Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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sabato, maggio 23, 2020

Souvenir de Stravinsky

Igor Stravinsky nel 1968
Stravinsky com’era. Come ha suggerito (oppure no) modi e forme della scrittura musicale. Come si continua a fare i conti con lui, magari in polemica con lui. Come stava sul podio. Parlarne con alcuni compositori d’oggi, di diverse generazioni, vuol dire scoprire la vitalità e la feconda contradditorietà del lavoro di Stravinsky. Ancora oggi, s’intende. Non si parla di un’eredità, ma di un dialogo aperto. I compositori e, in qualche caso, musicologi (ma un po’ musicologi lo sono tutti i compositori del ’900) con cui abbiamo parlato di Stravinsky sono Roman Vlad, 76 anni, Giancarlo Menotti, 84 anni, Marcello Panni, 55 anni, Giorgio Battistelli, 42 anni.
Vlad, consulente artistico del Teatro alla Scala, presidente della Siae, ha pubblicato nel '58 presso Einaudi il primo libro esauriente su Stravinsky che abbia avuto successo e credito in Italia. "Igor ho cominciato a frequentarlo all’inizio degli anni ’50", racconta. "Ho mantenuto con lui una strettissima amicizia fino a quando è morto, nel ’71. Nel privato era molto diverso da come lo si sarebbe potuto immaginare: brillante, mondano, con un fascino irresistibile. Mi vengono in mente due episodi di segno del tutto opposto: uno conferma la sua leggendaria avarizia, l'altro la smentisce".
"All’inizio del ’58", continua Vlad, "stavo preparando il libro su di lui e, intanto, a Venezia si stava completando il cartellone del Festival di Musica contemporanea. Era prevista la prima mondiale di Threni, id est lamentatio Jeremiae Prophetae. Il direttore della Biennale Musica di allora, Alessandro Piovesan, mi chiese di scrivere il programma di sala per questa prima. Ma io dovetti rifiutare: non avevo ancora visto la partitura. Scrissi a Stravinsky: "Pensi lei a indicare qualcun altro". Ma lui mi rispose: "Ho le bozze della partitura, devo mandarle all’editore a Londra, prima le mando a lei, così la impara e magari mi corregge qualche errore". Aspettai le bozze per mesi: arrivarono all'ultimo momento. Quando lo incontrai a Venezia gli chiesi il motivo di tutto quel ritardo. Lui prima diede la colpa a Robert Craft, che aveva voluto spedire le bozze con la posta di terza classe invece che di prima. Poi fu sincero: "E' stata colpa mia, la spedizione di prima classe costava due dollari in più".
La seconda storia stravinskiana di Vlad è questa: "Qualche anno dopo la sua morte io, che ero direttore artistico dell’Orchestra Rai di Torino, misi in programma Perséphone, che prevede una parte recitata. Proposi il ruolo a Madeleine Milhaud, la vedova del compositore francese, che era attrice. Fu lei, in quella occasione, a raccontarmi che aveva studiato per la prima volta la parte a Parigi durante l’occupazione tedesca, in un periodo di gravi difficoltà economiche. Doveva partecipare di lì a poco a un’esecuzione dell'opera a New York. Cosa che avvenne. Dopo l’esecuzione Stravinsky andò a trovarla e le chiese: "Quanto l’hanno pagata?". Madeleine glielo disse e lui subito sbottò: "Troppo poco!". Staccò all’istante un assegno per lei così grosso che Madeleine poté rifarsi tutto il guardaroba".
Stravinsky, secondo Vlad, non possedeva la tecnica del direttore di carriera, non era un buon concertatore, per esempio. Ma se l’orchestra era preparata e subiva il fascino del compositore sul podio, potevano uscir fuori esecuzioni anche superiori a quelle dei direttori più rinomati. "Nel 1955 andai con Petrassi ad ascoltare Stravinsky che dirigeva Apollon musagéte all’Auditorium Rai di Roma. Fu una cosa così emozionante che Petrassi si mise quasi a piangere. Stravinsky era un grande ispiratore dell’orchestra. E si permetteva molte libertà con le proprie musiche. Diceva che non bisognava farlo, ma lo faceva".
Assai meno idillico il rapporto con Stravinsky di Giancarlo Menotti. "Una sera del l950", racconta, "venne a vedere Il console a Broadway. Chiese di conoscermi: era molto curioso di sapere come avevo scritto un'opera così e quanto prendevo di diritti d’autore, visto che il Barrymore Theatre era esaurito tutte le sere. Si sa che lui era molto interessato ai soldi. Andammo a cena. A un certo punto mi disse: "Ho sentito la sua opera, buona, ma secondo me non è un’opera. Un’opera vera deve essere come quelle di Bellini, di Mozart". Io obiettai che un’opera vera poteva essere anche come Pelléas et Mélisande. "Pelléas, che merda!", fu la sua risposta. Proposi un altro esempio: Boris Godunov. "Anche quella non è un’opera", replicò. Allora persi la pazienza: "Un maestro come lei dovrebbe essere più serio".
"Qualche giorno dopo lo rividi", continua Menotti. "Può darsi che lei abbia ragione", mi disse. E poi: "Ieri sera ho sentito un’opera veramente interessante, come si chiama..., non ricordo, ah, La Bohème". Nel 1963 andò a vedere la mia opera L'ultimo selvaggio e ne scrisse male. Scrisse che non gli era piaciuto il libretto. Però l'aveva letto in traduzione inglese. Gli mandai a dire: "Pensi se io leggessi il libretto di Carriera del libertino in traduzione italiana!". Da allora non volli più incontrarlo. Ma un paio d’anni dopo 1’incidente dell’Ultimo selvaggio l’Opera di Strasburgo mi chiese di curare la regia del Libertino. Mi spiegarono che Stravinsky voleva proprio me. Realizzai un grande Libertino. Per ringraziarmi Stravinsky mi mandò in regalo una sua caricatura fatta da Picasso. Come persona era un grande poseur, ma simpatico".
Se si chiede a Menotti quanto sia stato influenzato da Stravinsky, risponde così: "Lui è come l'elettricità: si può dire che non la si ama, però la si adopera. Resta il fatto che io ho attinto a una fonte più italiana, più mediterranea. Amo molto Stravinski, sia chiaro. Non mi commuove fino alle lacrime, ecco. Mi sento più vicino a Scarlatti, a Schubert, anche a Wagner. Ma, in definitiva, penso che Stravinsky sia molto più importante di uno Schönberg, quello sì che mi è completarnente estraneo".
Oltre a Petrassi e Vlad c’era un altro spettatore d’eccezione al concerto diretto da Stravinsky nel '55 all’Auditorium Rai di Roma. Era il quindicenne Marcello Panni, che oggi ricorda con grande vivezza quellesecuzione di Apollon musagéte. "Fu il mio primo incontro con lui", racconta Panni. "Il giorno dopo lo accompagnai, insieme a mia madre, a visitare il teatro di Ostia antica. E per prima cosa gli feci firmare la partitura della Sagra della primavera, che  stavo studiando. Ero stato un suo grande ammiratore già durante l'infanzia, per me era come incontrare Beethoven in persona. Sempre nel '55 lo rividi a Venezia in occasione della prima di Canticum sacrum ad onorem Sancti Marci hominis. Da allora lo vidi ogni volta che veniva in Italia, fino al '63. Dopo lo incontrai qualche volta a Parigi".
"Era un uomo di grande amabilità, un conversatore assai piacevo1e", dice ancora Panni. "Festeggiò a casa nostra i suoi ottant'anni, nel giugno del ’62. Mangiò e bevve parecchio fino a tarda notte. Che fosse un forte bevitore, non c’è dubbio. Beveva abitualmente whisky prima, durante e dopo i pasti. Diceva che gli faceva bene allo stomaco. Lui, sua moglie Vera e Robert Craft formavano un terzetto delizioso. Ricordo che Stravinsky a Venezia abitava all'hote1 Bauer e componeva nel night-club dell’a1bergo, 1’unico posto dove ci fosse un pianoforte. Scriveva musica solo la mattina, tutti i giorni, sempre nello stesso orario. Era molto metodico, anzi, più che metodico, era un musicista che adottava un criterio da artigiano. "Non ho mai buttato via niente", mi diceva, "ho sempre utilizzato da qualche parte tutto quello che ho scritto". Di quali musicisti parlava Stravinsky in quel periodo? "Di quelli che animavano gli incontri di Darmstadt", risponde Panni.
