Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, agosto 25, 2012

Kagel: alcune riflessioni su "Aus Deutschland"


Mauricio Kagel (1931-2008)
Si pensi ai declamatori del passato, che da brevi componimenti creavano monologhi teatrali di carattere patetico. Secondo uno spirito non dissimile Liszt ha definito i Lieder di Schubert «opere in miniatura» ed ha così attirato l’attenzione sulle differenze che intercorrono tra la lettura muta, la recitazione, l’esecuzione cantata di una poesia. Nel contempo è evidente che nel canto liederistico sono in gioco affetti e sensazioni di palese natura drammatica e climax in stretta successione i quali avrebbero bisogno solo di una realizzazione teatrale per dimostrare la loro efficacia scenica. Non da ultimo la definizione di Liszt offre materia di riflessione in quanto vi si può trovare il presentimento di una svolta nel senso della riduzione della forma, di un’espressione musicale dotata di concisione. Per quanto riguarda la lingua di questo pezzo, visto che il libretto si basava sulla tecnica del collage mi sembrava importante che non sembrasse un pot-pourri di poesie diverse, ma che desse l’impressione di provenire da un’unica mano. Un’interpretazione in un certo senso “esagerata” dell’originale è stato il presupposto estetico della composizione: attraverso la trasposizione letterale sulle scene i testi avrebbero dovuto essere messi in scena come tableaux vivants del teatro barocco. In contrapposizione a questo montaggio non si verifica quasi nessuna citazione musicale che mantenga la tensione determinata nell’ascoltatore da versi celeberrimi. Infatti Aus Deutschland va vissuto tranquillamente ma con orecchi inquieti: suona come Kagel, avrebbero di nuovo riconciliato la coscienza divisa dell’ascoltatore. La concordanza di citazione testuale e di musica originale avrebbe potuto svolgere una funzione sì soddisfacente, ma anche discutibilmente restaurativa che sinora non ha affatto caratterizzato la tecnica delle citazioni.

I principi della composizione del libretto di Aus Deutschland sono emersi quasi contemporaneamente alla scelta dei temi che rappresentano argomenti chiave del romanticismo. Per prima cosa ho cercato di separare amore, natura e morte, i classici temi che tuttora costituiscono la materia del romanticismo di tutti i tempi, dalle nostre rappresentazioni romantiche sui romantici. Ciò è stato reso necessario dal fatto che altrimenti avrebbero potuto crearsi confusioni né utili né sufficientemente contraddittorie. Autori che hanno impresso di sé uno stile e che lo hanno realizzato attraverso opere congeniali possono essere talvolta identificati solo in parte in quanto persone vissute in un determinato momento storico.

Ma ci sono spesso segrete connessioni. Un esempio desunto da una parte della storia della musica appena trascorsa. Molti dei compositori degli anni Cinquanta tenevano ad evidenziare nei loro scritti e nelle opere, ed anche nell’aspetto esteriore, l’influsso delle discipline esatte (al contrario Einstein assomigliava piuttosto a un artista...). Proprio il compositore che più ha inizialmente influenzato la mia generazione, cioè Webern, aveva l’aspetto di un ingegnere o un matematico. Magro, ascetico, con occhiali al tempo stesso spirituali ed oggettivi, rappresentava perfettamente la scarsità del superfluo e l’ascesi del dopoguerra (anche se i suoi lineamenti erano rimasti del tutto immutati rispetto all’anteguerra). Questo ha permesso ai compositori una musica totalmente organizzata e anche un’identificazione fisica con il loro modello. Ci si sarebbe potuti figurare un essere umano come Rabelais sulla frontiera più avanzata di un controllo utopicamente regolato della percezione acustica? Evidentemente no. Si è così verificata una sorta di perfetta simbiosi. Probabilmente l’identificazione con un Webern “brutto” non avrebbe potuto aver luogo.

Riflessioni di questo genere sono forse contestabili, ma non si basano affatto su considerazioni di natura soggettiva. Al contrario: io cerco di essere oggettivo, mentre oggettivizzo tutto ciò che è razionalmente analizzabile. Il riferimento a Webern e alla sua passione per l’esattezza dovrebbe chiarire il mio lavoro che riguarda l’argomento, davvero inesauribile, del romanticismo.

Mi immagino il romanticismo come una specie di decotto di sensazioni inespresse e di aneliti che può essere proiettato nell’intimo di ciascuno perchè poi se ne distilli ciò che è propriamente personale. Essenzialmente mi sembra di dover distinguere tra un’idea personale su ciò che sarebbe il romanticismo e un’entità che tenderei a chiamare libido artistica. Il romanticismo è innanzitutto una contrapposizione tra due realtà: la prima corrisponde a ciò che ci si immagina come realtà e a come potrebbe essere fatta, la seconda corrisponde alla realtà vera e propria così com’è effettivamente e che in quanto tale non può essere accettata. Si viene così a creare un rapporto di tipo triangolare:

io invento
la/e realtà
la/e realtà io riconosco
hanno luogo senza di me la/e realtà.


Il mio accenno alla proliferazione di realtà che si può rilevare nel mio schema è un’inevitabile conseguenza: ciascuna delle due realtà sopra citate consta di realtà diverse.

Come esempio può servire la creazione di una figura di Aus Deutschland: la Notte.

Nel complesso la notte può essere vista come parte della natura perché appartiene simbolicamente al regno del visibile. Non è necessario dubitare della sua esistenza per speculare sul suo conto. Il suo regolare ritorno le assicura – come anche al sole e alla luna – un predominio illimitato nel sistema di coordinate della rappresentazione romantica del mondo. La natura, in quanto immagine essenziale di una verità visibile, è nel contempo il momento risolutivo della contrapposizione tra libido artistica e realtà. Se centinaia di persone vanno a passeggio su un prato fiorito, sicuramente una parte di coloro che stanno ad osservare sentirà che ai fini della realizzazione artistica tutto ciò può essere animato per mezzo di un’astrazione intensificata oppure di una concretizzazione insistemente metaforica. Il desiderio creativo dell’invenzione romantica è acceso soprattutto da questa percezione creativa della natura. La natura viene costantemente descritta in modo nuovo, viene inventata in modo nuovo e poiché viene inventata contiene sempre significati mutevoli. Un solo significato valido sarebbe insufficiente in quanto la natura stessa si trova in uno stato di costante mutamento. Le diverse nature che si presentano agli occhi dei romantici assomigliano alle immagini di un film riprese una dopo l’altra dallo stesso angolo visuale, ma con diversi tempi di posa.

