Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 20, 2014

Abbado interprete mahleriano

Claudio Abbado (1933-2014)
Nel repertorio di Claudio Abbado Mahler è una presenza costante ad altissimi livelli, almeno dal 1965: credo che di una specifica congenialità del direttore milanese per la musica di Mahler si possa parlare fin dall’epoca dei suoi primi successi internazionali. L’origine della sua confidenza con Mahler (e, vorrei aggiungere, con Berg, Schönberg, Webern) non ha radici italiane, e va probabilmente cercata piuttosto nel periodo della formazione viennese, dello studio con Hans Swarowski (1956). E non va separata dall’interesse per la musica nuova, per la ricerca musicale contemporanea. Su ciò dovremo ritornare. Fra i direttori italiani delle generazioni precedenti soltanto Bruno Maderna (1920-73), che nonostante l’intensissima attività direttoriale ci appare oggi in primo luogo come un compositore che dirigeva, aveva una analoga consapevolezza della grandezza di Mahler all’epoca della giovinezza di Abbado. Gli altri italiani che a Mahler si sono dedicati intensamente, come Giuseppe Sinopoli o Riccardo Chailly, appartengono alle generazioni seguenti. La formazione di Abbado è del tutto indipendente da quella di Maderna; ma anche nel caso di Abbado lo scavo nel mondo di Mahler si compie in una prospettiva aperta con la massima attenzione alla ricerca delle avanguardie storiche e dei protagonisti dei decenni successivi, fino a Ligeti o Berio o Nono o Rihm.
Con una sinfonia di Mahler, la Seconda, Abbado ebbe uno dei suoi primi successi internazionali, al Festival di Salisburgo nell’agosto 1965 (due anni dopo aver vinto a New York il Premio Mitropoulos, sette dopo il Premio Kussevitsky): quel concerto era anche il suo debutto con i Wiener Philharmoniker. Nel 1966 diresse la Sesta al Festival di Edinburgo, e nel 1968 assunse la direzione stabile dell’Orchestra della Scala. In questa veste diede un contributo determinante alla programmazione della stagione sinfonica, e subito progettò l’esecuzione di tutte le sinfonie di Mahler nell’arco di tre stagioni. Egli stesso diede inizio a questo ciclo alla Scala il 12 giugno 1969: diresse la Sesta insieme con il Quarto di Beethoven, poi nel 1970 la Terza e nel 1971 la Seconda. Era la prima volta, in Italia, che tutte le sinfonie di Mahler venivano programmate in modo organico, e mi pare significativo che si intrecciassero con il ciclo dedicato ad Alban Berg, il compositore viennese in cui l’eredità di Mahler è riconoscibile nel modo più diretto. Un solo esempio: nell’arco di pochi mesi il pubblico della Scala ebbe modo di ascoltare in giugno la Sesta di Mahler e in ottobre i Tre Pezzi op.6 di Berg, sempre diretti da Abbado e allora in Italia di rarissima esecuzione. Sebbene le sinfonie di Mahler (e i Lieder con orchestra) fossero affidate a direttori diversi e distribuite in tre stagioni di dodici o tredici concerti ciascuna, non pochi scrissero, allora, che lo spazio dedicato a Mahler nelle stagioni sinfoniche della Scala era eccessivo e troppo concentrato.
Di ciò oggi si può sorridere; ma ho voluto ricordarlo per far comprendere che la proposta di Abbado allora non era né ovvia né scontata: la Mahler Renaissance, iniziata negli anni Sessanta, si era manifestata in Italia nell’attività di studiosi come Luigi Rognoni o Ugo Duse, e nella traduzione del saggio di Adorno (dovuta a Giacomo Manzoni, 1966); ma nella concretezza della vita musicale le esecuzioni erano ancora abbastanza rare, e il ciclo voluto da Abbado alla Scala fu un contributo di grande rilievo. La morte prematura impedì a Bruno Maderna di proseguire le sue proposte mahleriane guidando l’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano, di cui era divenuto direttore stabile nel 1971. Soltanto nel 1984-85, in un clima completamente mutato per ciò che riguarda l’ormai consolidata fortuna di Mahler, ci fu una nuova esecuzione completa delle sinfonie in Italia, a Venezia, con l’Orchestra della Fenice diretta da Eliahu Inbal.
Non intendo ora qui proporre degli elenchi e una cronologia per dare un’immagine completa della presenza di Mahler nell’attività di Abbado; ma vorrei ricordare almeno qualche fatto significativo per mostrare come dopo il concerto salisburghese con i Wiener nel 1965 la musica di Mahler sia stata spesso legata a momenti importanti della carriera del direttore milanese. Nel 1978, quando fu creata la European Community Youth Orchestra, Abbado dedicò la prima tournée alla Sesta di Mahler. Del 1987 è la fondazione della Gustav Mahler Jugendorchester, che emblematicamente prende nome da lui, perché aperta, fra l’altro, a paesi dell’antico impero asburgico. Nel 1988 le due orchestre giovanili furono riunite a Berlino nella Terza di Mahler, che era stata scelta da Abbado anche per il primo concerto della Filarmonica della Scala, da lui ideata nel 1982.
Nel 1985 Abbado, nella veste di direttore principale della London Symphony Orchestra, promosse a Londra un festival intitolato “Mahler, Vienna e il Ventesimo Secolo”, che fu affidato per la direzione a Hans Landesmann ed ebbe tra i consulenti anche Donald Mitchell (che su queste manifestazione ha scritto una testimonianza entusiastica nel volume su Abbado a cura di Ulrich Eckhardt). Per esempio nel concerto di apertura i filtratissimi echi mahleriani di Lontano di Ligeti precedevano il Concerto per violino di Berg e la Prima di Mahler. E nel programma del Festival c’erano, fra gli altri, Schönberg, Webern, Nono, Rihm.
La concezione del Festival londinese va ricordata qui perché ci offre l’occasione per ritornare su un argomento a cui ho accennato all’inizio: Abbado conosce a fondo e sa mettere in luce nella musica di Mahler gli aspetti che ce lo rendono più vicino, che ne fanno uno dei protagonisti del Novecento. Devo subito precisare che le interpretazioni mahleriane di Abbado non impongono questa consapevolezza in modo unilaterale e non hanno caratteri dimostrativi intenzionalmente ostentati. Sono interpretazioni totali, frutto di uno scavo analitico straordinariamente acuto e approfondito, ma aperto a tutti gli aspetti della poetica di Mahler, a quelli legati alla tradizione come ai presagi, ad esempio, di Berg e dell’Espressionismo, nella consapevolezza della peculiarità, della specificità della coesistenza, nella poetica di Mahler, di volti diversi, di memorie struggenti del mondo del primo Romanticismo come di apocalittiche visioni. La chiarezza e la profondità della penetrazione analitica di Abbado sanno cogliere con rara esattezza la complessità, le tensioni, le lacerazioni o le ambivalenze del denso fluire, dilatarsi e gesticolare degli organismi sinfonici mahleriani. La vocazione a evitare ogni esteriorità retorica, la ricerca di prosciugata essenzialità, di nitidezza, che pure appartengono alla personalità interpretativa di Abbado si uniscono in lui allo scavo analitico traducendosi in una peculiare tensione. Proprio la convergenza di scavo analitico, nitida e prosciugata ricerca di essenzialità, tensione incandescente, proprio l’insieme di questi aspetti determina la profonda congenialità di Abbado nei confronti di Mahler, la sua capacità di cogliere a fondo gli aspetti più complessi e inquietanti del suo mondo, diciamo pure anche quelli più moderni.
Come si è già detto, il rapporto di Abbado con Mahler si rivelò subito di grande rilievo, fin dai successi delle interpretazioni della Seconda e della Sesta, e trovò continue conferme man mano che, nell’arco di poco più di un ventennio, Abbado accolse tutte le sinfonie di Mahler nel suo repertorio, con lenta e graduale conquista. Anche le registrazioni furono compiute in tempi lunghi, tra il 1977/78 della Seconda e il 1995 dell’Ottava: di alcune sinfonie (Prima, Seconda, Terza, Quinta, Settima e Nona) esistono registrazioni diverse: con l’eccezione della Seconda le registrazioni più recenti sono legate al periodo della collaborazione con i Berliner e in particolare le ultime, Terza, Settima e Nona, sono dal vivo del 1999 e del 2001. Le differenze esistono e rivelano, mi sembra, delle affinità fra loro, come se si riconoscesse una linea di tendenza generale; ma in complesso mi sembrano meno importanti degli aspetti comuni, della continuità che pur con mutamenti caratterizza le linee d’insieme della ricerca interpretativa di Abbado in Mahler. Sia pur in termini piuttosto approssimativi direi che le differenze tra le registrazioni mahleriane della piena e della avanzata maturità sono meno evidenti e nette di quelle che separano, ad esempio le registrazioni di Abbado delle sinfonie di Beethoven. Non parlerei di un ripensamento radicale, ma di approfondimento di alcune scelte, in una direzione sempre più prosciugata, talvolta con tempi più serrati.
