Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, giugno 18, 2015

Arturo Benedetti Michelangeli: lontano dai riflettori

Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995)
Da tempo ammalato di tumore, ha voluto morire lontano dai riflettori.

Se ne è andato nel suo stile, in silenzio, dopo essere stato ricoverato per una settimana all'Ospedale Civico di Lugano per una malattia inguaribile. Ora il suo corpo riposa da ieri mattina nella camera ardente di questo palazzo di tredici piani che sovrasta il lago grigio e guarda le montagne bagnate. "Era questo l'ultimo desiderio del Maestro: che la sua morte rimanesse una cosa privata, che non fosse annunciata alla stampa". Sono le poche parole di Anne Marie Gros Dubois, la sua segretaria e compagna, più giovane di una ventina d'anni. "Lasciamolo partire tranquillamente", aggiunge a voce bassa. Abitavano in una villetta a Pura, un paesino di mille abitanti verso il confine di Ponte Tresa. Lì Arturo Benedetti Michelangeli viveva dall'agosto 1979, ma era in Ticino dal 1970. La rigorosa e leggendaria riservatezza del Maestro, attenta a custodire la sua vita dall'occhio esterno, veniva intaccata però ogni tanto dallo sguardo discreto di qualche vicino di casa. Così un'anziana coppia che abitava nella casa a fianco ricorda di averlo incrociato qualche volta anni fa in mezzo ai boschi circostanti: "Ma non dava confidenza a nessuno; sì, salutava, ma niente di più". E la signora si lascia sfuggire senza volerlo un "antipatico", subito corretto da un più morbido "burbero". "Non lo si sentiva suonare, forse la sua casa era insonorizzata". Quando arriva a Pura, da Sagno (nei pressi di Chiasso), Benedetti Michelangeli prende in affitto da una signora olandese un appartamento che lascerà a un altro mito del pianoforte, Vladimir Ashkenazy. "Per un po' di tempo scomparve, in paese i maligni dicevano che non aveva soldi per pagare l'affitto, poi invece tornò e comperò la villetta". Il Ticino ha rispettato il suo desiderio di solitudine. Pochissimi abitanti del posto, ogni tanto, osavano bussare alla sua porta. Come un impiegato comunale, che nel Natale scorso fu ricevuto per qualche minuto: il tempo di un autografo, niente di più. "Rimasi imbarazzato perché non disse nulla, feci in tempo a vedere il salone, lui era seduto in poltrona a guardare la televisione. Mi accompagnò la signora Dubois, che conoscevo da molti anni". Dopo un corso di specializzazione impartito ai giovani pianisti della locale Villa Aeleneum nel 1970, l'unico ricordo pubblico che il Ticino conserva del Maestro risale al 1981. Carlo Piccardi, musicologo e oggi direttore radiofonico, non dimenticherà mai quei tre concerti che Benedetti Michelangeli diede all'Auditorium della Radio della Svizzera Italiana: "Lo seguii per quattro giorni. Arrivava alle 10 del mattino e lavorava senza interruzione per ore e ore, mangiava in camerino...". Ricorda che replicò tre volte lo stesso concerto (Brahms, Beethoven, Schubert) per non andare al Palazzo dei Congressi o al Kursaal, che avrebbero garantito una capienza di pubblico maggiore, ma non assicuravano un'eguale qualità acustica. "Fece portare i suoi tre pianoforti e con il suo accordatore provava per scegliere il migliore: non gli sfuggiva niente delle condizioni acustiche e valutava persino l'umidità del locale", ricorda ancora Piccardi. "Lì capii che i suoi non erano capricci o manie inutili, aveva un rapporto fisico con lo strumento, era anche un grande artigiano del pianoforte, con cui intratteneva una relazione di simbiosi, una specie di lungo corteggiamento. Ha vissuto per quattro giorni in funzione dei concerti e per non distrarsi decise di abitare in albergo, piuttosto che tornare a casa". Sono particolari che la dicono lunga sull'ostinazione del Maestro, sul suo desiderio di perfezione assoluta. "Si è molto insistito sul suo carattere bizzarro o eccentrico, ma per lui ottenere il meglio era un'esigenza profonda, un modo per non tradire il pubblico". Neanche in quell'occasione mancarono i problemi: l'ultima sera il Maestro ordinò di spostare il pianoforte, quando già tutto era stato previsto (luci e suoni) per una emissione televisiva. Benedetti Michelangeli continuava a ripetere: "Non me ne importa niente dell'immagine, per me conta solo il suono".

