Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 29, 2008

L'onda, la Bertè e il po-po-po di Bruckner

Un aneddoto, una facezia e una riflessione, nell’ordine.
Dunque, Johannes Brahms e un Gustav Mahler giovincello passeggiano per un paese alpino. Quadro bucolico. Ponte di legno e un ruscello che scorre. Probabili armenti in lontananza, qualche nuovola a incappucciare le vette. I due si parlano guardando l’acqua, elemento musicalissimo del resto. “Vedete – dice più o meno Brahms, riprendendo la marcia - come il ruscello va verso il fiume, che poi a sua volta va al mare così anche la musica deve concludersi da qualche parte, si incammina verso il suo mare.” Mahler però non lo segue, rimane incantato a fissare il liquido elemento. “Che, fate? Non proseguite?” “E’ che sto aspettando la prossima onda – conclude Gustav”.
Aneddoto paradigmatico. Da un lato il conservatore, piuttosto rassegnato e apocalittico, dall’altro il giovane ed esuberante progressista che di lì a poco inonderà davvero torrenzialmente il mondo musicale. Simbolo di un fine secolo dove già si parlava di fine anche della musica.
La facezia. Commentando la questione plagio di un brano sanremese, un giornalista attribuisce ad Ennio Morricone la seguente affermazione. “Le combinazioni melodiche e armoniche sono esaurite. E’ inevitabile che ogni canzone ne richiami un’altra”. E giù paragoni a non finire e addirittura microascolti guidati di presunte scopiazzature.
La riflessione: forse con un’altra facezia, o almeno tale sembrerà ai professionisti del settore e ai colleghi frettolosi in cerca dello sfrigiolante clamore del pezzo da tg.
Solo in bocca a Brahms l’affermazione sulla fine della musica può essere plausibile, perché probabilmente alla sua morte, quel tipo di musica, di rigore etico, di compiutezza formale, di profondità umana, insomma quel mondo sonoro si è chiuso per sempre, lasciando un pertugio a qualche passante occasionale in serata di particolare vena. Ma quella musica lì, davvero è finita perché un altro Brahms non è più, ahinoi, nato.
Ma per fare musica le combinazioni sono realmente infinite. Non c’è matematica o calcolo infinitesimale che tenga. Le note sono dodici e in una disposizione verticale e nello spazio di una battuta le combinazioni che possono creare generano numeri vertiginosi perfino per l’animale che ha concepito la Matthäus-Passion, l’Eroica, la Sinfonia dei Mille e giù giù fino a Yesterday.
Non cerchiamo scuse per mascherare l’afasia e la dittatura delle playlist. Mancano le idee non le combinazioni. E che dire poi delle ulteriori immense varianti date dal ritmo, dal timbro, dall’espressione? Ecco comunque, per concludere, la facezia. Lo ricordate il motivetto lanciato dai tifosi della Roma e poi divenuto inno semiserio dei campioni del mondo, il famigerato po-po-po? Riascoltatevelo e poi andate a sentirvi il primo tema della quinta sinfonia di Anton Bruckner, immenso e da noi quasi misconosciuto musicista austriaco di fine Ottocento. Le note, gli intrevalli, la frase quasi nella sua interezza è identica. E io sfido qualasiasi filolgo, musicologo, audiologo o radiologo a dimostrarmi che il concetto musicale espresso lì è simile e che gli White Stripes hanno Bruckner nel loro i-pod. Delle due l’una: o basta un accento, un timbro, un atteggiamento espressivo a cambiare radicalmente la percezione anche della stessa catena di note oppure gli White Stripes hanno di nasacosto un palchetto alla Musikverein di Vienna con tanto di macchina del tempo. Voi che ne dite?

di Saverio Simonelli (http://www.altafedelta.tv)

sabato, marzo 22, 2008

Maurizio Pollini: Dialogo al pianoforte

La musica può cambiare il mondo. E il passato va letto alla luce del presente. Parla il maestro Maurizio Pollini. Alla vigilia di un ciclo di concerti a Roma.

