Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, aprile 21, 2021

Musica antica a Praga: Miroslav Venhoda (1915-1987)

Far rivivere gli antichi valori musicali, 
che pur conservati sul pentagramma sono però incomprensibili nella forma originaria per l'ascoltatore moderno, è il credo del prof. Miroslav Venhoda, direttore artistico del prezioso complesso da camera praghese che porta il nome "Madrigalisti Praghesi".
Sotto la guida di M. Venhoda, creatore non solo in senso artistico ma anche scientifico, uomo di un'ammirevole fantasia e costanza, i Madrigalisti Praghesi compiono escursioni nei lontani secoli della storia musicale e i loro risultati interpretativi hanno spesso il carattere di vere e proprie scoperte.
Fulcro del loro repertorio è la musica gotica, rinascimentale e del primo barocco e comprende compositori europei e boemi dei tempi passati (Gailam de Machaut - compositore francese del XIV secolo, che visse alcuni anni alla corte del re boemo Giovanni di Lussemburgo - Claudio Monteverdi, G.P. da Palestrina, Josquin des Prez e fra gli autori boemi F.I. Tüma, B.M. Cernohorsky, Krystof Harant di Polzice, Adam Michna di Otradovice e diversi altri). I Madrigalisti Praghesi non rifuggono però neppure gli autori modernissimi, alcuni dei quali scrivono le loro composizioni direttamente per questo complesso. Nell'esecuzione dei Madrigalisti verranno per esempio presentati i "Madrigali patibolari" del compositore boemo Jan Rychlik su versi di Ch. Morgenstern, dove compare sia il testo ceco che tedesco e latino, al Festival di Salisburgo verrà eseguita
la composizione dell'autore boemo contemporaneo Petr Eben "Pragensie" su testi dei ricettari rudolfini, all'interpretazione dei Madrigalisti sono legate anche composizioni di Leos Janacek, Bohaslav Martinü, Pavel Borkovec ed altri.
I Madrigalisti Praghesi sono giovani non solo nello stile interpretativo ma anche nell'età media dei membri del complesso (27-30 anni). Sull'esempio dei madrigalisti antichi tutti e nove i solisti sanno non solo suonare strumenti dell'epoca ma anche cantare. Cercano di trovare la via verso un'esecuzione autentica delle composizioni del passato. In questo sono facilitati anche dal Museo Nazionale praghese che permette loro di usare strumenti musicali originali appartenenti alle ricche collezioni della sezione musicale: il corno ricurvo, antichi flauti, trombe, ciaramelle, liuti, cembali, strumenti a percussione, ecc..
Il repertorio base viene scelto e strumentato dal prof. M. Venhoda, che inoltre dirige il complesso, suona l'organo e il cembalo.
Ammirevole è soprattutto il modo libero e confidenziale con cui si eseguono i concerti, cosicché tra il pubblico e musicisti si crea un clima di immediatezza, di vicinanza e di leggerezza, sotto cui si cela però una impeccabile intonazione e una tecnica perfetta. I loro concerti si svolgono in un’atmosfera affascinante e irripetibile; lo stesso godimento viene offerto però anche dagli oltre 50 long playing incisi dal complesso, la maggior parte dei quali è esportata su licenza in tutto il mondo e che per i conoscitori rappresentano spesso vere scoperte.
I Madrigalisti Praghesi effettuano annualmente molte tournées all'estero (nel 1973 saranno in Italia, Romania, Polonia, Austria, Jugoslavia, per il 1974 si prepara un lungo viaggio negli Stati Uniti). In Cecoslovacchia eseguono numerosi concerti anche nell'interno di antichi castelli, di chiese e di musei (uno dei più popolari è  "il concerto delle 17.17", un programma di un’ora composto di brevi e affascinanti carellate nella storia della musica, che si tiene una volta al mese nel Museo Nazionale di Praga), collaborano con gli studi radiotelevisivi e cinematografici. Un riconoscimento della loro maestria sono anche i tre Grand Prix Charles Cros di Parigi, ottenuti per la perfetta interpretazione di opere di antichi maestri, premi radiofonici, della Casa discografica cecoslovacca Supraphon ed altri.
Katerine Pstrossova
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVI n.1, aprile 1973)

domenica, aprile 11, 2021

Sergiu Celibidache: l’ultimo dei veri capi. E perché l’ultimo

Con l’indifferenza e l’ignoranza delle nazioni piombate nel pozzo nero dove non ci sono più né storia, né cultura, né umana pietà, le televisioni italiane, di Stato e private, in bella concordia, hanno trovato inutile far sapere ai milioni dei loro rincretiniti clienti che ieri è mancato ai vivi Sergiu Celibidache: il più estroso, il più generoso, il più permaloso, il più imprevedibile, il più assolutamente disinteressato dei musicisti, il direttore d’orchestra ormai unico per la magia della sintesi che reggeva il suo spirito, di istintiva potenza e maturata sapienza, l’interprete ispirato che sapeva ancora strappare alle stelle fredde e remote dei grandi creatori, qualche bagliore della scintilla divina.
Celibidache: un’ipotesi perduta dell’arte germanica. Un’ipotesi che rimase per decenni in bilico, latente, sempre sul punto di dissolversi. Un’ipotesi che rimase a lungo annebbiata dalla giusta ira di una ingiustizia subita, e più a lungo ancora fu sacrificata dalla ritorsione degli ingiusti che, come sempre accade, non perdonavano alla vittima l’ingiustizia subita. Restaurata, infine, per un ultimo tratto grandioso e malinconico, grazie a un’accorta, delicata opera di umanissima volontà, da cui scaturì, se non una guarigione ormai impossibile, almeno una delicata sutura e ricucitura psicologica e artistica.
Or sono tre anni, il Bundespresident von Weizsäcker riuscì, dopo un lungo lavorio di preparazione, a riportare Sergiu Celibidache, per un concerto di beneficenza a favore della Romania, libera dalla tirannide comunista, sul podio dei Filarmonici di Berlino, dopo quasi mezzo secolo di sdegnato rancore. In una profonda e amara analisi retrospettiva, Wolfgang Sandner si chiese “che cosa sarebbe stato di quell’orchestra, se, al posto dell’astuto Karajan, i suoi musicisti avessero eletto, a successore di Furtwängler”, chi più d’ogni altro ne aveva il diritto, “lo spigoloso, l’aspro, l’asociale Celibidache”.
E’ storia che pochi conoscono, e quando possono narrano e rinarrano, come Alberto Mantovani, la splendida tromba solista dell’orchestra bolognese che al maestro sempre rimase fedele dopo l’ennesima delusione coi bolognesi. Dopo la catastrofe del maggio 1945, esule in Svizzera l’epurato Furtwängler, morto tragicamente e forse suicida il successore Leo Borchard, riuscì provvidenziale agli impauriti Filarmonici che si erano riuniti in un cinema di Stegliz, il romeno trentatreenne sconosciuto esordiente che con stoica determinazione e durissimo lavoro in circostanze impossibili, li salvò alla palude che attende le orchestre in declino: dall’assedio di tante forze negative congiunte nella penuria economica: la mancanza di case, di progetti, di programmi, l’indifferenza ostile 
degli occupanti, l’opportunismo politico, artistico, la fatale discesa nella mediocrità. Ospite straniero nella Capitale della nazione vinta e demonizzata dove era venuto a studiare nei giorni della sua fortuna, Celibidache protesse l’orchestra in un’aura di soprannazionale innocenza, la riorganizzò e fortificò, lo elessero a direttore stabile. Durò quattro anni, fino al ritorno di Furtwängler. Quando la situazione ridivenne sicura, i filarmonici professori manifestarono tutta l’ingratitudine e l’ingenerosità proprie degli organismi collettivi, Furtwängler riprese la superbia che mai abbandona il buon tedesco e cancella, appena sia fuori dei guai, i benefici ricevuti. Congedato con frigidi e sbrigativi ringraziamenti, Celibidache si fece da parte, mal consolato da qualche partecipazione ai trionfali giri di concerti in Europa e nelle Americhe nei quali Furtwängler tornò a condurre l’orchestra, sua e soltanto sua. Celibidache prese il largo e, dopo alcuni anni errabondi, ebbe la direzione dell’orchestra di Radio Stoccolma (1962-1971) e, infine, dei Filarmonici di Monaco, che portò a livelli di Berlino e di Vienna. Da