Di Stefano Paolo ("Corriere della Sera", 13 giugno 1995)

martedì, giugno 02, 2015

Harnoncourt: "I tempi della Passione"

Programma di sala
Nel 1985, anno che l’Europa dedica alla musica, si festeggia tra l'altro il tricentenario della nascita di Johann Sebastian Bach. Lei, insieme all'esecuzione della Matthäus-Passion commemora anche i dieci anni di direttore delle Passioni di J. S. Bach con il Concertgebouworkest. Che significato ha per lei Bach nella storia della musica e quale posto occupa la Matthäus-Passion nell'opera omnia di Bach?
Fin dall’inizio del XVIII secolo, quando è entrato attivamente a far parte della storia della musica, Bach ha recuperato al proprio tempo sia la polifonia fiamminga che il grande barocco di Monteverdi e ancora lo stile del quasi coetaneo Vivaldi, rielaborandoli insieme. E' stato il più grande maestro della polifonia; ha sviluppato le conquiste dell’estro strumentale del concerto italiano, coniugandolo con le forme ridotte ma interessantissime della musica francese. Non vedo nella storia della musica una personalità di così alta statura come quella di Bach, in cui tutto converge. Egli non ha seguito una precisa direzione, in effetti non ha inventato niente di nuovo, ha piuttosto raccolto tutto ciò che era già a disposizione. Operando in questo modo si ha l'impressione che volesse indicare un futuro lontano. Grande significato ha pure il suo incredibile senso del suono, legato probabilmente a1l’organo. Aveva nel sangue il senso dell’acustica, e sapeva sempre esattamente dove col1ocare il coro e l’orchestra.
Era come se avesse un’enorme tavolozza, in parte sua e in parte ereditata, sulla quale combinare i colori del suono. Molti hanno provato a definire i vari aspetti del suo lavoro, giustificandoli col fatto che Bach iniziò a comporre prima per una corte e poi vincolato alle esigenze della sua nuova funzione di Kantor. Per conto mio questa interpretazione è completamente errata: nessuno è mai pienamente soddisfatto del proprio lavoro, ed è umano tendere verso cose sempre più difficili, verso l'impossibile. Le vicende della vita di Bach (la partenza dalla corte di Köthen e la nomina a Kantor della chiesa di S. Tomaso a Lipsia), non costituiscono certo una buona ragione per considerare negativo il fatto che abbia scritto molte cantate di argomento religioso e nessun melodramma.
Non ha senso d’altra parte definire Bach come "quinto evangelista" e rimpiangere il presunto tempo perso a comporre i Brandeburghesi. Bach era un musicista completo, sempre alla ricerca di un posto di lavoro interessante. Io credo che la sua vita sia stata intensa e che noi non dobbiamo argomentare su come avrebbe potuto essere.
Bach compose un notevole numero di cantate per i servizi liturgici domenicali di Lipsia, che certamente entusiasmarono una buona parte dei credenti, anche se tutti non furono soddisfatti perché la sua musica era troppo esoterica. Comunque Bach fu il culmine della storia della musica, così come la Matthäus Passion fu il culmine delle sue cantate.
In genere una Cantata è mediamente di venti minuti; questo lavoro invece ha una durata di tre ore. Composto ne1l’alternanza di recitativi, arie e corali, si sviluppa in una architettura grandiosa dove ogni numero è una pietra indispensabile al tutto.
Con quest’opera Bach ha creato una cosa assolutamente nuova. Se si arriva a far attraversare all’ascoltatore questo grandioso monumento - una vera Via della Passione - allora l’esecuzione è buona.
L'architettura formale deve esprimersi nell’interpretazione, ma non è indispensabile che l’ascoltatore ne abbia piena coscienza, essendo ugualmente possibile coglierne la bellezza nell’esecuzione.

