Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, agosto 31, 2014

Peter Gabriel: tra fiabe e Reald World

Peter Brian Gabriel (13/02/1950)
Se da leader dei Genesis aveva saputo creare una peculiare forma di art-rock progressivo dalle forti tinte teatrali, da solista Peter Gabriel non è stato da meno, sviluppando un'ambiziosa ricerca sull'integrazione tra elettronica e world music che lo ha portato a realizzare dischi innovativi e sperimentali, destinati a influenzare due decenni di musica. Artista impegnato in ambito sociale e politico oltre che musicale, Gabriel ha inoltre contribuito attraverso la sua etichetta Real World, a far conoscere al pubblico le opere di musicisti "etnici" provenienti da ogni angolo del pianeta con una particolare attenzione al Terzo Mondo.
Abbandonati i Genesis a un destino gramo in cui le canzonette di Phil Collins prenderanno il sopravvento sulle ingegnose suite degli anni Settanta, Peter Gabriel intraprende la sua avventura solista a partire dall'omonimo album del 1977, forte della ballata folk di "Solsbury Hill" e della lugubre profezia di "Here Comes The Flood" impreziosita dalla chitarra di Robert Fripp. E il leader dei King Crimson è anche l'ispiratore del secondo disco Gabriel 2, un lavoro più sperimentale che si concede perfino divagazioni hard-core come "DYL" e tenta nuove contaminazioni elettroniche, grazie anche all'uso del Fairlight, il synth-computer che domina gran parte degli arrangiamenti.
Più maturo Gabriel 3 annovera una manciata di ballate elettroniche pervase da una concezione tetra e pessimista sul futuro dell'umanità. La più suggestiva è "Games Without Frontiers", filastrocca sinistra che evoca presagi di guerra. Ma il disco sfoggia anche altri gioielli, come la serrata, angosciante "I Don't Remember" e la struggente ode a "Biko" martire della lotta contro l'apartheid in Sudafrica, arricchita da una strumentazione etnica quantomai variegata (tamburi marziali, coro africano, cornamuse scozzesi etc.).
Il quarto album, passato alla storia anche come Security, accentua la componente folk e le sonorità da "musique concrete" ma si avvale anche di un uso straniante del sintetizzatore e di ritmi sempre più incalzanti. Ne è un saggio il funky elettronico di "Shock The Monkey" (uno dei suoi massimi hit) e l'incedere meccanizzato di "I Have The Touch".
Tra i brani più ambiziosi, "San Jacinto" che sfrutta un uso ossessivo e straniante delle percussioni, e l'inno finale di "Wallflower", che svela la filosofia politica dell'intero lavoro.
E' in questo periodo che Gabriel inizia anche a comporre colonne sonore per il cinema. Una delle più ambiziose è quella incisa per Birdy di Alan Parker (1985), insieme a Jon Hassell (uno dei padri della world-music), Larry Fast, David Rhodes e Tony Levin.
Il grande successo internazionale arriva nel 1986 con So, un lavoro che mescola gli esperimenti dei dischi precedenti con sonorità più funk e commerciali, come negli hit "Sledgehammer" e "Big Time". Ma le vere gemme del disco sono la cupa profezia di "Red Rain", la tenera elegia di "In Your Eyes" e lo struggente duetto con Kate Bush in "Don't Give Up", che riescono abilmente a tenere insieme tecnologia elettronica, melodie pop e sapori etnici.
Il vero capolavoro della carriera solista di Peter Gabriel è però un'altra colonna sonora, Passion, realizzata per il film di Martin Scorsese "L'Ultima Tentazione di Cristo". Un'opera sincretica, in cui Gabriel veste i panni di un Brian Eno della world music, attingendo a un'infinità di suoni folk, originari soprattutto dell'Asia e dell'Africa, e rielaborandoli in studio. Collaborano alla realizzazione del disco musicisti provenienti da paesi lontani quali Pakistan, Turchia, India, Costa d'Avorio, Egitto, Bahrain, Nuova Guinea, Marocco, Senegal e Ghana. Spiccano, in particolare, il violino di Shankar, i vocalizzi di Yossou N'Dour, il flauto egiziano di Kudsi Erguner, le tabla di Hossam Ramzy, le percussioni di Fatala. "Per quasi tutti lavorare su quel materiale era una novità assoluta, eppure ne rimasero entusiasti - racconta Gabriel -. La colonna sonora è permeata dallo spirito delle loro performance". Il disco è costruito in crescendo, in un'ascensione ideale dal tribalismo pagano più sfrenato fino al misticismo arabo e orientale, per approdare alla solennità della passione cristiana. "Scorsese voleva mostrare la lotta tra il lato umano e divino in Cristo in modo forte e originale - spiega Gabriel - mi impressionò il suo coinvolgimento nel contenuto spirituale del progetto. Lavorare con lui è stata un'esperienza fantastica". Le tracce di Passion raccontano questo conflitto attraverso meditazioni mistiche ("Gethsemane", "Lazarus", "In Doubt", "Before Night Falls") e sinfonie marziali alla Wagner ("It Is Accomplished"), tribalismi raga ("Feeling Begins") e trascinanti canti della giungla ("A Different Drum"), spettrali litanie arabe ("Of These Hope") e digressioni minimaliste ("Zaar"), inni mantra ("Open") e melodie struggenti alla Morricone ("With This Love"). L'apice mistico del disco è la title track, in cui il canto da muezzin di Gabriel si unisce al soprano solenne di Nusrat Fateh e ai vocalizzi inconfondibili del senegalese Youssou N'Dour. La tromba minacciosa di Hassell, la cadenza serrata delle percussioni e l'intreccio cupo delle tastiere contribuiscono ad acuire il clima solenne, da liturgia universale. Passion, debutto di Gabriel con la sua Real World, vince un Grammy come "miglior disco new age" dell'anno, riuscendo anche a entrare nelle classifiche di Usa e Gran Bretagna.
La nascita della world music targata Peter Gabriel si accompagna negli anni alla produzione di una moltitudine di dischi per musicisti del Terzo Mondo e a una serie di progetti internazionali come il Womad (World Of Music, Arts And Dance), creato per dare visibilità in Occidente alle tradizioni dei luoghi meno conosciuti del mondo e trasformato in appuntamento annuale itinerante.
Il successivo Us è un album più intimista e personale, frutto amaro del fallimento del matrimonio di Gabriel (la cui nuova partner è l'attrice Rosanna Arquette). Il suono mescola il pop-funk tecnologico di So e il sincretismo etnico di Passion, grazie anche all'opera dei fidati Levin (basso) e Rhodes (chitarre) e di una schiera di musicisti folk. Nascono così la cupa desolazione di "Digging In The Dirt", ma anche l'appassionata invocazione di "Come Talk To Me" e la delicata elegia di "Blood of Eden" (entrambe interpretate da Sinéad O'Connor), o ancora la struggente ballata di "Love To Be Loved" (con Brian Eno) e la sonata per piano di "Washing Of The Water".
Negli anni successivi Gabriel si concentrata soprattutto sullo sviluppo del progetto Real World, fino al 2000 quando esce Ovo, pomposa opera rock con una variegata gamma di stili e di strumenti: dalle percussioni ai sintetizzatori, dai violini indiani ai ritmi techno, dalle melodie celtiche a sprazzi di musica industriale. E' una favola futuribile, dove i protagonisti rispecchiano l'ambizione dell'essere umano di governare la natura a costo di distruggerla. Tre generazioni di una famiglia si muovono attraverso un tempo indeterminato, raffigurato attraverso tre stadi: preistorico, industriale e tecnologico. "Ovo" sarà l'ultimo rappresentante della famiglia, colui al quale verrà affidato il compito di raggiungere l'equilibrio tra il sapere tecnologico e quello morale. Una favola con intenti ambientalisti di facile presa, dove è la musica a dare profondità e prospettiva alla storia. Accanto a Gabriel, voci e musicisti di valore come Richie Havens, indimenticabile performer di Woodstock, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, Neneh Cherry e Paul Buchanan cantante dei Blue Nile, ma anche Jocelyn Pook autrice di alcune delle musiche della colonna sonora di "Eyes Wide Shut" di Stanley Kubrick e il maestro del flauto di Ney, l'egiziano Kudsi Erguner.