lontano assistè al compiersi della parabola dell’ingratitudine. Se riuscì a capire e accettare come inevitabile e giusto il ritorno dell’interprete unico, la scelta che i Filarmonici decisero alla sua morte, scegliendo a successore l’astuto, affascinante luciferino Herbert von Karajan, lo colpì con la sua violenza feroce, fino a scavare una permanente ferita nel suo carattere. Ho sempre osservato nei comportamenti di tutte le orchestre in cui la sorte mi ha fatto imbattere, che l’ingratitudine e l’opportunismo degli organismi anonimi diventa, tra i musicisti, specialmente spregevole. Nessuno, tra questi mestieranti, si levò a difendere i diritti morali e professionali del loro salvatore di pochi anni avanti. Sempre le orchestre scelgono la sicurezza del successo, il miraggio del denaro. Il cui luccichio venne sempre crescendo, negli anni di cui sto parlando, le royalties guadagnate coi dischi ne fecero un’ossessione. Quando, morto alla sua volta Karajan, si trovarono a soppesare le diverse candidature, i dirigenti dei Filarmonici si procurarono le liste dei dischi incisi da questo e quel maestro e, tra Sawallisch e Abbado, non ebbero esitazione: Abbado incideva per la Deutsche Grammophon e Sawallish per case meno risonanti. Abbado era in fase di decisa ascesa, scelsero lui. Forse oggi avrebbero qualche esitazione.
Oggi, davanti alla spoglia di questo romeno in cui s’era raccolta la migliore eredità dell’arte direttoriale germanica, ritorna molesta la domanda di Sandner, che cosa sarebbe divenuta l’Orchestra dei Filarmonici sotto di lui? “Certamente il catalogo dei suoi dischi sarebbe più magro, la sua fisionomia più asciutta e austera, il suo raggio d’azione più stretto”, non v’è dubbio su tutto ciò. Ma l’anima, il dettato, l’eloquio, il suono nulla hanno a che vedere coi successi commerciali e le vendite dei dischi. Forse, Berlino avrebbe avuto fino ad oggi un successore degno di Furtwängler. I caratteri che da lui ha ereditato, Celibidache li ha infusi nell’orchestra dei Filarmonici di Monaco, la sola rimasta tedesca, in quanto “locale”, delle grandi orchestre tedesche. Non per nulla fu questa la roccaforte bruckneriana fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento; quando Franz Kaim, letterato e scrittore, figlio di un fabbricante di pianoforti di Stoccarda, la radunò per un serie di concerti privati nella sala dell’industria di famiglia, e due anni più tardi, nel 1893, la trasformò nel Münchener Philarmonisches Orchester, ch’ebbe, dal 1898 al 1945, tra i suoi direttori i massimi campioni del culto di Anton Bruckner: istituito, dopo la sua morte nel 1896, dall'allievo Ferdidand Löwe, cui succedettero Felix Weingartner e, dal 1920 al 1945, Siegmund von Hausegger e, infine, Oswald Kabasta, il maggiore di tutti, anche se l’aver svolto la parte più cospicua della sua opera durante la guerra, e il suicidio eseguito nel 1946, tolsero irradiazione alla sua fama, tuttavia affidata a poche incisioni, stupefacenti.
Nel mezzo secolo di regno di questa straordinaria dinastia di capi, fecero apparizioni ed esordi ospiti di assoluta eccezione, quali Hans Pfitzner e Max Reger. Fu coi Filarmonici di Monaco che Wilhelm, il promettente figlio del docente di archeologia alla locale università, Adolf Furtwängler, diresse il suo primo concerto pubblico, il 19 febbraio 1906, a vent’anni appena compiuti: il programma, un suo poema sinfonico e la Nona Sinfonia di Bruckner. Nel clima, insieme austero e cordiale, di quella straordinaria Monaco, il cui timbro intellettuale puoi ancora cogliere nelle annate di Jugend; in quell’atmosfera raccolta e lieta, si venne formando e solidificando, qui a Monaco e non nella vacua Vienna, la vera tradizione bruckneriana che i direttori, stabili e ospiti, succedutisi nel dopoguerra salvarono, da Hans Rosbaud a Eugen Jochum Joseph Keilberth, Fritz Rieger, che tenne il podio dal 1949 al 1966, e Rudolf Kempe (1967-1976), alla cui morte l’orchestra lavorò per tre anni con soli Gastdirigenten, fino a che, nel 1979, elesse a suo capo Celibidache.
