa.