Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 14, 2015

Igor Stravinsky nei ricordi di Ezio Lazzarini

Igor Stravinsky (1882-1971)
2013 anno dei centenari. Si ricordano i grandi Verdi e Wagner (nei 200 anni dalla nascita). Il mondo della musica ricorda inoltre i 100 anni dall’esecuzione a Parigi (Théâtre des Champs-Elysées 29 maggio 1913) del balletto, diventato ormai un famosissimo pezzo sinfonico, Le Sacre du Printemps di Igor Stravinsky.
Tutto ciò mi ha risvegliato una serie di ricordi e mi sono accorto che questo grande compositore ha segnato diversi episodi della mia vita.
Cominciamo dalla primavera... del 1956!
All’epoca studiavo al Conservatorio B. Marcello e una mattina notai agitazione e fermento tra insegnanti e allievi.
 Ricordo soprattutto i miei compagni che mormoravano "fioi ghe xe Stravinsky..... xe rivà Stravinsky!".
Conoscevamo poco delle sue musiche, ma il nome e la fama erano già molto noti; il Maestro era a Venezia per decidere in quale sede si sarebbe eseguita la sua ultima composizione Canticum Sacrum ad Honorem Sancti Marci Nominis.
Ci portarono prima alla Chiesa dei Frari dove, diretti dal Maestro del coro del Conservatorio, Sante Zanon, eseguimmo alcuni pezzi sacri; poi alla Chiesa della Salute per ripetere il tutto e infine nella Basilica di San Marco che fu prescelta dal Maestro per il concerto che si tenne nell’estate del 1956. Il Patriarca era all’epoca Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII.
Passiamo ora all’ottobre del 1960: facevo già parte dell’orchestra della Fenice ed era previsto un concerto a Palazzo Ducale nella Sala dello Scrutinio.
Il direttore era Robert Craft, un musicista assistente di Stravinsky che preparava l’orchestra evitando così le faticose prove al Maestro ormai anziano.
Eseguimmo il suo Monumentum pro Gesualdo da Venosa e il balletto Orpheus.
All’epoca facevo anche parte di una formazione da camera (Nuovo Trio Bartok) e uno dei pezzi che eseguivamo nei concerti era Historie du Soldat nella versione del Maestro per violino, clarinetto e pianoforte.
Ciò che avvenne in quei giorni sarà raccontato con dovizia di particolari dalla Direttrice dell’Associazione Musicale "Ermanno Wolf-Ferrari" Edda Pittan Lazzarini.
In breve: fummo convocati dal Maestro nel pomeriggio del 24 ottobre 1960 all’Hotel Bauer di Venezia dove eseguimmo, appunto, l’Histoire sotto lo sguardo attento di Stravinsky!
Come dimenticare un simile avvenimento??
1962: XXV Festival di Musica Contemporanea
La programmazione prevede un concerto di musiche stravinskiane diretto da Ettore Gracis.
Primo pezzo in programma il Capriccio per pianoforte e orchestra interpretato dal grande Nikita Magaloff.
Ero coinvolto come esecutore ma, francamente, non ricordo con quale strumento dal momento che i pezzi in programma erano quattro.
La sera dell’esecuzione, come mia abitudine, arrivavo molto in anticipo al Teatro per indossare il frack e ripassare la parte. In questa serata, visto che il pianoforte era già posizionato alla ribalta, avrei colto l’occasione per accennare forse una Mazurka di Chopin con la sala ancora deserta: una sensazione fantastica, straordinaria... solo che, dopo le prime note, allibii!!!
Infatti qualche incosciente aveva, come si dice nell’ambiente della musica contemporanea, "preparato" lo strumento inserendo nella cordiera strisce di carta oleata, monetine, piccoli chiodi per qualche esecuzione dei giorni successivi ignorando (?!?) che il primo pezzo della serata vedeva impegnato, come già detto, Nikita Magaloff!