La visione storica e musicale di Maurizio Pollini pare, a chi ascolta la sua pensosa voce baritonale stratificare concetti in maniera pacata e assorta, chiara e confortante, in un'epoca in cui le concezioni prevalenti sono quelle di un tempo aperto, multiplo ed eterogeneo: il suo è un tempo ciclico, orientato secondo un asse con tutte le possibilità di arresto, ovvero conservatorismo, ritorno all'indietro, cioè rinascimento o reazione, e marcia in avanti, ossia riforma o rivoluzione. Illuministicamente, il suo modello interpretativo dell'evoluzione artistica e musicale si fonda sull'idea che la storia abbia un unico senso e che lo storico come il critico o l'artista debbano seguire tale filo per raccontarla e per giudicare le opere, singolare parafrasi della via alla salvezza agostiniana. Per Pollini, come a suo tempo per Luigi Nono e Claudio Abbado, la musica è apertura verso l'altro. Più volte i tre musicisti hanno insistito sul valore educativo, etico e politico della musica. Esiste una profonda interazione tra la composizione di un brano e la sua realizzazione, poiché dalla constatazione che la musica è suono deriva l'importanza dell'aspetto esecutivo. La lettura di un'opera del passato è influenzata dal tempo in cui viene realizzata. Forte allora è il legame tra musica e storia come evidenziò Nono in una conferenza del 1959 dove affermò la necessità di collocare sempre l'arte in un contesto: un compositore non può scrivere in base a principi scientifici che prescindono dalla propria epoca. In pratica il ruolo di un pianista o di un direttore d'orchestra è quello di fare dialogare due periodi storici: si deve parlare del proprio tempo attraverso un'opera del passato. Parlare del valore storico della musica vuole dire anche affrontare i problemi della sua funzione e della sua destinazione. Nono, così come Brecht, riteneva che l'arte non avesse solo un ruolo di critica sociale, ma potesse anche agire sulla realtà contribuendo a formare le coscienze. La musica deve parlare della realtà e per questo richiede la massima attenzione da parte del pubblico. Questi sono solo alcuni dei temi presupposti dal ciclo di concerti 'Pollini prospettive', a Santa Cecilia, a Roma, dal 5 gennaio, ma anche dall'ultimo anello dell'integrale discografica beethoveniana, ovvero le Tre sonate opera due, e dalla prossima pubblicazione, in primavera, dei Concerti K414 e K491 di Mozart, dove Pollini dalla tastiera guiderà i Wiener Philharmoniker.

