Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 26, 2010

Toglietevi la parrucca


Si può facilmente capire il disgusto delle generazioni, diciamo cosi, moderne per lo stile galante, per il rococò, per tutto ci ó che ricordava la vita e il pensiero della classe dominante. Tutto ciò veniva considerato ridicolo e stupido: insomma, era giunto il tempo di togliersi la parrucca, di abolire ciprie e nei, polpe e scarpine di vernice. In fondo al cuore degli uomini nuovi cresceva l'idea di una vita più naturale, di una differenziazione realistica e anche di una maggiore comodità. I ritratti dei musicisti ci mostrano subito il cambiamento radicale dell'aspetto e cosi anche quelli dei potenti. C'è una bella differenza fra l'immagine di Giuseppe II d'Austria e quella di Napoleone, eppure sono vissuti nello stesso periodo.
Anche l'arte si toglie la parrucca e vuole mostrare la sua «testa» al naturale. Uno degli esempi più facili per spiegare questa linea di tendenza è, nel suo piccolo, il Minuetto. Questa danza è inserita in genere come penultimo movimento di una Sinfonia: passa appunto dallo stile galante, innocuo e gentile, a uno stile drammatico già con Mozart e Haydn. Poi sparisce e viene sostituita dallo Scherzo. Già nelle ultime composizioni di Mozart e nel periodo finale di Haydn (un autore che entra, sia pur di poco, nel XIX secolo) appare chiaro che non è più ragionevole restare nel territorio accademico: ne risulta un maggior carico di espressività, di sentimento, di personalità, di drammaticità. Le due anime dell'estremo Settecento cominciano a combattersi proprio nei contenuti. E ciò accade quando i migliori compositori cominciano a uscire dallo stato semiservile in cui erano generalmente confinati.
Mozart lasciò Salisburgo per tentare la fortuna, da solo, a Vienna, Haydn fece utilissimi viaggi fuori dalla tutela degli Esterhazy. Sarebbe ingiusto dire che questi fatti sono stati puramente casuali. Come non fu casuale l'adesione di Mozart alla massoneria, centro di riunione di molte libere intelligenze e neppure vietata a personaggi potenti o aristocratici.
Tumulto, impeto, tempesta sono il contrario della Ragione e dell'Ordine: chi rappresenta questi sentimenti personali o atmosferici è dunque fuori dai templi della ragione e dall'ordine. Non vale la logica, non vale la riflessione, proprio perché esse sono diventate odiose, limitative, oppressive. Werther, si disse, non ragiona, si lascia trascinare dall'impeto, ciò che è vero fino a un certo punto, perché possiamo anche ammettere che il suo voler la morte è frutto di una consapevolezza. Ma quale? Quella che le regole della vita si scontrano in modo tragico con le esigenze del cuore.
Eroi, ribelli e, per estensione, fuorilegge o banditi popolano la storia letteraria e musicale dell'Ottocento. E' la conseguenza logica di quei rifiuti. Per contrasto le donne sono vittime, angeli, esseri puri e addirittura spiriti che vivono in altri mondi presumibilmente migliori o per lo meno non toccati dai guasti della società contemporanea. E poi ci sono uomini, come Lord Byron o (diciamolo pure) Giuseppe Garibaldi che interpretano romanticamente la lotta armata per la libertà di questo o quel popolo.
Anche i musicisti della seconda metà del Settecento cercano di portare avanti delle riforme formali e sostanziali; gli autori drammatici, come per esempio Auguste Caron de Beaumarchais, ribaltano i rapporti fra potenti e servi (vedi Le mariage de Figaro) e vengono ove possibile posti all'indice; Voltaire fece la conoscenza delle prigioni; le dediche ai potenti, ai regnanti, certamente sincere all'inizio, diventeranno esempi di puro stato di necessità.
Un esempio di ribellione alle leggi della ragione ci è stato offerto, in tempi lontani, dal mito di Orfeo e Euridice. Quando Orfeo compie la trasgressione, guarda l'amata moglie e quindi la perde, sceglie la passione, non la logica. Pateticamente Glück si impossessa del mito e fa di Orfeo un eroe negativo. Non fu il primo (pensiamo a Monteverdi) né il solo; ma è stato quello che più di ogni altro ha capito la forza dirompente di quella scelta. Che farò senza Euridice? è il momento in cui l'umano prevale e fa la differenza.