Mi precipitai dall’ispettore dell’orchestra prof. Guastini, il quale a sua volta, avvisò l’accordatore che probabilmente aveva messo a punto lo strumento nel primo pomeriggio.
Immaginate cosa sarebbe successo dopo le prime note del solista con il pianoforte in quelle condizioni.....
Sempre con riferimento al compositore russo, mi è capitato nel ruolo di pianista dell’orchestra di eseguire i grandi pezzi del Suo repertorio: Uccello di Fuoco, Petrouchka, Sinfonia di Salmi, Sinfonia in tre movimenti, Le Nozze, Edipo Re...
Primavera 1971, La Fenice programma, appunto, Le Nozze.
La coreografia era di Bronislava Nijinska, sorella del leggendario Vaslav Nijinsky!
In questa produzione, oltre al mio impegno di preparatore della compagnia di canto, ho avuto il privilegio di suonare (la partitura prevede quattro pianoforti) assieme a concertisti di chiarissima fama: Gino Gorini, Sergio Lorenzi ed Eugenio Bagnoli, il mio insegnante. Il direttore era Jesus Lopez-Cobos, un carissimo amico.
Ho avuto occasione di eseguire questa composizione sempre alla Fenice con colleghi pianisti del nostro Conservatorio; li ricordo con affetto e stima: Anna Barutti, Wally Rizzardo, Giorgio Vianello.
Preciso che queste esecuzioni furono realizzate in forma concertistica, vale a dire con i pianoforti sul palcoscenico.
Ancora da citare una prima italiana con la cantante Katy Berberian. Il marito Luciano Berio rinunciava, poco prima del concerto, all’esecuzione di una "miniatura" stravinskiana, per voce e pianoforte, dal titolo The Owl and the Pussy Cat.
La direzione del Teatro me la propose, diciamo quasi fuori tempo massimo, e compii... l’ennesimo salvataggio!!
Ricordo inoltre con orgoglio l’esecuzione alle Sale Apollinee del Settimino, diretto da Ettore Gracis, al XXXIV Festival di Musica Contemporanea.
Siamo ora al 1986: collaboro quale Maestro di Sala alla preparazione della compagnia di canto di The Rakes Progress, opera che l'autore diresse in prima mondiale alla Fenice nel 1951. Stravinsky è entrato anche nella nostra famiglia: mia figlia Martina presentò, per il Diploma di violino, il concerto in re per la realizzazione del quale ho collaborato all’esecuzione.
Con mia figlia Anna eseguo regolarmente nei nostri concerti i deliziosi otto pezzi per pianoforte a quattro mani, composti in Svizzera durante la prima guerra mondiale. Ora, nel centenario della Sagra della Primavera, stiamo preparando questo capolavoro nella Sua versione per pianoforte a quattro mani.
Stravinsky morì a New York nel 1971 e fu sua volontà essere sepolto nella città che più amava: Venezia. I solenni Funerali ai quali assistetti si celebrarono nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo ed ora il Maestro riposa nel cimitero di San Michele.
Ultimo straordinario ricordo, dove però non ero impegnato come esecutore, il concerto commemorativo, che si tenne sempre nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, dell’Orchestra e Coro del Teatro alla Scala diretti da Leonard Bernstein.
Serata indimenticabile: i pezzi in programma erano Apollon Musagète e nella seconda parte la Sinfonia di Salmi. Chi ascolta questo pezzo straordinario non può non commuoversi soprattutto nel maestoso e grandioso movimento finale.
Gli eccezionali musicisti, il grande Bernstein e il luogo dove il Maestro russo fu omaggiato per l’ultima volta dalla Sua Venezia, contribuirono a fare di questa esecuzione un avvenimento storico.
Il più emozionato era probabilmente Leonard Bernstein, che abbracciava i musicisti a uno a uno come fratelli... Non dimenticherò, credetemi, questa serata di Grande musica.

Ezio Lazzarini (www.contrappuntoveneziano.it)

domenica, febbraio 08, 2015

Sylvano Bussotti: "Il catalogo è questo"

Sylvano Bussotti (Firenze, 1° ottobre 1931)
Se volessimo paragonare l'intensità dell'onda sonora all'esplosione accecante della luce, e ricordassimo quando, nudi e fanciulli, nei cavalloni più infuriati di un mare d'agosto, ma prossimi alla riva, inebriava la sensazione di venire sommersi, soffocare, annegare, soccombere infine, sì che la vista del tutto inondata nell'appannarsi liquido di spruzzi e berle acquatiche, di traverso la fresca, e più frizzante, frustata d'onda e spuma, si spalancava invano verso un sole cancellato del tutto; e luce, suono, frastuono e sommovimento, in un orgasmo solo esaltando l'ingenua scoperta che di dietro ad essa (la luce) sta l'infinita profondità del senso, - se osassimo, direi, quel paragone, senza pudori letterari o reticenze professionali, corrisponderemmo in qualcosa di essenziale alla comprensione, ed esecuzione corretta, di un movimento cardine in quest'ampia pulsione sinfonica, incominciata a scandire pochi anni fa ed oggi, per la Biennale, provvisoriamente raccolta nel tempo parziale di un bel concerto.
Scrivo del movimento intitolato Raramente, nel suo paragrafo a) derrière la lumière. (Al tempo stesso allegro e malinconico - scherzoso e mistico - l'appellativo non mancherà di alludere, a causa non soltanto della lingua francese, a quell'assai materiale ricerca dell'animo in una sete peccaminosa e terrena che all'idea di nascondere, col mezzo accecante della luce, il recesso più fondo di tutte le bellezze, perviene in musica mediante un meccanismo, in definitiva molto più tecnico - strutturale - che di natura empirica). Lettere L, M, N, O della partitura allo stato attuale; che sono le quattro grandi famiglie di strumenti, raggruppate per la durata di cinque misure ciascuna, eseguibili tutte sia separatamente - anzi: da eseguire tutte, come sta scritto, separatamente - nella successione indicata, e sovrapponibili mediante accorte combinazioni. Per la sequenza delle sovrapposizioni non si consiglia di attenersi alle necessità di spazio delle pagine (8, 9 e 10) così come sono scritte. Il brano è violentissimo come interna struttura, prima ancora che in volume sonoro, o nella strategia drammaturgica consequenziale; ed è  materia greve, robusta, escatologica: non soltanto "brillante"; vi sono, in questo brano, rifiuti e scorie della materia sonora, e pericolosi, ma vivi, compiacenti. Attaccare simultaneamente L, M, N, O; cioè il totale degli strumenti assieme, per poi cedere subito nella prima cadenza di tre misure - clarinetto basso e controfagotto - scritta a metà di pagina 9 (tre prima di N). E poi da capo: lettera L da sola, cui segue lettera M. La lettera N viene quindi presentata per la prima volta in sovrapposizione con l'inizio (lettera L); si volta pagina ed esegue la cadenza del trio grave: clarinetto basso, controfagotto, tuba (capo pagina 10) e poi lettera O, gli archi da soli. E subito da soli gli ottoni della lettera N (ovviamente soltanto le cinque misure solite) per rieseguire tutti i fiati assieme (lettera M, N) - saltando le due misure del duettino scuro già detto prima - e poi: L, O (percussioni, arpa e tastiere con gli archi); M, O (ancora gli archi, ma con gli strumentini, i legni). Concludere con L, M, N (si escludono gli archi - e le due cadenze) per attaccare poi subito il paragrafo b) l'éducation à la danse (contro la sgambettante, ritmica parvenza, d'educazione affatto severa, in realtà ritratta) che, ansiosamente, malgrado attacchino non più di dodici strumenti solisti, suonerà dapprima come una "falsa ripresa" del precedente calvario.
Non tutte, ma quasi, le combinazioni possibili si sono esaurite. E' da dire che vorremmo lasciare ai direttori d'orchestra la libera fantasia di sperimentarne altre, soprattutto mutare le sequenze; e al fiato, alla resistenza fisica dei professori d'orchestra, la libertà di porvi qualche limite. Certo attaccare con il totale ad esempio, è un rischio (una sorta di sacrificio) che si corre. Tradizionalmente verrebbe da riservarlo alla conclusione. Oppure sarebbe più elegante porlo al centro di simmetrie nel rimando.  scoppi subito il flash più barbarico e intenso, la cui forte, prolungata scia puzzerà di cometa. In tutte le manieri qui, dentro, va ricercata la flessibilità delle mostruose voci clamanti, malgrado il rigore richiesto del metronomo (più per disciplina che in realtà). Elastica dilatazione di un sistema muscolare interno si otterrà con pazienza (e astuzia) soppesando sottilissimamente i vari piani sonori nelle sovrapposizioni; aver cura di appannare di un minimo quei gruppi che dovranno ripetersi di seguito; evitando altresì, e soprattutto, la minima cesura, se non premeditata e a sorpresa, tanto da "truccare" ogni attacco di nuova sezione sovrapponendolo di un minimo alla corona che ancora risuona del palpito precedente. Insomma, non dar tregua all'impulso.
Il brano è stato scritto più di un anno orsono, situato al centro di una partitura (commissione del festival di Donaueschingen) che alla scrittura, densissima, orchestrale si abbandonava con slancio, vista la rarità di una pratica concessami con rigorosa, severa parsimonia. Così come per il flauto, scrivere per orchestra mi è stato spesso negato, se non di riflesso, privandomi volontariamente di un mezzo che troppi musicisti con troppa disinvoltura fingevano di possedere. Titolo generale dell'assieme una suggestiva e raffinata combinazione franco-latina.
Sylvano Bussotti, 23 agosto (1979)
 
II catalogo è questo [Opus Cygne] (1978)
Movimenti per una «Symphonie chorégraphique d'après Pierre Combescot» come parte centrale (un Adagio per orchestra con flauti obbligati)

1. Inattuali
   a) la classe des garçons
   b) corps de ballet
 
2. Nudi per flauti e fiati gravi
 
3. Raramente
   a) derrière la lumière
   b) l'éducation à la danse
   c) a una forma del corpo
 
4. Calando Symphony
   a) la grazia in un paesaggio
   b) les adieux

domenica, febbraio 01, 2015

Oscar Mischiati: I beni culturali ecclesiastici tra culto e tutela

Oscar Mischiati (1936-2004)
Il patrimonio organario antico italiano è ricchissimo, non solo per la quantità, ma anche per la qualità e varietà.
È difficile, allo stato attuale delle conoscenze, fornire dati precisi sulla consistenza, considerata anche l'estrema disuguaglianza nella distribuzione territoriale: ad esempio una provincia come quella di Belluno presenta soltanto un'ottantina di strumenti con interesse storico-artistico, la sola città di Bologna ne possiede oltre un centinaio. D'altro canto, se alcuni tipi d'organo (quello veneziano settecentesco, quello lombardo ottocentesco) presentano caratteri abbastanza diffusi e comuni (ciascuno nel proprio genere, ben inteso), profonde diversità qualificano e segnano gli strumenti attraverso i tempi e i luoghi: un organo rinascimentale toscano non è la stessa cosa di un coevo strumento lombardo. E gli esempi potrebbero continuare.
La maggior parte di tale patrimonio versa in condizioni precarie di sopravvivenza, vuoi per prolungati periodi di abbandono (segnati dai danni prodotti dal tarlo, dai topi, talvolta dallo stillicidio dell'acqua piovana), vuoi per azioni vandaliche di asportazione e danneggiamento del materiale (tipico il caso di canne divelte e calpestate), vuoi infine per interventi inconsulti di manomissione: perlopiù volti ad adattare gli strumenti alle limitate cognizioni musicali e al cattivo gusto di organisti dilettanti, sprovveduti o velleitari; s'intende alludere alla sostituzione di tastiere e pedaliere 'più comode' rispetto alla presunta scomodità di quelle originali, così come all'eliminazione di autentiche sonorità organistiche (Flauto in XII, Cornetto, registri ad ancia, file acute di Ripieno) perché 'stridule' e alla loro sostituzione con materiale scadente (zinco) confezionato in maniera industriale e finalizzato ad effetti sdolcinati e d'infimo gusto, estranei all'arte e alla cultura musicale, meno che mai convenienti ai livelli di qualità e di dignità del tempio e del rito.
Eppure queste operazioni per lunghi (troppo lunghi!) decenni sono state qualificate come "riforma liturgica" laddove è da stigmatizzare un atteggiamento tuttora perdurante: quello di assumere come metro di valutazione degli organi (e non solo quelli) una categoria storicamente e culturalmente inconsistente quale quella di "liturgico" (ciò che era liturgicamente tassativo per Pio XII non lo è stato più con Paolo VI; né la situazione ha finora cessato di essere fluida; ma qui basti rilevare la relatività del termine).
Con il decadere dell'esercizio della musica in chiesa da livelli di qualità non di rado prestigiosa (di necessità, storicamente concreta e individuata: di volta in volta il gregoriano nel periodo romanico, la primitiva polifonia nel gotico, la grande arte contrappuntistico-imitativa nel Rinascimento e nel Barocco, lo stile "concertato" nel Barocco fino a ben addentro l'Ottocento) a livelli non professionali si accompagnò un singolare fenomeno: la codificazione ufficiale della mediocrità.