Quando ha ascoltato per la prima volta la Matthäus Passion e che impressione ne ha ricavato?
Mi trovavo a Graz, avevo dieci o undici anni appena, era poco prima o subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. La Matthäus Passion mi ha impressionato incredibilmente e in diversi momenti sono stato sopraffatto dalla bellezza della musica. Non ricordo con precisione lo stile dell’esecuzione, ma non posso mai dimenticare le emozioni che ho provato quella prima volta.
Ho poi assistito a un'esecuzione della Matthäus Passion diretta da Wilhelm Furtwängler che sedeva al pianoforte, ma questo fatto non mi ha disturbato per niente. Allora non avevo ancora un senso critico:
ero aperto a tutte le impressioni.
Più tardi invece, verso i quindici anni, mi era facile rimanere deluso se un’esecuzione non esprimeva sufficientemente la grandezza del lavoro di Bach. Purtroppo non ho mai assistito a un'esecuzione diretta da Willem Mengelberg, dal momento che lui ogni tanto dirigeva la Matthäus Passion a Vienna, mentre io vivevo a Graz. Dopo la guerra ebbi per la prima volta un giradischi e i primi dischi ricevuti (non ricordo da chi diretti) furono proprio esecuzioni della Matthäus Passion, e mi impressionarono molto. A partire dal 1952, quando divenni violoncellista dell'orchestra sinfonica di Vienna, collaborai ogni anno alla Matthäus Passion, diretta ora da Karajan, ora da Böhm, Richter e Scherchen.
 
Nel 1971 ha inciso un disco della Matthäus Passion con il "Concentus Musicus Wien". Cosa voleva dire dl diverso con questo disco?
Principalmente volevo usare strumenti antichi, questa idea mi affascinava. In genere tutte le esecuzioni finivano per assomigliarsi: ogni direttore procedeva sempre allo stesso modo, i cantanti tentavano sempre di imitare Karl Erb o Julius Patzak, e la parte del Cristo era interpretata sempre nella stessa maniera, non c’era volontà di approfondimento. Tutte le esecuzioni mi erano sempre parse copie di una irraggiungibile esecuzione originale ("Uraufführung"). La mia idea è quella di fare sempre, ogni volta, una nuova scelta.
Sono di un’altra generazione e voglio sapere perché faccio qualcosa. Ho ripensato di nuovo tutto: dove usare un certo tempo e come metterlo in relazione con gli altri tempi, che significato hanno le figure dell'evangelista e del Cristo, cosa significa il coro di apertura. Non avevo mai diretto la Matthäus Passion in una sala da concerto o in una chiesa, e questa prima esecuzione su disco non fu proprio un tentativo di cambiare tutto, quanto piuttosto di ripulire la nostra memoria da vecchie esperienze d’ascolto, finché ciò è possibile, e risentire tutto ex novo.

Molti fanno confusione tra il suo tentativo di avvicinarsi all’essenza dell’opera e il desiderio dell'autenticità, cioè di una replica dell'esecuzione diretta da Bach in persona.
Il mio scopo è quello comune a ogni serio musicista: la Matthäus Passion è un’opera d’altri tempi e io voglio comprenderne il significato profondo per quanto è possibile e ritrovare le intenzioni dell’autore. Non intendo farne un problema di alta speculazione ma interpretare alla luce di tutto ciò che posso scoprire. L’altro punto di partenza è che vivo duecentocinquanta anni dopo e che 1’idea base dell’opera frattanto è completamente cambiata. Che cosa significa la Matthäus Passion del 1729 riproposta nel 1985? Se anche potessi ricostruire la prima esecuzione e se anche avessi la conoscenza esatta del suono di allora e se potessi realizzarlo, tutto questo non avrebbe per me un senso musicale, dal momento che allora questa musica aveva una collocazione sociale e religiosa totalmente diversa. La società di oggi ha acquistato libertà di spirito, ma questa libertà per me è assurda: io non sono affatto libero, ho un corpo e delle esigenze, la mia libertà è circoscritta da un sistema determinato.
Se leggo le motivazioni culturali-politiche, specialmente quelle degli artisti, scrittori, uomini di teatro che fanno battaglia per una libertà del1’arte senza limiti, allora mi è chiaro che viviamo in una situazione completamente diversa, Le idee di oggi hanno la loro radice nell’illuminismo, vecchio già di 200 anni, ma queste stesse idee sono diventate sempre più forti e prevaricanti. Se eseguo una Passione di Bach o una sinfonia di Mozart, mi devo chiedere: devo eseguirle solo perché sono due capolavori di allora che noi ammiriamo per questa ragione? Se volessi questo, lo farei per mostrare: guardate come era grandiosa l'arte di una volta. Però, se sono d’avviso che nell’arte ci sono valori immutabili che non hanno bisogno di essere attualizzati perché sono sempre attuali, allora devo pensare a un’esecuzione per niente storicizzata: una esecuzione dell’anno 1985, per gente del nostro tempo.
Inoltre c'è da considerare anche il problema tecnico, non essendo comunque possibile ricreare lo stesso clima della prima esecuzione. Anche se volessi fare una esecuzione "da museo", essa non sarebbe possibile. Potrei avere gli strumenti storici più perfetti ma questi sarebbero suonati oggi da persone che non hanno nessuna conoscenza dell’estetica del suono settecentesco. I cantanti di oggi hanno le stesse corde vocali ma un’altra estetica. Per farle un esempio: i bambini d’oggi sono diversi da quelli di una volta che cantavano da soprano dai quindici ai diciotto anni. Oggi si incomincia a undici quando il fisico è meno sviluppato e l'esperienza minore.

