Si può facilmente capire il disgusto delle generazioni, diciamo cosi, moderne per lo stile galante, per il rococò, per tutto ci ó che ricordava la vita e il pensiero della classe dominante. Tutto ciò veniva considerato ridicolo e stupido: insomma, era giunto il tempo di togliersi la parrucca, di abolire ciprie e nei, polpe e scarpine di vernice. In fondo al cuore degli uomini nuovi cresceva l'idea di una vita più naturale, di una differenziazione realistica e anche di una maggiore comodità. I ritratti dei musicisti ci mostrano subito il cambiamento radicale dell'aspetto e cosi anche quelli dei potenti. C'è una bella differenza fra l'immagine di Giuseppe II d'Austria e quella di Napoleone, eppure sono vissuti nello stesso periodo.
Anche l'arte si toglie la parrucca e vuole mostrare la sua «testa» al naturale. Uno degli esempi più facili per spiegare questa linea di tendenza è, nel suo piccolo, il Minuetto. Questa danza è inserita in genere come penultimo movimento di una Sinfonia: passa appunto dallo stile galante, innocuo e gentile, a uno stile drammatico già con Mozart e Haydn. Poi sparisce e viene sostituita dallo Scherzo. Già nelle ultime composizioni di Mozart e nel periodo finale di Haydn (un autore che entra, sia pur di poco, nel XIX secolo) appare chiaro che non è più ragionevole restare nel territorio accademico: ne risulta un maggior carico di espressività, di sentimento, di personalità, di drammaticità. Le due anime dell'estremo Settecento cominciano a combattersi proprio nei contenuti. E ciò accade quando i migliori compositori cominciano a uscire dallo stato semiservile in cui erano generalmente confinati.
Mozart lasciò Salisburgo per tentare la fortuna, da solo, a Vienna, Haydn fece utilissimi viaggi fuori dalla tutela degli Esterhazy. Sarebbe ingiusto dire che questi fatti sono stati puramente casuali. Come non fu casuale l'adesione di Mozart alla massoneria, centro di riunione di molte libere intelligenze e neppure vietata a personaggi potenti o aristocratici.
Tumulto, impeto, tempesta sono il contrario della Ragione e dell'Ordine: chi rappresenta questi sentimenti personali o atmosferici è dunque fuori dai templi della ragione e dall'ordine. Non vale la logica, non vale la riflessione, proprio perché esse sono diventate odiose, limitative, oppressive. Werther, si disse, non ragiona, si lascia trascinare dall'impeto, ciò che è vero fino a un certo punto, perché possiamo anche ammettere che il suo voler la morte è frutto di una consapevolezza. Ma quale? Quella che le regole della vita si scontrano in modo tragico con le esigenze del cuore.
Eroi, ribelli e, per estensione, fuorilegge o banditi popolano la storia letteraria e musicale dell'Ottocento. E' la conseguenza logica di quei rifiuti. Per contrasto le donne sono vittime, angeli, esseri puri e addirittura spiriti che vivono in altri mondi presumibilmente migliori o per lo meno non toccati dai guasti della società contemporanea. E poi ci sono uomini, come Lord Byron o (diciamolo pure) Giuseppe Garibaldi che interpretano romanticamente la lotta armata per la libertà di questo o quel popolo.
Anche i musicisti della seconda metà del Settecento cercano di portare avanti delle riforme formali e sostanziali; gli autori drammatici, come per esempio Auguste Caron de Beaumarchais, ribaltano i rapporti fra potenti e servi (vedi Le mariage de Figaro) e vengono ove possibile posti all'indice; Voltaire fece la conoscenza delle prigioni; le dediche ai potenti, ai regnanti, certamente sincere all'inizio, diventeranno esempi di puro stato di necessità.
Un esempio di ribellione alle leggi della ragione ci è stato offerto, in tempi lontani, dal mito di Orfeo e Euridice. Quando Orfeo compie la trasgressione, guarda l'amata moglie e quindi la perde, sceglie la passione, non la logica. Pateticamente Glück si impossessa del mito e fa di Orfeo un eroe negativo. Non fu il primo (pensiamo a Monteverdi) né il solo; ma è stato quello che più di ogni altro ha capito la forza dirompente di quella scelta. Che farò senza Euridice? è il momento in cui l'umano prevale e fa la differenza.