Alla creatività dell'arte si pretese di sostituire prescrizioni e norme atte ad orientare l'esercizio di "routine" mantenuto al più bassi profilo; così l'organo "diventava" liturgico se avesse avuto tastiere di 58 tasti, pedaliera di almeno 27 tasti, registri non spezzati "bassi" e "soprani, ecc.. Atteggiamento che non si sa se definire più assurdo o ingenuo, ma al quale si deve la manomissione e la distruzione di centinaia di insigni strumenti (tra i tanti casi: i quattro organi della basilica del Santo a Padova, le coppie di organi di San Marco a Venezia, del Santuario di Loreto, della Cattedrale di Volterra, di S. Stefano dei Cavalieri a Pisa, ecc.).
Ma non meno assurde e ridicole sono le pretese "liturgiche" attuali di volere l'organo o l'organista in mezzo all'assemblea, confondendo pateticamente le esigenze del canto assembleare con le leggi dell'acustica e con le esigenze di un serio esercizio dell'arte dei suoni.
In ossequio a tale confuso velleitarismo si vorrebbero comandati gli organi a distanza mediante trasmissione elettrica, di fatto contraddicendo all'esigenza primaria della fonte sonora prossima a chi canta e suona e indulgendo ad un tipo squalificato di organo ripudiato universalmente dalla cultura organistica e musicale.
Senza contare che la riforma protestante e calvinista sono riuscite a far cantare le assemblee dei fedeli senza rimuovere o manomettere gli organi; più semplicemente e correttamente si è inculcata l'educazione musicale di base generalizzata, si è allestito un repertorio musicale qualificato ed appropriato di canti e si è affidato l'organo ad un professionista. Tutte cose che non si ottengono dall'oggi al domani, come "italianamente" si è preteso di fare in maniera confusa e pasticciona.
E come un tempo le commissioni diocesane di musica sacra inculcavano e benedicevano le riforme liturgiche degli organi - di fatto perseguendo un assurdo appiattimento e livellamento in netto contrasto con una tradizione senza pari per varietà e fantasia creativa, senza contare l'avallo perennemente concesso agli operatori più squalificati del settore (cui rifiutiamo per ragioni oggettive la qualifica di "organari") - così oggi da quegli stessi ambienti diocesani si ribadiscono posizioni in netto contrasto con gli indirizzi più aggiornati in campo organistico, organario, organologico e di tutela del patrimonio strumentale antico.
È stata quindi condizione storica strettamente necessitante per quanti nel nostro Paese hanno a cuore senza riserve la tutela e l'integrità del patrimonio storico organario richiamare l'attenzione degli uffici statali preposti a quelli che oggi complessivamente si usa chiamare "beni culturali" perché in questi ultimi fossero a pieno titolo compresi gli organi e gli strumenti musicali.
La situazione è lungi dall'aver trovato soddisfacente soluzione, anche perché nel nostro Paese, per una singolare distorsione di vecchia data, la tutela - e di conseguenza la preparazione dei funzionari ad essa preposti - è sempre stata ed è tuttora finalizzata ai fatti "visivi" (senza contare i condizionamenti delle valutazioni "estetiche"), disprezzando gli aspetti essenzialmente "storici", materiali e documentari dei manufatti e delle testimonianze in genere del passato: più volte, infatti, è accaduto che la "tutela" degli organi antichi giungesse a salvaguardare il solo prospetto, come se le canne interne e tutto il resto (tastiere, complesso dei comandi e dei meccanismi, somieri ecc.) non fossero anch'essi "oggetto" di rilevanza storica ed artistica ad un tempo. Quando addirittura non è accaduto che per mal inteso purismo architettonico organo e cantoria sono stati spazzati via come elemento ingombrante e "deturpante" (così nella Cattedrale di Pistoia o alla Madonna del Calcinai o a Cortona).
Un allargamento del campo visuale è quindi urgente e necessario, non solo in ottemperanza al dettato costituzionale, ma anche per adeguare l'opera della pubblica amministrazione agli orientamenti culturalmente più avvertiti e prevalenti da tempo nei paesi civili.