Con Celibidache, l’orchestra dei Filarmonici di Monaco raggiunse e, per certi versi, superò le due considerate fino allora maggiori della cultura germanica, Vienna e Berlino. Il suono, il timbro portarono all’estrema finezza quella tinta bruna e serale che così bene esprime la Stimmung del tardo Ottocento. I cori dei suoi ottoni, ormai inimitabili, sfolgoravano davvero di quello che Oswald Spengler, per definire il colore di Bruckner, chiamò “oro antico”. Un oro bruno e rosso d’incendio, che a me ricordava sempre i barbagli incandescenti di che sfolgoravano i mosaici di San Marco quando i raggi del sole d’autunno li colpiscano. Ecco, l’anima di un’orchestra è espressione astratta, impossibile a definire in un giro di parole. Ma senti che Monaco la possiede ancora, e Vienna e Berlino, guaste dai saltimbanchi della direzione discarola e commerciale, l’hanno perduta.
Celibidache ci portava da Monaco quel suono; dove gli piacesse portarlo; dove non avesse conti sospesi, dispetti, punizioni pendenti col pubblico del luogo. Magari scartava la Scala, Firenze, Santa Cecilia, dove lo invitavano invano. E sceglieva, invece, Salerno dove era rimasto affascinato dalle forme normanne del Duomo, da un’atmosfera che gli parve magica: quasi un nuovo Wagner a Ravello. Per merito di un gruppo di audaci, è il caso di chiamarli, come quelli che nell’Ottocento si riunivano nell’oratorio di via Belsiana attorno alle Passioni di Bach, Salerno aveva visto crescere un suo festival che, sommando audiacia ad audacia, elesse a suo centro l’arte sinfonica di Bruckner. Direttori quali Sawallisch, Tennstedt, Janowski, vi avevano instaurato una breve e ancor fragile tradizione esecutiva che, in quell’anno 1993, raggiungeva il suo culmine con l’arruolamento, imprevedibile e quasi incredibile, di Celibidache coi suoi Filarmonici. Ricevendo gli annunci dall’Ente salernitano, provai un’ammirazione temperata da dubbi e interrogativi perché, scorrendo il programma del Brucknerfest di Linz, subito mi accorsi che per la prima volta mancava la gemma centrale, il concerto dei Filarmonici di Monaco che Celibidache dirigeva ogni anno nell’Abbazia di Sankt Florian. Chissà che cosa gli hanno fatto a Linz, non potei fare a meno di domandarmi, per indurlo a questo esilio. Che tuttavia non potè compiersi perché, sette giorni prima delle date previste per i due concerti, il vescovo di Salerno, monsignor Pierro, rifiutò di rinnovare la concessione della Cattedrale, dedicata a San Matteo. Fu proprio il Santo, così caro al cuore degli amici della musica, l’involontario colpevole del disastro. All’improvviso il nuovo vescovo si accorse che le date dei concerti coincidevano con la festa del santo patrono, e decise che il duomo e il suo cortile dovessero restare liberi per accogliere i pellegrinaggi, che per lui sono molto più importanti dei signori Bruckner e Schubert, di Beethoven e di Celibidache. Si accomodassero a cercare un altro posto. E’ un gran brutta storia, della quale bisognerà indagare meglio le ragioni, che ci sono. Lo farò un’altra volta.
Due anni dopo, il vecchio campione cadde e si fratturò il femore.“Celibidache cade e si rompe”, tale titolo beffardo e impietoso si lesse su un nostro quotidiano, “Metha prende il suo posto”. E il mondo va avanti, dopo un caso di ordinaria sostituzione. Proprio no, gridai la mia indignazione in uno scritto furibondo. Proprio no, scrissi. Nella sostituzione del Maggio fiorentino, mi parve disegnarsi la metafora di una fine. Si scavava il tratto conclusivo di una parabola disegnata da tempo: l’estinzione della direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella direzione d’orchestra in quanto rivelazione demiurgica: incarnata, nella memoria di una cultura, dallo studio di Nikisch, Strauss, Weingartner, Mengelberg, Kabasta, Böhm, Furwängler, Klemperer. La dinastia che nacque quando i creatori, Mendelssohn e Schumann e poi Wagner, tolsero la rivelazione dalle mani dei Kapellmeister e ne fecero un magistero, educando e allevando, da Bülow in poi, due generazioni di capi idonei a penetrare e attraverso la foresta cresciuta sul suolo sinfonico da Beethoven in poi.