In un certo senso la notte del romanticismo corrisponde alla radio (al contrario la televisione può essere agevolmente assimilata al giorno). Infatti con l’inizio della notte finisce il mondo del visibile e può iniziare il sentimento del cosmo e della sua infinitezza. Nella poesia di Eichendorff Notte viene detto:

Perché il Signore va sopra le vette
E benedisce la terra silenziosa.


Il dialogo della fantasia al sopravvenire dell’invisibile favorisce alla fine del pezzo la vera animazione dell’Olimpo del compositore nella forma di un’enorme quadro a silhouettes. «Schubert in cielo» corrisponde in quanto combinazione di quadro a silhouettes e lanterna magica al cinema del Biedermeier (e forse anche a un precursore del televisore, se si dovesse parlare del rapporto con il naïf).

Certamente alcuni personaggi del pezzo sono archetipi. Tuttavia nell’incontro con altri personaggi del pezzo si trasformano in allegorie. In questo modo si creano diversi stadi di somiglianza (un esempio analogo, archetipi in Goethe possono diventare nei disegni di Alfred Kubin componenti di un’allegoria).

La Morte appare per la prima volta nel quadro 10 come immagine corrente della paura. Tre fonti testuali sono state utilizzate per organizzare la scena. La morte e la fanciulla di Matthias Claudius, La morte è la fredda notte di Heinrich Heine e Il lamento della fanciulla di Friedrich Schiller. Nel quadro 20 invece la Morte è la liberatrice tanto desiderata. Di nuovo tre poesie costituiscono la rete drammaturgica della scena: Il giovinetto e la morte di Joseph von Spaun, La nostalgia del becchino di J. N. Craigher de Jachelutta, Desiderio di morte di Max von Schenkendorf. Però laddove la morte non è più temuta, ma desiderata e perde la cote per affilare la falce, la morte stessa prova paura per lo spaventoso rovesciamento dei ruoli: solo la morte infonde timori, i quali avvolgono con il suo odore le altre figure. Proprio il desiderio di morte è il tema centrale del pezzo, quel desiderio di morte appagato/inappagato che nel romanticismo – e durevolmente sino ad oggi – si mostra capace di vitalità. Un magma di notizie e sensazioni mortuarie che nonostante il costante mutamento garantisce sempre l’omogeneità dei suoi influssi.

Un altro esempio è Edward, protagonista dell’omonima ballata scozzese, che con la musica di Loewe ha messo vario tempo fa a soqquadro i salotti tedeschi. Io ne scrivo un melodramma comme il faut, ma quasi del tipo dell’Assassinio del duca di Guisa all’inizio del cinema muto. Dev’essere cantata con una tensione quasi insopportabile, o meglio una tensione quasi inaudita, per poter rappresentare in modo corrispondente il senso di ininterrotta costrizione che scaturisce da questo dramma dell’incesto. La madre di Edward lo ha indotto ad uccidere suo marito, il padre di suo figlio. Ho fatto rimanere muto fino alla fine del quadro un enorme cavaliere, una sorte di Super-Padre che osserva quanto avviene in scena: l’aura di Shakespeare con un pizzico di tragedia greca. D’altra parte: la popolarità di Carl Loewe nel secolo scorso si basava esenzialmente su due aspetti. Per un verso era un compositore di ballate, cioè di componimenti narrativi, per un altro verso egli disinnescava la drammaticità delle sue vicende epiche con una musica piacevole, che ritorna sempre uguale strofa dopo strofa. In questo modo Loewe ha attinto al nucleo del piacere borghese. La tensione del racconto viene mantenuta visto che si possono capire le parole cantate, ma il contenuto viene relativizzato perchè il testo non viene intonato ricorrendo a una musica ad hoc, ricca di onomatopee, ma come musica assoluta. Vi è insomma una statica orientata alla meta e un’atmosfera immutata le quali riproducono all’ingrosso le peculiarità del testo originale. Alla fine del quinto quadro ho voluto sottolineare il desiderio di possesso che assillava la borghesia tedesca emergente al tempo di Loewe e che l’ha portata a un pensiero aggressivo di stampo conservatore: per questo ho fatto dire all’armatura «E che ne sarà della tua corte, della tua casa?» dopo che Edward ha pugnalato sua madre.

È stato per me importante cercare di documentare il carattere ermafrodita del sentimento romantico nella poesia e nella musica. Mi ha sempre colpito il fatto che proprio nei Lieder un cantante uomo può ad esempio cantare pieno di passione «O tu, amato mio!». Si potrebbe parlare – utilizzando uno dei concetti preferiti di Adorno in un contesto errato – di fungibilità della recezione.

Anche nel mondo dei Lieder non è determinante se un uomo in quanto donna si rivolge a un altro uomo, ma come egli canta. In altre parole: vengono qui acusticamente trasposti sentimenti più che contenuti, nuda comunicazione musicale che esclude ogni carattere informativo. Con tutta la sua spiccata accentuazione passionale il Lied tedesco è in sostanza asessuato. Proprio l’estrema plasmabilità di un sentimento leale e sincero consente una trasposizione per così dire discrezionale: dall’originale per baritono si può immediatamente ricavare la versione per soprano. Se un tenore è innamorato e canta indirizzandosi a un altro uomo – in questo modo sfigurando la drammaturgia concepita in origine – ciò non avrebbe pressoché dato luogo in passato a pensieri sconvenienti. Certamente nella letteratura operistica vi sono un certo numero di parti “in pantaloni”, dal Cherubino di Mozart all’Oktavian di Strauss, cui però lo spettatore giunge coscientemente preparato trattandosi di casi molto noti.