Ma l'intervento pubblico in materia organaria si giustifica anche per altri motivi.
Quando si parla di "chiesa", normalmente si identifica 'sic et simpliciter' con la gerarchia; occorrerebbe ricordare che, più correttamente, Chiesa è la comunità di fedeli e di clero. A quest'ultimo spettano incontestabilmente i compiti magisteriale e sacramentale per la salvezza delle anime. Il "temporale" è invece incombenza dei fedeli costituiti, come cittadini, in legittime pubbliche aggregazioni, in una parola lo Stato, nella fattispecie la repubblica; della quale sono pure cittadini - con parità di doveri oltre che di diritti - i membri del clero e della gerarchia.
Sembra invece che a più di cent'anni di distanza questi ultimi non abbiano ancora accettato di buon animo la fine dello Stato pontificio e si considerino - e di fatto molto spesso si comportano - come se lo Stato non esistesse o addirittura come se l'intervento statale nel merito specifico della tutela storico-artistica (e quindi anche organaria) fosse un'illecita intrusione, una prevaricazione laicista nei fatti di culto e di religione.
Di qui la tendenza degli ecclesiastici in genere a sottrarre al "civile" quanto più è possibile e a gestirlo quale patrimonio esclusivo: in particolare, appunto, i beni culturali cosiddetti ecclesiastici, a cominciare dagli archivi; che sono innumerevoli, spesso imponenti, ma raramente gestiti correttamente e accessibili o fruibili in condizioni soddisfacenti per lo studioso.
Se è vero che il clero (anche per l'assottigliamento dei ranghi in conseguenza sia della flessione delle vocazioni, sia delle innumerevoli riduzioni allo stato laicale determinate dagli smarrimenti pre- e post-conciliari) è letteralmente travolto dalle incombenze pastorali, non si vede perché tali patrimoni archivistici non vengano depositati presso quelle strutture pubbliche create - nell'interesse di 'tutti' - per la conservazione e la consultazione del materiale documentario che vi è conservato.
Ulteriore, elementare, ma - a quanto sembra - non altrettanto ovvia osservazione è che i beni culturali cosiddetti ecclesiastici sono proprietà non del clero, ma della chiesa, quindi anche dei fedeli. Non esistendo nell'ambito di quest'ultima forme e strutture amministrative o rappresentative dei fedeli stessi per una gestione culturalmente avvertita e comunitarimente trasparente di tale patrimonio (come lo erano le "opere" o le "fabbricerie", esistite con validità civile, giurica dal Medioevo al concordato del 1929), non si vede come tale compito non possa e non debba essere esercitato da quegli istituti pubblici, statali, esistenti in quanto prefigurati e regolati da leggi che i cittadini medesimi si sono date. È anzi sorprendente come il clero non riesca ancora oggi a concepire il pubblico ufficio come una struttura anche al suo servizio.
Certo, è storicamente più che giustificata la diffidenza, l'estraneità o l'insoddisfazione del cittadino nei confronti di questo Stato italiano e delle sue strutture, per lo più arcaiche, fatiscenti, inefficienti, lente, paralizzanti, onerose, insufficienti. Ma non è men vero che questo deplorevole stato di cose è anche storicamente frutto di plurisecolari prevaricazioni clericalesche e, in tempi a noi più prossimi, del valoroso contributo di "cattolici", politicamente o meno impegnati.
Altra materia di considerazioni è quella in ordine alla storia della cultura.
