Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 11, 2014

Sinopoli: un fato terribile.

Giuseppe Sinopoli (1946-2001)
In un destino incompiuto è forse più tristezza che in un destino mal compiuto. Un destino incompiuto ci lascia contemplare una figura alla quale venne spezzato il filo chiamato speranza. Nel caso tale speranza sia creativa, e l'interpretazione musicale possiede una natura parzialmente creativa, un destino incompiuto ne colpisce la vittima ma impoverisce noi. Perciò la morte subitanea di Giuseppe Sinopoli produce una tristezza in tutti gli animi, anche in quelli di chi da vivo scorgesse limiti alla Sua figura d'interprete. V'è la tristezza di fronte a un fato terribile. V'è la tristezza che ogni Italiano deve provare di fronte a un proprio connazionale il quale negli ultimi vent'anni ha arrecato onore alla sua Nazione specialmente all'estero: Sinopoli s'è aggiunto ad altre grandi personalità nostre nel dimostrare che la cultura europea, in particolare quella sua zona liminare del cosiddetto tardo Romanticismo, dell'Espressionismo, della «Scuola di Vienna», non è scrigno precluso se non a chi sia passato per tassativi percorsi. Gli Italiani possono comprendere Wagner, Schönberg, Strauss, Berg, meglio dei Tedeschi o di certi arroganti Francesi. Sinopoli lo ha dimostrato, da ultimo, con sempre maggiore intensità. L'interrotto compiersi del suo destino andava dissolvendo un velo di enigma onde la sua fisionomia, non solo agli occhi di chi scrive, era avvolta. Prima di considerare l'enigma Sinopoli, al quale peraltro la risposta è contenuta nel motto che infinite strade portano a Dio, a lutto dobbiamo aggiungere lutto, e proprio in quanto Italiani. Non pochi fra i nostri più illustri maestri sono costretti a diventare idoli di platee internazionali per essere pienamente accettati da noi. Per Sinopoli il caso è vero solo a metà, ma è certo che se egli, dopo un'esperienza londinese non pienamente felice, non avesse avuto il colpo di genio di ripartire dal cuore più profondo della Germania e della sua tradizione musicale, dalla leggendaria Orchestra di Stato (Staatskapelle) di Dresda, quel destino non si sarebbe evoluto come fin qui, con sempre maggiore luminosità, evolveva. Il dolore più profondo scaturisce allora dal ricordo di un altro nostro Maestro, Giuseppe Patané, scomparso undici anni fa nelle identiche circostanze di Sinopoli, sul podio del Nationaltheater di Monaco. Consta a chi scrive, per fonte diretta, quanta amicizia e stima corresse fra i due direttori. Patané era diversissimo dal collega, diciamo che era il suo simmetrico: partito da ineguagliabili doti di natura, aveva conquistato l'autorità delle ampie prospettive culturali, e dominava il mondo del sinfonismo classico-romantico non meno dell'Opera italiana, intesa quale tradizione vivente. Senza la sua scomparsa, la fisionomia musicale dello scorso decennio sarebbe stata infinitamente diversa. Morto Sinopoli, la musica del primo decennio del nuovo millennio risuonerà in ben altro modo, e anche in questo caso un orecchio nutrito di compassione oltre che di cultura saprà cogliere quale pedale di ogni nota, ogni accordo, un funebre rintocco. Quando Sinopoli esordì, apparve a chi scrive un fenomeno piuttosto culturale che musicale, diciamo un Ernest Ansermet colorato di luci ambigue. Veniva da studi di medicina; pagò l'obbligatorio tributo ai feticci della cosiddetta Avanguardia. Il suo granello d'incenso lo bruciò con capacità e burocratica correttezza: di primo acchito non avresti immaginato che l'ossequio fosse freddo, formalistico, scettico. Da un punto di vista strettamente «culturale» Sinopoli si rivelò una di quelle figure inclassificabili nella tradizionale Sinistra, quella dell'«Impegno», senza per questo appartenere a una tradizionale ma inesistente Destra. Coltivava, con la passione per l'archeologia, studi esoterici: e così, naturale conseguenza, si nutrì di filosofia essoterica ma non per questo meno proibita, a cominciare da Federico Nietzsche, il suo lasciapassare per Wagner. Giunto agli ultimi anni, Sinopoli poteva apparire un irrazionalista «trasversale» destra-sinistra. Così non è. Chi scrive ha avuto modo di seguirne il percorso, a partire da posizioni aspramente critiche nei Suoi confronti. Insospettiva un possesso degli strumenti tecnici della direzione d'orchestra palesemente inferiore alla passione intellettuale che ne aveva provocato la genesi. Ecco l'enigma, eccone lo scioglimento. Ma Sinopoli ebbe il coraggio di escludere, non sappiamo per quanto tempo se il suo destino si fosse compiuto, dal suo repertorio tutto quanto egli non fosse certo di realizzare al meglio, perché di qua o di là dalla sua portata. Nel mondo che, ripudiato quello di partenza, identificò suo, al contrario, portò una chiarezza, una trasparenza, una vigilia della ragione che sono l'aspetto tipicamente italiano del suo rapporto con l'estrema stagione classico-romantica. A grado a grado, i suoi strumenti si affinavano col penetrare nella patria ideale sceltasi dal Maestro. La complessità tecnica favoriva le Sue doti rivelatrici. Una Donna senz' ombra e un' estenuata e cristallina Arianna a Nasso (Strauss, Scala), un apparentemente gelido, in realtà sensibilissimamente liturgico Pelléas et Melisande (Debussy, Firenze), resteranno nell' anima degli amici della musica piaghe aperte dalle quali escono strazio e consolazione.