Maestro Pollini, nei suoi programmi concertistici lei non ama suonare la musica moderna da sola, ma affiancarla a brani più 'di repertorio'. Perché?
"A Roma presenterò opere di Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono; ormai esse hanno molti anni, ma sono definite ancora moderne. Per me è una cosa essenziale della vita musicale di oggi che questi grandi compositori e in generale le tendenze avanzate della musica vengano a contatto con la sensibilità profonda dello spettatore. C'è stata nel Novecento un'enorme evoluzione del linguaggio musicale che ha creato una certa frattura tra il grande pubblico e le creazioni dei musicisti. È fondamentale che questo vuoto venga colmato, che i giovani compositori e tanti altri che scrivono oggi abbiano un contatto con un pubblico sempre più vasto. Ho presentato grandi compositori della seconda metà del Novecento perché penso che proprio lì si debba insistere perché questa sensibilità venga creata in chi ascolta. Attualmente, per mancanza di frequentazione e di educazione, il pubblico non riconosce come linguaggio ciò che lo è, anche se più avanzato rispetto a quelli tradizionali. Per questo sarebbe necessaria una regolarità nella presentazione di queste opere".
Lei crede ancora nella linea di sviluppo che va da Arnold Schoenberg a Pierre Boulez?
"Certamente, pur essendo due compositori vissuti in periodi diversi. Quando Igor Stravinskij, ormai anziano, si accostò alla musica di Anton Webern, capì che quello era il cammino per il futuro, riconoscendone con grande onestà intellettuale l'importanza e la modernità. Le prime esperienze musicali, in seguito, di Boulez e Stockhausen, come dei nostri Berio e Nono, non hanno potuto che proseguire questo filone, che in definitiva conteneva più possibilità per l'arte a venire. Ognuno di questi compositori naturalmente ha percorso vie e strade diverse per la sua diversa sensibilità o forma di razionalità, perché in Nono si avverte chiaramente una radice italiana molto profonda, in specie un rapporto con l'antica musica veneziana; in Boulez ci sono alcuni elementi che lo riallacciano alla tradizione francese. Non casualmente a Santa Cecilia ho presentato un programma che unisce ai suoi brani quelli di Claude Debussy. Stockhausen ha in genere maggiori legami con Schoenberg e con la cultura tedesca. Di quest'ultimo ho programmato due 'Klavierstücke' (per l'esattezza il settimo e ottavo), 'Kontrapunkte', 'Zeitmasse' e 'Kreuzspiel'. Le esecuzioni di queste opere avranno inoltre il significato di rendere un omaggio alla memoria di questo grande genio, recentemente scomparso. Nei concerti che farò con il Maestro Antonio Pappano, con il quale sono felice di iniziare una collaborazione, sono programmate anche opere di Bruno Maderna, Pierre Boulez e Luca Francesconi, in particolare di quest'ultimo un brano in prima esecuzione assoluta, 'Hard Pace', concerto per tromba e orchestra".
Sempre nei programmi ceciliani, nel concerto dell'11 gennaio, c'è una serata dedicata a Chopin e a Nono. Cos'è che li unisce? Forse l'introspezione, il lirismo?
"Quello è un aspetto. Due compositori pure straordinariamente diversi. Non è il caso di parlare dell'importanza di Chopin. Nono ha in comune con lui la grandezza poetica. Nelle sue composizioni, anche le più violente come 'A floresta è jovem e cheja de vida', ci sono dei momenti lirici assolutamente eccezionali. Un lirismo davvero fuori dal comune: egli aveva la capacità di scrivere per la voce in un modo veramente unico. Questo pezzo che viene presentato fa parte del suo periodo politico più acceso. È infatti dedicato al Fronte nazionale di liberazione del Vietnam e certamente ha ancora oggi un'attualità politica: non è quella di stretta osservanza marxista che Nono professava allora, ma quella della protesta contro la guerra, quanto mai attuale. Ho programmato questo brano sia perché ho una forte relazione con esso, in quanto assistei alla prima rappresentazione e un entusiasmo che sicuramente non è venuto meno col tempo. Penso che anche questo periodo di Nono abbia un grandissimo valore estetico al di là del messaggio politico e dovrebbe oggi essere riascoltato con una mentalità aperta e non legata alle immediate passioni politiche come poteva avvenire al momento. Io oso sperare che sia il caso di fare i conti con questi capitoli della storia della musica vedendone la portata e l'interesse nell'evoluzione del linguaggio musicale".