Proprio Bruckner dovette misurarsi con l’indifferenza genetica e culturale, e proprio nella Quarta Sinfonia, che Celibidache doveva portare a Firenze, comprendere quali distanze separassero la corta vista di Dessoff, dei Herbeck, tecnicamente e spiritualmente impari alle sue partiture smisurate, dall’intuito d’arte, dal gesto sicuro dei Richter, Levi, Nikisch: gli interpreti ispiratici chiamai in uno scritto lontano, una razza che si estingue, minata e corrosa dalla lebbra di mondializzazione e commercializzazione. L’identificazione di un’arte con l’intero pianeta non avviene senza smarrire l’identità ideale, senza la recisione delle radici profonde, che sono sempre locali. Le maree opulente della musica occidentale invadono gli auditori dei lontani Continenti quando la fonte creativa, nella sua casa d’origine, si è seccata. Che la musica sia universale sol perché i caratteri fìsici e acustici la rendano, in apparenza, udibile da tutte le orecchie, sopra le cosiddette “barriere” delle lingue, è una falsa verità creduta anche da persone colte. Ma anche i babuini, le rane e le giraffe possiedono orecchie e non per questo sono partecipi della civiltà sinfonica. Quando finisce con l’Europa che la generò. Contemplo, senza isteriche inutili enfasi, le convulsioni di un’arte morta nella creazione e morente nell’interpretazione, e saluto in Celibidache l’ultimo di una nobile schiera. Ultimo: so che è una parola infausta, anche se il pettegolo quotidiano le ha tolto il brivido che racchiudeva. Ma in latino, la lingua dove tutto si chiarisce, ultimo è superlativo di ulter, che è al di là; la sua desinenza, il sanscrito tama, vuol dire ciò che è lontano, remoto, oltre il mondo.Arriva, in tutte le cose umane, vite, passioni, arti, istituzioni, l’ora che tutto tende a farsi ultimo. Ecco in quale senso non quotidiano, non comune, saluto Celibidache che conclude una nobile arte, quasi dappertutto estinta. Ci salveranno i Kappellmeister? Dubito. L’ora noiosa ritorna con la pletora dei Kapellmeister che si riprendono la predella, vispi, attivissimi, gran viaggiatori, gran lavoratori, grandi incassatori di sonanti parcelle, più che mai sicuri della loro eccellenza, ora che gli ultimi imbarazzanti paragoni sono sgomberati dalle Parche disciplinate alunne degli dèi e del fato.
Piero Buscaroli
(un estratto è apparso su “Il Giornale” di Sabato 17 agosto 1996, col titolo:“E’ morto a 84 anni
a Parigi il grande direttore d’origine romena. Addio Celibidache genio della musica”)

giovedì, aprile 01, 2021

Festival "Autunno di Varsavia" 1977

Il tratto caratteristico del Festival Inter
nazionale della Musica Contemporanea "Autunno di Varsavia" dell'anno 1977 è stato una specie di riconciliazione con il passato. Dopo venti anni di esistenza questa manifestazione ribelle ed avanguardistica fino a poco, tempo fa, si è riconciliata con la tradizione fino al punto che nel suo programma si è trovato posto per le musiche di Monteverdi, Pergolesi e Debussy. E' vero che questa concessione è stata fatta per la cantante Cathy Barberian, tuttavia un gesto del genere pochi anni fa difficilmente avrebbe potuto aver luogo. L'avanguardia mondiale in genere e quella polacca in specie già da circa dieci anni pian piano cercano di riconciliarsi con la tradizione ma mai finora avevano aperto ad essa le braccia così largamente come all’ultimo "Autunno di Varsavia".