Sappiamo che con la sinfonia Mahler intendeva “costruire un intero mondo” e dava voce alla complessità e molteplicità di una esperienza del reale aperta e frantumata, con un’ansia demiurgica carica di prepotente energia. Nel manifestarsi di quella energia, di quell’ansia demiurgica alcuni sottolineano i legami con la tradizione ottocentesca: ciò vale per gli studiosi (ad esempio nel caso di Constantin Floros) come per gli interpreti. Di fronte agli aspetti dell’opera di Mahler che sembrano in qualche modo vicini al gigantismo di fine secolo, all’eclettismo o addirittura al Kitsch le soluzioni possibili per un direttore sono molte: Claudio Abbado sa cogliere come pochi le inquietudini, le tensioni visionarie dell’ansia demiurgica di Mahler, il senso di vertigine e di angoscia che appartiene anche a sinfonie come la Seconda e l’Ottava. Non per caso la sua concezione prosciugata e tesa della Seconda lo impose all’attenzione internazionale.
A un frammento della Seconda vorrei dedicare il primo ascolto. Non abbiamo il tempo per dare un’idea adeguata del modo in cui Abbado interpreta e chiarisce le strutture dei movimenti più vasti; ma vorrei almeno fare ascoltare una parte del movimento più affascinante e inquietante della Seconda, che mi sembra segnare uno dei vertici assoluti tra le interpretazioni mahleriane di Abbado. Alludo al terzo tempo, “In ruhig fliessender Bewegung”, la versione sinfonica dilatata del Lied "Des Antonius von Padua Fischpredigt", finita nel luglio 1893. L’ostinato andamento di sedicesimi, “in movimento tranquillo e scorrevole”, caratterizza quasi ininterrottamente il pezzo (e fu usato da Berio in una famosa pagina di Sinfonia), contribuendo a creare quasi in modo kafkiano una sorta di vertigine del vuoto in modi apparentemente inoffensivi. Adorno paragonò la sua “monotona insensatezza” al “corso del mondo”. E Abbado propone con tagliente tensione, con eccezionale nitidezza e varietà di colori, il carattere ironico-grottesco del cangiante gioco caleidoscopico, dell’esperienza del sempre diverso ma sempre inesorabilmente e insensatamente identico. I momenti di violenta lacerazione hanno fortissima evidenza. E quando affiorano gli elementi che tentano di contrapporsi all’insensatezza del corso del mondo, che creano un contrasto, come l’idea della tromba, di struggente mestizia, che domina la sezione centrale, Abbado conferisce a questi elementi intensa evidenza, ma evita abbandoni incontrollati, sottolineature plateali, mantenendo un sobrio controllo.
In un breve incontro mi riesce difficile esemplificare qualità interpretative come quelle di Abbado, che si manifestano al meglio nell’arco complessivo di un tempo o di una sinfonia, nella chiarezza e nella penetrante analisi strutturale della visione d’insieme. Se avesse senso (e io penso che non ne abbia) proporre una antologia ideale di direttori mahleriani, di Abbado sarebbe preferibile scegliere i movimenti più densi e complessi, in particolare gli Scherzi con caratteri che vengono esaltati dalla peculiare tensione delle sue interpretazioni. Vorrei proporre tre frammenti della Settima, che è considerata con ragione tra le più moderne e problematiche di Mahler. Sebbene mi sia molto cara la registrazione del 1984 con la Chicago Symphony Orchestra, oggi ascolteremo qualche frammento della registrazione dal vivo del 1999 con i Berliner, che rivela uno scavo ancora più prosciugato, teso ed essenziale, ed esemplifica bene il suono che caratterizzava i Berliner nella fase più compiuta della loro collaborazione con Abbado.
Cominciamo con il terzo tempo, il demoniaco Scherzo, una danza macabra tutta tenuta sul filo di una tensione allucinata senza respiro, come non era mai accaduto prima in uno Scherzo mahleriano. Abbado coglie ed esalta questa tensione, e in modo altrettanto intenso e persuasivo pone in luce il carattere visionario della frantumazione timbrica, densa di presagi dell’Espressionismo. Ascoltiamo il memorabile inizio, che prende forma a poco a poco, con il ritmo scandito da timpani, violoncelli e contrabbassi e poi con il graduale apparire, in incalzante successione, di immagini angosciose, grottesche: lo spettrale scorrere delle rapide terzine degli archi, il lamentoso canto di flauti e oboi, che si trasforma in un valzer dal gesto caricato, violento, “triviale” (Berg se ne ricorderà, e Abbado ce lo fa comprendere bene).
La tensione stravolta, demoniaca sembra un poco quietarsi all’inizio del Trio centrale. Gli oboi evocano la lontana innocenza di un Ländler; ma si tratta di una breve illusione, come appare chiarissimo nella interpretazione che ascolteremo fino a questo punto (ascolto: 3-4 minuti).
Nella seconda Nachtmusik che segue Abbado coglie con finezza la leggerezza e delicatezza cameristica della scrittura, il tono sommesso, la raffinata stilizzazione. E noi ci concediamo l’ascolto di una pagina delicata tra la violenza demoniaca dello Scherzo e l’irrompere di una luce violenta e acciecante nel Finale. Ascolteramo la prima sezione e parte della sezione centrale fino alla grande frase cantabile del violoncello (ascolto: 6,40 minuti).
Particolare attenzione mi sembra meriti l’interpretazione del Finale, certamente il tempo più problematico della Settima: dopo le atmosfere notturne, sempre diverse, dei primi due tempi, e dopo quelle allucinate nello Scherzo, e di delicato idillio nella seconda Nachtmusik, irrompe con violenza la luce del sole. Un celebre passo di Adorno riassume il disagio che molti provano di fronte all’idea di un Finale vitalisticamente affermativo, senza ambiguità. Adorno parla di tono forzatamente lieto e di incapacità soggettiva, per Mahler, di giungere ad uno happy end. Ma ci si è anche chiesti se la luminosità che tenta di affermarsi irrompendo in questo Finale non sia minata dall’interno, non si risolva di fatto in una critica alla possibilità stessa di un Finale trionfalistico. La citazione del pathos solenne dei Meistersinger fa pensare ad ironiche ambivalenze. L’interpretazione di Abbado, soprattutto nella registrazione con i Berliner, mi sembra una testimonianza eloquente delle ragioni di quanti vedono il Finale della Settima in chiave complessa, ambivalente, critica: il suono dei Berliner ha qualcosa di tagliente e di aggressivo e non ci induce a credere al trionfo della luce. Individua poi con ammirevole chiarezza e tensione lo svolgersi di questo Rondò, dove le idee del refrain sono sottoposte a continua trasformazione. Ce ne faremo un’idea ascoltando i primi cinque minuti.
Un ultimo esempio, dalla Nona Sinfonia nella registrazione dal vivo del 1999 con i Berliner. Molte cose mi piacerebbe far ascoltare di questa interpretazione, che trovo nel suo insieme tra le più felici di Abbado in Mahler. Il Rondo Burleske ci appare una delle pagine di Mahler dalla scrittura più densa e complessa, con una accumulazione di linee contrappuntistiche che è frutto di autentico virtuosismo compositivo. Un virtuosismo tutt’altro che compiaciuto di sé, che approda ad un assurdo vortice, ad una vertigine allucinata, con feroce disperazione. Anche qui Abbado mi sembra raggiungere esiti di lacerante tensione. Ascoltiamo il primo refrain, seguito dall’episodio con la reminiscenza della Vedova allegra (ascolto).
Sarebbe bello concludere con l’Adagio finale della Nona, con lo spegnersi mortale, lo svanire nel silenzio che Abbado definisce con sobria nitidezza e con infinita delicatezza (del suo ritegno fa parte anche la scelta di un tempo un poco più veloce del consueto: nella registrazione 1999 l’Adagio dura meno di 26 minuti). Per un ascolto solo parziale preferisco l’inizio della Nona, l’ “Andante comodo”. Abbado sa chiarire in modo ammirevole la struttura di questo pezzo, una delle costruzioni più complesse e originali di Mahler dal punto di vista formale, ed esalta nella strumentazione gli aspetti che sono analitici e disgregati più radicalmente che nelle sinfonie precedenti. All’inizio assistiamo al graduale prender forma del pezzo da materiali frantumati, ognuno caratterizzato da timbri diversi. Da uno stato di aggregazione incerto e sospeso comincia a profilarsi un gesto melodico che non ritroveremo mai uguale, ma in sempre nuove varianti. Si incontra poi un concitato tema in re minore che dà avvio al contrasto fondamentale su cui è costruito questo pezzo. Possiamo ascoltare le prime 107 battute, fino alla fine di quella che potremmo considerare una esposizione, se le categorie formali tradizionali avessero senso qui. Spero che anche un ascolto soltanto parziale basti a far comprendere con quale nitidezza e sobria intensità Abbado ne chiarisca il carattere di libero flusso di coscienza.
 
Paolo Petazzi (conferenza alle "Settimane Mahleriane 2004")

giovedì, dicembre 18, 2014

Intervista a Maurizio Pollini

Maurizio Pollini (5 gennaio 1942)
"E pensare che suonano sempre la stessa musica. I grandi autori antichi sono sconosciuti. Quelli di oggi non li considera nessuno". Il massimo pianista italiano ha un sogno: portare i nuovi compositori al grande pubblico.

Sul fatto che il Maestro sia un perfezionista non c’è dubbio. Per esempio, sull’aria condizionata: difficile trovare il giusto equilibrio tra caldo e freddo, questione di qualche centesimo di grado e infinitesimali percentuali di vapore acqueo. È in un hotel di San Casciano dei Bagni (Siena) dov’è in vacanza con pianoforte a coda al seguito.
Problema: scegliere la stanza dove fare l’intervista. Soluzione: prima ci ha condotto in un salottino sul retro, dove però c’era puzza di fumo e una temperatura troppo elevata, oltretutto la filodiffusione sparava canzonette senza tregua: «No, qui non va bene. Quest’estate la Toscana è una sauna» sbuffa Maurizio Pollini. Quindi siamo andati al bar dove però le bocchette bombardavano dal soffitto fiotti di aria gelata, quindi ha inarcato le sopracciglia: «Sembra di stare in un frigo, cerchiamo un altro posto». Poi siamo usciti sulla terrazza che si affaccia sulle colline toscane, ma l’umidità era eccessiva e le zanzare pericolosamente fameliche.
La strada verso la perfezione è disseminata di ostacoli. Stavamo ormai disperando di portare a casa l’intervista, intanto seguivamo il Maestro in bermuda lungo gli interminabili corridoi dell’albergo. Sarà stata suggestione, ma ci ricordavano quelli dell’Overlook Hotel di Shining. Ed ecco l’illuminazione: «Andiamo dove studio e tengo lo strumento, se fa troppo freddo spegniamo il climatizzatore».
Già, perché nella scelta dell’hotel per Maurizio Pollini è fondamentale che gli lascino portare il suo pianoforte, mica uno qualunque: uno Steinway & Sons lungo quasi tre metri. In tanti dicono di no, un po’ come succede per i cani. Vicino alla sua tastiera non soffre più l’afa e non teme il gelo.
E questo bestione dove l’ha preso?
Me l’ha portato qui Angelo Fabbrini, il tecnico accordatore con cui lavoro da quarant’anni.
Dicono sia la sua vittima preferita, che lo costringa a snervanti giornate di prove alla ricerca di una nota perfetta.
Angelo è anche più fanatico di me: sarebbe capace di passare anni a lavorare su uno strumento per suo piacere personale. Nella vita ha comprato qualcosa come 200 Steinway.
Come vi siete incontrati?
Ho cominciato ad appoggiarmi a lui perché non sempre girando per il mondo si trovano pianoforti di qualità. Dipende dal paese: bene in Giappone, molto meno bene negli Stati Uniti. Lì una volta non si potevano suonare Steinway di Amburgo, che sono i migliori. E anche oggi non è facile trovarli.
Arthur Rubinstein, quando lei vinse a 18 anni il concorso Chopin a Varsavia, disse: «Questo giovane suona meglio di tutti noi».
Esagerato: il giudizio era generoso...
Il pianoforte la segue ovunque?
Non proprio sempre, di solito sto un mese all’anno senza toccare i tasti. Quest’estate eccezionalmente non ho suonato solo una settimana ad Alghero: poi a Villasimius ho preso un piano noleggiato a Cagliari per esercitarmi un po’ e qui in Toscana me lo ha fatto arrivare Fabbrini.
Maestro, perché non ha mai composto?
Vorrei saperlo anch’io. Ho studiato composizione, però non ho mai scritto niente.
E non ama neppure improvvisare?
No, non improvviso mai. Ma non ho preconcetti su chi improvvisa, io non lo faccio e basta. Preferisco così.
Certo che lei non è un uomo di tante parole.
Sì, lo so. Una volta un giornalista inglese mi disse: «Parlare con lei è come cavare sangue da una pietra».
Che differenza c’è tra suonare e interpretare?
La funzione dell’interpretazione è fondamentale: la grande musica del passato è vissuta attraverso gli interpreti che hanno saputo trasmetterla. L’interpretazione non è improvvisazione, ma indubbiamente c’è un fattore d’improvvisazione. Si tratta di un fatto misterioso: un pezzo è stato sviscerato in tutti i suoi elementi, attraverso esecuzioni e studio, ma poi quando sei in sala a suonare ti trovi nella condizione di dovere fare tutto da capo. Non dico che non conti la preparazione, ma il pezzo deve vivere in quel momento attraverso un’improvvisazione.
C’è un rapporto stretto tra l’interprete e il compositore, anche se il secondo è vissuto 200 anni prima?
C’è un legame fortissimo. È ovvio cercare l’autenticità di un’interpretazione, di una visione e di una musica, ma quando si può arrivare a dire di avere capito cosa il compositore «sentiva» o «pensava»? Questo è un enorme punto interrogativo: nessuno lo saprà mai con certezza. Quindi c’è la fondamentale necessità di avere fiducia nel proprio istinto.
Ci sono compositori verso cui lei sente un’affinità più forte?
Sì, però avrei difficoltà a stilare una graduatoria.
Fryderyk Chopin? È uno degli autori di riferimento…
Certo che amo Chopin. Arrivare all’essenza della sua musica è difficilissimo: da decenni mi ci dedico, ma lui sembra difendere il segreto delle proprie note. Wilhelm Furtwängler diceva: «Invidio i pianisti perché loro hanno Chopin».
Se si parla di musica d’arte, tutti pensano a Mozart e Schubert… Insomma volgiamo lo sguardo più indietro che avanti. Perché?
Perché il 90 per cento dei programmi dei concerti è fatto di autori del Sette-Ottocento. Questo porta a una perdita sia per quanto riguarda la musica più antica sia per quella attuale. Per la prima è una scomparsa quasi inevitabile: i grandi autori antichi, come Guillaume de Machault e Josquin Desprès, sono pressoché sconosciuti al grande pubblico.
Chi, scusi?
Ecco vede che ho ragione.
E la musica del ’900?
La prima parte è entrata nella coscienza musicale, la seconda mica tanto. Autori come Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Luciano Berio, Luigi Nono non hanno ancora la presenza che meriterebbero nel cartellone dei concerti.
C’è chi sostiene che è una musica più rivolta agli addetti ai lavori che al pubblico…
Bisogna fare un discorso sulle caratteristiche del linguaggio musicale o dell’arte, e sul significato dell’opera. Wassily Kandinsky ha sintetizzato questo rapporto in uno scritto: in sostanza l’autore cerca elementi che servano a concretizzare la sua ispirazione. Trova quindi i soli suoni, le linee o i colori che gli permettono di esprimerla, ma attenzione, non è che possa cambiarli. Cambiare per esprimersi in modo tradizionale, il che forse accontenterebbe molti ascoltatori, direbbe qualcosa di diverso e non quello di cui ha necessità.
Necessità?
La necessità interiore è la legge fondamentale dell’arte, quindi il compositore non può scrivere suoni che siano più comprensibili al pubblico. Lui ha trovato questi suoni e non può cambiarli o renderli in qualche modo appetibili. Piuttosto è il pubblico che deve comprenderli attraverso un approfondimento.
Ma come spiega questo ritardo nella comprensione della musica contemporanea?
Prendiamo l’esempio di Gustav Mahler, che oggi è uno degli autori più amati e suonati. Un completo apprezzamento della sua musica è avvenuto solo negli anni Settanta, ovvero più di mezzo secolo dopo la sua morte. Come vede, anche in passato non sempre i talenti erano riconosciuti; e oltretutto Mahler usava un linguaggio tonale, si figuri le difficoltà con la dodecafonia. Ci sono anche altri casi: quando, verso il 1840, Richard Wagner diresse la Nona di Beethoven, questa sinfonia era ancora considerata quasi inascoltabile.
Ma allora, in passato, tutto era come oggi?
Non proprio: non venivano eseguite composizioni del passato, ma si presentava il nuovo, l’inascoltato. Oggi ci troviamo in una situazione capovolta.
Da dove bisogna partire per avvicinarsi alla musica di oggi?
Da esperienze musicali. L’educazione musicale nelle scuole non esiste.
E poi?
Sono convinto che sia necessario investire e osare nella musica; com’è accaduto nel campo delle arti visive, dove opere di pittori del nostro tempo sono entrate nella conoscenza grazie ai galleristi.
Che influenza ha avuto la musica contemporanea nella sua formazione?
L’esperienza dei compositori più vicini a noi è essenziale per un musicista.
Lei sta facendo qualcosa per educare il pubblico alla musica contemporanea?
Ho fatto molti concerti di musica contemporanea alla Scala, a Salisburgo, in Giappone. L’anno scorso e quest’anno ho immaginato un ciclo di concerti a Lucerna. Il 30 agosto farò l’ultimo: ho unito pezzi contemporanei a delle Sonate di Beethoven, con l’idea che dovrebbe essere lo stesso pubblico e non un pubblico diverso, non una platea speciale di iniziati, a comprendere la musica contemporanea. Se ci sono motivi di godimento nei brani del passato, ci sono anche in quelli di oggi.
Ma perché, tra i classici, ha scelto proprio Beethoven?
Perché storicamente è uno tra i compositori che ha maggiormente rivoluzionato il linguaggio musicale. C’è una sua lettera in cui dice che lo scopo dell’arte è inventare cose nuove.
E quali pezzi contemporanei ha associato alle Sonate?
Sono stati invitati tre compositori viventi a scrivere pezzi per pianoforte unito ad altri strumenti: Giacomo Manzoni, che è stato presentato lo scorso anno; Salvatore Sciarrino ha scritto un pezzo per cinque voci di madrigalisti, strumenti e piano che verrà eseguito in prima mondiale il 30 da mio figlio Daniele. Il terzo è Helmut Lachenmann, che però non ha potuto completare la sua composizione, per cui abbiamo programmato il terzo quartetto intitolato «Grido».
Per scoprire la musica contemporanea quali brani bisogna ascoltare?
Il metodo più logico sarebbe seguire un processo storico e accostarsi al mondo dei classici moderni con Igor Stravinsky, Arnold Schönberg, Alban Berg, Anton Webern per poi arrivare ai moderni classici come Stockhausen, Boulez, Berio, Nono e infine ai musicisti di oggi. Però non è detto che il modo graduale sia il migliore, c’è un elemento di pedanteria che potrebbe essere evitato ascoltando subito un pezzo contemporaneo.
Ma la musica si capisce o si percepisce?
La musica parla all’uomo nella sua completezza, non siamo divisi in elementi separati. L’elemento emotivo e quello intellettivo esistono contemporaneamente nella musica di ieri come in quella di oggi.
Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica?
Dall’emozione che suscita in noi. Non è certo un criterio scientifico però è l’unico che davvero funziona.
Ma tra cent’anni i compositori di oggi saranno i classici di domani o continueremo ad ascoltare Mozart e Bach?
Io vivo in questo momento, ma penso che seppur lentamente i compositori di oggi entreranno nella realtà musicale di tutti i giorni.
E chi saranno: Boulez, Berio, Nono, Stockhausen, György Ligeti?
Sì, questi e anche altri.
Non crede che anche per i pianisti sia in atto una deriva verso lo star system?
Vede, la musica del Sette-Ottocento fa da padrona nei concerti, e questo fa sì che gli interpreti siano più conosciuti, lodati e seguiti dei compositori stessi. Il che è un’assurdità e favorisce il divismo.
La musica ha anche un valore civile…
Certo, per esempio Daniel Barenboim ha creato un’orchestra composta da musicisti palestinesi e israeliani, la West Eastern Divan orchestra: insieme superano i conflitti. E Claudio Abbado ha fatto molti concerti con l’orchestra Simón Bolívar, ideata in Venezuela da José Antonio Abreu per aiutare i ragazzi dei barrios a riscattarsi tramite la musica.
Con Abbado ha qualche progetto in corso?
Sì: progetti di concerti, per esempio a Vienna e a Ferrara.
Lei è d’accordo con il fatto che la cultura debba produrre denaro?
È un criterio assolutamente folle, che viene applicato da noi perché la mentalità capitalistica porta a questo.
Quante ore studia al giorno?
Di solito suono quattro ore, certe volte di più. (L’intervista è finita e Maurizio Pollini ci accompagna fino nella hall: «Adesso la saluto» si accomiata. «Scusi, ma qui l’aria condizionata è davvero troppo alta»).