E fra i nostri contemporanei, chi la interessa in particolar modo?
"Salvatore Sciarrino, Giacomo Manzoni, Helmut Lachenmann, già allievo di Nono e Stockhausen. Ma ce ne sono molti altri, perché la musica di oggi è quanto mai viva, anche se magari costretta a operare in condizioni difficili. Mi piacerebbe, magari in un prossimo futuro, dedicare un ciclo di concerti anche ad altri autori, come per esempio Wolfgang Rihm, Beat Furrer, Adolfo Nunez e Gérard Grisey".
Nei programmi romani ci sarà molto Brahms: una persona dalla vita privata schiva, riservata che poi, dinanzi alla tastiera, sapeva trasformarsi in un leone. Ho sempre visto una certa affinità caratteriale fra Brahms e lei, è un'impressione sbagliata?
"Se intende questa affinità come amore, senz'altro sì. Con Brahms ho un rapporto molto stretto, in particolare con i due concerti per pianoforte e orchestra, che ho eseguito molto spesso. Il Concerto in re minore è un'opera peculiare, perché forse è stata ispirata dalle vicende degli ultimi tragici anni di vita di Schumann e dai rapporti di Brahms con questo grande musicista che venerava. Brahms scrisse una lettera a Schumann nel 1854 dove gli annunciò la composizione di una 'certa sinfonia in re minore' con un primo movimento lento. Già era in nuce questo prodigioso concerto che venne ultimato cinque anni dopo e accolto con indifferenza dal pubblico tedesco, poiché era un pezzo molto più interiore e potente nello stesso tempo, rispetto alla norma. E anche un po' uno spartiacque nella stessa produzione brahmsiana, concludendo il suo primo periodo compositivo affine allo Sturm und Drang. Certo è stupefacente come un giovane di poco più di vent'anni (questa era la sua età quando iniziò a comporlo) sappia essere così profondo. A Roma io e il Maestro Antonio Pappano eseguiremo i suoi due concerti che saranno inseriti anche nelle 'Prospettive'. Sempre di Brahms, con il Quartetto Hagen, interpreterò poi il Quintetto per pianoforte e archi".
Parallelamente all'attività concertistica, lei registra dischi e sta ultimando l'integrale delle sonate di Beethoven. Adesso è arrivato il momento delle Tre sonate dell'opera 2: siamo già dinanzi al Beethoven della grande maniera?
"Nelle sue prime composizioni pubblicate noto già i segni evidenti del suo carattere. Questo si può vedere in tante cose, innanzitutto nel trattamento dello strumento. Beethoven scrive per il pianoforte a cinque ottave di Mozart e di Haydn, ma riesce a realizzare con questi mezzi limitati grandi sonorità orchestrali, una potenza nuova per quell'epoca e in genere un suono assolutamente suo. Forse ci potrebbe essere una lontana influenza di Clementi, sul suo modo di scrivere allora. Le Tre sonate dell'opera 2 sono di scrittura virtuosistica e con notevoli difficoltà tecniche, perché evidentemente il giovane Ludwig voleva allora affermarsi pure come pianista. Anche prendendo degli spunti dai compositori che lo hanno preceduto: per esempio, il tema iniziale della Sonata opera 2 numero 1 ha una parentela con il Mozart della Sinfonia in sol minore. Con lui però tutto assume un altro un carattere: sarebbe un grave errore vederlo nella posizione di epigono di Haydn e di Mozart. Lo spirito della musica è già completamente diverso".
Beethoven, in omaggio a Kant e all'Illuminismo, nelle sue lettere scrive che con la sua opera vuole confortare l'umanità umile e in catene. Un principio morale che sente anche suo?
"Beethoven voleva creare non solo delle composizioni straordinariamente belle ma influire sulla mentalità delle persone, sulla storia del mondo. Tutta la grande arte ha questa funzione progressiva".