Invece Aus Deutschland contiene ambiguità sessuali determinate dal mio modo di vedere il romanticismo. Quanto il poeta del Dichterliebe canta nelle vesti di una poetessa che sta invecchiando, ne deriva una materializzazione del testo estremamente volubile. Il soggetto erotico assume le fattezze della poetessa che canta, la quale proietta il componimento sul suo passato. Il fatto che attraverso la musica le parole possono assumere una nuova sensualità acustica abilita il compositore a precisare tale nuova dimensione dell’erotismo. Lo stesso Schubert nel Dichterliebe si trasforma in bardo e sostituisce l’infelice Heine. Nel mondo delle idee schubertiane si possono osservare varie trasformazioni di questo tipo. La scelta del testo – come già mostrano i titoli – costituisce un primo passo verso l’identificazione, senza la quale l’attuazione sonora non è pressoché pensabile: solo essa consente di valutare il grado di artisticità e di natura del brano, decide se il testo va deformato oppure deve rimanere comprensibile. La messa in musica avviene a due livelli, la comprensibilità (durata normale delle sillabe) e il canto (dilatazione delle vocali). È di continuo in discussione il problema di come scavare il testo per far posto a nuovi contenuti musicali. (Quand’è che durante Il viaggio d’inverno Schubert si trasforma definitivamente nell’uomo dell’organetto?). I poeti sono chiamati a trasporre in parole il dolore. Se un compositore decide a sua volta di trasporre tali parole in dolore acustico, è possibile che varie caratteristiche della poesia vengano occultate a favore di una musica esplicitamente contrassegnata dall’inquietudine. Ne consegue che la musica (di Schubert) viene percepita in modo più intenso della poesia (di Wilhelm Müller, ma anche di Goethe o di Heine). [...]

Le schubertiadi possono essere considerate quasi dei precursori dell’«Associazione per esecuzioni musicali private» di Schönberg, non da ultimo visto che ne condividono lo spirito puristico. Il partecipante a una schubertiade si dichiara esplicitamente null’altro che un amatore di musica e in un certo senso va verso una professionalizzazione dell’ascolto dell’organetto. Ma a chi dedica la sua devozione, nel momento in cui si ritira nel proprio privato? Naturalmente a un singolo compositore. Questo rapporto conduce direttamente alla modernità attraverso Wagner e inoltre motiva un certo stravagante totalitarismo che si nota talvolta nei compositori, la loro aspirazione a una sorta di diritto esclusivo. (C’è così tanta musica al mondo che è ben comprensibile il desiderio – fondato o infondato che sia – a vedere il proprio lavoro come punto conclusivo, e perciò come nuova partenza. Lo scopo è sempre lo stesso, cioè raggiungere possibilmente il maggior numero di ascoltatori con il minor numero di pezzi, naturalmente i propri). Nella schubertiade la pratica della musica è connessa a una componente voyeristica. Certamente l’influsso erotico dell’interprete – allorchè si esibisce in una piccola compagnia di persone ed assume un’importanza di primissimo piano – raggiunge il suo acme. (Hollywood ci ha precocemente abituati a ciò e ci ha offerto la stessa situazione in due modi: un giovane pianista indomabile attorniato da fanciulle adoranti, che in lui vedono incarnata una sensualità assoluta derivante da una musica vissuta senza residui, oppure una cinepresa curiosa indaga ogni particolare fisico dell’esecuzione). Il piacere pubblico/privato della schubertiade corrisponde al divertimento borghese di un divertimento segreto. Solo con l’ampliamento della prassi concertistica dovuta ai concerti rock, in cui l’offerta della musica va di pari passo con una sfrenata partecipazione degli spettatori, sono caduti i freni inibitori del piacere erotico-acustico in presenza di altri. Quindi anche Woodstock – come Bayreuth – si può considerare una specie di schubertiade uniformata da un medesimo abito.

Molte figure di questo pezzo diventano progressivamente più vecchie nelle successive entrate in scena. Forse si tratta di una reazione al fatto che che nella rappresentazione di un mondo romantico non vi è alcuno spazio per le persone anziane. L’amore non sembra un tema adatto a persone che invecchiano, la gerontologia sarebbe l’esatto contrario del romanticismo. [...]

In modo molto evidente la musica di questo pezzo ha carattere rapsodico, che tende a sostituire la funzione dei bardi. Le rapsodie non sono mai state considerate come composizioni perfette e immutabili in quanto hanno una forte componente occasionale e richiamano un tipo di lavoro finalizzato al proprio sostentamento. Questo però non è esatto se si pensa che esse sono un tentativo di imbrigliare l’improvvisazione, oppure – come ad esempio in Liszt – possono diventare un campo di ricerca nell’ambito del concerto. La parola rapsodia porta con sé l’idea che la sostanza musicale e l’organizzazione formale di un pezzo sono di fatto insufficienti. Naturalmente abitudini inveterate esigono che una musica debba essere costruita con solidità e probità artigianale per avere un qualsivoglia valore. Ma indicazioni di questo genere ingannano o condizionano in senso negativo. Oggi riscontriamo un uso eclettico, per così dire a pot-pourri, delle tecniche compositive, le quali fanno pensare alle rapsodie. Ciò non è mai stato notato poiché il pensiero rapsodico non è suscettibile di allearsi con nessun altro tipo di folclore. [...]

Ho imparato dai tempi della mia pratica teatrale in Argentina la cosiddetta prova principale col pianoforte, che spesso poteva dare ai suoi partecipanti più gioia di altre prove. Proprio questa curiosa mescolanza di totale dispendio scenico e l’accompagnamento solo di un pianoforte, che sostituisce l’orchestra, è stato il punto di partenza del mio lavoro. Le prove principali col pianoforte si compiono in un’atmosfera che – al pari di altre dimensioni del teatro musicale – è ricca di comicità involontaria e di surreale, ma anche di semplicità ed entusiasmante fantasia. Parlando di questa prova non si vuole asserire la superfluità dell’orchestra, ma essa attesta piuttosto che la ricchezza timbrica è solo in parte una necessità assoluta per un compositore. Qui si congiungono sorprendenti evidenze di natura musicale con un teatro completo. Naturalmente al pianoforte spetta una funzione capitale. Nel corso del pezzo ci si comporta in modo diverso sia dal punto di vista scenico che tecnico: aspirazioni altissime nel senso del sinfonismo romantico, uno spartito schematico, effetti fonici differenziati, imitazioni di altri strumenti, accompagnamento tradizionale, cadenze, studi e pezzi caratteristici completano una serie di possibilità che solo il pianoforte (e gli altri strumenti a tastiera qui utilizzati) possono offrire. Sezioni con musica per pianoforte si sentono poi sotto forma di interventi su nastro magnetico registrato. A tal fine sono stati utilizzati due pianoforti da tempo fuori servizio, i quali però non sono stati aggiustati per non distruggere la patina da musica “rovinata”. Dietro le quinte si sentono poi altri pianoforti che vengono a costituire un secondo, terzo Ego del pianoforte in sala, i quali - come un eco anonimo - dialogano con l’invisibile. [...]