intervista di Carlo Piano ("Panorama", 31/08/2012)

domenica, dicembre 14, 2014

Luciano Pavarotti secondo Paolo Isotta


Luciano Pavarotti by Samuel
Paolo Isotta, critico musicale del “Corriere della Sera”.
La sua visione nonché considerazione circa il tenore Luciano Pavarotti è parecchio ardita. Ma credo valga comunque la pena di conoscerne l'Isotta pensiero:
 
"Vorremmo ricordare il tenore emiliano com’era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore «di grazia », emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel «mezzo carattere» dell’Elisir d’amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch’era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l’ha abbandonato mai. Sotto quest’ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d’una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio «lirico»: a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede. Ho un prezioso ricordo d’un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: «Nunn’ è ccosa!». Perché un direttore di tal calibro era scontento d’un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare. Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno. Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata.
L’Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s’accordino fra loro. S’immagini Pavarotti nel Sestetto della
Lucia di Lammermoor… Per avere quest’eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d’orchestra abili nel «riacchiappare » il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti. Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall’arte. Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan. "
 

venerdì, dicembre 05, 2014

Venezia: Ex Novo Musica 2014

La musica è un’immagine virtuale della nostra esperienza del vivere come temporale, senza il suo duplice aspetto del ricorrere e del divenire.Wystan Hugh Auden, 1967

Delineare una fotografia esauriente delle più recenti tendenze della creazione musicale è spesso uno dei compiti che ci si assume nelle presentazioni dei festival dedicati alla musica contemporanea. Questi festival svolgono una funzione istituzionale di grande importanza nella vita della cultura europea e costituiscono motivo di sicuro interesse per gli addetti ai lavori, ma spesso si rivelano, purtroppo, lontani dalla grazia del pubblico, il quale non riconosce in alcuna delle musiche proposte “immagini virtuali” di esperienze vicine al proprio vissuto.
Per quanto ogni gesto di composizione musicale possa metaforicamente descriversi come l’arte di rimescolare un mazzo di carte “ben note”; di “innovare” a partire da una sorta di banca dati di suoni condivisi; per quanto le “novità” che incontriamo in un’opera d’arte che ascoltiamo per la prima volta siano - se ci limitiamo ad una riflessione razionale - non così destabilizzanti da lasciarci senza riferimenti culturali, ci si confronta spesso con giudizi del pubblico uniformemente negativi: alcun momento del concerto sembra aver donato emozioni o aver procurato autentico godimento. Una risposta, quasi “tecnica”, ci viene da Stravinskij:

"La storia degli accordi indica che gli accordi hanno a poco a poco abbandonato la loro funzione diretta di guida armonica e cominciato a sedurre con le loro grazie individuali".