L'attesissimo Up (2002) delude in buona parte le aspettative di pubblico e critica. Il singolo "The Barry Williams Show" è un motivetto banale, quasi una copia sbiadita della gloriosa "Shock The Monkey". Ma anche le sperimentazioni sparse qua e la all'interno del disco non colgono nel segno. "Sky Blue", ad esempio, è tanto accattivante quanto scontata; "My Head Sound Like That" e "More Than This", pur curatissime nell'arrangiamento, non riescono ad emozionare. Fanno meglio, semmai, l'iniziale "Darkness" che parte con una marcia alla King Crimson per poi lasciare spazio a una bella melodia per piano e voce, "Growing up", in cui il mellotron introduce una progressione ritmica contagiosa, le due ballate "No Way Out" e "I Grieve", intense e malinconiche nella miglior tradizione di Gabriel, e infine "Signal To Noise", apice "etnico" del disco, capace di sposare gli orientalismi di Passion (affascinante il cantato di Nusrat Fateh Ali Khan) con il sinfonismo più epico e teatrale. Ma resta l'impressione che Gabriel abbia tentato di sopperire con la cura certosina degli arrangiamenti una carenza compositiva già emersa con il precedente Ovo.
Nel 2008 esce a nome Peter Gabriel Big Blue Ball è il frutto di tre anni di jam, session e incontri avvenuti a inizio Nineties sotto la supervisione del compositore inglese. A passare per gli studi Real World, un campionario degli artisti accasati presso l'etichetta di Gabriel e un discreto numero di nomi di spicco in ambito world music e dintorni.
L'album era rimasto nel cassetto per il lungo lavoro di riordino e produzione. Il risultato di quindici anni di rimaneggiamenti è un disco artificioso quando non direttamente kitsch, che segue Ovo e "The Imagined Village" nell'elenco delle delusioni all-stars licenziate recentemente da casa Real World.
Molti pezzi scommettono tutto sul suono, trascurando l'aspetto compositivo. Tra i restanti, qualcosa si salva. Ecco allora "Habibe" (Natacha Atlas, Hossam Ramzy, Neil Sparke), arabesco suadente di fumi minori armonici, archi e pulsazioni chill-out. "Exit Through You" (Joseph Arthur, Peter Gabriel, Karl Wallinger), piacevole filastrocca funky più consueto stacco atmosferico/enfatico. Poi Sinéad O'Connor che canta "Everything Comes From You", una conta che evolve in morboso rimuginamento amoroso e si spegne su un gioco ossessionante di botta-e-risposta vocali. Poco possono, invece, Billy Cobham, Jah Wobble, Vernon Reid per risollevare i brani che li vedono coinvolti.
In attesa del nuovo album di inediti, a inizio 2010 arriva Scratch My Back. È un album di cover: dodici brani per altrettanti artisti che si impegneranno, a loro volta, a realizzare una versione di un pezzo di Gabriel. Alcune scelte non stupiscono: Paul Simon, David Bowie, Talking Heads, Elbow. Altre sono meno facili da indovinare, e denotano una certa attenzione di Gabriel verso il panorama attuale: Arcade Fire, Bon Iver, Radiohead, Regina Spektor.
Il disco è interamente orchestrale e dominato da un'atmosfera scura, perfino post-apocalittica. Le emozioni appaiono lontane, slavate; la rassegnazione pervade voce e note in un connubio impossibile di intensità e atarassia.
Come nella desolazione degli ultimi Talk Talk, anche qui filtra di tanto in tanto un po' di luce. Guizzi di calore, mulinelli che nascono come per incanto e in un attimo si dissolvono, lasciando nell'aria un vago sentore di magia.
Su New Blood (2011) Gabriel rielabora 14 opere autografe con l'ausilio di un'intera orchestra, badando bene a sottrarre dal gioco sia chitarre che batterie. Non c'è più rock, non c'è più sangue, o meglio, è un nuovo sangue quello che sgorga da queste tracce mistificate ad uso e consumo di quel settore d'attenzione degli esperti di marketing che rientra sotto l'antipatico nome di "adult contemporary". Non è musica per giovani, sono daddy's songs, canzoni per agiati e imborghesiti padri di famiglia (vedi "Wallflower").
Riascoltare le arrampicate vocali di "The Rhythm Of The Heat" è emozionante sempre come la prima volta, ma qui è un ritornare su campi noti, che nulla aggiungono alla grandezza dell'artista di Bath. E sorbirsi un disco intero di saliscendi di archi e fiati non è così gradevole per chi puntò tutto sugli schiaffoni di "The Knife", sull'infinita "Supper's Ready" o sull'imprescindibile ending di "The Musical Box": ah, benedetta gioventù!
In alcuni casi ci troviamo di fronte a partiture impegnative che vanno a costituire situazioni in grado di discostarsi notevolmente dagli originali, con in più il pathos di un'intera orchestra a disposizione. Ma "Intruder", privata del ritmicismo iniziale, perde tutta la sua straordinaria forza d'impatto, "In Your Eyes" resa in quel modo diventa una canzone terribilmente normale, "Mercy Street" fatichiamo a evitare di skipparla, durante l'ascolto di "Red Rain" e "Don't Give Up" ci vien quasi voglia di interrompere l'agonia, per non parlare dell'accoppiata "The Nest That Sailed The Sky"/"A Quiet Moment", che arriva a totalizzare circa nove minuti di quasi assoluta inutilità.
Magari viste dal vivo, nel tour di qualche mese fa, queste versioni sarebbero state anche vagamente coinvolgenti, ma sul disco non riescono a lasciare il segno. Uno degli ultimi colpi di coda di un artista che, ahimè, pare davvero non avere più nulla (di nuovo) da dire.
 
Claudio Fabretti (www.ondarock.it)

sabato, agosto 09, 2014

Renè Zosso: Musique à bourdon

Renè Zosso (1935)
Se l’allaccia in vita da quasi mezzo secolo. Eppure il gesto con cui ne accarezza la cinghia sembra ancora vergine e giurerei che ogni volta le dita ripercorrano, delicatamente, il profilo del volto di donna che fa da polena a quel vascello in miniatura. Quando la carezza passa alla chiglia si fa più grave: chissà in quel legno, curvato, intagliato, lucidato da oltre cento ore di lavorazione artigianale, quale dàimon si nasconde. Chissà se quest’uomo sottile, capelli bianchi raccolti in una coda sobria, sandalo cisalpino e sguardo di Berlicche, riuscirà come sempre nel mesmerismo: domare lo strumento e farsene domare, in uno scambio osmotico di fluidi che passa per le vibrazioni di corde chiamate bordoni. Ora se l’aggiusta sulle cosce in un assestamento rituale, controlla i tasti, pizzica la trompette semilibera che consente il ritmo, apre lo scrigno in cui ancora riposano i denti che masticheranno le corde nella melodia, cerca il pestello di legno cavo con cui accorda così spesso la ghironda. Perché così spesso la ghironda si scorda, basta uno sbalzo di temperatura, un brusco movimento. E allora così spesso René si lamenta: “Ecco, è già falso”. Il suono, intende, anche se il disappunto che ci mette farebbe credere che una ghironda scordata renda falso il mondo intero. O possa farlo crollare, dato che, europea per nascita e da mille anni europea per diffusione, fu nella tradizione iconografica diabolica e benedetta, ritratta da Bruegel ad accompagnamento del suo Trionfo della Morte, ma anche, sotto sembianza del suo illustre avo l’organistrum, scolpita ad accogliere i pellegrini sul Portico della Gloria a Santiago di Compostela o affrescata tra mani d’angelo nell’Incoronazione della Vergine del Bergognone a San Simpliciano a Milano. “Moderno o antico, in musica, non significa nulla. Per la prima volta nella storia abbiamo a disposizione tutte le musiche del mondo, nel tempo e nello spazio. Perciò fare musica con uno strumento medievale significa comunque essere moderni. La ghironda nell’anno mille era uno strumento di ricerca, che segnò l’inizio della polifonia. Uno strumento d’avanguardia. Ed è così che lo vedo ancora io oggi”. La profonda voce attorale riecheggia nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, nella cittadina svizzera di Biasca. È una delle chiese romaniche più importanti del Ticino, ma si apre solo chiedendone le chiavi alla chiesa di San Carlo, più sotto. Più sotto di alcune decine di ripidi gradini, saliti mentre il primo vento autunnale vien giù dal Gottardo. Stasera la chiesa accoglierà il pubblico di un concerto dall’ambizioso programma: unire nell’armonia superiore della musica islam, ebraismo e cristianità, ovvero Carmina Burana, Cantigas di Santa Maria, melodie d’amore trovadoriche, canti tradizionali persiani e canti sinagogali, accompagnati da ghironda, cheremia, flauti medievali, santur (lo strumento di Zorba il Greco nel libro di Kazantzakis) e tombak (la percussione più completa del mondo per varietà di suoni).
Sotto lo sguardo del Cristo Pantocrator della volta, si sono appena concluse le prove. Gli altri due componenti del Clemencic Trio, il viennese René Clemencic e il persiano Esmail Vasseghi, ci lasciano soli, circondati da affreschi, bassorilievi e microfoni. Zosso non porta orologio né cellulare, ma in tasca ha una calcolatrice elettronica che gli fa da cipollone e così può controllare che gli resti abbastanza tempo per un pisolino prima del concerto. Poi si accende uno dei suoi beedies, quelle non-sigarette adatte a gente che parla poco, perché appena ti distrai te la fanno pagare e si spengono subito. Ma René parla, e riaccende. Racconta di questa storia d’amore e di travolgente passione fisica, tra l’uomo e il suo strumento, che comincia nel 1958, quando il coup de foudre lo rapisce in un caffè di Losanna, dove ascolta suonare un duo, “les gars Jules et La Marie”. René, allora ventitreenne professore di Lettere ginevrino, ma anche cantante, attore e direttore del centro di letture sceniche del teatro universitario, uno strumento così non l’aveva mai visto, mai sentito, non ne conosceva neppure il nome. Cercava da anni l’accompagnamento adatto per il suo repertorio, composto di canzoni tradizionali francesi e corali. Ci aveva provato con il piano e la chitarra, ma non era scattata alcuna alchimia: “Ai chitarristi che accompagnano i danzatori di flamenco sembra che la chitarra faccia bollire il sangue. Io non provavo nulla, non sentivo il rapporto fisico”. La ghironda, invece, lo innamora subito. La vuole, la insegue nei caffè, nelle stazioni sciistiche e alle sagre del vino. Acquista il suo primo esemplare nel 1960. Ne apprende i rudimenti interpretativi nella scuola di formazione di Poitiers. E nell’estate di due anni dopo, si sente pronto: suona per la prima volta in pubblico, in Provenza, e nel gennaio successivo tiene il suo primo concerto ufficiale a Ginevra. E la ghironda lo ripaga di tutto, gli entra dentro, lo pervade, lo trasforma anche fisicamente: “Gli amici che mi conoscono da anni dicono che nel tempo la mia voce è cambiata. Non è solo invecchiata, si è ‘accordata’ con lo strumento”.