Nelle Nozze di Figaro, senza sottolineare troppo il «politico» di Beaumarchais, Wolfgang Amadeus Mozart e il suo librettista Lorenzo Da Ponte sono dalla parte di Figaro, il servo, che si oppone al nefando jus primae noctis del Conte di Almaviva. Non solo: tutta la società, nobile e plebea, compresa la contessa Rosina, fa muro contro la prepotenza. Il padrone, sconfitto, deve chiedere perdono. Questa storia è importantissima e la si deve leggere come una vera dichiarazione del diritto dell'uomo a non essere più vittima di leggi ingiuste. La musica va in sintonia, con momenti sferzanti, con chiare allusioni, con alcune inedite violenze espressive.
Restando a Mozart, il suo Don Giovanni è in fin dei conti un bell'esempio di anticipazione romantica: il grande libertino è vìsto nel momento della sconfitta, è braccato da tutti, nobili e servi, è costretto alla resa e a finire all'inferno. La sua strapotenza è diventata intollerabile. Anche qui la storia è vecchia, la morale è eterna: ma Giovanni si comporta come un bandito, è violento in ogni espressione, nei dialoghi come nei pezzi cantati, è un personaggio «nero». Gli altri si esprimono come la loro classe sociale prevede e non è senza significato che le arie di Don Ottavio siano ridicolmente galanti, quasi fossero espressioni di un giovanetto viziato. Le donne (Anna ed Elvira) sono molto più autentiche nei loro slanci amorosi e nei loro palpiti di vendetta.
Alla fine, quando il Grande Seduttore è stato mandato in mezzo alle fiamme dell'inferno dalla vindice mano del Commendatore (sua vittima, ucciso in duello dopo il tentativo di seduzione di Donna Anna), tutti cantano contenti un finale che esprime la gioia di chi si è liberato da un mostro, ovvero da un tiranno, ovvero dal Potere. Ma in più c'è la sfrenatezza della sessualità, che travolge un po' tutti: addio perbenismi, barriere morali, impeto passione e tempesta dominano la scena e provocano comportamenti ben fuori dalla ragione. Gli inviti degli intellettuali e degli artisti ai reggitori degli stati prima si legavano all'illuminismo. Poi fu chiaro che non bastava e si gridò «all'armi!».
L'Ottocento è un secolo bellicoso. Ci dà il senso di un furore che, malgrado antiche e nuove repressioni, ha una forza incontenibile. Ma è anche il secolo in cui si sviluppa potentemente l'industria, e che quindi concede agli uomini possibilità imprenditoriali senza precedenti. L'ingegno viene valorizzato, ogni settore della società cambia velocemente. Si arriverà a credere che il progresso della scienza produrrá tali benefici da rendere la terra un paradiso, in un'ansia di laicìtà che porterà perfino alla cancellazione del potere temporale del Papa. Forniti di mezzi nuovi e più moderni gli uomini si agitano per ottenere quei beni e quei diritti che sono lo specchio perfetto della giustizia. Non è stato un percorso facile e lineare, e neppure a tutt'oggi è concluso.
Il progresso ha dato un maggiore respiro anche alla musica. Basta pensare all'importanza del pianoforte, che diventa un protagonista proprio alla vigilia dell'Ottocento e cancella tutte le esili tastiere del passato. Col pianoforte emerge la figura del solista, del grande interprete, e contemporaneamente si esalta l'arte del violino, che era già comunque uno strumento leader. Arricchita e liberata da formule limitative, l'orchestra si fa sempre più grande e brillante, ricca di timbri e colori. Alla fine del secolo sarà praticamente più che raddoppiata e diventerá una macchina imponente, con una capacità di suono tale da terrorizzare i benpensanti. Caricature d'epoca hanno messo in chiaro queste paure degli orecchi troppo sensibili: Berlioz e Wagner sono dei cannonieri, addio musica celeste.
Carte scompigliate, dunque, già alla fine del Settecento, soprassalti per riportare indietro le lancette dell'orologio della storia, faticose avanzate e poi una valanga di idee che circolano, di cospirazioni che producono barricate, di slanci libertari fino all'anarchia. Confini che si spostano, lingue che si impongono, insofferenze che si scatenano, ma forse nessuno pensava, allora, che i particolarismi e i nazionalismi si sarebbero esasperati al punto da riproporre le leggi della giungla, da far rinascere crudeltà e spietatezze senza confronto. E che in parallelo saltassero tutte le serrature, e l'arte andasse verso totali disgregazioni formali.