Paolo Isotta ("Corriere della Sera", 22 aprile 2001)

mercoledì, gennaio 01, 2014

Intervista ad Alexandre Tharaud

Alexandre Tharaud (1968)
Alexandre Tharaud si è mosso sempre con libertà nel mondo del concertismo, seguendo il suo gusto e le sue passioni. Anche nei ritmi di lavoro, con lunghe pause tra una tournée e l’altra, Tharaud è un pianista insolito. Decisamente originale è il suo repertorio, molto francese e molto clavicembalistico. Bach, Rameau, Couperin e Scarlatti. Poi Chopin, Ravel, Satie e Poulenc.
Nella sua discografia c’è anche un album con i Pezzi lirici di Grieg (nel 1993, a inizio carriera), poi la musica da camera – non moltissima, a dire il vero – e quindi un CD dedicato al contemporaneo francese Thierry Pécou.
Antivirtuoso ma a suo modo un divo, Tharaud, parigino, classe 1968, è poco incline ai preziosismi timbrici; si concentra sul senso della musica, è abituato a scavare in profondità.
A lavorare sulla struttura di un brano più che sulla superficie timbrica. Matura lentamente le sue idee e poi le realizza con determinazione. Anche quando ci racconta del suo nuovo disco, le parole sono misurate e precise.
Dopo molta musica francese, un CD dedicato a Domenico Scarlatti. Perchè questa scelta?
Credo fosse un passaggio obbligato dopo Bach, Rameau e Couperin. Per anni, alla fine dei miei concerti, molta gente veniva a chiedermi quando avrei fatto un disco con le sonate di Scarlatti; poi ci sono molte sonate scarlattiane poco note al pubblico, che ritengo importante far conoscere. Così mi sono deciso.
Con quali criteri ha selezionato le sonate del disco?
In primo luogo ho voluto registrare le sonate che ho studiato quando ero molto giovane, a sette-otto anni, l’età in cui ho scoperto Scarlatti. Poi alcune sonate virtuosistiche e alcune malinconiche, altre basate sui ritmi delle danze di corte come la gavotta e infine qualche sonata di ispirazione popolare, dal momento che è molto importante – a mio avviso – sottolineare il legame di Scarlatti con la musica del popolo e della strada, come il flamenco.
Ho notato che in molti casi i Suoi tempi sono più lenti rispetto a quelli di altri interpreti, soprattutto nelle sonate in modo minore. Per quale motivo?
La velocità non dipende soltanto dal pianista, ma anche dal pianoforte, dall’acustica, dalle condizioni della sala. In realtà non potrei dire come sono davvero i miei tempi, perché ogni volta, in concerto, cambiano!
Dove è avvenuta la registrazione?
In una fantastica sala in Svizzera, L’Heure Bleue, a La Chaux-de-Fonds: erano anni che sognavo di registrare in quella sala. Ho usato uno Yamaha, come nel CD di Satie di tre anni fa: sono riuscito a trovare uno strumento meraviglioso, ideale per Scarlatti.
Oggi è abbastanza comune affrontare Scarlatti al pianoforte, mentre qualche decennio fa erano più frequenti le interpretazioni al clavicembalo. Quali sono i vantaggi e i limiti?
E` importante, per prima cosa, avere in mente che queste sonate sono state scritte per il clavicembalo: bisogna cercare sul pianoforte la leggerezza del suono clavicembalistico. In secondo luogo bisogna considerare la modernità della musica di Scarlatti. Händel e Bach sono nati nello stesso anno di Scarlatti, eppure appaiono più legati al loro periodo storico, mentre la musica di Scarlatti sembra essere stata scritta ieri. Così è molto facile suonare questa musica su un pianoforte, certamente più facile rispetto alla musica di Bach, di Händel, di Rameau o di Couperin. Il limite del pianoforte è che è troppo lirico e che in alcune situazioni manca di forza: sembra incredibile, ma a volte le sonorità del clavicembalo sono più incisive, anche se si pensa sempre il contrario.
Fra gli interpreti di Scarlatti chi apprezza in particolare, tra i pianisti?
Marcelle Meyer, Clara Haskil e Vladimir Horowitz. Ritengo la Meyer la più grande pianista donna della storia: è il mio idolo e tutti i suoi dischi sono per me fondamentali. Poi viene Clara Haskil, perché quella di Scarlatti è la musica più adatta alla sua personalità, per la teatralità e per l’humour. Infine Horowitz, perché lui è il cinema – noi in Francia diciamo un piccolo bambino con un carattere difficile. Ed è anche molto lirico. Tra i clavicembalisti direi Pierre Hantäı. E` un interprete fantastico, semplice ma deciso quando serve, sempre pieno di sorprese: al clavicembalo, per il repertorio scarlattiano, è senza dubbio il più grande.