Hootenanny è una parola che non si usa quasi più. Nata nei campus delle università americane negli anni Sessanta, indicava i raduni informali in cui cantanti folk di diverse provenienze si avvicendavano ai microfoni aperti, spesso improvvisando, con il coinvolgimento del pubblico. The Kingston Trio, Bob Dylan, Joan Baez, Peter, Paul & Mary erano tra i protagonisti di questi happening che, prima di diventare format televisivi e poi addirittura film (“Hootenanny Hoot”, del 1963, vede sul grande schermo le performance di Johnny Cash e di George Hamilton IV) e di essere spazzati via dalla british invasion, vennero importati in Europa, dando vita al grande revival folk. Se da noi furono le cantine di via Garibaldi a Roma, con il Folkstudio di Cesaroni, a Parigi fu il Centre américain, dove Lionel Rocheman organizzava un hootenanny ogni settimana. Chiunque vi si poteva esibire, con un’unica regola: due canzoni al massimo e poi avanti il prossimo, che poteva essere Roger Mason, Steve Waring, Catherine Perrier e John Wright o un allora giovanissimo performer d’arpa celtica, Alan (Cochevelou) Stivell. In Francia, il ritorno alla musica tradizionale coinvolse anche il mainstream di allora: Yves Montand e Guy Béart incisero “vieilles chansons françaises”, Jacques Douai, “il trovatore dei tempi moderni”, primo interprete di “Les feuilles mortes”, recuperò i versi dei poeti francesi medievali, mentre alcune canzoni di Georges Brassens si distinguono a fatica dalle antiche melodie popolari. In questa cornice, René Zosso e la sua ghironda fanno un ingresso trionfale sui palchi dei folkfestival, con un repertorio che spazia dai canti dei trovatori a quelli dei mendicanti, dalle pastorali agli intrattenimenti dei salotti del Settecento, fino a Léo Ferré. Per tredici anni, René porta in tournée come solista nei teatri di tutta Europa, nei cabaret della Rive Gauche, ai Cloysters di New York, il suo recital per canto e ghironda: “Le dur désir de durer”. È il titolo di una raccolta di Paul Eluard, un verso che traduce alla perfezione la filosofia di René, che naturalmente è la filosofia della ghironda, o meglio, del bordone. “La musica inventa il silenzio, l’architettura inventa lo spazio. Fabbriche d’aria”, scriveva Octavio Paz a proposito di John Cage, ma la formula si potrebbe benissimo adattare a René Zosso: il bordone, la corda di accompagnamento monotonale, è diventata negli anni, per lui, l’architettura dell’esistenza stessa, l’alfa e l’omega, l’eterno ritorno o, come ama dire, “la pagina bianca senza tempo e spazio, che non può annoiare mai, perché semmai quel che annoia è il testo, la pagina bianca che colpa ne ha?”.
Attraverso “lo spirito del bordone”, René costruisce una personalissima scansione interiore del tempo, fondata sull’ostinazione della durata, appunto, e contenuta entro le mura di un volume sonoro ininterrotto, sul quale iscrive le melodie più diverse, canta, recita, anche, passando da un brano all’altro senza soluzione di continuità, mentre la ruota della ghironda gira e gira, come girava per le strade insieme ai mendicanti ciechi che ne furono per secoli tradizionali interpreti (rendendola strumento “malfamato”) in Francia, ma anche in Ungheria e in Ucraina, “finché Stalin non decise di deportarli tutti, perché la ghironda rappresentava un elemento di identità nazionale troppo forte per il socialismo”. La ruota di Zosso gira e gira fino alla sperimentazione elettroacustica a Bourges, con la ghironda amplificata e le dita che pizzicano direttamente le corde; gira durante le serate di improvvisazione alla fine degli anni Sessanta insieme al percussionista storico del free jazz, Pierre Favre, e gira quando nel 1970 incontra René Clemencic, compositore, direttore d’orchestra, virtuoso di flauto, musicologo e scrittore, dottore in filosofia, conoscitore dell’aramaico e di un’altra decina di