Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, luglio 24, 2023

La scomparsa dei dilettanti

    
In un suo articolo, comparso su una ri
vista dialettale piemontese («Musicalbran», settembre 1964), Ettore Desderi ha messo praticamente l'accento su un fenomeno trascurato del costume musicale contemporaneo: la scomparsa dei dilettanti o, come scrive il Desderi, «il tramonto del dilettante». La parola non deve fare arricciare il naso ai giovani e ai cosiddetti «puri» per i quali «dilettante» è sinonimo di autodidatta pasticcione e suona, generalmente, ingiuria. Si onoravano del titolo di «dilettante», nei secoli andati, fior d'ingegni tra i quali, tanto per fare una citazione, Benedetto Marcello, il quale non ebbe paura di definirsi, nella testata settecentesca dei «Concerti a cinque», «nobile veneto dilettante di contrappunto»; e dilettanti si dicevano, nel secolo decimottavo, fior d'ingegni musicali che si radunavano per far musica assieme nelle famose «accademie», cioè sedute musicali, spesso tra loro e, qualche volta, per un pubblico scelto.
    Era un dilettante, ma di qualità, Federico il Grande, come sappiamo; e furono dilettanti, come sappiamo altrettanto bene, quelle signorine di buona famiglia, ottime pianiste, che ebbero per maestri Fryderyk Chopin e Franz Liszt. Il dilettantismo, tra il principio del Settecento e la ine dell'Ottocento, rappresentò uno dei più validi contributi alla divulgazione della buona musica e uno dei maggiori soccorsi alla musica professionale. «All'inizio del secolo (cioè del nostro secolo), scrive il Desderi nel citato articolo, il pianoforte faceva parte, si può dire, del mobilio domestico e attorno ad esso si riunivano abitualmente amici e parenti per "far musica" e, con notevole frequenza, si trattava di musica di alto livello artistico. I dilettanti di quel tempo felice non erano, certo, degli esecutori "finiti" e inevitabilmente si limitavano a decifrare le musiche poste sui loro leggii nel miglior modo possibile».
    Non solo: ma, aggiungiamo noi, era uso tradizionale far impartire una educazione musicale, qualche volta completa, alle ragazze di buona famiglia della borghesia; tanto che avere un pianoforte e saperlo suonare era buon titolo assieme alla dote, per il matrimonio d'una signorina. Naturalmente l'avvento dei mezzi meccanici di divulgazione musicale come la radio e la grammofonia dovevano mutare radicalmente il costume borghese; ma, annota ancora il citato Desderi, «non si può dire che la cultura musicale fosse, allora, meno diffusa, almeno in profondità, di quanto essa sia oggi. Senza dubbio i dischi e le trasmissioni radiofoniche hanno creato un vastissimo pubblico interessato alle più alte e nobili espressioni dell'arte musicale ma non è detto che l'ampliamento della quantità corrisponda ad un miglioramento anche qualitativo».
    D'accordo: il nostro secolo riceve, belli e fatti, i prodotti finiti dell'arte esecutiva: coloro che, una volta, si contentavano d'avere in casa una figlia che decifrava qualche Notturno di Chopin o qualche Sonata di Mozart o di Beethoven oggi hanno in casa, in dischi, le migliori esecuzioni delle medesime pagine, ad opera dei pianisti più famosi del nostro tempo. Troppa grazia, Sant'Antonio! Una delle grandi qualità del dilettantismo era l'accostamento, per dir così, elementare alla pagina musicale nel tentativo di svelarla a se stessi e agli amici: «chi abbia diretta esperienza di cose musicali, scrive assai giustamente il Desderi, sa benissimo che l'audizione non svela, da sola, tutte le bellezze d'una composizione e che queste si rivelano gradualmente soltanto ad un attento e minuzioso esame del lavoro e precisamente alla "lettura" di esso e alla sua diretta realizzazione sonora, anche se approssimativa».
    Che i dilettanti siano quasi completamente scomparsi non fa meraviglia, tenuto conto della frenetica opera di divulgazione musicale che fanno giornalmente i sullodati apparecchi meccanici di riproduzione; ma che questo sia un bene, non direi. La «lettura in prima persona», come la chiama il Desderi, è fonte di gioie ben diverse da quelle propinate in serie dall'audizione  «per interposta persona». D'altra parte il dilettantismo creava, intorno alla musica professionale, un calore umano che si chiederebbe inutilmente a un grammofono o ad una radio, musica, dopo tutto, in scatola le cui deformazioni timbriche, come annota l'articolo citato, sono state accettate per abitudine.