In sostanza - secondo Stravinskij - ci viene a mancare la “guida armonica”, la narrazione, gli accordi non creano più una storia, e in qualche modo le “grazie individuali” degli oggetti musicali che ci vengono presentati, da sole, non ci affascinano abbastanza: eravamo forse, anche se probabilmente non consciamente, venuti al concerto per “ascoltare una storia”?
Descrivere la struttura di un’opera musicale, un processo che può evidentemente essere analizzato solo “in divenire”, è operazione complessa: è dunque naturale aiutarsi proponendo relazioni con altre forme d’arte. Il termine che più spesso ricorre nelle “guide all’ascolto” presenti nei programmi di sala è oggi quello di “forma”: termine tecnicamente appropriato ma fortemente referenziale in quanto immediatamente riconducibile all’associazione con le arti visive. L’attenzione primaria non sembra dunque rivolta a cogliere relazioni interne alle partiture musicali, per “rappresentarle” su un palcoscenico virtuale e illustrarne la drammaturgia, ma piuttosto a descriverle come sequenze, mutazioni, sovrapposizioni di “forme” sonore. Dunque - tornando ad Auden - sottolineare la rinuncia dell’arte contemporanea agli stereotipi del “ricorrere” e del “divenire”.
La percezione dell’arte contemporanea e la relativa valutazione è sicuramente problematica, difficile, discussa con criteri spesso incerti. Le arti, dal ‘900 in poi, hanno abbandonato il costante riferimento alle forme e ai valori del passato per iniziare un’avventura verso mete che vengono perseguite con ricerche di ogni tipo. Dice Massimo Cacciari: «È il tempo della vita nervosa, della percezione distratta, del lavoro generale senza qualità»; le arti sono entrate in questo turbine, il pubblico è disorientato, in un certo senso oscillante fra l’affidarsi alle rassicuranti glorie del passato e l’avventurarsi nello scomodo e insicuro terreno del nuovo, dell’oggi che non offre veri segnali per anticipare il domani.
La nuova stagione concertistica Ex Novo Musica 2014, che inaugura il secondo decennio di attività del Festival e festeggia il XXXV anniversario dalla nascita dell’Ex Novo Ensemble, è stata fortemente voluta a Venezia e per Venezia con il generoso sostegno delle più prestigiose istituzioni culturali cittadine; intende offrire una molteplicità di percorsi narrativi che si aprono alle più diverse esperienze musicali moderne e contemporanee senza rifiutare momenti di riflessione su musiche del passato e proposte di opere di autori di raro ascolto. La stagione si articola in tredici eventi non solo fortemente strutturati al loro interno ma anche concepiti per essere letti in “percorsi verticali” che stimolino più ampie riflessioni sulle musiche in programma. A tre serate dedicate alla musica contemporanea con sedici brani in prima esecuzione assoluta si affiancano a progetti concertistici di raro ascolto con la partecipazione di illustri esecutori, dalla voce di Monica Bacelli, alle presenze del flautista Giampaolo Pretto, del bayanista Germano Scurti e dei pianisti Massimo Somenzi e Maria Grazia Bellocchio. Due eventi sono riservati alle produzioni di musica elettronica tra cui quest’anno una proposta di ascolto delle interpretazioni originali fissate da Luigi Nono su supporto discografico per la prima volta diffuse in versioni multicanale utilizzando importanti fonti storiche conservate presso l’Archivio veneziano. La prestigiosa collaborazione tra Ex Novo Musica e il Centre de musique romantique française del Palazzetto Bru Zane ha dato vita a un focus sulla musica romantica francese con due affascinanti concerti rivolti alla riscoperta di questo avvincente repertorio.
Sincera riconoscenza il Festival desidera esprimere alle istituzioni veneziane che hanno voluto sostenerlo: la Fondazione Teatro La Fenice grazie alla sensibilità artistica del suo Sovrintendente Cristiano Chiarot; l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Venezia grazie alla competenza di Raffaele Speranzon; il Comune di Venezia che, pur vivendo una fase di complessa difficoltà istituzionale, ha inteso idealmente continuare a sostenere il progetto con determinazione.
 
Aldo Orvieto (Ex Novo Musica 2014)