"Era molto sensibile alle critiche e al denaro", continua Panni. Quindi la sua avarizia non è una leggenda... "No, era molto attento alle spese, come tutti quelli che hanno avuto problemi di soldi in gioventù". Stravinsky direttore scadente? Panni non è d'accordo: "I brani del periodo russo li faceva male, inutile negarlo. Ma dirigeva in modo straordinario le opere neoclassiche e quelle del periodo seriale. Utilizzava sempre pochissimi gesti, sembrava un piccolo gufo. Dirigeva in modo lineare, dando alle musiche quel carattere senza tempo, senza drammaticità, togliendo il pathos".
Panni, che a metà marzo è stato nominato direttore generale dell’Opera di Bonn ed è direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano, pensa di scrivere musica ancora oggi sotto l’influenza di Stravinsky. "Il mio atteggiamento verso il linguaggio è stravinskiano, quello verso la composizione e i materiali è cageano. Di Stravinsky mi ha sempre affascinato quel suo modo di cambiare continuamente le carte del gioco compositivo. E poi la sua armonia chiara, la lucidità della sua scrittura. Il suo uso di un metalinguaggio lo rende più nostro contemporaneo di tanti che sembravano più avanti di lui nella ricerca musicale. Il nostro modo, oggi, di intendere la cultura è sovratemporale, spazia nei tempi. Schönberg si sentiva frutto di una tradizione che procedeva in senso ascensionale, Stravinsky aveva un punto di vista orizzontale. E questo riflette una realtà dei nostri tempi". Dello stesso parere - Stravinsky particolarmente attuale - è Giorgio Battistelli, autore del celebre Experimentum mundi (’81), di Teorema (da Pasolini, ’92) e di un’opera ispirata alla felliniana Prova d'orchestra che sarà presentata il 22 novembre a Strasburgo. "Stravinsky ha un modo mirabile di rimandare al gioco, allo svincolamento delle forme tradizionali che, però, sono sempre riconoscibili. Questo è molto moderno. Essere eclettici senza essere epigoni: ecco la grande lezione di Stravinsky. Che ha sempre avuto il fiuto di cambiare quando gli altri rimanevano a rimasticare gli elementi, anche nuovi, dei risultati raggiunti. Gli "ostinati" e gli spostamenti di accenti della Sagra sono invenzioni straordinarie, eppure lui cambia strada... E' sicuramente un autore impuro, per questo è drammaturgicamente interessantissimo".
"Io mi formo su una base espressionista, strutturalista, dodecafonica", prosegue Battistelli. "Poi me ne libero, mi accorgo di aver bisogno proprio di impurità per il mio lavoro con la drammaturgia. E lì incontro Stravinsky Quando ero al conservatorio, alla fine degli anni '60, era quasi proibito accostarsi alla sua poetica: la scuola italiana di composizione che frequentavo aveva attenzione solo per Vienna e Darmstadt. L'avanguardia mi aveva insegnato a osservare il materiale sonoro nelle sue innumerevoli possibilità di permutazioni. Ma solo il materiale.
Con Stravinsky entro in contatto con l’esperienza e col recupero della memoria. Operazione compiuta dagli Henze, Berio, Maderna: musicisti che possono ospitare nel loro ventre tante e diverse forme. E reinventano, anzi inventano tout court attraverso la molteplicità dei richiami musicali e culturali".
Mario Gamba
("Symphonia", N° 50, Anno VI, Maggio 1995)