colloquio con Maurizio Pollini di Riccardo Lenzi (da L’Espresso n.51 del 21 dicembre 2007)

sabato, marzo 15, 2008

Wiener Philharmoniker: sangue viennese

La viennesità come punto di forza. È questo uno dei capisaldi del Wiener Kammerensemble, la compagine nata dai solisti della prestigiosa orchestra dei Wiener Philharmoniker e che oggi si è affermata come una delle migliori formazioni cameristiche in attività. Joseph Hell, primo violino e direttore del Kammerensemble da più di dieci anni, ci ha svelato alcuni capisaldi del gruppo, e anche qualcosa di più: lo spirito che si cela dietro alle opere degli autori viennesi.

Bentornati a Bologna. Nel 2004 vi abbiamo applaudito in un concerto che allineava Richard Strauss, Beethoven e Hindemith. Quali sono state le novità più importanti di questi ultimi anni?
Negli ultimi anni abbiamo suonato in molte città italiane, in particolare a Milano, Roma e Firenze, nonché in Sicilia, dove ci siamo esibiti per la prima volta nelle bellissime Palermo e Messina. L’incontro con il pubblico italiano, un pubblico tanto interessato alla musica quanto entusiasta, ha costituito per noi un’esperienza meravigliosa.
Il Wiener Kammerensemble festeggia ormai 37 anni di attività e successi musicali. Potrebbe raccontare ai nostri lettori la storia dell’ensemble?
All’epoca della sua creazione, nel 1970, il gruppo si chiamava Wiener Philharmonisches Kammerensemble. Tra i fondatori c’erano il nostro indimenticato maestro Gerhart Hetzel ed il primo clarinetto dei Wiener Philharmoniker, Alfred Prinz. D’altronde le grandi orchestre filarmoniche, come quella dei Wiener, affrontano da sempre anche il repertorio cameristico: è una lunga e importante tradizione. La formazione originaria del Wiener Kammerensemble – costituita da un quartetto d’archi, un flauto e un clarinetto – fu allargata negli anni Ottanta fino a otto componenti, con l’aggiunta di un secondo corno per l’esecuzione dei Divertimenti di Mozart. Poi vennero le incisioni e le tournées mondiali. Da quando il nostro direttore Gerhart Hetzel ci ha lasciato, dirigo io l’ensemble. Sono ormai trascorsi quindici anni, un periodo importante che ha visto peraltro un cambio generazionale nel nostro organico.
Ci può descrivere lo spirito che ha portato alla formazione del Wiener Kammerensemble?
La musica da camera viennese ha una storia plurisecolare, dalla musica di corte al periodo Biedermeier. Sin dalla fondazione dei Wiener Philharmoniker, nel 1842, le maggiori personalità dell’orchestra sono state a stretto contatto con i grandi compositori e autori viennesi: da Brahms a Richard Strauss, da Bruckner a Schmidt, che fu peraltro primo violoncello dei Wiener. Ora, questo contatto reale fra orchestra e grandi autori ha introdotto nei repertori concertistici la musica da camera, e ha dato impulso alla pratica della “Hausmusik”, ancor oggi molto viva nella capitale. Ed in questa temperie culturale è nato il Wiener Kammerensemble, che vive ancora oggi una tradizione impareggiabile e ininterrotta, forse ancor più forte di quella della stessa Orchestra filarmonica. Ad esempio, quando ero giovane i miei colleghi più anziani mi dicevano spesso: “Il mio maestro ha ricevuto questo consiglio da Brahms in persona!”.
Quello che terrete per Musica Insieme suona come un meraviglioso concerto di Capodanno. Ma c’è molto di più: cosa si ‘nasconde’ dietro ai valzer degli Strauss o all’Ottetto di Schubert?
La conoscenza e la salvaguardia della musica tradizionale viennese e degli idiomi che essa contiene sono le chiavi per capire autori come Schubert, Johann Strauss, ma anche Alban Berg – a mio avviso i tre compositori “viennesi” per eccellenza. Purtroppo è difficile spiegare a un non viennese il senso, il legame profondo con questo modo di far musica, e se vogliamo anche con questo stile di vita e con lo stesso dialetto viennese – anche se ci sono stati musicisti che pur non essendo nati a Vienna l’hanno saputa comprendere, in virtù di una sensibilità particolare. Anche dietro i brani più gioiosi di Franz Schubert e Johann Strauss si nasconde ad ogni modo una sorta di tristezza e malinconia esistenziale. Il segreto di un’interpretazione coerente sta però nel non esasperare quella malinconia, rappresentandola piuttosto con equilibrio e misura adeguati.
Considerati i numerosissimi impegni dei Wiener Philharmoniker, come si organizza l’attività del vostro ensemble?
L’attività dell’Orchestra ci impegna per circa 300 serate l’anno, fra recite d’opera, concerti sinfonici, incisioni e tournées in tutto il mondo. In genere la musica da camera è un piacere speciale, che ci concediamo quando tutti questi impegni ce lo permettono.
Qual è secondo lei la differenza fondamentale fra suonare nel Kammerensemble o nei Wiener Philharmoniker?
La maggiore differenza si riscontra nel grado di responsabilità dei singoli interpreti. Se nell’orchestra chi dà forma alla musica è perlopiù il direttore, nell’ensemble c’è una creazione collettiva. Con una formazione cameristica si ha poi il vantaggio non indifferente di poter suonare con una maggiore libertà agogica, determinando e modificando cioè più liberamente l’andamento di un brano; il che influisce anche sull’interpretazione.
Quali i progetti futuri dei Wiener Kammerensemble?
Fra i tanti impegni, attendiamo con gioia il nostro debutto alla Scala di Milano nel 2008, mentre per marzo è in programma una tournée in Giappone. Saremo poi impegnati in nuove elaborazioni di alcuni lavori di Johann Strauss, come il Kaiser-Walzer. Chissà, magari a Bologna potremmo farvelo ascoltare in anteprima...

di Alessandra Masini

sabato, marzo 08, 2008

L'Arena (di Verona) è congelata

Intervista al sovrintendente Claudio Orazi. C'è un deficit di 14 milioni di euro. Il direttore artistico Battistelli prima si dimette poi sospende le dimissioni.