Chi frequentava i primi festival di Varsavia e dopo una lunga assenza è venuto alla sua edizione 1977, certamente ha costatato che si trattava di una manifestazione ben diversa. In sostanza però il festival non è cambiato affatto, giacché rimane sempre lo specchio dell'attuale creazione musicale. E' cambiata solo questa creazione. Negli anni sessanta la ambizione di ogni compositore constava nel mostrare qualche cosa di inedito perfino in ogni nuova composizione, oggi invece i giovani compositori non nutrono ambizioni di innovazione spettacolare. Ciò non significa che ad essi sono diventate estranee le ricerche creative e che tutto si limita alla riproduzione dei modelli già esistenti. E' cambiato solo il terreno di ricerca. Se prima i giovani esploravano le regioni vergini, adesso - al contrario - si muovono sul terreno a tutti noto, cercando solo le stradine meno frequentate.
Nessuno dei giovani compositori polacchi che hanno preso parte nell’ultimo "Autunno di Varsavia" ha presentato un'opera che si potrebbe chiamare d’avanguardia; nessuno ha composto un'opera del genere di musica "pura". Tutti hanno mostrato composizioni tinte degli elementi extra-musicali. Anche numerose opere dei compositori polacchi della generazione più anziana erano in modo più palese o più occulto impostate sul descrittivismo. Così Henryk M. Gorecki nella sua III Sinfonia per soprano solo e orchestra, si basa sulle due melodie popolari e sfrutta due testi letterari. Wojciech Kilar ha composto un autentico poema sinfonico di cui la trama si basa su eventi nelle montagne di Tatra. Wlodzimierz Kotonski non ha rivelato il contenuto extra-musicale della sua Rosa dei venti, ma una illustrazione abbastanza percepibile del mormorio del mare fa sì che anche questa composizione occorre sia annoverata nel gruppo di composizioni non autonome. Appartengono a questo modello anche le opere quali Canti polacchi di Krzysztof Meyer, La malattia mortale di Tomasz Sikorski ed alcune altre. La corrente della musica sacra è stata rappresentata da un’opera assomigliante all’oratorio (quattro solisti, coro, tre arpe, organo) Universal Prayer di Andrzej Panufnik, compositore polacco residente in Inghilterra.
Tra le 25 opere polacche eseguite quest'anno al festival solo una decina apparteneva decisamente alla musica "assoluta". Tra esse si trovano: Mi-parti di Witold Lutoslawski, Ad libitum di Kazimierz Serocki e il Concerto per pianoforte e orchestra di Zygmunt Krauze. Queste tre opere sono state universalmente riconosciute come le migliori. Come quarta composizione molti indicano la III Sinfonia di Gorecki, ma c’e anche chi esprime opinioni contrarie. Questa Sinfonia è l'unica opera del festival che ha suscitato discussioni.
Calma, serenità e tendenza a creare un dialogo con il mondo non-musicale hanno caratterizzato anche molte opere dei compositori stranieri, partecipanti del festival. Crumb, Marco, Lachenmann, Andriessen, Takemitsu, Zechlin, Payne, Enriquez, Widovszky, Luganski - hanno presentato quest’anno composizioni più o meno programmatiche o in un'altra maniera sconfinanti dalla musica "pura". A loro hanno dato una mano sia i "classici del XX secolo": Stravinski (Messa) e Dallapiccola (opere vocali-strumentali), sia i debuttanti all’Autunno, due tedeschi dalla DDR che fanno un tandem compositivo-interpretativo: Hans-Karsten Raecks e Günther Sommer (riuscita simbiosi tra la musica "grande" e il jazz) come anche uno dei principali esponenti francesi della musica elettronica Jean-Claude Risset, che ha legato in modo interessante la voce femminile con il nastro magnetico. Le composizioni più interessanti - oltre alle opere universalmente riconosciute di Stravinski, Honegger, Hindemith, Prokofiev e Sciostakovic - sono Folk songs di Luciano Berio, la III Sonata per pianoforte di Pierre Boulez e Marginalia di Torn Tagemitsu. Quest’ultima cerca in modo armonioso di legare la tradizionale musica giapponese con le tradizioni europee.
E' sintomatico che tutti i compositori menzionati hanno già oltrepassato la quarantina. L’"Autunno di Varsavia" si basa dunque sugli autori della generazione media e anziana. Ma questa siccità di giovani di talento si nota non soltanto in Polonia ma anche in tutto il mondo.