Osservando come Mahler si faceva la cravatta – ha detto Schönberg una volta – si può imparare sulla composizione più che da qualunque consigliere di corte per la musica. Questa osservazione è tanto più sorprendente se si considera che Schönberg era appagato più dall’oggettivazione teorica che dalla sensazione soggettiva (si pensi al Trattato d’armonia!). La vera esperienza consiste nel fatto che Mahler si annodava il farfallino proprio come Schönberg si sarebbe aspettato. Egli non doveva scoprire nulla di nuovo, ma solo osservare una serie di gesti organici che suggellano o scorrevole legato dei movimenti con due staccati conclusivi. Questa rappresentazione, perfettamente offerta, si basa su capacità altrettanto perfette di ‘sentirla’ con perspicacia attraverso l’invenzione. Un tale procedimento andrebbe in primo luogo designato ricorrendo al concetto di cultura.

Qui non si trova alcuna accumulazione di conoscenze, piuttosto una certificazione di conoscenze pregressi. E se avessi composto Aus Deutschland per motivi simili a questi?

Mauricio Kagel

domenica, agosto 19, 2012

Il tesoro nascosto di Vivaldi

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Il tesoro nascosto di Vivaldi ricerche sul musicista veneziano nel tricentenario della nascita Studi.
Nell'immensa opera restano delle ombre.
Solo con la riscoperta del fondo di manoscritti custoditi nella Biblioteca Nazionale di Torino la figura del grande compositore è emersa dall'oscurità.
Tra gli interrogativi: i melodrammi che egli disse di aver scritto.