Le nubi che si addensavano cupe sulla cartolina colorata dell'Arena di Verona, nonostante i buoni risultati dell'estate, in questa chiusura di stagione, erano quelle dei numeri a più cifre, di un deficit di 14 milioni, denunciato, ipso facto, dal sopraggiunto segretario operativo, Francesco Girondini, espressione della nuova giunta di centrodestra, a cui si sono aggiunte le dimissioni dal c.d.a. del consigliere Giovanni Aspes, che rappresentava Cariverona, seguite a quelle di agosto dell'industriale, Giuseppe Manni, nominato dalla precedente giunta (prontamente sostituito dal sindaco leghista Flavio Tosi con un rappresentante del comune, Luigi Pisa, noto er le sue passioni discotecare). La ciliegina, a fine ottobre, ce l'ha messa il neoarrivato direttore artistico Giorgio Battistelli, con le annunciate dimissioni (poi congelate), per le difficoltà ad operare in maniera autonoma a fronte di una «elefantiasi e di una burocrazia soffocanti». Ma il sovrintendente Claudio Orazi, nel presentare il cartellone della stagione artistica al Teatro Filarmonico, ora forte di una confermata fiducia da parte del nuovo sindaco, non ci sta a questo gioco al massacro e, carte alla mano, ribadisce con forza la trasparenza dei precedenti bilanci:
«Ogni anno abbiamo dato pubblicamente comunicazione, sempre, di come era andato il bilancio. La realtà è che, se avessimo ricevuto gli stessi finanziamenti standard, senza i tagli, dallo Stato e dai privati, della fine degli anni '90, avremmo avuto attivi di bilancio: questo è il dato, quindi noi abbiamo contenuto le perdite limitatamente ai minori contributi che abbiamo avuto, avendo supplito nel frattempo agli aumenti dei costi e alle maggiorazioni degli scatti del contratto collettivo nazionale; se non fossimo andati con colpi di scure sulle diseconomie, con tagli di 5 milioni di euro, la Fondazione già non sarebbe più in piedi. Ma questa città non è mai intervenuta economicamente».
Quali le prospettive per reperire nuovi fondi?
«A fronte di ciò vedo un grande impegno da parte del sindaco e quindi sono fiducioso che si potrà recuperare una partecipazione dei privati, congrua rispetto alle nostre esigenze, in assoluto, in Italia siamo quelli che pesiamo meno di tutti sulle tasche pubbliche e anche il costo dei nostri lavoratori è sostanzialmente il più basso, se non tra i più bassi. Del resto -prosegue -chi è che non ha debiti nelle fondazioni liriche italiane? Ma ogni città si regola come crede; Verona ha patito di un minore contributo: il comune ci versa 400. 000 euro e i privati un milione, su un bilancio di 53 milioni, mentre un indotto, di 6501700 milioni, fanno dell'Arena una prodigiosa macchina economica, un'impresa culturale in cui la città deve decidere di mettere un minimo di benzina!»
Un fulmine a ciel sereno le dimissioni di Battistelli?
«Giorgio Battistelli, che ho fortemente voluto a Verona dallo scorso anno come segno d'investimento sul futuro, lamenta una situazione in cui le sue direttive artistiche non sempre sono state seguite, a volte rigettate».
Da parte di chi?
«Nella precedente gestione è stata nominata una direzione di produzione che ha sotto di sé tutte le masse artistiche e questo ha creato un conflitto di competenze".
Come vi proponete di risolvere tale anomalia?
«L'Arena deve fare un piano di rilancio con un nuovo organigramma aziendale, con professionalità ben individuate, nel quale le funzionalità artistiche devono tornare sotto la autorità del direttore artistico».
Nel frattempo le dimissioni sono state 'congelate' dal c.d.a. in merito ad una decisione in questo proposito e lo stesso Battistelli, da noi raggiunto, conferma la sua volontà di tornare se verrà confermato un ruolo più decisionale per la direzione artistica.
Intanto viene varato il cartellone firmato Battistelli, con la contemporanea che si accompagna ad un 'primo' Verdi: questo mese apre il balletto di nuova produzione: Jago, l'onesta poesia di un inganno commissionata al compositore Francesco Antonioni assieme al Sogno di una notte di mezza estate su musiche di Mendelssohn/Purcell, a gennaio con Nixon in China di John Adams, viene riconfermata la scommessa contemporanea'di Battistelli, assieme alla chiusura della stagione in maggio con l'opera Roméo et Juliette di Pascal Dusapin. Tra i titoli verdiani, un Oberto, conte di San Bonifacio prestato dal Macerata Opera Festival, e un nuovo allestimento di Attila, con la regia di Laudavant, con la coppia Anastassov/Guleghina.
Per Orazi c'è una totale condivisione su questa impostazione : «Capivo che era audace e la dovevamo spiegare bene alpubblico. Ma c'è anche Verdi che si sintonizza bene con l'idea che abbiamo di avvicinarci al 2013, centenario verdiano, ripercorrendo tappe del primo Verdi, che è anche l'obiettivo che ci siamo dati assieme alla Fenice e al Teatro Verdi di Trieste, anche scambiandoci gli spettacoli. Segno che la nostra fondazione è particolarmente viva sul territorio, che si cimenta con la sfida del fwturo e che non crede affatto che le fondazioni siano dei carrozzoni vuoti».