Mario Pasi ("La Musica Romantica", Jaca Book, 1993)

sabato, giugno 19, 2010

Maurice Ravel: Concerto in sol

Il progetto del Concerto in sol per pianoforte e orchestra nacque in vista della tournée negli Stati Uniti e nel Canada che Ravel fece nei primi quattro mesi del 1928 su invito di Germaine Schmitz. Il concerto avrebbe dovuto servire alle esibizioni pianistiche dell'autore, che finì per ripiegare sulla più facile Sonatine, sull'accompagnamento della Sonate per violino e pianoforte e delle composizioni vocali. Il Concerto in re per la mano sinistra fu invece commissionato a Ravel da Paul Wittgenstein, fratello del filosofo: a Wittgenstein era stato amputato il braccio destro, in seguito ad una ferita di guerra.
Prima di partire per gli Stati Uniti, Ravel fu impegnato nel completamento della Sonate per violino e pianoforte e così il Concerto in sol subì un rinvio: il progetto, inizialmente, era quello di un divertimento, anziché di un concerto, e dal divertimento derivano, secondo Gil-Marchex, il primo e l'ultimo movimento. Di ritorno dalla tournée americana, Ravel lavorò contemporaneamente ai due concerti: finì prima il Concerto in re per la mano sinistra, che era stato iniziato per secondo: la prima esecuzione fu data a Vienna, il 27 novembre 1931, da Paul Wittgenstein, il quale però ne suonava una versione semplificata. Successivamente, Ravel portò a termine il Concerto in sol, che egli stesso diresse avendo affidato la parte solistica a Marguerite Long, eccellente interprete del Tombeau de Couperin: la prima esecuzione riscosse enorme successo il 14 gennaio 1932 alla Salle Pleyel. In seguito, Ravel e Marguerite Long intrapresero, col Concerto in sol, una fortunata tournée europea. Dell'esecuzione esiste anche un'incisione discografica.
La fortuna di questo concerto, penultimo lavoro di Ravel prima di Don Quichotte à Dulcinée, confermò i successi riportati dal musicista negli Stati Uniti. Il pubblico, addirittura la folla aveva decretato trionfi alla Valse diretta dall'autore, a Los Angeles, e Ravel si era sottratto a fatica agli ammiratori; quando Kussevitzky, durante un concerto di musiche raveliane, indicò il musicista al pubblico, «un vero delirio nella sala», ha narrato Hélène Jourdan-Morhange. «Le donne gli lanciarono fiori tolti dalla scollatura, gli uomini urlavano o fischiavano secondo l'uso aniericano, i programmi volteggiavano per l'aria; una vera e propria ovazione, insomma, durata più di dieci minuti ». E stando al racconto della Jourdan-Morhange, fedele interprete di Ravel e sua attendibile biografa, il duo Szigeti-Ravel nella Sonate violinistica ottenne accoglienze calorose.
In casa della cantante Eva Gauthier, ebbe luogo l'incontro di Ravel con Gershwin, «celebre compositore di musica síncopata», sono parole della Jourdan-Morhange, «della cui Rapsodia in blu (una delle prime composizioni introdotte in Francia dai complessi di strumenti negri) Ravel era sincero ammiratore». In quell'occasione, anzi, Ravel rifiutò di dare lezioni a Gershwín, con la celebre frase: «perdereste la grande spontaneità della vostra melodia per fare del cattivo Ravel».
Questi episodi offrono la prospettiva adatta alla nascita dei due concerti pianistici: la popolarità di Ravel aveva ricevuto una sorta di consacrazione fuori dell'ambiente parigino nel quale ormai il compositore poteva contare soltanto su qualche amico fedele, ma non sul rispetto delle avanguardie. La generazione più giovane gli tributava magari rispetto, ma non simpatia; tanto meno esistevano, al di fuori di qualche eccezione poco importante, musicisti che potevano in qualche modo rappresentare una scuola raveliana. Logico che le accoglienze fervide del vasto pubblico americano procurassero a Ravel molte soddisfazioni. In un certo senso, il manierismo della Valse e della Sonate restituiva all'autore quel successo che l'ambiente parigino non gli riconosceva più: al ritorno dagli Stati Uniti, il Boléro consentì a Ravel di mettere a segno un altro colpo favorevole per la sua popolarità.
Nel 1929, Ciboure, Saint-Jean-de-Luz, Biarritz, i luoghi prediletti da Ravel, festeggiarono il compositore con concerti, danze popolari, partite di pelota. A Ciboure, nella città natale, si battezzò quai Maurice Ravel l'ex rue du Quai. Nel 1931, Ravel venne laureato honoris causa a Oxford.