Perché adopera ora gli strumenti antichi e ora gli strumenti moderni?
Quando devo scegliere il tipo di esecuzione penso principalmente all’effetto musicale, E solo dopo viene la questione storico-musicale. So che quasi tutta la musica si suona meglio con gli strumenti autentici; non esiste nulla in grado di sostituire un oboe da caccia, o le corde di budello o gli archetti antichi. Nell’orchestra barocca non esistono problemi di equilibrio. Darei volentieri sempre la preferenza a una orchestra di strumenti autentici; ma devo poi valutare i pro e i contro. Se ho a disposizione una orchestra moderna di buon livello, già mi avvicino al mio ideale stilistico; con un'orchestra barocca formata per l’occasione invece si pone spesso il problema di musicisti meno abituati a suonare insieme. Mi viene da sorridere se qualcuno parla di un’esecuzione senza compromessi: non esiste.

La sua prima esecuzione della Matthäus Passion con il Residentie-Orkest, a Scheveningen nel 1974, era con strumenti moderni. Che ricordi ha di quella esecuzione?
La sala del Kurhaus non ha un podio fisso e quindi ho potuto felicemente disporre i musicisti sottolineando la disposizione dei due cori vocali e strumentali.
So come funziona un’orchestra: ci ho lavorato per anni, discutendo a lungo con i capi dei gruppi strumentali per spiegar loro le mie idee. Mi ricordo che alcuni critici facevano confronti tra le mie tre diverse esecuzioni della Matthäus Passion. Quella di Rotterdam era stata più lenta di quella di Amsterdam, e quella dell’Aja più veloce di quella di Amsterdam.
Ero alquanto scioccato nel notare questa attenzione all’elemento diciamo "sportivo". Penso che un’esecuzione abbia in realtà ben altre mete da raggiungere; la lunghezza di un’esecuzione è il risultato del suo contenuto, e i tempi delle singole parti sono solo un aspetto del totale. Così un tempo oggettivamente rapido, può apparire lento. Facendo un paragone fra diverse versioni della Matthäus Passion in una trasmissione radiofonica ho constatato che l’esecuzione oggettivamente più lenta del coro di apertura nell’incisione di Klemperer si avvicina di più alle mie idee.
Bach ha, dato ad ogni parola una dizione e un significato specifico nell’insieme.
Gli strumenti dovrebbero essere suonati e articolati come autentiche voci. Mi disturba sempre nelle esecuzioni tradizionali la mancanza di articolazione. Ma nemmeno mi piace l’eccesso di articolazione. La parte verbale deve corrispondere al ritmo melodico della lingua e la parte strumentale va articolata in modo che la funzione degli strumenti risulti chiara. Se le due cose combinano alla perfezione, anche il lavoro più complesso diventa trasparente e si può capire l’intenzione dell’opera.