intervista di Fabio Zannoni (il giornale della musica, 12/07)

sabato, marzo 01, 2008

Canto e Liuto a Venezia del 1500

Verso la fine del secolo quindicesimo lo stampatore Ottaviano Petrucci da Fossombrone si trasferì a Venezia ed ottenne dalla Signoria, prima d'ogni altro, il Privilegio per la stampa della musica. Nel 1501 diede inizio alla sua opera stampando l'«Harmonice Musices Odhecaton», un'antologia di composizioni polifoniche destinata a restare un esempio insuperato di chiarezza e d'eleganza grafica. Grazie alle pubblicazioni del Petrucci e a quelle dei suoi illustri successori: Antico, Gardane, Scoto ed altri, la tipografia si impose anche in campo musicale contribuendo a far di Venezia uno dei primi centri di diffusione della nuova estetica musicale del Rinascimento. Nell'ambito dell'editoria musicale veneziana del Cinquecento il repertorio per liuto solo e per canto e liuto occupa un posto di particolare importanza, Dobbiamo infatti al Petrucci la pubblicazione nel 1507 della prima «Intabolatura de Lauto» contenente le composizioni di Francesco Spinacino e delle prime Frottole per canto e liuto con la stampa nel 1509 e nel 1511 del primo e del secondo libro di «Tenori e contrabassi intabulati col sopran in canto figurato per cantar e sonar col lauto» che contengono, oltre alle composizioni dei più importanti autori italiani dell'epoca, alcuni Recercari per liuto di Franciscus Bossinensis prescritti come introduzione preludiante alle Frottole.
Sebbene Milano abbia dato i natali ad alcuni fra i maggiori liutisti del Rinascimento, talché si può parlare di una vera «Scuola milarrese», Venezia divenne, nel primo '500, il principale polo d'attrazione per i compositori-liutisti che, come Joan Ambrosio Dalza Milanese, ed in seguito Petro Paulo Borrono da Milano, Francesco da Milano e molti altri, pubblicarono le loro intavolature presso i rinomati stampatori veneziani. Abbiamo quindi deciso di delimitare le nostre scelte alla prima metà del sedicesimo secolo, perché in quell'arco di tempo trovarono precisa definizione alcuni fermenti creativi della rinascita musicale italiana.
I Recercari, le Danze ed altre composizioni per liuto pubblicate nel primo '500 sono con ogni probabilità il risultato di esperienze maturate nell'ambito della tradizione, non scritta ma legata al mondo dell'improvvisazione, degli ultimi decenni del secolo precedente. Tuttavia è solo a partire dalle prime pubblicazioni veneziane che si sviluppò una vasta letteratura strumentale. Le Frottole e le forme affini di musica vocal-strumentale furono il frutto della convergenza di varie tendenze estetiche ed inclusero elementi musicali e poetici eterogenei: sapienza contrappuntistica e citazioni di musica popolaresca, testi poetici di altissima qualità (basti pensare al grande numero di intonazioni musicali dei sonetti di Francesco Petrarca pubblicate nel '500) e citazioni di autentica poesia popolare. Alcuni di questi fattori, fondamentali nel delicato momento di definizione del nuovo stile italiano, confluirono tra il secondo ed il terzo decennio del Cinquecento nel Madrigale. Va però detto che questo nuovo genere di composizioni fu presto portato alla massima perfezione da alcuni musici fiamminghi della grandezza di Jacques Arcadelt e Cipriano de Rore che operarono nelle principali città italiane, dimostrando con la loro capacità di aderire musicalmente al senso poetico dei testi d'essersi perfettamente integrati nello spirito italiano.