In questo clima, il compositore fu intervistato dal corrispondente del «Daily Telegraph» in merito ai due concerti pianistici. «E' stata - egli dichiarò un'esperienza interessante concepire e realizzare simultaneamente i due Concerti. Il primo, nel quale figurerò come interprete, è un concerto nel senso più esatto del termine ed è scritto nello spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saens. Penso, in realtà, che la musica di un Concerto può essere gaia e brillante, e che non è necessario che essa pretenda alla profondità o che si prefigga effetti drammatici. Si è detto di alcuni grandi musicisti classici che i loro concerti, sono concepiti non , ma , il pianoforte. Per parte mia, considero perfettamente giustificato tale giudizio. Avevo l'intenzione, inizialmente, di intitolare Divertissement il mio lavoro, poi ho pensato che non ce n'era bisogno, considerando che il titolo Concerto è abbastanza esplicito per quanto riguarda il carattere della musica dalla quale è formato. Da un certo punto di vista, il mio Concerto presenta qualche rapporto con la mia Sonate violinistica. Esso contiene qualche elemento preso dal jazz, ma con moderazíone».
Il Concerto in sol è stato analizzato a sufficienza, in particolare da uno specialista della musica pianistica raveliana come Gil-Marchex. Inoltre, Roland-Manuel ha ricordato che Ravel dichiarò a Marguerite Long di river scritto penosamente, due battute per due battute, l'Adagio assai centrale, avendo per modello il Quintetto col clarinetto di Mozart. Riassumendo, i modelli confessati furono Mozart e Saint-Saens, unitamente ad uno spolvero di jazz, nel processo di composizione che Gil-Marchex ha così indicato: prima il piano dell'opera, poi le modulazioni, il sistema armonico e infine i temi.
Il primo movimento, Allegramente, del Concerto in sol è stato tacciato di scarsa organicità. Ma ciò non è giusto, se non altro per la simmetria abbastanza pronunciata che lo contrassegna, e che rispetta il modello classico della forma sonata, con l'esposizione, lo sviluppo e la riesposizione rituali. Il richiamo a Mozart, invece, potrebbe essere giustificato dalle numerose idee musicali, principali ed accessorie, che sono incluse in questo movimento: dal tema dell'ottavino che si avvia, come una danza rustica, una battuta e un quarto dopo il colpo di frusta iniziale, alla ripresa della tromba che conduce alla seconda idea esposta dal pianoforte, concertante fino a quel punto, poi alla terza idea e alla quarta idea sempre pianistiche: segue una serie di passaggi virtuosistici, caratteristicamente raveliani, divisi tra le due mani del solista, fino alla prima cadenza che termina col colpo di gran cassa. Il virtuosismo è interrotto dall'Andante con il glissando a piacere dell'arpa, poi dalla ripresa del tempo con i glissandi degli archi, ancora dall'Andante, con le scale e gli arpeggi di ottava del fagotto, del flauto e dell'oboe, infine dalla cadenza pianistica della mano sinistra con la concatenazione di trilli alla destra; alla fine esso riprende con una marcata accentuazione jazz. Questa si farà particolarmente sensibile nel Presto conclusivo, tre minuti nei quali il manierismo raveliano si connette con le più rischiose concessioni al gusto per l'art nègre noto a Ravel fìn dai tempi in cui frequentava i locali notturni, Le boeuf sur le toit e Le grand écart, dove suonava Wiéner, A pianista jazz, che deliziava Cocteau e i suoi amici. I glissandi di trombone, le fanfare di corni e trombe, l'andirivieni del pianoforte segnano uno dei tanti, forse il più sgradevole cedimento di Ravel all'estetica novecentista francese.
Al centro dei due episodi è l'Adagio assai, nel quale il pianoforte intona una lunga melodia caratterizzata dal contrasto fra il ritmo del canto e quello dell'accompagnamento: il primo in tre quarti, il secondo divisibile binariamente in due gruppi di tre ottavi. La forma è quella del Lied tripartito: la melodia, cui non sono estranee le clausole delle immaginarie pavane di Ravel, appare nel lungo monologo del pianoforte solo, per trentadue battute. Un episodio centrale retrocede il pianoforte al ruolo di strumento concertante nei confronti dei legni, con sestine di semicrome, fìno a quando una dissonanza in fortissimo, un accordo di sol diesis minore contro una nota fondamentale di sol naturale, non si risolve in mi maggiore, la tonalità d'inizio: la figurazione pianistica concertante di sestine si trasforma in gruppi di otto semicrome, mentre il tema d'apertura è intonato dal corno inglese che si sofferma, verso la fìne, in un lungo trillo; la cadenza conclusiva nasce dal flauto e, discendendo all'oboe, al corno inglese, alle viole e al fagotto, spira nel corso di un trillo pianistico fìnale.
Questo episodio, nella sua assoluta semplicità, nel ricalco di sigle raveliane ben note, appartiene ad una sfera completamente diversa rispetto agli altri movimenti del Concerto in sol: a quella della Sonata per violino e violoncello, della Passacaglia nel Trio, dell'epilogo nelle Valse nobles et sentimentales, dove l'incontro tra artificio e lirismo costituisce il motivo più profondo dell'arte di Ravel.