Nelle Nozze di Figaro, senza sottolineare troppo il «politico» di Beaumarchais, Wolfgang Amadeus Mozart e il suo librettista Lorenzo Da Ponte sono dalla parte di Figaro, il servo, che si oppone al nefando jus primae noctis del Conte di Almaviva. Non solo: tutta la società, nobile e plebea, compresa la contessa Rosina, fa muro contro la prepotenza. Il padrone, sconfitto, deve chiedere perdono. Questa storia è importantissima e la si deve leggere come una vera dichiarazione del diritto dell'uomo a non essere più vittima di leggi ingiuste. La musica va in sintonia, con momenti sferzanti, con chiare allusioni, con alcune inedite violenze espressive.
Restando a Mozart, il suo Don Giovanni è in fin dei conti un bell'esempio di anticipazione romantica: il grande libertino è vìsto nel momento della sconfitta, è braccato da tutti, nobili e servi, è costretto alla resa e a finire all'inferno. La sua strapotenza è diventata intollerabile. Anche qui la storia è vecchia, la morale è eterna: ma Giovanni si comporta come un bandito, è violento in ogni espressione, nei dialoghi come nei pezzi cantati, è un personaggio «nero». Gli altri si esprimono come la loro classe sociale prevede e non è senza significato che le arie di Don Ottavio siano ridicolmente galanti, quasi fossero espressioni di un giovanetto viziato. Le donne (Anna ed Elvira) sono molto più autentiche nei loro slanci amorosi e nei loro palpiti di vendetta.
Alla fine, quando il Grande Seduttore è stato mandato in mezzo alle fiamme dell'inferno dalla vindice mano del Commendatore (sua vittima, ucciso in duello dopo il tentativo di seduzione di Donna Anna), tutti cantano contenti un finale che esprime la gioia di chi si è liberato da un mostro, ovvero da un tiranno, ovvero dal Potere. Ma in più c'è la sfrenatezza della sessualità, che travolge un po' tutti: addio perbenismi, barriere morali, impeto passione e tempesta dominano la scena e provocano comportamenti ben fuori dalla ragione. Gli inviti degli intellettuali e degli artisti ai reggitori degli stati prima si legavano all'illuminismo. Poi fu chiaro che non bastava e si gridò «all'armi!».
L'Ottocento è un secolo bellicoso. Ci dà il senso di un furore che, malgrado antiche e nuove repressioni, ha una forza incontenibile. Ma è anche il secolo in cui si sviluppa potentemente l'industria, e che quindi concede agli uomini possibilità imprenditoriali senza precedenti. L'ingegno viene valorizzato, ogni settore della società cambia velocemente. Si arriverà a credere che il progresso della scienza produrrá tali benefici da rendere la terra un paradiso, in un'ansia di laicìtà che porterà perfino alla cancellazione del potere temporale del Papa. Forniti di mezzi nuovi e più moderni gli uomini si agitano per ottenere quei beni e quei diritti che sono lo specchio perfetto della giustizia. Non è stato un percorso facile e lineare, e neppure a tutt'oggi è concluso.
Il progresso ha dato un maggiore respiro anche alla musica. Basta pensare all'importanza del pianoforte, che diventa un protagonista proprio alla vigilia dell'Ottocento e cancella tutte le esili tastiere del passato. Col pianoforte emerge la figura del solista, del grande interprete, e contemporaneamente si esalta l'arte del violino, che era già comunque uno strumento leader. Arricchita e liberata da formule limitative, l'orchestra si fa sempre più grande e brillante, ricca di timbri e colori. Alla fine del secolo sarà praticamente più che raddoppiata e diventerá una macchina imponente, con una capacità di suono tale da terrorizzare i benpensanti. Caricature d'epoca hanno messo in chiaro queste paure degli orecchi troppo sensibili: Berlioz e Wagner sono dei cannonieri, addio musica celeste.
Carte scompigliate, dunque, già alla fine del Settecento, soprassalti per riportare indietro le lancette dell'orologio della storia, faticose avanzate e poi una valanga di idee che circolano, di cospirazioni che producono barricate, di slanci libertari fino all'anarchia. Confini che si spostano, lingue che si impongono, insofferenze che si scatenano, ma forse nessuno pensava, allora, che i particolarismi e i nazionalismi si sarebbero esasperati al punto da riproporre le leggi della giungla, da far rinascere crudeltà e spietatezze senza confronto. E che in parallelo saltassero tutte le serrature, e l'arte andasse verso totali disgregazioni formali.