Le Frottole nella maggior parte dei casi furono composte per essere eseguite da una sola voce sostenuta da contrappunti strumentali che un buon numero di pubblicazioni e di fonti letterarie dimostra esser stati affidati di preferenza al liuto, tanto che buona parte del repertorio frottolistico è da ritenersi assimilabile a quello originariamente stampato per canto e liuto. Il Madrigale cinquecentesco invece nacque e si affermò come forma polifonica vocale non strofica, anche se abbastanza presto furono pubblicate raccolte di versioni per canto e liuto. In queste trascrizioni però, grazie all'addensarsi di una polifonia a quattro o a cinque parti con momenti omoritmici atti a sottolineare il testo, la parte intavolata per lo strumento cominciò ad assumere un ruolo di sostegno armonico che non fu certo privo di importanza nell'evoluzione verso la monodia accompagnata, attuata da alcuni compositori e teorici alla fine del Cinquecento.
Nel tentativo di rendere con la maggiore fedeltà possibile allo spirito dell'epoca i brani scelti, abbiamo utilizzato esclusivamente copie delle stampe o dei manoscritti originali, facendo costantemente riferimento ai documenti musicali, letterari ed iconografici che illustrano la prassi esecutiva vocale e strumentale del Cinquecento. Riteniamo inoltre fondamentale aver potuto effettuare la presente registrazione in un ambiente rinascimentale come la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista di Venezia, che unisce al pregio di un'acustica ideale il fascino di opere architettoniche e pittoriche la cui facoltà di evocare un mondo intero e di suscitare profonde emozioni speriamo abbia potuto influire sulle nostre scelte interpretative. Crediamo infatti alla possibilità delle arti di influenzarsi vicendevolmente, anche se per vie misteriose che raramente è possibile rivelare con le parole.
In un capitolo del bellissimo studio intitolato: «Carpaccio e la rappresentazione di Sant'Orsola» (Ed. Einaudi 1988) lo storico dell'Arte Ludovico Zorzi pone in risalto con squisita sensibilità le segrete risonanze della musica nei teleri del grande pittore veneziano, notando come «...in alcuni di essi il suono musicale invade il dipinto fondendosi agli effetti cromatici e luministici che circolano nell'atmosfera». Quindi ciò non avviene soltanto grazie alla diretta raffigurazione di musici e strumenti musicali ma anche, e soprattutto, attraverso la ricerca di sottili corrispondenze e armonici rapporti fra spazio, luce, architettura e colore, come in uno dei dipinti che compongono il cielo di Sant'Orsola custoditi presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia, nel quale «L'ora prescelta appare quella di un tardo meriggio, il cui oro caldo accende i colori e li diffonde, nell'onda di una sinestesia che assimila il soffio del vento al fiotto sottile delle note».
D'altra parte alcune caratteristiche dell'arte figurativa sembrano riflettersi con altrettanto fascino nella musica del Rinascimento; il Contrappunto, ovvero l'esposizione concorde e simultanea delle diverse linee musicali che compongono un'opera polifonica, può evocare la rappresentazione in un unico dipinto di diverse entità figurative che, pur essendo collocate in spazi prospettici e talvolta anche temporali diversi, concorrono a definire annoniosamente l'unità della composizione.

Massimo Lonardi (note al cd "Voice and Lute in Venice in the 16th century", Edelweiss Ed 1016, 1989)