Lavora ormai da dieci anni con il Concertgebouworkest nella riproposta della Matthäus Passion e della Johannes Passion: come sono cambiate le sue idee in proposito? Come si è sviluppata la collaborazione con questa orchestra?
Non potrei dirle con precisione, certo cambiamenti ce ne sono stati in questi anni. Del resto io stesso cambio da un giorno all’altro. Mi spaventerebbe se facessi le stesse cose di dieci anni fa. Che questione scientifica sarebbe: sono diventato più lento o più veloce? Come è l'equilibrio? Quale ruolo hanno i solisti?
Ogni solista significa per me un tempo diverso, il peso di una aria cambia secondo chi la canta. L’acustica poi e una cosa molto importante; a Vienna e in Italia il suono è diverso che ad Amsterdam.
Dopo tanti anni di collaborazione con l’orchestra del Concertgebouw le prove si svolgono ora più in fretta, non è necessario spiegare tutto, c’è una intesa tacita. Quando ero membro d’orchestra mi sentivo scontento perché il direttore spiegava cosa voleva e non il perché; io vorrei evitare questo errore. Discuto perciò ogni cosa e desidero che l’orchestra discuta con me.

Alcuni lamentano le novità da lei introdotte nell’esecuzione della Matthäus Passion. L'esperienza religiosa non ha la preminenza: arie e corali tra i più amati come "Wir setzen uns mit Tränen nieder" suonano come canzonette di danza e dopo viene l'applauso invece del silenzio sacro.
Il coro finale è un minuetto e mi viene naturale renderlo tale. Io non dico "Wir setzen uns mit Tränen nieder" (con lacrime ti seppelliamo), ma "und rufen dir in Grabe zu ruhe sanfte, sanfte ruh!" (e chiamiamo verso la tua tomba riposo sereno, sereno riposo). Come si vede non è un canto funebre presso il sepolcro ma un invito al conforto, e qui sta la grande differenza.
Brahms per il suo Requiem ha personalmente indicato il tempo in cifre metronomiche; ma quando lo ascolto, il tempo è due volte più lento. E allora mi chiedo perché. Il testo dice "Seling sind die da Leid tragen" (Beati coloro che patiscono sofferenza) ma io sento solo "Leid, Leid, Leid" (sofferenza). Il contenuto invece è "Selig" (Beati). Non ho mai eseguito il Requiem di Brahms ma se lo eseguissi tutti proverebbero gioia.
Quando Bach compose i cori finali della Johannes Passion e della Matthäus Passion fece attraversare all’ascoltatore l’inferno della sofferenza umana. Anche oggi il tema è attuale perché sappiamo quanti esseri umani sono torturati. Abbiamo ascoltato, nella Passione, cose terribili ma alla fine si dice che la sofferenza non è priva di senso, e che esiste una sofferenza che porta conforto alla gente. Un tempo si
usavano, nella chiesa, forme di danza per ottenere questi effetti.
Nel minuetto la maestosa grandezza è in stretto legame con una dolcissima letizia. Naturalmente si potrebbe dire che un minuetto della Matthäus Passion è cosa diversa dal minuetto di una Suite. Anch’io lo credo, e in una Suite avrei sottolineato maggiormente l’elemento danzante.
Tuttavia non mi sembra sconveniente che un minuetto concluda una Passione e trovo anzi miracolo che Bach sia riuscito a tradurre il conforto in una forma cosi umana.
Per quanto riguarda l’applauso sono molto più meridionale del pubblico di Amsterdam. Sono stato spesso in Italia e quando la gente in chiesa prova gioia, grida "bravo" e applaude.
La chiesa. non è uno spazio creato unicamente per il devoto silenzio; la gente può esprimere i suoi sentimenti religiosi a voce. Secondo gli usi locali questo non si fa ad Amsterdam ma si fa a Napoli. Comunque la gente di Amsterdam non ha il diritto di dire che i napoletani non sappiano come comportarsi in chiesa. Posso rispettare le persone che ad Amsterdam sono infastidite da un applauso; ma se c’è gente che vuole esprimere gratitudine, non mi turba il loro applaudire, Nessuna delle due parti deve per questo offendersi.
Mi hanno chiesto spesso di far smettere l'applauso, ma a volte è possibile, altre no.
Forse, chi applaude intende dire "L’aspetto religioso è secondario... questo è un concerto come altri». Non è questo il genere di applauso che preferisco, ma non si può costringere nessuno a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Mi disturberebbe certo un applauso alla fine de1l’Incompiuta di Schubert, perché in quel momento mi sento addosso una mano che mi strozza e mi viene da piangere. Alla fine della Matthäus Passion invece non ho bisogno di piangere, provo conforto e gioia.

Intervista di Kasper Jansen a Nikolaus Harnoncourt
(dal libretto di sala in occasione della tournée in Italia del 1985 che ha toccato le città di Milano, Modena e Firenze)