Claudio Casini (da "Maurice Ravel", Edizioni Studio Tesi, 1990)

sabato, giugno 12, 2010

Mendelssohn: il diritto di dispensare diletto

Il 3 febbraio del 1809 nasceva il compositore che Wagner derise per la sua ricerca esasperata della perfezione formale

Per quanto possa sembrare paradossale, la musicologia ha cominciato a rendere giustizia a Felix Mendelssohn Bartholdy assai tardi: data da poco più d'un trentennio la sistematica revisione dei pregiudizi e fraintendimenti che ne avevano pesantemente condizionato la recezione. All'inizio la parata dei luoghi comuni estetici si incentrò sul cliché del "Mozart dell'Ottocento", dell'artista dai molti talenti (direttore brillante, pianista virtuoso, ma anche pittore raffinatissimo e gran poliglotta), autore di musica serena e piacevolissima. Poco dopo la morte precoce, avvenuta nel 1847, il vento mutò. Entrò in scena Richard Wagner, che non poteva perdonare al rivale, oltre al fatto di essere ebreo, sia la condizione agiata sia, soprattutto, la tecnica impeccabile (di fronte alla quale, da quel quasi autodidatta che era, si sentiva un parvenu: quanti si saranno accorti, quando divenne il protagonista del XIX secolo, dei suoi plagi involontari - vere Fehlleistungen freudiane - dall'oratorio Paulus nella prima scena del Lohengrin e dalla ouverture La bella Melusina addirittura nel Preludio dell'Oro del Reno?). Come denigratore Wagner dimostrò una perfida abilità, escogitando nel pamphlet Il giudaismo in musica (1850) formulazioni destinate al successo: Mendelssohn, «il maestro delle piccole cose», preoccupato solo «di esprimere in forma interessante un contenuto pressoché inesistente». Erano enunciate come se fossero ovvietà; caddero in un terreno fertile, furono ripetute sempre più spesso, divennero concetti regolativi. Trent'anni dopo, persino in Inghiltena - la seconda patria di Mendelssohn, che gli aveva tributato in vita i maggiori trionfi - la giovane generazione, già stregata dal Musikdrama, lo giudicava apertamente un sopravvalutato. Con il dilagare dell'idea che vera può essere solo la musica in grado di attingere la sfera del sublime e del tragico, il compositore reo di costituzionale estraneità al gigantismo fonico e all'ideologia dell'assalto al cielo finì con l'essere sempre più biasimato per ciò che non era, e sempre meno ringraziato per ciò che realmente era.
Non c'è da stupirsi se intorno alla svolta di secolo, quando pochi titoli musicali ebbero più fortuna delle Romanze senza parole, il loro autore appariva adatto, come scrisse Ralph W. Wood, soprattutto alla «vasta classe inferiore dei musicofili dalle opinioni basate sul dilettantismo e sulla superficialità di gusto». Sconcertante, in fin dei conti, non è il fatto che la prima metà del Novecento, culminata nel dodicennio nazista e nella messa al bando del compositore, abbia prodotto molte variazioni su questo basso ostinato, sconcertante è semmai che anche nel dopoguerra l'intreccio perverso di pregiudizi estetici e di ostilità mascherata da oggettività abbia continuato a generare frutti imbarazzanti tra i musicologi, non solo di lingua tedesca, e non esclusi i maggiori (nella sua autorevole Musikgeschichte im Überblick Jacques Handschin liquida Mendelssohn in 15 righe zeppe di sarcasmi; a Gerald Abraham si deve un quasi ridicolo biasimo della Sinfonia Lobgesang per la sua non più che esteriore somiglianza con la Nona beethoveniana). A queste difficoltà diede espressione il titolo, impensabile per Bach o Brahms, di una raccolta di saggi uscita nel 1974 a cura di Carl Dahlhaus: Il problema Mendelssohn. Causa ed effetto vi appaiono curiosamente rovesciati: del problema che alcuni avevano, o avevano avuto con la sua musica, si era fatto un problema dell'autore stesso.