lingue, collezionista di incunaboli, libri emblematici e sculture, responsabile del ciclo “Musica Antiqua” nella stagione di concerti del Musikverein di Vienna, ma soprattutto fondatore e direttore di un complesso di musica antica di fama internazionale, il Clemencic Consort. I due René si piacciono subito e iniziano a collaborare. Zosso viene coinvolto in tutti i progetti che riguardano i due periodi storici d’oro per la ghironda, il Medioevo e il Settecento, che vide la ghironda tornare di moda, ideale accompagnamento alle danze di corte. Così inizia una nuova stagione di concerti e di giri di ruota intorno al mondo: Berlino, Budapest, Varsavia, Avignone, Madrid, Venezia, Gerusalemme unite dall’asse immaginario creato dal bordone e dal programma Carmina Burana. I circuiti sono i più diversi, impossibile classificarli. All’inizio degli anni Ottanta ad esempio, Zosso arriva in un villaggio di montagna, nell’Ardèche, per un concerto che vede la partecipazione di circa ottanta persone, “ovvero la quasi totalità degli abitanti. Un successo di cui vado ancora orgoglioso”. Finito il concerto, sul tavolo degli organizzatori René vede una cartolina. È stata spedita da Venezia e raffigura una struttura galleggiante sulla laguna che René riconosce subito, perché vi ha suonato con Clemencic tre mesi prima. È il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, ispirato ai teatrini cinquecenteschi, presentato nel 1979 alla Biennale Teatro/Architettura e da poco ricostruito sul progetto originale per Genova 2004: “In quel momento ho compreso la mia fortuna. Pochissimi musicisti, attori, cantanti hanno la possibilità nella loro carriera di suonare nella stessa stagione per due pubblici così diversi, il supercompetente delle manifestazioni di livello mondiale e il viscerale del villaggio di montagna”.
A costoro vanno aggiunti anche i cinefili incalliti, che hanno goduto ogni minuto dei duecentosessanta che compongono “Molière”, film del 1978 firmato da Ariane Mnouchkine e musicato da René Clemencic, ricorderanno la performance alla ghironda di René, che cantò per un’intera notte di ciak, in costume, diretto dalla “volitiva” Ariane, l’invettiva di una giovane dama al drammaturgo ormai anziano. La ruota girò, e a lungo, anche a propiziare l’incontro più importante della vita di René, prologo a un’unione lunga quasi quanto quella con la ghironda. Quindici anni lei, Anne Oznowicz, francese di origini ucraine, quasi il doppio lui, in Lorena, una sera a metà degli anni Sessanta. Lui suona, lei lo ascolta, insieme alle sue compagne di scuola. Poi gli scrive una lettera che lui ricorda ancora, ma a cui non rispose mai. Tre anni dopo, lui tiene un concerto in una scuola di Nancy, la città di lei. Anne reclama la sua risposta, ma l’avrà solo al concerto successivo, dopo altri tre anni, quando è ormai una studentessa universitaria di filosofia. Da quel momento ai concerti ci andranno insieme e quando nel 1971 René organizza un workshop a Ginevra, Anne inizia a cantare e a suonare. Sceglie la ghironda, dapprima, poi la cetra ungherese, altro strumento a bordone e si unisce a un gruppo di musica popolare della Savoia. Dal 1976 acconsente a suonare con René e ghironda e cetra ungherese sono insieme ancora oggi: “È una storia lunga, ma piena di pause, di attese. Ci siamo messi insieme nel 1971, ma ci siamo sposati solo nel 1991, dopo vent’anni passati a pensarci bene”. Come dire, le dur désir de durer.
 
di Stefania M.Vitulli (Il Foglio, 30/11/1999)

martedì, agosto 05, 2014

Quel giorno che lessi Bondi e stetti male...

Rubiera (RE), Corte Ospitale
Era una fredda giornata di gennaio e un vento freddo ti entrava nei calzoni e da lì nei boxer e da lì arrivare al gioiellame di famiglia e ridurlo ad inutile orpello è un attimo.
Il luogo era Rubiera; un paesino ridente e rosso dell’Emilia felix; fra Reggio e Modena.