È infatti fuori di dubbio che al tutela rigorosa e il restauro storico-filologico sono caratteristica dei nostri tempi nel rapporto con i manufatti storico-artistici del passato; ed è altrettanto certo che il concerto e la prassi del restauro mutano nei tempi: si affinano i procedimenti, si arricchiscono le conoscenze e le esperienze, si moltiplicano le occasioni di verifica e di confronto, si allarga il campo dell'attenzione; fino ad una dozzina d'anni addietro, ad esempio, non si prestava attenzione al recupero del "temperamento" antico nell'accordatura degli organi; ed è di questi ultimissimi tempi l'adozione della camera a gas anche in campo organario quale mezzo di disinfestazione dal tarlo delle parti lignee.
Tutte materie, come ognun vede, oggetto e fonte di studio, di ricerche, di dibattiti, di pubblicazioni; tutte cose cui certo il clero non è istituzionalmente tenuto né attrezzato.
Ma in ordine a quella stessa storia della cultura sarà lecito discutere e avanzare riserve in merito a scelte storicamente determinate della gerarchia: l'immagine, ad esempio, di una chiesa (come edificio), sobria, povera di immagini e di decorazioni non è - come si pretende da qualcuno - una reazione al tardo romanticismo, ma è piuttosto figlia proprio di quel romanticismo soggettivista che ha scarnificato la fede riducendola a "sentimento" e a fatto privato di coscienza, negando di fatto il concetto stesso di "religione" come rapporto oggettivo con il trascendente e demotivandone di conseguenza le manifestazioni esteriori.
Altrettanto discutibile che il rito si debba ridurre ad un fatto prevalentemente verbale, ossessivamente amplificato da microfoni e altoparlanti, impoverito di segni e di immagini, di valori estetici e simbolici, musicali, gestuali ecc., in un curioso, imprevedibile revival illuministico, in contrasto con tutta una ben radicata tradizione della nostra cultura, cui in definitiva si riconnettono da un lato la forma dialogica della filosofia platonica e dall'altro la struttura narrativa per parabole del testo evangelico.
Così come la celebrazione oggi di moda "versus populum" non è certo fondata sulla tradizione più autorevole e più antica, se fin dalle venerande cosiddette "Costituzioni Apostoliche" era tassativamente prescritto che celebrante e fedeli fossero rivolti ad oriente, per le ovvie implicazioni simboliche. E certo anche la scelta della casula al posto della pianeta non può non essere considerata altro che un'estetizzante indulgenza al mito tutto romantico del "medioevo" come epoca religiosa e del "romanico" come stile "sacro" (addirittura per bocca di Paolo VI, "mistico") per eccellenza!
Forse non era mai accaduto che la chiesa dovesse misurarsi con il giudizio in sede di storia della cultura, per secoli essendo stata essa stessa matrice di cultura; ma da quando ha cessato di svolgere questa funzione è andata anche scemando la sua credibilità (per usare un termine oggi di moda), essendo venuto meno l'oggettivo metro di valutazione del proprio 'modus operandi' in seno all'umano consorzio.
La confezione di modelli sentimentali evasivi o fittizi o perlomeno di puro riferimento interno all'istituzione stessa - "exempli gratia" il liturgico (o la trilogia, ormai classico, di "bibbia, liturgia e terzo mondo") - non è certo idonea e sufficiente a reggere l'impatto con la cultura spesso ostile del mondo moderno; di qui il patetico smarrimento, l'acritico assorbimento o il disinvolto opportunismo di tanta parte del clero e del cosiddetto "mondo" cattolico.
In simile contesto non è certo tollerabile che gli organi antichi continuino ad essere vittima di mutevoli umori liturgici, quando per lunghi secoli essi hanno egregiamente svolto le loro funzioni; che poi l'attuale mutevolezza sia il segno di una chiesa - come qualcuno suppone - "più pura, più santa e più evangelica" di quella anteriore al Concilio Vaticano II è soltanto indice di confusione associata ad una presunzione d'orgoglio luciferino, purtroppo priva di concreti riscontri oggettivi.

intervento di Oscar Mischiati (Varese, 24 gennaio 1987)