Oggi il panorama è mutato; una nuova immagine di Mendelssohn, diversa, da quella promessa sin nel titolo dalla non irreprensibile monografia di Eric Wemer (1963), è emersa grazie alle ricerche degli ultimi decenni. I risultati sono talora sorprendenti. Poco è rimasto del quadro stucchevole del Felix di nome e di fatto, amato dagli dei e sulla terra da Goethe in persona, cui tutto era riuscito facile: dietro quelle sue maniere da gentiluomo vittoriano, discreto e affabile, si nascondeva in realtà una natura tormentata, autocritica sino all'esasperazione. (Tormentata, aggiungeremo, anche sul piano affettivo: un'attenta lettura dei documenti biografici ha permesso di precisare i contorni del morboso rapporto che legò Felix alla sorella Fanny, anch'essa compositrice di grande talento.) L'analisi degli abbozzi e del processo compositivo ha messo in luce nel presunto autore di musica facile e superficiale una dura lotta con la materia sonora, un'estenuante ricerca di perfezione. Mendelssohn impiegò tredici anni per terminare la Sinfonia Scozzese, dodici per dare alle stampe la Walpurgisnacht, e non riuscì mai a considerare compiuta la Sinfonia Italiana. Non era solo nevrosi, ma un'acuta percezione della drammatica cesura storica prodotta dalla fine dell'età aurea di Goethe e Beethoven. Come ebbe a dire all'amico Johann Christian Lobe, in conversazioni da questi raccolte ed edite solo nel 1853, era convinto che ormai non vi fossero più nuovi continenti musicali da colonizzare: «Sono stati già scoperti tutti da un pezzo. Vie nuove! Demone tortuoso per ogni artista che vi si abbandoni! Mai nessun artista ha realmente percorso vie nuove». Parole, che, pubblicate a breve distanza dal profetico articolo Vie nuove con cui Schumann aveva rivelato al mondo il genio del giovane e sconosciuto Johannes Brahms, ne appaiono quasi una critica a futura memoria. Vero è che aspetti "progressivi" e complessità, anche se non nella misura di Brahms, non mancano affatto nelle opere di MendeIssohn, guarda caso soprattutto in quelle bistrattate: si pensi alle arditezze annoniche della Walpurgisnacht, agli esperimenti formali nei quartetti per archi ispirati all'ultimo Beethoven, all'espansione abnorme della forma sonata in Meeresstille und glückliche Fahrt. Ma il riferimento all'altro grande amburghese torna istruttivo. Il senso della storia avvertibile nella produzione di Mendelssohn a partire dal 1830 nasce dalla stessa esigenza che sarà di Brahms di acquisire nello studio della musica antica conoscenze feconde per proseguire nel proprio cammino. Lungi dall'esaurirsi in sterili manierismi, la scuola di Palestrina e dei maestri barocchi aiutò Mendelssohn ad uscire dalla crisi di identità artistica in cui era entrato all'indomani dei capolavori adolescenziali, l'Ottetto per archi e l'ouverture per Il sogno di una notte d'estate. Ricominciare a far musica a partire dal passato gli consentì di venire a capo del dilemma della sua generazione: come evitare da un lato le secche dell'epigonismo, dall'altro il rischio del caos formale incombente su chiunque, dopo Beethoven, ambiva ad un rinnovamento. Da questo punto di vista, oggi che l'interesse per la musica antica è cresciuto a dismisura, Mendelssohn appare a buon diritto un precursore, ma profondamente attuale appare anche, nella grande varietà di registri stilistici da lui perseguita, il bisogno di stabilire un continuo dialogo con la diversità, da cui discende la capacità assertiva priva di visceralità e di polemica che caratterizza in modo inconfondibile la sua opera. Ostile alla metafisica, Mendelssohn rivendica, come faranno nel nuovo secolo Debussy e Ravel, il diritto tutt'altro che banale di dispensare diletto, di intrattenere in un superiore gioco dell'intelletto svolto all'insegna del più alto rigore formale.