La mancanza del flusso delle forze nuove ha dovuto per forza influire sull'aspetto del festival di Varsavia. Non soltanto la musica è diventata più blanda, ma anche il pubblico. Mentre prima si applaudiva e si fischiava dopo una prima esecuzione di ogni opera o quasi, oggi quasi tutto viene accettato pacificamente.
Nonostante una certa stasi l’ultimo "Autunno di Varsavia" non è stato peggiore degli altri, anzi, secondo l’opinione concorde dei critici, recensori ed ascoltatori, apparteneva ai più riusciti. Su ciò ha influito la scelta del repertorio assai curata e la ragionevole regia della manifestazione. Il pomeriggio si facevano concerti da camera, la sera - manifestazioni di carattere più leggero oppure sperimentale. La "sperimentazione" vuol dire qui non tanto una corsa verso il futuro in avanti, quanto "ai lati" - cioè alle regioni vicine (jazz, folklore, musica popolare) e verso le arti imparentate (teatro, pittura, scultura ecc.).
Sulla opinione generale positiva sull’ultimo "Autunno" ha influito anche la partecipazione di alcuni insigni solisti e complessi strumentali. Ecco alcuni nomi: Cathy Berberian, Maurizio Pollini, Henryk Szeryng, Bertram Turetzky, Jane Manning, Akeo Watanabe, Peter Burwik con il suo "Ensemble 20. Jahrhundert" da Vienna, la Symphonieorchester des Norddeutschen Rundfunks di Amburgo, la Tokyo Metropolitan Symphony Orchestra, la Gewandhaus Orchester di Lipsia e i più celebri artisti polacchi: il soprano Stefania Woytowicz, la sua eccellente giovane collega Olga Szwajgier, il baritono Andrzej Hiolski, i direttori Jan Krenz, Andrzej Markowski, Jerzy Maksymiuk.
La mancanza dei grandi talenti e delle nuove idee, stili e direzioni è la causa del fatto che l’"Autunno di Varsavia" è diventato una selva di musica, o più precisamente, di molte varie musiche in cui un ascoltatore anche ben familiare con la musica contemporanea può perdersi. Per dire la verità questo festival, largamente aperto a tutti gli stili, tranne un palese eclettismo, era sempre una specie di selva. Finora però ogni anno c’era qualche cosa che in questa selva si distingueva. Quest’anno per la prima volta non esisteva una simile dominante.
In questa selva ognuno ha potuto scegliere tutto ciò che più gli piaceva, giacché nel programma - al di fuori dell’opera e del balletto - c'era in sostanza tutto.
Le moderne forme "aperte" mescolate con quelle classiche. Le nuovissime composizioni elettroniche e i poemi sinfonici. I capolavori dei classici del XX secolo e i lavori portanti il timbro dell’attualità, ma che certamente lasceranno il tempo che trovano. Le composizioni di americani e russi, francesi e giapponesi, tedeschi "occidentali" e "orientali", rumeni e spagnoli, ungheresi e italiani, e naturalmente i polacchi, padroni di casa, quantitativamente dunque più numerosi.
Dopo i polacchi i più numerosi sono stati i tedeschi e gli italiani. Il pubblico polacco ha avuto occasione di conoscere le nuove opere di Luciano Berio, Luigi Nono, Niccolò Castiglioni e dell'ormai "classico" Luigi Dallapiccola, al quale è stata dedicata la metà di un concerto (interpreti: il soprano Jane Manning e l’"Ensemble 20. Jahrhundert" di Vienna, diretto da Peter Burvik).
Accanto ai celebri autori italiani c'erano anche interpreti non meno celebri. L’illustre Maurizio Pollini, che aveva cominciato la sua grande carriera proprio a Varsavia nel 1960 come vincitore del I premio al Concorso "Chopin", ha dato un recital composto da musiche di Schönberg, Nono e Boulez. Anche la fenomenale Cathy Barberian ha dato un recital o piuttosto uno "show" di rnusiche di varie epoche e stili da Monteverdi fino ai... Beatles. Inoltre nel quadro di un altro concerto ha eseguito Folk Songs di Berio.
I concerti "italiani" appartenevano ai più interessanti del festival e Cathy Barberian è stata riconosciuta come la migliore solista.
Tadeusz Kaczynski
(traduzione di W. Sandelewski)