    Ma, si sa, il nostro secolo è il secolo della perfezione gelida, dell'impeccabilità in frigorifero, della cultura in pillole, del capolavoro in cellophan. Tutto va troppo bene per essere vero e per esser vivo. Senza andare a disturbare i dilettanti, basta prendere qualche «ricostruzione» grammofonica di esecuzioni pianistiche non di ignoti, ma di famosi concertisti di mezzo secolo fa, dico di un D'Albert, o di un Paderevski, per misurare l'abisso che ci separa dalla musica di allora. Perché quei pianisti, famosi e acclamati cinquanta o settantacinque anni fa, dunque dei professionisti in tutto il senso della parola, suonavano con una imprecisione degna di nota che, nelle esecuzioni d'oggi, non esiste più, ma anche con una emozione che i tecnici infallibili dei nostri giorni sarebbero ben lieti di possedere. Erano i pianisti professionisti d'un mondo il cui gusto musicale poggiava, non è esagerato il dirlo, sui palpiti segreti, sulle emozioni salottiere dei dilettanti; erano i sacri modelli ai quali i dilettanti si rifacevano, ma che dai dilettanti imparavano quel casto e umile amore alla musica che li spingeva verso la decifrazione
d'una pagina come alpinisti alla scalata di una bella e difficile montagna.
    La musica è emozione e trasfigurazione, prima di tutto: il problema tecnico è importante, ma secondario. I tecnici assoluti non hanno mai convinto nessuno anche se si rende omaggio alla loro glaciale perizia, che costa ore e giornate di fatiche e di esercizi. Gli emozionati e i trasfigurati, secondo la qualità del loro talento strumentale, hanno sempre commosso gli ascoltatori, anche se non impeccabili tecnicamente. Ora il nostro secolo è quello della tecnica impeccabile e i secoli andati furono quelli dell'emozione trasfigurante. E' chiaro che, tra i due mali, si debba scegliere il minore. Dove non sia possibile, perché rarissimo, lo sposalizio della perfetta emozione con la perfetta virtuosità, allora si deve dare la preferenza all'emozione pura sulla tecnica pura. Il che vuol dire, in altre parole, che molti dei dilettanti di ieri e di avant'ieri furono più artisti e, perciò, molto più persuasivi, dei tecnocrati di oggi.
    Uno degli ultimi dilettanti dei nostri giorni è stato André Gide. Lo sappiamo da numerose note del suo «Journal» e, soprattutto, da quel suo curioso libretto che s'intitola «Notes sur Chopin». Mi sembra che proprio Gide rappresenti la fase conclusiva del dilettantismo storico, cioè la sconfitta del dilettantismo come emozione di fronte alla tecnica come ambizione. Perché mi sembra che Gide si sia soprattutto preoccupato di suonare con una perfezione «éblouissante» anziché di accarezzare la musica con la appassionata umiltà dei donnaioli timidi. Gide sognava, per esempio (e consegnava il sogno, al mattino, nel suo diario) di suonare gli Studi di Chopin con una tecnica meravigliosa, ma non mi risulta che abbia mai sognato di eseguirli con un minimo di emozione musicale. Dilettante, dunque: perchè suonava il pianoforte a modo suo, leggeva nel silenzio della sua camera, decifrava per sé stesso, eccetera; ma dilettante, e questo traspare tra le righe dei suoi scritti, umiliato dalla tecnica che non possedeva e che avrebbe voluto possedere.
    Scrive ancora il Desderi, e noi approviamo senza restrizioni: «sono convinto che una civiltà musicale priva della presenza attiva del dilettante è mutila di un elemento essenziale alla sua vitalità: è una civiltà in decadenza, condannata a diventare sempre più arida e intellettualistica, o, nella migliore ipotesi, a vivere sul passato». E ancora: «La frattura fra pubblico e compositori d'avanguardia è un dato di fatto inoppugnabile, ma tale frattura non sarebbe stata altrettanto profonda se oggi esistessero ancora dilettanti per i quali le musiche dodecafoniche non presentassero problemi ben più ardui di quelli che riuscivamo a penetrare noi, ai nostri tempi, affrontando Debussy o Richard Strauss, Ravel o Max Reger». Sono affermazioni oneste, nate da una convinzione onesta.
    D'altra parte che genere di dilettanti potrebbero esserci ancora oggi, in giro per il mondo? Sopravvivono, sparuti e derisi, alcuni dilettanti di pianoforte che sono, generalmente, dediti alla cosiddetta «musica leggera» e suonano, del resto, malissimo. Non esiste più, se non in misura minima, l'abitudine di far musica d'insieme tra non professionisti. E, per contro, il professionismo è diventato una vera piaga sociale, dove su cento individui, forse uno solo merita d'aspirare alla modesta ma onesta gloria dei grandi dilettanti d'un tempo.
Gian Galeazzo Severi
("Rassegna Musicake Curci", anno XIX n. 3 marzo 1965)

venerdì, luglio 14, 2023

Vittorio Gui: Ricordi su Richard Strauss

Il mio primo incontro con Richard Strauss risale al lontano 1925 a Torino; 
si preparava l'apertura di quel delizioso piccolo teatro privato voluto da Riccardo Gualino che fu battezzato "Teatro di Torino", la cui splendida attività fu purtroppo troncata troppo presto da motivi d'indole politica e che durante la sua breve vita sviluppò un programma d'arte veramente d'eccezione.