Maurizio Giani ("il giornale della musica", anno XXV, febbraio 2009)

sabato, giugno 05, 2010

Jean Echenoz: la fine di Ravel

Ad ogni modo è sempre stato cagionevole. Tra peritonite e tubercolosi, spagnola e bronchite cronica, il suo corpo affaticato non è mai stato robusto, anche se sta dritto come un fuso strizzato in abiti adeguatamente attillati. E neppure la sua mente, sommersa dalla tristezza e dalla noia benché lui non lo dia a vedere, e incapace di abbandonarsi anche un attimo a un sonno che ha divieto di soggiorno. Ma adesso è tutta un'altra cosa, non riesce a trovare il pettine posato lì sulla toeletta, non sa più annodarsi la cravatta da solo né fissare, se non lo aiutano, i gemelli.
Cercano di distrarlo, di portarlo finché possibile ai concerti, ma lui se ne sta come assente in poltrona, immobile e quieto quasi fosse altrove, già morto. Quando Toscanini torna a Parigi, Ravel, sebbene riluttante, accetta di andarlo a sentire dirigere una sua opera: sembra commosso quando orchestra e direttore vengono acclamati ma, rintanato in fondo al palco, rifiuta di andare a congratularsi con lui. Il fatto che non voglia andarci e risolvere così, mostrando il suo compiacimento, la vecchia disputa sul Bolero, riempie tutti di rammarico e stupore: No, dice, non ha mai risposto alla mia lettera. Poi, all'uscita, una coppia gli si avvicina. I loro volti gli dicono qualcosa, già ma cosa? Caro maestro, fanno, si ricorda di quando, qualche anno fa, suonava Daphnis sul nostro pianoforte? Sì, sì, sì, dice Ravel con voce atona, che non fa eco al pensiero, senza riuscire a identificarli.
Sono pochi ormai quelli che riconosce, ma si rende conto di tutto. Capisce benissimo che i suoi movimenti non vanno a segno, che prende un coltello per la lama, che avvicina alle labbra la sigaretta dalla parte accesa per poi subito correggersi - no, mormora allora come a se stesso, non così. Capisce benissimo che le unghie non si tagliano in quel modo, che gli occhiali non si infilano in quel verso e, quando poi riesce a inforcarli nel tentativo di leggere «Le Populaire», che i muscoli degli occhi non gli permettono neppure più di seguire le righe. Vittima di quel declino e suo spettatore attento, sepolto vivo in un corpo che non risponde più all'intelligenza, vede tutto distintamente, e contempla un estraneo vivere in lui.
E' tragico però quel che mi succede, dice a Marguerite. Porti pazienza, gli risponde lei invariabilmente, passerà, bisogna solo aspettare. E poi prenda Verdi, ha dovuto aspettare di avere ottant'anni per comporre il Falstaff. Ma poiché lui non smette di affliggersi gli fa notare che, se anche non può più produrre niente, la sua opera c'è. La sua opera è compiuta, gli ripete, è vasta e stupenda. Ravel non le lascia finire la frase: Ma come fa a dire una cosa simile? la interrompe disperatamente. Io non ho scritto nulla, non lascio nulla, non ho detto nulla di quel che volevo dire.
E' solo nella sua casa di Montfort, e non si fa illusioni. E' sempre stato solo, ma sospeso alla musica. Ora non ne può più di questa vita inutile, non serve più a nulla, è prigioniero di se stesso - e invano si ribella. Sapendo che è finita, tenta di organizzare la solitudine. Ogni giorno, dopo aver percorso a piedi in lungo e in largo la foresta di Rambouillet, che malgrado le sue condizioni conosce ancora a memoria, passa ore e ore seduto accanto al telefono nell'attesa, nella speranza che Edouard, spesso via per affari, chiami, fumando senza tregua benché gli sia proibito, alzandosi ogni tanto per svuotare il posacenere - un posacenere pieno è triste come un letto sfatto. Per fortuna, ogni giorno alle cinque Jacques de Zogheb viene a fargli visita. Non appena Zogheb suona, Ravel si precipita alla porta e cerca di aprirla. Ma in lui, ormai, nulla più funziona: le sue dita torpide scuotono ritmicamente il saliscendi in ogni direzione e il catenaccio in quella sbagliata, finché si rassegna a convocare la governante. Attraverso la porta Zogheb sente le imprecazioni sempre più furiose di Ravel e le strida desolate della signora Révelot, sinché finalmente il battente si apre.
Zogheb prende sottobraccio Ravel e insieme si trasferiscono nel salotto rosso e grigio. Zogheb prende posto sul divano mentre Ravel si allunga su una bergère accanto alla finestra. E ogni giorno il dialogo è lo stesso. Come va? chiede Zogheb. Male, dice Ravel con voce sommessa, sempre uguale. E poiché l'altro si informa se abbia dormito, Ravel fa segno di no con la testa. L'appetito?, prosegue Zogheb. Quello sì, dice remotamente Ravel, non c'è male. E ha lavorato un po'? Ravel scuote di nuovo la testa, poi le lacrime gli velano lo sguardo. Perché è successo proprio a me?, dice. Perché? Zogheb non risponde. Poi, rompendo il silenzio: Però avevo scritto delle belle cose, vero? Zogheb non risponde. Si trattiene con Ravel fino alle otto e l'indomani, alle cinque, torna a porgli le stesse domande. E così ogni giorno finché la notte scende e pone il problema del sonno.