Mario Pasi ("La Musica Romantica", Jaca Book, 1993)
Anche l'arte si toglie la parrucca e vuole mostrare la sua «testa» al naturale. Uno degli esempi più facili per spiegare questa linea di tendenza è, nel suo piccolo, il Minuetto. Questa danza è inserita in genere come penultimo movimento di una Sinfonia: passa appunto dallo stile galante, innocuo e gentile, a uno stile drammatico già con Mozart e Haydn. Poi sparisce e viene sostituita dallo Scherzo. Già nelle ultime composizioni di Mozart e nel periodo finale di Haydn (un autore che entra, sia pur di poco, nel XIX secolo) appare chiaro che non è più ragionevole restare nel territorio accademico: ne risulta un maggior carico di espressività, di sentimento, di personalità, di drammaticità. Le due anime dell'estremo Settecento cominciano a combattersi proprio nei contenuti. E ciò accade quando i migliori compositori cominciano a uscire dallo stato semiservile in cui erano generalmente confinati.
Mozart lasciò Salisburgo per tentare la fortuna, da solo, a Vienna, Haydn fece utilissimi viaggi fuori dalla tutela degli Esterhazy. Sarebbe ingiusto dire che questi fatti sono stati puramente casuali. Come non fu casuale l'adesione di Mozart alla massoneria, centro di riunione di molte libere intelligenze e neppure vietata a personaggi potenti o aristocratici.
Tumulto, impeto, tempesta sono il contrario della Ragione e dell'Ordine: chi rappresenta questi sentimenti personali o atmosferici è dunque fuori dai templi della ragione e dall'ordine. Non vale la logica, non vale la riflessione, proprio perché esse sono diventate odiose, limitative, oppressive. Werther, si disse, non ragiona, si lascia trascinare dall'impeto, ciò che è vero fino a un certo punto, perché possiamo anche ammettere che il suo voler la morte è frutto di una consapevolezza. Ma quale? Quella che le regole della vita si scontrano in modo tragico con le esigenze del cuore.
Eroi, ribelli e, per estensione, fuorilegge o banditi popolano la storia letteraria e musicale dell'Ottocento. E' la conseguenza logica di quei rifiuti. Per contrasto le donne sono vittime, angeli, esseri puri e addirittura spiriti che vivono in altri mondi presumibilmente migliori o per lo meno non toccati dai guasti della società contemporanea. E poi ci sono uomini, come Lord Byron o (diciamolo pure) Giuseppe Garibaldi che interpretano romanticamente la lotta armata per la libertà di questo o quel popolo.
Anche i musicisti della seconda metà del Settecento cercano di portare avanti delle riforme formali e sostanziali; gli autori drammatici, come per esempio Auguste Caron de Beaumarchais, ribaltano i rapporti fra potenti e servi (vedi Le mariage de Figaro) e vengono ove possibile posti all'indice; Voltaire fece la conoscenza delle prigioni; le dediche ai potenti, ai regnanti, certamente sincere all'inizio, diventeranno esempi di puro stato di necessità.
Un esempio di ribellione alle leggi della ragione ci è stato offerto, in tempi lontani, dal mito di Orfeo e Euridice. Quando Orfeo compie la trasgressione, guarda l'amata moglie e quindi la perde, sceglie la passione, non la logica. Pateticamente Glück si impossessa del mito e fa di Orfeo un eroe negativo. Non fu il primo (pensiamo a Monteverdi) né il solo; ma è stato quello che più di ogni altro ha capito la forza dirompente di quella scelta. Che farò senza Euridice? è il momento in cui l'umano prevale e fa la differenza.