"Adì 6 Maggio 1678. Antonio Lucio figliolo del Signor Giovanni Battista quondam Agustin Vivaldi sonador et della Signora Camilla figliola del Signor Camillo Calicchio sua consone nato li 4 marzo ultimo caduto, qual hebhe l'acqua in casa per pericolo di morte dalla comare allevatrice madonna Margarita Veronese, hoggi fu portato alla Chiesa, ricevè l'essorcismi et ogli santissimi". Questo l'atto di battesimo estratto dai libri della Chiesa di S.Giovanni in Braserà a Venezia e reso noto nel 1965 da uno studioso inglese. Emil Paul. La scoperta del documento ha finalmente chiarito due elementi biografici di rilevante interesse: il momento della nascita e le cagionevoli e precarie condizioni di salute in cui Vivaldi si trovò dal primo istante di vita (si da essere battezzato ipso facto dalla levatrice), condizioni che giustificano la cronica «strettezza di petto» (l'asma bronchiale) che afflisse il musicista sino al momento della morte, avvenuta, in circostanze non ancora chiarite, a Vienna, il 26 o 27 luglio del 1741.
Quello della data di nascita è forse il più importante fra i ritrovamenti che in questi ultimi anni hanno arricchito le scarse e frammentarie notizie biografiche raccolte intorno alla figura del «prete rosso». Il secolare oblio disceso sui fatti della vita e dell'arte di Vivaldi dopo la sua morte disperse con irriverente facilità quegli elementi della storia e del giudizio che oggi gli stusiosi si affannano, fra mille stenti, a ricomporre in buon ordine.
E' possibile, tuttavia, che cogliendo l'occasione celebrativa dei trecento anni di nascita si giunga a delineare un quadro più preciso e più attendibile della complessa personalità di Vivaldi, sacerdote che prestissimo rinunciò ad esercitare il magistero, virtuoso ed educatore di musica, impresario teatrale, maestro dei concerti all'Ospedale della Pietà, compositore fecondissimo onorato ai suoi tempi in tutta l'Europa e destinato a rappresentare il momento più geniale dell'Italia musicale settecentesca, almeno sul fronte della produzione strumentale d'insieme.
La rinascita vivaldiana - e per ognuno dei grandi del passato musicale esiste una renaissance che ha una propria storia e un proprio apparato di memorie rigenerate e di esplorazioni avventurose - è recentissima ed in parte subordinata alle indagini che la musicologia tedesca compì, a cavaliere fra Ottocento e Novecento, sulla forma del concerto strumentale. Ma è solo con l'acquisizione del grande fondo vivaldiano alla Biblioteca Nazionale di Torino che la figura di Vivaldi doveva finalmente emergere dall'oscurità sino a rivelare, nel vorticoso turbinio di rivolgimenti critici di cui era protagonista e vittima l'interpretazione della storia musicale, un caso clamoroso di musicista prima ignorato persin da chi faceva professione di studioso e poi divenuto popolarissimo protagonista del mercato discografico e dell'attività concertistica.
Il fondo vivaldiano confluito nella massima biblioteca torinese occupa 27 tomi di un complesso di oltre 700 ora riuniti sotto le denominazione Foà-Giordano, ma inizialmente raccolti dal conte Giacomo Durazzo (1717-1794). ambasciatore della Repubblica di Genova a Vienna ( 1749-1752) e poi consigliere e direttore generale degli spettacoli presso la corte imperiale, sempre a Vienna (1754-1764), al tempo in cui Gluck stava per realizzare la sua riforma del melodramma. Successivamente il Durazzo fu ambasciatore della corte viennese presso la Repubblica di Venezia (1764-1784).
Con ogni probabilità, la raccolta degli importanti manoscritti fu iniziata a Vienna e poi ordinata a Venezia: lo potrebbe testimoniare l'ex libris in forma quadrata recante lo stemma nobiliare e la scritta Conte G. Durazzo A.C. (A.C. Ambasciatore Cesareo, cioè imperiale) che compare su molti volumi della raccolta. Come e quando il Durazzo sia entrato in possesso dei manoscritti vivaldiani (parecchi dei quali autografi) è ancora un mistero: certo, si tratta di musiche che giacevano negli archivi dell'Ospedale della Pietà, giunto alla fine del Settecento ad un pauroso stato di decadenza.
Morto il Durazzo, la raccolta passò al nipote Girolamo Durazzo, ultimo doge della Repubblica genovese (1739-1809) e successivamente al nipote di questi, Marcello (1770-1848) che lasciò in eredità la cospicua biblioteca al figlio Giuseppe Maria (1805-1893). Alla morte di quest'ultimo, il fondo fu diviso in due parti fra i figli: l'uno, Marcello, donò poi la propria al Collegio Salesiano S. Carlo di Borgo S. Martino (Alessandria): l'altro, Flavio, tenne presso di sé la sua quota, trasmettendola infine al figlio Giuseppe Maria.
L'unità del fondo venne ricostituita soltanto negli anni Venti del nostro secolo, quando Alberto Gentili (professore di storia della musica all'Università di Torino) venne a conoscenza che la parte del fondo toccato all'istituto salesiano stava per essere smembrata e venduta sul mercato antiquario. I due tronconi della raccolta, per farla breve, furono acquistati dagli industriali torinesi Roberto Foà e Filippo Giordano, i quali ne fecero dono alla Biblioteca Nazionale di Torino, rispettivamente nel 1927 e nel 1930, in memoria dei loro giovani figli, Mauro e Renzo, prematuramente scomparsi.