domenica, aprile 23, 2006

Gian Carlo Menotti: la mia perduta America

Le amare riflessioni di Gian Carlo Menotti sullo stato attuale della sua seconda patria.

Nel 1977 Gian Carlo Menotti sbarcò in America - la terra dove aveva completato la sua formazione all'inizio degli anni Trenta, divenuta ormai per lui una vera e propria seconda patria con l'intenzione di fondare un nuovo festival: scelse, come novello Cristoforo Colombo, la più storica e storicizzata cittadina del Nuovo Mondo, la deliziosa Charleston, che accolse con molto stupore una Dama di Picche diretta da Guido Aimone Marsan e interpretata da una strepitosa Magda Olivero.
Nacque subito un grande amore tra il Maestro e il luogo prescelto: da allora, con la legge dell'alternanza, quelle terre si appropriano ogni anno delle proposte musicali spoletine, per un Festival dei Due Mondi che è diventato mito nel panorama delle creazioni festivaliere post-belliche (una nuova veste geografica è stata tentata con l'avventura dell'inserimento di un Terzo Mondo, l'Australia e Melbourne, ma il tutto naufragò dopo appena un triennio ad experimentum, dal 1986 al 1988).
Al di là di quelli che possono essere i giudizi sulla musica contemporanea americana e sulla tipologia del sistema produttivo, ho trovato molto più interessante perché sollecitato dallo stesso Menotti - spostare l'indagine su dati più personalistici e più sociologici, con uno sguardo che contempla l'America a sedici anni di distanza da quella novità.
E affiora così nelle parole del Maestro una nota di sconfortata tristezza.
«L'America che io ho conosciuto è ben diversa da quella di oggi: allora era un paese pieno di nuove idee, di personaggi straordinari, molto vivo e vario, fresco e sempre entusiasta. Oggi è invece un paese stanco, incredibilmente più vecchio della nostra Europa».

Cosa è accaduto?
«Si è diffuso uno scoraggiamento generale nel popolo americano. La stampa, la radio, la televisione hanno distrutto tutti gli idoli di quel popolo: quelli cinematografici, gli attori, che facevano innamorare centinaia di ragazzine, e poi si scopre che sono omosessuali; quelli sportivi, modelli di salute, efficienza e prestanza fisica, e poi ecco che sono pieni zeppi di droga; i predicatori in chiesa che poi ritrovi in carcere accusati di reati di corruzione e speculazione. Insomma, la gente, soprattutto il borghese americano, il più interessato anche ai fatti culturali, si è trovato senza più alcun punto di riferimento. Con questo crollo, anche l'interesse attivo e conoscitivo, l'entusiasmo per il mondo dello spettacolo, è venuto meno, insieme alla curiosità per la nuova musica».
Una sorta di tradimento a largo raggio...
«Certo! Anche nella musica gli americani si sentono traditi: quella contemporanea è difficile da accettare per una persona che non sia uno studioso, uno specialista, un appassionato. Vanno ad esempio a una conferenza e si sentono dire che la tal opera è un capolavoro, poi si recano in teatro per ascoltarla e vederla, e si sentono smarriti, non capiscono nulla».
In questo panorama "fosco", il "suo" Festival di Charleston potrebbe essere visto come un centro di speranza aperto al rinnovamento e al ricostituirsi dei rapporti tra spettatore e produzione musicale?
«Potrebbe, ma non ne sono sicuro. Io ho cercato di lanciare il mio programma in modo tale da sottoporre il pubblico a due forze contrarie: da una parte sconvolgerlo, dall'altra ammansirlo. Così, anche nel cartellone di quest'anno ho proposto prima l'Elektra spoletina della passata stagione, e per loro è stato uno spettacolo addirittura scioccante; poi con il Duca d'Alba di Donizetti una conferenza e si sentono dire li ho fatti ritornare a loro agio, e si sono messi tranquilli. Così accade per la musica strumentale: è una terapia che prevede a mezzogiorno dei concerti con musica più che "accettabile", e nel pomeriggio Schönberg e Boulez».
Maestro, ho trovato le sue parole stagliate su di un orizzonte molto pessimistico...
«Sono molto, molto pessimista: l'America è un paese che vive in completa e perfetta confusione. Purtroppo è una confusione di valori che sta esportando anche in Europa».
La musica potrà essere una valida medicina?
«In questo momento non credo. Solo se nascerà un genio che spazzerà via un sacco di brutta musica: ci vuole un nuovo Bach, un nuovo Wagner, qualcuno che arrivi e faccia davvero piazza pulita».

intervista di Luca Pellegrini (Musica & Dossier, Anno VII n.57, set/ott 1992)