    Dopo l'inaugurazione con la Italiana in Algeri di Rossini, il sipario si alzò sulla prima rappresentazione assoluta in Italia della Arianna a Nasso di Strauss. La scelta non poteva essere più felice dato che la seconda versione (la prima come è noto si formava della musica di scena da eseguire durante la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme di Molière), in due atti, costituiva uno spettacolo musicale completo di per se stesso, con un complesso strumentale ridotto, quasi musica da camera ampliata; come si vedrà in seguito, parlandone con la scorta di un prezioso documento di mano dell'Autore, che è in mio possesso. L'opera di Rossini costituiva una quasi novità per il fatto che da alcuni anni era uscita, non si sa bene perché, dal repertorio comune dei teatri lirici italiani; l'opera di Strauss invece era una novità assoluta. Il successo che arrise pieno e completo alla riscoperta della Italianaanche per merito di una squisita interprete vocale come la Conchita Supervia, non impedì che la seconda opera, l'Arianna straussiana, riscuotesse in egual misura il consenso del pubblico. Strauss, invitato da noi, aveva accettato di venire a presenziare allo spettacolo, e arrivò qualche giorno prima per assistere alle prove, accompagnato dal suo amico Dr. Erhardt, regista.
    Era la prima volta che io lo incontravo personalmente; sebbene io avessi alcuni anni prima diretto, per l'inaugurazione della stagione alla Scala di Milano, la sua Salomé, poiché non è mai stato mio costume andare a cercare e disturbare gli autori; per farmi ringraziare del successo, così, fino all'epoca di Torino, non avevo avuto con Strauss il minimo contatto né diretto, né indiretto. D'altro canto alla Scala io avevo al mio fianco il grande Arturo Toscanini, che allora io consideravo in ogni senso il mio maestro, e quindi il suo quotidiano controllo alle mie prove mi era di sicura garanzia che errori gravi d'interpretazione non mi sarebbero potuti sfuggire senza un pronto richiamo. Perché dunque ricorrere all'Autore? Dovetti invece farlo per l'Arianna che a quel tempo nessuno di noi, credo, salvo forse Andrea Della Corte, aveva né sentito né veduto. Si presentava per primo il problema delle sonorità con un complesso orchestrale insolito e stranamente concepito per chi, come me, era abituato alla concezione dello strumento d'opera che da Mozart arriva fino a Wagner. Ci fu dunque tra me e Strauss, tra l'ancor giovane direttore e il celebre compositore, uno scambio di lettere sul quale tornerò tra breve.
    Per farsi un'idea adeguata di che cosa significasse per me a quel tempo un incontro con l'autore di Salomé, bisogna rifarsi agli avvenimenti dell'epoca e ricordare che la prima di Salomé è del 1906, le prime esecuzioni italiane dei poemi sinfonici (Till Eulenspiegels lustige Streiche e Morte e tmsfigurazíone) risalgono ancora a qualche anno prima per opera di due grandi nostri direttori, intendo dire di quell'attentissimo e apertissimo musicista che fu Luigi Mancinelli e poi di Arturo Toscanini che, sfidando fischi, beffe, critiche demolitrici, presentarono al pubblico dei nostri concerti sinfonici questi poemi che allora rappresentavano una vera e propria rivoluzione musicale. Quel capolavoro che risponde al titolo di Till Eulenrpiegels lustige Streiche, il quale da un nucleo creativo di sette note da origine a una composizione di venti minuti, sbalordiva noi giovani che, anche senza capire tutto fino in fondo, presentivamo in questa composizione qualcosa di grande; l'apparire di Salomé con Toscanini direttore fu un grido di battaglia; i giovani gridavano all'osanna, mentre il pubblico milanese rischiava o sbadigliava alla Salomé e il grande vegliardo, autore del Mefistofele, lui che a suo tempo era passato per un rivoluzionario, dettava la triste sentenza «musica di tram in curva!››.
    Io allora, in margine della mia attività musicale di studente alla fine dei corsi di composizione, scrivevo anche di critica musicale sopra un giornale romano, Il Corriere d'Italia, e di tanto in tanto illuminavo i miei lettori con articoli esplicativi sopra i poemi di Strauss, quando questi figuravano nei programmi dell'Augusteo per opera di qualche coraggioso direttore nostro o straniero. Oggi è difficile immaginare che effetto possa aver prodotto sopra i pubblici di allora, anche sopra i più colti, un poema come il Così parlò Zaratustra, non solo per la novità della espressione musicale, ma anche per la concezione filosofica e letteraria assolutamente insolita, sulla quale si basava l'idea del poema, con i riferimenti a opere letterarie e, nel caso di cui si tratta, filosofiche, quale il Così parlò Zaratustra di Nietzsche!... Il direttore del mio giornale, che era giornale cattolico, pur accettando il mio articolo si sentì in dovere di aggiungere una "nota" nella quale dichiarava che lo scritto si riferiva esclusivamente all'opera musicale senza alcun riferimento "alle folli idee antireligiose di Nietzsche!...". Sorridiamo pure oggi di queste bazzecole, ma alla luce della storia non è inutile rivangare il passato anche con le sue debolezze e i suoi errori.