Nei 27 tomi vivaldiani «torinesi» sono contenute complessivamente 318 opere strumentali, 20 melodrammi, 30 cantate, 1 oratorio, 2 serenate sceniche, 47 arie e 64 composizioni sacre. E' su questo corpus che principalmente si è lavorato per ridare a Vivaldi un volto e una dimensione (molte altre composizioni, naturalmente, sono sparse in altre biblioteche europee, fra le quali è doveroso segnalare quella di Dresda, che conserva un centinaio di opere strumentali).
Cataloghi, biografie, studi critici si sono moltiplicati in un quarantennio, mentre si è provveduto anche alla pubblicazione delle opere strumentali: con l'eccezione delle più recenti scoperte, le edizioni Ricordi hanno pubblicato, fra il 1947 eil 1972, l'intero corpus strumentale in 530 fascicoli, in massima parte curati da Gianfrancesco Malipiero; della musica vocale sono disponibili a stampa una trentina di composizioni, mentre ancora in alto mare è il problema editoriale per quanto concerne le opere teatrali (un solo melodramma, La fida ninfa, è stato edito in partitura), il settore meno noto della produzione vivaldiana. Proprio su quest'ultimo aspetto creativo si appunterà verosimilmente l'attenzione degli studiosi in quest'anno vivaldiano nel tentativo di chiarire molti interrogativi, il primo dei quali riguarda l'effettivo impegno del compositore, che in una lettera degli ultimi anni vantava una produzione di 90 melodrammi contro i 45 a noi noti (più una serie di opere dubbie).
L'impressionante prolificità dimostrata da Vivaldi, nonostante le non brillanti condizioni di salute che sempre travagliarono il musicista, ha messo a  dura prova la pazienza degli studiosi, impegnandoli in un prodigioso gioco di rimbalzo: da un lato si trattava d'indagare sul musicista per stabilire un catalogo delle opere, e dall'altro lato, con un procedimento inverso, si trattava d'inventariare le musiche per raggiungere la verità sul musicista. A questa impresa si sono accinti i primi studiosi vivaldiani: Olga Rudge (1939 e 1941), Mario Rinaldi (1945) e specialmente Marc Pincherle (1948), autore di esemplari studi sul maestro veneziano, ancor oggi validissimi.
Sono poi venute altre catalogazioni (quella più corrente, adottata dalle Edizioni Ricordi, è opera di Antonio Fanna, fondatore dell'«Istituto Italiano Antonio Vivaldi», che ha riassunto le proprie fatiche in un catalogo, delle opere strumentali pubblicato nel 1967), mentre ad un inventario analitico del fondo Foà-Giordano ha provveduto Piero Damilano (1968). Contemporaneamente sono venuti gli studi di Remo Giazotto (1965, rifatto nel 1973) e quelli fondamentali di Walter Kolneder, autore di più volumi e saggi culminati in un volume sulla vita e le opere edito nel 1965.
Intanto sorgeva a Bruxelles un «Centre International de Documentation A. Vivaldi», mentre in anni più recenti prendeva corpo la creazione di una «Société Internationale A. Vivaldi» con sede a Hellerup (Copenaghen), presieduta da Peter Ryom (la società pubblica un bollettino di studi. Vivaldi Informations). A Ryom si devono le più recenti acquisizioni in fatto di catalogazione e classificazione delle opere vivaldiane: un volumetto di Table de concordale des oeuvres (1973) che mette a confronto le varie numerazioni e consente l'individuazione delle singole opere sulla base delle varie classificazioni; un catalogo tematico vero e proprio (Verzeichnis der Werke, 1974), edizione ridotta di un più ampio e dettagliato catalogo: un imponente volume di descrizione e analisi critica dei manoscritti (Les Manuscrits de Vivaldi, 1977), di circa 600 pagine. La classificazione del Ryom (abbreviata con le lettere RV=Ryom-Verzeichnis) è di quelle destinate a rimanere nel tempo per la precisione e il rigore scientifico che la caratterizza.
Ancora una volta si deve constatare l'apporto fondamentale arrecato agli studi vivaldiani dalla musicologia straniera: è alle analisi e alle indagini di Rudolf Eller, Klaus Beckmann. Reinhard Strohm. Michael Talbot — per citare alcuni nomi — che si devono i contributi di maggiore interesse storico, solo in parte controbilanciati dall'applicazione di un Adriano Cavicchi o di un Francesco Degrada.
Nel volgere di due generazioni la materia si è infiammata sotto l'urto dei conflitti critici: dalla esplorazione periferica e in superficie si è pervenuti al centro del problema, alla rappresentazione e percezione della dimensione storica del musicista, non più considerato come un'isolata presenza culturale (e, per assurdo, si è voluta configurare una contrapposizione dialettica, in sé inesistente, fra Vivaldi e Bach, in quanto esponenti singolari di due diverse concezioni della musica) ma inteso nel contesto del suo tempo, scosso dalle correnti che muovevano il mondo musicale del primo Settecento e animato dai fermenti che ancora agitavano l'ultima fase della civiltà veneziana.