Quali autori di solito affianca a Scarlatti nei suoi recital?
Mi capita spesso di fare una prima parte dedicata a Beethoven e una seconda parte dedicata a Scarlatti. In effetti Scarlatti è in grado di reggere da solo un intero tempo, perché le sue sonate hanno caratteri molto diversi. Ed è anche interessante accostarlo a Beethoven, per esempio fare prima la Sonata op.109 e poi delle sonate di Scarlatti: funziona molto bene.
A questo punto dobbiamo aspettarci un disco beethoveniano?
No, non a breve. Ho in progetto di incidere due Concerti di Beethoven, ma non nei prossimi tre anni. Devo ancora scegliere il direttore e l’orchestra e non sono scelte facili, perché bisogna trovare l’orchestra ideale per questa musica e un direttore con il quale si lavora bene. Un direttore disponibile, possibilmente un amico. E poi c’è il problema della sala. E` molto più facile registrare dei CD solistici che registrare con un’orchestra.
I direttori con i quali si e`trovato più in sintonia?
Ho avuto un’esperienza molto bella insieme all’Orchestre de la Suisse Romande e a Rafael Frühbeck de Burgos, lo scorso anno in tourneée con i Concerti di Ravel. Vede, il mio direttore ideale non è solo un musicista che conosce molto bene il brano da eseguire, ma è anche una persona che, per esempio, non parte subito dopo la prova, ma si ferma a mangiare con me. Insomma, un direttore con il quale posso avere un dialogo vero: per registrare un disco bisogna passare cinque o sei giorni insieme!
E` vero che ha rinunciato ai concerti per sette mesi prima di registrare questo CD?
In realtà ho fatto sette mesi sabbatici dopo averlo registrato. Ho bisogno di prendere i miei tempi, di lavorare al pianoforte senza la tensione del concerto. Di lavorare sul mio suono e sulla tecnica. Oggi, però, questo è sempre piu` difficile: in un mondo globalizzato i solisti sono spinti a dare continuamente concerti.
Lei sente questa pressione?
Nella vita è possibile dire di no. Ormai sono cinque stagioni che riesco a prendermi ogni anno alcuni mesi pausa dai concerti e sono contento di questa mia decisione.
E la musica da camera?
Poca, adesso. In passato ne ho fatta, ma oggi preferisco i Concerti con orchestra e i recital, perché sono molto più rischiosi. Ed a me il rischio piace: nella vita non voglio la tranquillità!
I prossimi dischi per la Sua nuova etichetta, la Virgin?
Ho registrato i Concerti di Bach con una meravigliosa orchestra canadese, Les Violons du Roi. E` un’orchestra che utilizza strumenti moderni, ma con l’archetto barocco. Abbiamo trovato – mi sembra – un bel colore, molto leggero e un suono barocco: per queste pagine è importante, perché di solito risultano troppo pesanti. In Francia il disco uscirà in novembre. Poi c’è un altro progetto, ma preferisco non anticipare nulla.
Ho letto, in un’intervista al mensile francese «Diapason », che la Sua opera preferita è il Parsifal. Io mi sarei aspettato un’opera del Settecento... Arrivera`ad affrontare le parafrasi operistiche wagneriane di Liszt?
Ho ascoltato il mio primo Parsifal a diciassette anni, a Bayreuth ed è stata un’esperienza che ha cambiato la mia vita. E Liszt mi piace molto, come mi piacciono le opere di Wagner e anche quelle di Verdi. Però le parafrasi, che ho suonato dieci anni fa, oggi sono diventate meno interessanti per me.
In questo periodo quali brani sta studiando?
Le Variazioni Goldberg di Bach, le ho suonate in pubblico per la prima volta a Barcellona pochi giorni fa. E` veramente l’opera della mia vita, un’opera che desideravo suonare da molti anni che credo suonerò per tutta la carriera. Per la registrazione, però, voglio ancora aspettare. In genere suono per molti anni un brano prima di registrarlo. E` avvenuto così per tutti i miei dischi ed anche per le Goldberg mi piacerebbe aspettare tre o quattro anni.
Isola deserta, in assoluta solitudine. Tre dischi da portare. Quali sceglierebbe?
Il Preludio del Parsifal con Toscanini, l’integrale discografica della cantante francese Barbara e le Variazioni Goldberg con Glenn Gould, la versione del 1955.

intervista di Luca Segalla ("Musica", giugno 2011, n.227)