Io e Renato Sarti si era lì a provare credo ”Io santo tu beato“, lo spettacolo contro la chiesa in cui io faccio una specie di padre Pio, pugliese/balanzone e lui Pio XII, secco secco e bianco cenere, spettacolo che in giro per l’Italia nessuno vuole comprare (ma dai!?) insomma eravamo lì ospiti della “Corte Ospitale“ - un luogo bellissimo dove ti ospitano, c’è una specie di ostello con camere, ci sono delle sale prove, una cucina, una sala a mangè enorme… come essere ospiti di chi ama il teatro e ti accudisce e ti coccola… in cambio? una replica a prezzi stracciati.
C’è anche la Rubierese; società di calcio diretta con amore familiare e con tante squadre dai più piccini ai più grandi; tanti successi ed una sala trofei impressionante… allenatore dei portieri? per dirne una… Taibi
Bene, eravamo lì io e Renato. E il gelo e la neve ricoprivano le belle campagne reggiane, che diventano magiche e misteriose nei rigori dell’inverno… un buon bicchiere di vino ed un pane e salame in una qualche osteria di un borgo a scelta fra i tanti e la vita acquista tutto un suo senso…
Dove eravamo rimasti? Ah sì! a quell’incapace di Bondi!
Bene. Il nostro amico, e deus ex machina della corte ospitale, Walter Zambaldi ci propone, già che eravamo lì, di fare una serata/incontro con il pubblico per chiacchierare di ”Io santo tu beato” e, idea sua, per sovrappiù di leggere le poesie di Bondi… così a tempo perso e per vedere di nascosto l’effetto che fa…
Subito io e Renato dopo aver riso per venti minuti all’idea che Bondi possa aver scritto delle poesie, ed aver vomitato altri venti minuti saputo che era vero accettiamo… con sprezzo del pericolo e toccandoci anche un po’ i coglioni ci diamo appuntamento con Walter per il giorno dopo… al teatro verso le nove… vestiti come capita e con il libro (gliele hanno pubblicate!!!!) di Bondi in mano… coi guanti.
Nasce il problema subito evidente a me e a Renato di come affrontare la materia… come le leggiamo ‘ste poesie? Come ci mettiamo? Di traverso-ironici-seri ma con garbo-irridenti-con le misure protettive del caso?
Decidiamo alla fine di leggerle normalmente come, e ci vuole il pelo sullo stomaco, fossero le poesie di un qualsiasi poeta. E ci viene di nuovo un rigurgito, ma tant’è, oramai l’avevamo promesso a Walter e non ci potevamo più tirare indietro.
La sera del giorno dopo arriva in fretta… passata la giornata a provare il tempo ci è volato e ci troviamo senza renderci conto alle nove davanti al teatro… la serata va avanti allegra… si chiacchiera col pubblico… si parla di politica… di chiesa… di preti di frontiera e di papi assassini… ma, anche non volendo, dopo un po’ gli argomenti si esauriscono e viene il momento tanto atteso dal pubblico della lettura delle terzine del ministro della Cultura (e già qui parte la prima risata oceanica).
Cominciamo come d’accordo così… semplicemente a leggerle e dopo un poco, con somma sorpresa, l’ilarità serpeggia… partono le prime timide risate come di chi non sa se deve ridere o se bisogna stare seri… dopo un poco le titubanze ed il pudore vengono accantonati e le risate risuonano sonore… cominciano, da parte mia e di Renato, i paragoni impietosi e le battute anche pesanti… volevamo lasciare brechtianamente al pubblico ogni giudizio, ma trascinati dall’euforia generale non ci siamo trattenuti… quella sensazione di nausea se n’è andata e la serata si chiude con un lungo applauso e il risuonare delle risate si mischia ai commenti salaci “ministro d’la culteura! Ma va a cagher!“, “soccia che poeta!” e via così.
Fuori infuria la bufera e la neve scende copiosa… tutti torniamo a casa a scaldarci con un buon bicchiere di vino… sereni e con la convinzione di aver reso un servizio al paese… e alla poesia.

di Bebo Storti (Il Fatto Quotidiano, 22/10/2010)