Alberto Basso ("La Stampa", 4 marzo 1978)

sabato, agosto 11, 2012

Festival di Berlino 1969: la novità è Stravinsky

XX Berliner Festwochen
Berlino, ottobre 1969. Sta volgendo al termine la manifestazione delle Festwochen, che per venti giorni ha occupato le scene della città con spettacoli d'opera, di prosa, di balletto, concerti, film ed esposizioni. Tra queste, bellissima quella di Whistler nella nuova Nationalgalerie, un cubo di vetro progettato da Mies van der Rohe, che delimita uno spazio raccolto, eppure d'insospettabile ampiezza. Una rassegna, queste Festwochen, che non obbedisce ad alcun criterio né tendenza, e nella quale erano quest'anno un po' scarsi i contributi internazionali, limitati alle rcrtte dell'Opera Nazionale di Belgrado, apprezzatissime, ai balletti della compagnia israeliana Baatsheva, che hanno bene assimilato la lezione di Martha Graham, alla tournée dell'Orchestra sinfonica svedese diretta da Celibidache e, per la prosa, al Rabelais di Barrault e agli spettacoli ambulanti del «Bread and Fuppet Theater». Nessun complesso italiano, quest'anno, ma solo un recital della pianista Maria Tipo e un concerto diretto da Mario Rossi, che alla testa della splendida Orchestra Filarmonica di Berlino ha portato al successo la Decima Sinfonia di Malipiero e il Magnificat di Petrassi (ottima solista il soprano Silvia Gròschke).
Fra le novità o curiosità musicali che è accaduto di ascoltare, due autori s'impongono nella memoria: l'americano Charles Ives e, tanto per cambiare, Stravinsky. Di Ives è in corso un'inflazione straripante. Questo compositore della domenica, che scriveva musica nei ritagli di tempo lasciatigli dal business (era presidente d'una grande società d'assicurazioni), ha lasciato una quantità sterminata di inediti, che soltanto ora, a quindici anni dalla morte, vengono tumultuosamente pubblicati e diffusi, senza che sia possibile per il momento prendere le misure del fenomeno e stabilirne i contorni. Non c'è che lasciarsi cadere addosso i nuovi lavori, registrando impressioni momentanee: chissà quando riuscirà a qualcuno di trarre un primo bilancio. In un concerto della Filarmonica diretto da Lukas Foss, che presentava anche le proprie capricciose Variazioni barocche e gli Ariosi di Henze con soprano e violino solisti (la coppia Irmgaard Seefried e Wolfgang Schneiderhahn), si è ascoltato un Orchestral Set Nr. 2: francamente aperto a esiti ritmici di estrazione jazzistica, è parso uno dei lavori buoni di Ives, sempre irregolare, lutulento, ma maledettamente aderente alla realtà umana d'un'America di pionieri.
Di questo compositore, che per mera spregiudicatezza non professionale divinava soluzioni armoniche e timbri che a cui la musica europea giungeva attraverso le consapevoli teorizzazioni schoenberghiane, è stato finalmente possibile ascoltare un bel mazzo di songs, o canzoni, o liriche che dir si voglia. Le ha cantate William Pearsons, il baritono di colore che si è affermato nella musica d'avanguardia, come interprete tragico e buffonesco delle avventure fonetiche di Mauricio Kagel, di Gyórgy Ligeti e di Hans Otte, ma che è pure un compiuto e drammatico liederista.
Le canzoni di Ives, su testi di cui non sono purtroppo stati indicati gli autori, vanno dalla romanza sentimentale o salottiera, su ritmo di valzer ottocentesco (Amphion, Marie, Songs my mother taught me) al realismo tragicomico di ballate dove la voce si abbaruffa con sé stessa fino all'urlo e alla risata (lo straordinario Charlie Rullage). C'è la lirica d'arte aggiornata ai canoni europei (Evening) e c'è la canzone nello stile dello spiritual (Watchman). In Walking il pianoforte se n'esce fuori con un intermezzo di vero e proprio swing. Il testo di The things our father love ci fornisce la poetica dell'arte di Ives, cosi ricca di ibridazioni e commistioni realistiche: «Penso che ci dev'essere un posto nell'anima, tutto fatto di suoni, di suoni del passato; risento l'organetto sull'angolo di Main Street, la zia Sarah che canticchia i suoi gnspels; sere d'estate, la banda del paese che suona in piazza». E' il repertorio di suoni e d'esperienze vissute di cui sono fatti i migliori lavori orchestrali di Ives.
E poi Stravinsky. Anche dal suo letto d'ospedale in America riesce a tenerci col fiato sospeso. Il suo discepolo Robert Craft presentava con l'orchestra sinfonica della radio un programma dedicato prevalentemente a quel tipico aspetto stravinskiano che sono le divoranti scoperte d'autori del passato, rifatti o trascritti in segno d'ammirazione. Doveva aprirsi, questo concerto, con la prima mondiale delle trascrizioni orchestrali di due Preludi e Fughe dal Clavicembalo ben temperato, poi, all'ultimo momento, questa ghiotta primizia spari, un po' misteriosamente, dal programma. Si disse che il maestro, ammalato, non l'aveva potuta terminare. Rimasero, insieme con il solito Pulcinella pergolesiano e con il Monumentum prò Gesualdo, le trascrizioni di due Lieder di Hugo Wolf, in prima esecuzione europea. Sono due canti spirituali dallo Spanisches Liederbuch, e lo spirito di macerato raccoglimento religioso ne è singolarmente vicino, sia pure in clima romantico, a quello dei tormentati madrigali di Gesualdo da Venosa. La trascrizione della parte pianistica per un piccolo complesso strumentale non fa che accentuarne la diafana e immateriale sostanza sonora.
C'è qualche cosa di commovente ed irritante ad un tempo nell'ovvia semplicità con cui l'ottuagenario compositore viene scoprendo la grandezza di quei classici e romantici che aveva un giorno disprezzato e che erano in effetti agli antipodi della sua poderosa, ma semplicistica personalità. A proposito dell'attuale ammirazione di Stravinsky per gli ultimi Quartetti di Beethoven, il critico berlinese H. H. Stuckenschmidt cita il dialogo riferito da George D. Painter nella sua biografia di Proust. Lo scrittore e il musicista si erano incontrati in un ricevimento mondano a Parigi nel 1922, e pare che Proust, anticipando Francoise Sagan, avesse chiesto a Stravinsky: «Amate Beethoven?». Risposta: «Lo detesto». «Ma almeno gli ultimi Quartetti?». «La cosa peggiore che abbia scritto!». Al tempo dell'Histoire du Soldat Stravinsky si era meravigliato che «un uomo così moderno» come Busoni ammirasse i classici tedeschi. E Busoni di rimando gli aveva fatto dire che se li avesse conosciuti li avrebbe ammirati anche lui. Come tante altre profezie di Busoni, anche questa si è pienamente avverata.
Ma non si limitava a questo l'interesse del concerto di Craft; esso raggiungeva la punta massima con l'esecuzione di Noces (ottimi solisti vocali Katherine Gayer, Kerstin. Meyer, Helmut Krebs e Anton Diakov), preceduta da due frammenti di versioni anteriori a quella definitiva. Una, del 1914-1918, contrappone un gruppo d'ottoni a un gruppo d'archi, con in mezzo i due cymbalon, strumenti ungheresi a corde metalliche percosse con bacchette, che allora affascinavano l'orecchio e la golosità acustica del compositore. Ma l'impiego ne è ancora timido, e gli strumenti tradizionali hanno il sopravvento. Invece il frammento del 1919, per i due cymbalon (egregiamente suonati da Derek Bell e John Leach), harmonium, pianola (qui sostituita da tre pianoforti) e percussione, è sembrato una rivelazione sbalorditiva, tale da far considerare la versione definitiva, per voci, quattro pianoforti e percussione, come un ripiego, tanto è selvaggia e vivida l'evidenza sonora dell'insieme. Lo stesso Stravinsky, in un gustoso scritto dell'anno scorso, non ancora noto fra noi, ammette che soltanto la difficoltà di assicurarsi due competenti suonatori di cymbalon e l'impossibilità di associare alle voci umane uno strumento meccanico cosi rigido nell'intonazione e implacabile nel ritmo come la pianola, lo indussero ad abbandonare quella versione strumentale che, con la sua sonorità di metalli violentemente sbattuti, era di gran lunga la sua preferita.