    Di Strauss io ricordavo, senza aver potuto assistervi, una sua tournée in Italia, dove aveva, in alcuni concerti in giro per le principali città del nord, ricevuto più mele guaste sulla testa (per dirla con Heine) che non applausi, e fu allora che Gabriele d'Annunzio lo chiamò "il barbaro dagli occhi chiari". Quando io lo conobbi personalmente, di barbaro non aveva molto, per la verità. Era un uomo molto semplice nel tratto, assai gentleman, a volte quasi timido, e di tanto in tanto mostrava un certo senso di humour che in un tedesco poteva anche sorprendere. A questo proposito mi ricordo che un giorno, avendogli qualcuno domandata la sua opinione sulla musica moderna attuale (eravamo nel 1911, non lo dimentichiamo, e la dodecafonia era ancora in mente Dei cioè «in mente» di Schönberg... e forse neppure nella sua mente), egli rispose arrossendo (arrossiva sempre quando parlava di cosa importante) che si sentiva un po' lui il primo responsabile della modernità in musica (alludeva alle battaglie cui ho accennato sopra) ma che se avesse potuto prevederne le conseguenze, forse non avrebbe neppure cominciato. Mi ricordo che a questa boutade era presente il nostro caro Umberto Giordano il quale la gustò tanto che molti anni dopo ancora se la ricordava.
    Il mio primo entusiasmo fatto di ardente ammirazione e vivace amore, come si può avere a vent'anni, al tempo dell'Arianna di Torino aveva subìto già molte docce fredde e i giudizi, chiamiamoli cosi, avventati della giovinezza avevano lasciato posto ad una posizione critica obiettiva e serena, dopo gli eccessivi entusiasmi e le reazioni in senso contrario, sempre esagerate come i primi amori. Ma se togliamo alla giovinezza il diritto di sbagliare per troppo amore, che cosa le resta? Oramai la nostra adorazione era orientata verso l'autore del Pelléas e della Mer; non per questo l'ammirazione per Strauss veniva rinnegata; rimaneva se non altro il valore inestimabile del grande artigiano, il musicista ferratissimo e, come valore storico, l'assertore di alcuni nuovi principi armonici, come ad esempio il cosiddetto "divisionismo tonale", che tanto rumore aveva sollevato all'apparire di Salomé. A questo proposito interrompo il discorso per un attimo per raccontare un episodio che mi sembra molto sintomatico e che risale a parecchi anni dopo il nostro incontro torinese, quando oramai tra me ed il grande compositore tedesco era nata e si era stabilita una mutua simpatia che divenne poi amicizia.
    Ero a Firenze nella mia dimora fiesolana quando un giorno di primavera piovosissimo, come può accadere qui in Toscana, io ero chiuso nel mio studio immerso in non so quale lavoro ed avevo dato precisa disposizione che nessuno potesse essermi nemmeno annunziato; quando ad un certo momento entra la donna di servizio e molto timidamente mi dice: "Ci sono due vecchi signori alla porta che insistono parlando una lingua che io non capisco... Hanno l'aria assai per bene... Che debbo fare?". Io, colto da una specie di presentimento, esco dalla mia camera e mi trovo davanti Strauss e Frau Pauline! Erano in viaggio di ritorno da Taormina, dove andavano ogni anno come turisti, essendo lui addirittura folle d'amore per la Sicilia, le antichità classiche e per il clima del Sud; avevano pensato di venire a farmi una visita. Erano le due del pomeriggio, alle otto della sera stavano ancora con me.
    Fu in quel felice pomeriggio dove io ebbi ancora una volta la riprova della profonda verità contenuta in quel che disse un antico filosofo cinese, non esservi per noi altra felicità che quella di una conversazione con un amico! Fu in quel pomeriggio che a un certo punto la conversazione cadde su Bach e su certe sue "dissonanze" di cui non è facile trovare la spiegazione nelle regole dei manuali; io mostrai a Strauss quel passo dell'"Andante" del Primo Concerto di Brandeburgo, dove gli urti tra gli oboi, i violini e la melodia del basso sono la prova che già fin da allora Bach concepisse la possibilità, per non dire la necessità, di un vero e proprio divisionismo tonale. Strauss non ricordava il passo, e rimase qualche minuto perplesso davanti alla partitura, poi dovette ammettere che non si trattava di errore, ma che in nessun modo Bach avrebbe potuto risolvere il problema impostogli dal cammino indipendente delle parti melodiche.
    Il bello è che nelle ultime battute della Salomé egli si era servito dello stesso "divisionismo", accoppiando le due cadenze, la plagale con la settima maggiore, per una necessità grammaticale, ottenendo un risultato efficacissimo e per quel tempo assolutamente nuovo.
    Chiudo la lunga parentesi e seguito a ricercare nella mia memoria la immagine cara e paterna di questo "barbaro" che l'attrazione verso il mondo mediterraneo, la cultura e la forma mentis quasi goethiana avvicinavano tanto a noi italiani.