Nelle Nozze di Figaro, senza sottolineare troppo il «politico» di Beaumarchais, Wolfgang Amadeus Mozart e il suo librettista Lorenzo Da Ponte sono dalla parte di Figaro, il servo, che si oppone al nefando jus primae noctis del Conte di Almaviva. Non solo: tutta la società, nobile e plebea, compresa la contessa Rosina, fa muro contro la prepotenza. Il padrone, sconfitto, deve chiedere perdono. Questa storia è importantissima e la si deve leggere come una vera dichiarazione del diritto dell'uomo a non essere più vittima di leggi ingiuste. La musica va in sintonia, con momenti sferzanti, con chiare allusioni, con alcune inedite violenze espressive.
Restando a Mozart, il suo Don Giovanni è in fin dei conti un bell'esempio di anticipazione romantica: il grande libertino è vìsto nel momento della sconfitta, è braccato da tutti, nobili e servi, è costretto alla resa e a finire all'inferno. La sua strapotenza è diventata intollerabile. Anche qui la storia è vecchia, la morale è eterna: ma Giovanni si comporta come un bandito, è violento in ogni espressione, nei dialoghi come nei pezzi cantati, è un personaggio «nero». Gli altri si esprimono come la loro classe sociale prevede e non è senza significato che le arie di Don Ottavio siano ridicolmente galanti, quasi fossero espressioni di un giovanetto viziato. Le donne (Anna ed Elvira) sono molto più autentiche nei loro slanci amorosi e nei loro palpiti di vendetta.
Alla fine, quando il Grande Seduttore è stato mandato in mezzo alle fiamme dell'inferno dalla vindice mano del Commendatore (sua vittima, ucciso in duello dopo il tentativo di seduzione di Donna Anna), tutti cantano contenti un finale che esprime la gioia di chi si è liberato da un mostro, ovvero da un tiranno, ovvero dal Potere. Ma in più c'è la sfrenatezza della sessualità, che travolge un po' tutti: addio perbenismi, barriere morali, impeto passione e tempesta dominano la scena e provocano comportamenti ben fuori dalla ragione. Gli inviti degli intellettuali e degli artisti ai reggitori degli stati prima si legavano all'illuminismo. Poi fu chiaro che non bastava e si gridò «all'armi!».
L'Ottocento è un secolo bellicoso. Ci dà il senso di un furore che, malgrado antiche e nuove repressioni, ha una forza incontenibile. Ma è anche il secolo in cui si sviluppa potentemente l'industria, e che quindi concede agli uomini possibilità imprenditoriali senza precedenti. L'ingegno viene valorizzato, ogni settore della società cambia velocemente. Si arriverà a credere che il progresso della scienza produrrá tali benefici da rendere la terra un paradiso, in un'ansia di laicìtà che porterà perfino alla cancellazione del potere temporale del Papa. Forniti di mezzi nuovi e più moderni gli uomini si agitano per ottenere quei beni e quei diritti che sono lo specchio perfetto della giustizia. Non è stato un percorso facile e lineare, e neppure a tutt'oggi è concluso.
Il progresso ha dato un maggiore respiro anche alla musica. Basta pensare all'importanza del pianoforte, che diventa un protagonista proprio alla vigilia dell'Ottocento e cancella tutte le esili tastiere del passato. Col pianoforte emerge la figura del solista, del grande interprete, e contemporaneamente si esalta l'arte del violino, che era già comunque uno strumento leader. Arricchita e liberata da formule limitative, l'orchestra si fa sempre più grande e brillante, ricca di timbri e colori. Alla fine del secolo sarà praticamente più che raddoppiata e diventerá una macchina imponente, con una capacità di suono tale da terrorizzare i benpensanti. Caricature d'epoca hanno messo in chiaro queste paure degli orecchi troppo sensibili: Berlioz e Wagner sono dei cannonieri, addio musica celeste.
Carte scompigliate, dunque, già alla fine del Settecento, soprassalti per riportare indietro le lancette dell'orologio della storia, faticose avanzate e poi una valanga di idee che circolano, di cospirazioni che producono barricate, di slanci libertari fino all'anarchia. Confini che si spostano, lingue che si impongono, insofferenze che si scatenano, ma forse nessuno pensava, allora, che i particolarismi e i nazionalismi si sarebbero esasperati al punto da riproporre le leggi della giungla, da far rinascere crudeltà e spietatezze senza confronto. E che in parallelo saltassero tutte le serrature, e l'arte andasse verso totali disgregazioni formali.
Mario Pasi ("La Musica Romantica", Jaca Book, 1993)
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