Massimo Mila ("La Stampa", 7 ottobre 1969)

sabato, agosto 04, 2012

Schnittke: dall'"idiota" Lenin al tango del dottor Faust

Alfred Schnittke (1934-1998)
Mosca 1962: «Perché sono venuto in questo Paese? E' un incubo, una casa di matti! Avrei fatto meglio a restarmene tranquillo a Venezia! Che perdita di tempo! Non capisco più niente! Ho chiesto a Khrennikov di farmi incontrare Shostakovic e lui mi ha detto che Shostakovic si trova a Leningrado. All'Unione dei Compositori apro per caso la coro di omosessuali, mentre la moglie si consola con un Proust (tenore) in carne e ossa, i cui libri; distrutti da Vova, erano il loro solido status symbol intellettuale. Finale tragico con l'intera compagnia ridotta al livello di Vova: tutti a ripetere un'infinito «Ech». Una danza macabra sulla natura del Male. La metafora di un sistema che si è dissolto per la propria idiozia.
Ma tuttavia è proprio a quegli anni a cavallo fra 50 e 60, quelli della visita di Nono a Mosca (testimoniata da Nikolaj Karetnikov nel bel volume di memorie Temy s variazijami), che occorre tornare per seguire e comprendere il successivo sviluppo della musica sovietica e russa negli anni della normalizzazione brezneviana e della liberazione di Gorbaciov. In quel breve disgelo kruscioviano, i giovani compositori erano tutti assetati di novità occidentali, innamorati della musica seriale, Schnittke compreso. Il musicista lo confessa ad Enzo Restagno nel volume che la Edt pubbhcherà in occasione di Settembre Musica, che contiene saggi e interviste al compositore, e dal quale anticipiamo alcuni passaggi: «I contatti con quella musica cominciaronoporta di un ufficio e ci trovo Shostakovic. Chiedo di vedere Rozhdestvenskij e Khrennikov mi dice che si trova all'ospedale, perché si è rotto una gamba. Telefono a casa sua e mi risponde proprio lui! Perché tutto ciò?»
Perché «la vita con un idiota è piena di sorprese!». Vale a dire: «da un Paese in mano ad idioti non ci si può aspettare che idiozie». Si potrebbe rispondere così, trent'anni dopo, con una battuta da Vita con un idiota, opera di Alfred Schnittke, allo sfogo disperato del grande musicista italiano Luigi Nono in visita a Mosca nel lontano 1962 e tenuto alla larga da Shostakovic così come dai giovani e più interessanti musicisti sovietici (cioè Alfred Schnittke, Edison Denisov, Sofija Gubaidulina, Nikolaj Karetnikov).
Vita con un idiota infatti è una satira nera e grottesca proprio di quella vita sovietica, e nella sua forza dirompente e distruggitrice di ogni convenzione ha di sicuro come unico parente nei teatri russi l'avanguardistico Naso di Shostakovic del 1935. Andata in scena in prima mondiale nel '92 ad Amsterdam (libretto di Viktor Erofejev l'autore di La Bella di Mosca, direzione di Mstislav Rostropovic, regia di Boris Prokrovskij, scene del pittore Ilja Kabakov), è stata ripresa la stagione passata a Vienna, e ora è in arrivo al Teatro Regio di Torino (venerdì 10 e domenica 12 settembre) come massima attrazione intellettual-mondana dell'omaggio che Settembre Musica dedica a Schnittke appunto. Unanimemente riconosciuto come il più importante e più famoso compositore russo vivente, Schnittke sarà onorato con cinque concerti e un incontro con l'autore. Vita con un idiota: poco in senso dostoevskiano, molto in senso sovietico. Vova (attenzione è il nomignolo poco rispettoso di Lenin) è l'idiota in questione che sa pronunciare solo una parola: «Ech». Una coppia di borghesi intellettuali (definiti semplicemente «Io», baritono, e «La moglie», soprano) se lo prende in casa. Ma il suo arrivo è foriero di disgrazie: prima distrugge l'appartamento con ogni tipo di deiezione. Poi seduce la moglie. Quindi seduce il marito, con scene d'amore commentate da un  con le registrazioni e i dischi che riuscivano ad arrivare sino a noi negli anni del Conservatorio. Questi ascolti aumentarono a poco a poco negli Anni 60. Denisov che si recava spesso al festival "Autunno di Varsavia" riusciva a tornare ogni volta con molte registrazioni (...). Allora eravamo un gruppo che si interessava attivamente alla Scuola di Vienna e che un po' alla volta veniva a conoscere le musiche di Boulez, Nono, Pousseur, Stockhausen, Ligeti, Berio».
A Mosca e alla musica, Schnittke (nato nel 1934) era arrivato dalla natia Engels, città sul Volga, capitale dei discendenti dei coloni tedeschi giunti in Russia nel '700: «Fino al 1941 Engels era il centro della Repubblica tedesca sul Volga, poi la Repubblica si sciolse e la maggior parte dei miei parenti del ramo materno fu esiliata in Siberia e nel Kazachstan». Di padre ebreo e madre cattolica (che però leggeva la Bibbia luterana), Schnittke sceglie il cattolicesimo. E di un profondo spirito religioso saranno permeate molte delle sue composizioni: per esempio gli Inni che a Torino si ascolteranno l'8 settembre al Piccolo Regio.
Un momento di grande speranza artistica e creativa gli anni di Krusciov. Nel '61, per citare un caso ormai dimenticato, al Bolshoj va in scena il balletto dodecafonico di Karetnikov Vanina Vanini. Ma presto segue il giro di vite brezneviano. Come molti altri musicisti di questo secolo, come per esempio gli ebrei tedeschi emigrati a Hollywood sotto il nazismo, Schnittke vive scrivendo musica per il cinema: sessanta film in tre lustri. Non soltanto però; gli Anni 70 infatti, racconta l'autore a Restagno, sono il momento di maggiore creatività: «Avevo una doppia vita: una legata al cinema per sopravvivere e un'altra dedicata alla musica d'avanguardia».
Eclettismo, citazionismo, pohstilismo. Sono i termini usati per definire i successivi sviluppi della grandiosa produzione musicale (un catalogo che supera abbondantemente i cento titoli) di Schnittke. A partire dalla Prima Sinfonia del 1972 dove, come a voler mettere in scena le peripezie della musica, l'autore «si impegna in un singolare censimento di tutti i tipi di musica esistente: jazz, musiche per film, classici decaduti a cliché, musiche per banda, canzonette, citazioni, magmi sonori inediti».
Ma non basta, nascendo duecento anni dopo la Sinfonia degli Addii di Haydn, la Prima Sinfonia di Schnittke prevede come atto preliminare (e così sarà fatto anche all'Auditorium di Torino il 7 settembre) l'esecuzione della composizione settecentesca con relativa uscita di scena a uno a uno degli strumentisti. Quindi, secondo il curioso programma voluto dal compositore, «durante l'intervallo un musicista sale sul palco deserto e suona le campane; dopo trenta secondi compare un trombettista che inizia una libera improvvisazione jazzistica; quindi è la volta di un violinista che suona camminando su e giù per la scena, poi da ambo i lati del palco entra tutta l'orchestra impegnandosi in una improvvisazione libera. Al termine dei quattro movimenti della Sinfonia i musicisti lasciano la scena l'uno dopo l'altro, mentre sul palco ormai deserto risuonano incise su nastro le ultime battute della Sinfonia di Haydn».
Fra cinema, sperimentazione e malattia (un brutto infarto lo blocca nel 1985) Schnittke incomincia ad acquistare fama in Urss e all'estero dove viene esibito come una bandiera di cultura e innovazione da grandi esecutori: Mstislav Rostropovic, Ghennady Rozhdestvenskij, Gidon Kremer, Oleg Kagan, Natahja Gutman e il percussionista Mark Pekarskij. John Neumeier coreografo ad Amburgo (dove oggi il compositore vive) adopera sua musica nel balletto Un tram che si chiama Desiderio e successivamente gli commissiona la partitura per un Peer Gynt. A Mosca Jurij Ljubimov gli chiede le musiche di scena per la Favola del revisore, spettacolo ispirato a Gogol. Musiche che successivamente acquisteranno una autonomia artistica per Schizzi, balletto dallo stesso argomento andato in scena al Bolshoj nell'85.
Dopo avere percorso e sperimentato ogni forma cameristica, corale e orchestrale di composizione, Schnittke sembra in questo periodo volersi concentrare sulla musica teatrale.
Dopo Vita con un idiota infatti ha collaborato ancora una volta con Ljubimov per l'omaggio a Zivago andato in scena a maggio a Vienna. Da tempo lavora a un'opera sul Faust. Senza ispirarsi però a Goethe o a Marlowe, ma al cinquecentesco Johann Spiess dove, spiega ancora Restagno, «le ombre gotiche sono così dense che i profili della vicenda sembrano fluttuare in una dimensione senza tempo ed assumere qualsiasi sembianza. Magari anche quella ferocemente espressionista del tango in cui si narra la fine orribile del dottor Faust».

Sergio Trombetta ("La Stampa", 24 agosto 1993)