    Non era una posa in lui questo amore del classico sebbene egli apparisse in certi suoi gusti un vero e proprio "decadente". Si, il cantore della perversa sensuale Salomé, la precorritrice dell'odierno streap-tease (la danza dei sette veli), il musicista che va a cercare il soggetto per un'opera nella decadente e morbosa letteratura d'un Oscar Wilde, era intus et in cute un amatore del mondo classico; sembra una contraddizione ma non la è. La prima cosa che mi chiese arrivando a Firenze fu di accompagnarlo a vedere il Teatro romano di Fiesole, che io, romano di nascita, non mi ero mai curato di andare a visitare!... Il figlio del suonatore di corno dell'Orchestra di Monaco aveva fatto studi classici e si era imbevuto di cultura classica. Se Hofmannstahl gli fece un libretto sopra la Elettra greca, che è un bel tradimento di poeta decadente, e Strauss lo accettò così com'era con la sua falsificazione, ciò nondimeno la scelta stessa dell'argomento testimonia dell'attrazione che il mondo greco antico aveva sulla sua fantasia e nell'Elettra egli ha messo una grande quantità della sua migliore ispirazione.
    Quando dirigeva le orchestre, dalla sua gioventù fin quasi dopo la maturità, aveva dedicato alla funzione del direttore grandissima parte della sua attività; là dove si trovava più a posto come interprete era in Mozart, che è mediterraneo e per due terzi italiano; anche in Haydn si trovava a suo agio e ricordo di lui ottime esecuzioni con l'orchestra romana quando formava i suoi programmi metà con musica di Haydn o di Mozart e metà con la propria! La propria la dirigeva meno bene che l'altra... Era insofferente dei dettagli e quando, dopo settimane di prove estenuanti, l'orchestra di Torino al suo arrivo per la "prima" di Salomé, per bocca del direttore gli domandò spiegazione a proposito di un dubbio sopra una nota di non so quale strumento, egli - dopo qualche minuto di attento esame della partitura - rispose: "Non lo so, ma tanto è lo stesso!". Del resto in calce a una delle sue lettere a me indirizzata, a proposito dell'Ariannami scrive: "Je n'ai pas trouvé le la naturel à la page...". Si capisce che io gli avevo chiesto un'analoga spiegazione senza poterne avere risposta! Ma questa sua abituale indifferenza su certi particolari scompariva quando si trattava, come nel caso della strumentazione di Arianna, di spiegare all'interprete le sue chiare e ferme intenzioni.
    Quando dunque io presi il primo contatto con la partitura di Ariannasulle prime rimasi sorpreso della novità dell'impostazione strumentale, che, come si sa, è basata sopra un piccolo numero di archi considerati quali veri e propri "solisti", più altri solisti "fiati", sostenuti da un grosso harmonium (Schiedmayer di Stuttgart) e un pianoforte in funzione anch'esso di solista. Fu la mia prima incomprensione che mi spinse a scrivergli domandando spiegazioni, e così si iniziò tra noi una corrispondenza dalla quale traggo ora una lettera che mi pare presenti una certa importanza. Non tutto il male viene sempre per nuocere e oggi a distanza di tanti anni io non deploro di aver commesso una sciocchezza, ché tale era la presunzione di proporre una modifica all'opera compiuta di chi ne sapeva tanto più di me, se da questo uscì fuori una chiarificazione così interessante.
    Rileggendo queste righe sono ancora commosso nel constatare con quanto tatto, con quanta paterna gentilezza egli controbatteva le mie obiezioni, preoccupandosi di non offendermi, pur sapendo fermamente di aver ragioni da vendere.
    Leggiamo (traduco dal testo originale scritto in uno stentato francese):
"Il vostro orecchio non è ancora abituato a questa sonorità magra; è la sonorità della musica da camera con la supposizione che i sedici strumenti a corda siano strumenti antichi (degli Stradivari, dei Guarnieri, degli Amati). Se non si potessero avere per questa rappresentazione a Torino, cercate di noleggiarli presso un amatore o un museo.
"L'arrangiamento proposto da voi non è molto buono; perché un raddoppio puro e semplice d'ogni parte di archi per me è una sonorità fatale [sic] [forse intendeva dire “ sbagliata ”]. Per me esiste soltanto un quartetto di sedici primi e sedici secondi violini e questo è un'orchestra. Ma l'orchestra di Arianna è musica da camera. La realizzazione pratica dipende dall'acustica del teatro, dalla qualità dei violinisti e dagli strumenti da loro suonati. Così io vi prego di disporre il quartetto come credete meglio ma non dimenticate che forse giudicando dal vostro leggio potreste ingannarvi sulla forza dell'orchestrazione che nell'accompagnamento dei cantanti è così... e sottile come è forte per lo sfruttamento della qualità solistica di ogni suonatore. Fate (vi consiglio) una prova d'orchestra e anche coi cantanti facendola dirigere da un altro e ascoltate l'orchestra dall'ultima fila della platea o dall'alto. Ritengo che una volta fissato il carattere dell'opera e dopo i primi dieci minuti della serata, fino a che l'uditorio non si sia abituato a questa sonorità nuova e speciale dell'opera, tutto andrà bene, purché i suonatori siano di prim'ordine e i loro strumenti siano Stradivari o Amati, il grande harmonium della fabbrica Schiedmayer di Stuttgart, e le arpe americane.