Tecnica n. 4: Bromuro di potassio, Laudano, Veronal, Nembutal, Prominal, Soneryl e altri barbiturici.
Obiezione: dopo aver fatto egregiamente il loro dovere, gli ipnotici sono ora di scarso aiuto, in realtà non servono più a granché. Alle prime luci del giorno Ravel finisce comunque per assopirsi un po'. Ma questa tregua non è che un gramo sonno, turbato da sogni ostili che non gli concedono riposo: Ravel deve affrontare mostri o, quel che è peggio, fuggirli. Ed è nel momento più aspro dello scontro che di colpo si sveglia, distrutto, ogni volta più stanco della sera prima, neanche più di cattivo umore, senza più umore.
Ce n'è voluta ma, alla presenza di Ravel, danno infine il Concerto per la mano sinistra nella sua redazione autentica, che Jacques Février ha scrostato dagli abbellimenti di Wittgenstein. Durante il concerto Ravel si gira per l'ennesima volta verso la sua vicina e le chiede se ciò che stanno ascoltando l'ha davvero scritto lui, anche se stavolta ha un'attenuante: in questa forma non l'aveva mai ascoltato. Ma quando, tre mesi dopo, assiste a un altro concerto dedicato alle sue opere per pianoforte, sembra non rendersi neppure conto che è lui che acclamano alla fine. Forse è convinto che le ovazioni siano destinate al collega italiano che gli siede accanto, perché si volta e gli indirizza un meccanico sorriso, con uno sguardo vuoto da far paura. Poi lo portano a cena e lui va dietro agli altri senza una parola, fantasma come al solito elegante, tranne che la signora Révelot ha pensato bene di spillargli l'indirizzo a un risvolto della giacca, in caso di necessità.
E' chiaro che bisogna agire e gli amici non fanno che tenere consiglio. Invano Ida Rubinstein batte Inghilterra, Svizzera, Germania per consultare degli specialisti: tutti si dichiarano perplessi. Dei due pionieri della chirurgia cerebrale interpellati a Parigi, il primo sconsiglia di intervenire. L'altro dice in sostanza che neppure lui tenterebbe nulla se si trattasse del primo venuto: basterebbe lasciare le cose come stanno, a costo di vederlo perdersi indefinitamente. Il problema è che si tratta di Ravel. E a questo punto tanto vale fare qualcosa. Se l'intervento riesce, si può presumere che recuperi le sue facoltà, che abbia davanti a sé altri anni di creazione. Nonostante l'esito degli esami, che lasciano sempre un margine di dubbio, non si può scartare l'ipotesi di un tumore, e in questa prospettiva accetta di operare. Clovis Vincent è un neurochirurgo illustre, il suo punto di vista si impone, l'appuntamento è fissato per due giorni dopo.
Poiché è necessario radergli il cranio prima dell'operazione, Edouard e gli altri cercano di rassicurarlo: vedendo i suoi capelli cadere a terra, Ravel supplica infatti che lo riportino a casa. Provano a convincerlo che si tratta solo di una radiografia, di accertamenti più approfonditi, ma Ravel non crede a una parola. No, no, dice sommesso, lo so benissimo che mi tagliano la zucca. E poiché le bende gli avvolgono la testa come un turbante bianco sembra rassegnarsi, e quasi sorridere per primo di questa imprevista somiglianza con Lawrence d'Arabia.
Procedendo a mani nude, gli segano la scatola cranica per isolarne il lembo frontale destro, che viene poi asportato, e aprono trasversalmente la dura madre per esaminare cosa succede all'interno. Scoprono un cervello lievemente collassato a sinistra ma tutto sommato normale, senza segni di particolare rammollimento, anche se le circonvoluzioni, neppure loro troppo atrofizzate, sono separate da edema. Non rinvenendo alcun tumore, incidono il corno ventricolare perché fuoriesca un po' di liquido: questo infatti appare solo se si fa pressione sulla zona considerata. Iniettano più volte acqua confidando in una dilatazione: il cervello si gonfia, ma dopo un attimo si sgonfia, l'atrofia cerebrale sembra irreversibile, insomma siamo al punto di partenza. Rinunciano, chiudono il foro di drenaggio poi, lasciando aperta la dura madre, riposizionano il lembo frontale e suturano con filo scuro.
Dopo l'operazione, giacché Ravel riprende per un istante conoscenza, sono convinti che ce l'abbia fatta. Si alimenta un po', reclama la presenza di Edouard poi chiede di vedere una signora. Gli chiedono chi è questa signora, suggeriscono nomi che stenta a pronunciare. Ida Rubinstein? Fa cenno di no, con un gesto della mano in direzione del suolo. Hélène Jourdan-Morhange? No, falui. Marguerite Long? Ma no, risponde ripetendo il gesto. Più giù, dice alla fine. Più giù. Finalmente è chiaro, fanno venire la signora Révelot. Si riaddormenta, dieci giorni dopo muore, gli mettono addosso il frac, gilet bianco, collo rigido ad aletta, papillon bianco, guanti chiari, non lascia testamento, non restano né immagini filmate, né registrazioni della sua voce.

Jean Echenoz (da "Ravel", Adelphi, 2007)