"In ogni caso fate quel che credete meglio, l'ultima decisione se mai potremo prenderla durante l'ultima prova, dopo il mio arrivo a Torino".
    L'amatore di strumenti antichi e ricco collezionista a Torino fu scovato, ma si rifiutò di prestarci gli strumenti e mi ricordo che argutamente Strauss disse che era come collezionare dei cadaveri, mentre noi facendoli suonare li avremmo riportati in vita.
    Le lunghe, intelligenti e interessanti conversazioni di quei felici e lontani giorni sono ancora tutte vive nella mia memoria e naturalmente non possono essere argomento di uno scritto breve come il presente; è con rammarico che mi rassegno a tacerne la maggior parte. La nostra relazione, iniziata con l'Arianna di Torino (1925), si sviluppò e si perfezionò poi a Firenze al tempo della Stabile orchestrale fiorentina, quando io invitai lui più volte a dirigere concerti e in occasione del primo festival del Maggio fiorentino.
    Facendogli sentire con la mia orchestra l'esecuzione dei suoi principali poemi, potei constatare, come già avevo fatto con Giacomo Puccini, l'immensa elasticità che i grandi compositori hanno nel fissare i limiti dentro i quali può muoversi libera l'interpretazione delle loro opere. Per il Till mi disse che la mia interpretazione era spiccatamente latina: "Noi in Germania - disse, e pareva parlasse dell'opera di un estraneo, non della propria - siamo abituati a considerare la figura del monello Till come un piccolo e panciuto buffone, voi la vedete come uno snello e impertinente “ scugnizzo ” ma è ugualmente giusta la vostra come la nostra interpretazione; mantenete pure il vostro movimento, che è più rapido e vivace del nostro; abbiamo ragione entrambi!".
    Non ci sono che i grandi i quali possono parlare così avanti a un interprete, i mediocri sono sempre tirannici nelle loro pretese e difficilmente si ritengono soddisfatti... pensano forse di aver scritto un'opera più bella di quella che risulti all'ascolto...
    Rileggendo le non poche lettere che ho qui con me, di Strauss, alcune scritte in francese (un francese piuttosto curioso e zoppicante), altre nella sua lingua, trovo con una certa commozione il ricordo del suo interessamento alle vicende della mia vita professionale; in un certo tempo aveva ottenuto per me un invito a Berlino e uno a Vienna e aveva parlato in tutta la Germania e in Austria di me con l'autorità che veniva dalla sua larga fama; io purtroppo, per circostanze che neppure ricordo più, non potep mai accettare quegli inviti, che accettai invece alcuni anni dopo; ed egli fu tanto felice dei miei successi a Salzburg che mi scrisse subito affettuosissimamente. Io diressi poi a Venezia nel 1940, a guerra già iniziata, la prima in Italia della sua opera Giorno di pace, che mi valse il suo commosso e caldo ringraziamento. A Londra, dopo la guerra, appresi tutte le sue vicende: sebbene fosse molto facoltoso, si era trovato profugo, fuggito romanzescamente dalla Germania a traverso la Svizzera con la vecchia moglie già malata, e rifugiatosi in Inghilterra si era trovato a corto di mezzi finanziari al punto di dover ricopiare i suoi stessi manoscritti e venderli agli americani... Sir Thomas Beecham, che me lo ha raccontato, organizzò un concerto di musiche di Strauss "a sua beneficenza!". E a Garmisch aveva lasciato niente di meno che un quadro del Tintoretto!
    Tra le tante accuse che in vita gli furono fatte ci fu anche quella di essere troppo legato all'amore del denaro. Ricordo una tremenda critica di un giornale americano, dove tra le altre cattiverie e amenità giornalistiche c'era questa asserzione: "Strauss è la falsa aurora della musica moderna". E se togliamo l'aggettivo "falsa" non siamo forse lontani dalla verità, conservando però alla parola modernità un senso di rispetto per l'arte e non confondendola con gli sgambetti buffoneschi e le ricerche pseudoscientifiche di certi odierni mistificatori, invasati di libidine innovatoria e scandalistica.
    A pensarci bene Strauss ha avuto il suo handicap nel fatto di essere contemporaneo di Claudio Debussy che indubbiamente è di statura superiore. Ma chi potrebbe sostenere che nella storia della musica europea egli non abbia occupato uno dei primi posti tra la fine del decimonono e la prima meta del secolo nostro? Epigono di Wagner? Può anche darsi, però, cum grano salis in ogni modo; perché il presentimento di Salomé e di Till nell'autore di Parsifal e dei Maestri Cantori non c'è davvero! anche se, quando Elettra riconosce il fratello, si espanda odore di Tristano e Isotta. Era una ben pesante eredità da prendere quella che lasciava nel mondo della musica il cantore di Lohengrin, e il secondo Riccardo ha saputo con coraggio caricarsela sulle spalle senza scivolare a terra.
    E prima di chiudersi nell'eterno silenzio ci ha lasciato nei suoi ultimi Quattro Lieder la prova migliore della sua probità artistica e l'ultima voce del suo "credo" con un accento che parte dal profondo e arriva al profondo del cuore. Potrebbe sembrare - se non si temesse di cadere nella retorica - il ritorno in musica di un'altra voce, quella di un altro grande morente. "Luce, più luce, ancora luce!".
Vittorio Gui
("L'approdo Musicale", Numero I Anno II - Gennaio-Marzo 1919)

sabato, luglio 01, 2023

Wagnerismo di Verdi?

«Vi è così poco da aspettarsi dall'Austria 
in rapporto alla politica, come dall'Italia in rapporto all'arte», scriveva Liszt a Wagner da Weimar, il 26 agosto 1958. Da informazioni raccolte e passi avanzati, egli giudicava che, per il grande amico, esiliato dalla patria e sul punto di lasciare anche la Svizzera, dove aveva dimorato per otto anni, Venezia non fosse residenza opportuna.
In un'altra lettera, indirizzata a Wagner da Salisburgo nell'ottobre successivo, Liszt aggiungeva: «Tu sei profondamente radicato nel suolo tedesco, sei e rimani lo splendore e la gloria dell'arte alemanna, e finché le condizioni dei teatri stranieri non cambieranno, finché Meyerbeer e Verdi regneranno sovrani, e dalla loro immediata influenza dipenderanno direzioni teatrali, cantanti, direttori d'orchestra, stampa e pubblico, bisogna che non t'immischi affatto in tali faccende».
Per Liszt che (una volta tanto con scarso discernimento critico) poneva Meyerbeer e Verdi sullo stesso piano artistico, il trionfo di Wagner in Italia doveva essere condizionato dalla caduta di Verdi. Non c'era posto per entrambi. Se Wagner vi si fosse affermato, vincendo incomprensioni, prevenzioni, ostilità, inveterate abitudini, ciò avrebbe significato l'avvento di un nuovo ordine teatrale, una totale inversione di valori, un rinnovamento delle forme e delle formule del melodramma, di cui Verdi e Meyerbeer gli apparivano in quel momento come i più autorevoli rappresentanti; ed essi avrebbero dovuto sparire. Il che fu vero per Meyerbeer, col quale tramontarono un gusto e un costume teatrale, legati a doppio nodo alla concezione dell'opera storica, nei suoi aspetti più caduchi; ma ognun vede quanto lo sia stato per Verdi, oggi più vivo che mai.
Uno scrittore moderno, Franz Werfel, ha posto in un suo romanzo Verdi e Wagner in melodrammatica antitesi, mostrandoci l'italiano pavido e ansioso di fronte all'inarrestabile ascesa del rivale, dubitoso di sé e dell'opera sua; ed altri hanno formulato interpretazioni e giudizi non meno aberranti, di cui oggi è anche troppo agevole dimostrare l'inanità e l'inconsistenza; oggi che Wagner e Verdi non solo non si escludono più a vicenda, ma figurano l'uno accanto all'altro nel cartellone d'ogni stagione teatrale di qualche rilievo, dove costituiscono i pilastri di sostegno e raccolgono ugualmente gli universali suffragi.
Ma l'acquisto di questo punto di vista per noi così ovvio, inquadrante i due grandi maestri nella giusta prospettiva storica di due tradizioni e di due civiltà artistiche, fu arduo e vivamente controverso, e non si fece strada che assai lentamente tra equivoci e fraintendimenti troppo spesso grossolani. Per limitarci al caso dell'Italia, se il basso livello culturale del pubblico e la scarsa preparazione della critica, alla quale spettava il compito d'illuminarlo, ritardarono fino al 1871, anno della rappresentazione bolognese del «Lohengrin», l'ingresso di Wagner in Italia, l'apparizione del misterioso cigno, mandando i cervelli in ebollizione, segnò per Verdi, che in quegli anni sembrava voler concludere il suo glorioso cammino con l'«Aida» e la «Messa da Requiem» in memoria del Manzoni, l'inizio d'un periodo durante il quale egli si sentì spesso rivolgere la più stolta e infondata delle accuse: quella di wagnerismo. Accusa di cui i più sprovveduti e inavveduti credettero poi trovare una conferma nei due ultimi capolavori, che in realtà sono non meno lontani da Wagner di qualsiasi delle opere anteriori e non meno profondamente impressi dal suggello indelebile e inconfondibile dell'individualità verdiana, anche se il compositore nostro non vi si dimostra immemore di taluni insegnamenti wagneriani, ormai definitivamente acquisiti all'opera in musica. L'imprecisione delle idee, la sommarietà delle conoscenze, la mancanza di ben ragionati principi estetici danno alla critica del tempo un aspetto di superficiale dilettantismo. Un saggio significativo ci è offerto dai giudizi sull'«Aida» che Salvatore Farina raccolse e riportò sulla «Gazzetta Musicale di Milano», spigolando tra i critici più reputati e benevoli e così sintetizzandone il pensiero: «Verdi ha accettato da Wagner e da Gounod quanto poteva, rimanendo italiano». Già quell'abbinamento di Wagner e Gounod nella pretesa influenza esercitata su Verdi è una vera perla critica. Ma, anche prescindendo da questo, dove si faccia sentire l'influenza di quei due compositori così reciprocamente alieni e incomparabili per importanza è significato nella verdianissima «Aida» è un problema che soltanto Strawinski (spesso in vena di boutades salottiere, sì da proclamare il «Falstaff» «la più bella opera di Wagner») potrebbe forse aiutarci a risolvere.
Chi vedeva le cose con maggior chiarezza, era in fondo lo stesso Verdi. Non già ch'egli andasse completamente immune dai pregiudizi del suo tempo, tra i quali è quello da lui ripetutamente espresso nelle sue lettere, che gl'italiani non siano fatti per la musica strumentale. Pregiudizio assai largamente condiviso, e che portò a quella curiosa forma di amnesia storica per cui l'Italia, dopo aver creato ed anche notevolmente ampliato e sviluppato nel Sei e Settecento tutte le forme del moderno strumentalismo e sinfonismo, fecondando la magnifica fioritura del romanticismo tedesco, entrò sotto questo rispetto, nella prima metà dell'Ottocento, in un periodo di stasi creativa quasi completa, rotta soltanto dall'apparizione meteorica del virtuosismo paganiniano. E tuttavia Verdi, pur limitando la vera musica italiana a quella d'opera, enuncia su di essa idee precise, che ricava dalla propria viva esperienza; e, specie per ciò che concerne i rapporti tra la musica italiana e la tedesca, di cui allora molto si discuteva e che l'apparizione di Wagner rese di scottante attualità, esprime su tale soggetto, con la precisione concisa e recisa che è propria del suo stile epistolare come della sua musica, opinioni limpidissime, ed anche, non di rado, ben motivate ed attendibili.
Sull'essenza della musica Verdi enuncia due punti di vista in apparenza contradittori, ma in realtà convergenti e integrantisi a vicenda. La vera musica - egli dice - sta al disopra di tutte le divisioni di scuole; non é italiana, né tedesca; non è armonia, né melodia; ne del passato, né dell'avvenire: è musica. E altra volta - quasi antinomicamente -, la vera musica è sempre nazionale, legata ai caratteri e alla fisionomia d'un popolo. Così il 17 aprile 1872, all'amico Cesare De Sanctis, egli scrive da Parma: «Cosa significano mai queste scuole, questi pregiudizi di canto, d'armonia, di tedescheria, d'italianismo, di wagnerismo; etc. etc.? Vi è qualche cosa di più nella musica. Vi è la musical... Che il pubblico non s'occupi dei mezzi di che l'artista si serve!... non abbia pregiudizi di scuola... Se è bello, applauda. Se è brutto fischi!... La musica è universale». E, nove giorni dopo, allo stesso: «No, no, non vi è musica italiana, né tedesca, né turca... ma vi è una musica!!». E le citazioni in tal senso si potrebbero moltiplicare.
Ma vent'anni dopo, allorché il famoso pianista e direttore d'orchestra Hans von Bülow, che aveva lungamente accomunato il suo entusiasmo per Wagner con la disistima per Verdi, manifestata anche pubblicamente, pienamente conquistato dall'«Aida», dall'«Otello», dalla «Messa da Requiem», fece ammenda del suo errore e delle sue intemperanze polemiche con una nobilissima lettera al Maestro, questi, tra l'altro, gli rispondeva: «Se le vostre opinioni d'una volta erano diverse da quelle d'oggi, voi avete fatto benissimo a manifestarle; né io avrei mai osato lagnarmene. Del resto, chi sa... forse avevate ragione allora.
«Comunque sia, questa vostra lettera inaspettata, scritta da un musicista del vostro valore e della vostra importanza nel mondo artistico, m'ha fatto un gran piacere! E questo, non per la mia vanità personale, ma perché vedo che gli artisti veramente superiori giudicano senza pregiudizi di scuole, di nazionalità, di tempo.
«Se gli artisti del Nord e del Sud hanno tendenze diverse, è bene che siano diverse! Tutti dovrebbero mantenere i caratteri propri della loro nazione, come disse benissimo Wagner. Felici voi che siete ancora i figli di Bach... ».
Quale fu dunque l'atteggiamento di Verdi di fronte a Wagner? Fu quello d'una progressiva comprensione, d'un graduale approfondimento. Ancora nel 1865 (l'anno della rappresentazione del «Tristano»), Verdi, dopo aver sentita l'ouverture del «Tannhäuser», pensa «è matto!». Ma al tempo del1'«Aida» (1870-71) legge gli scritti wagneriani nella traduzione francese (quella italiana non esisteva ancora), e, per la rappresentazione di quell'opera, impartisce per la disposizione dell'orchestra direttive che s'attengono a quelle esposte da Wagner, e da lui accoglie l'idea dell'orchestra invisibile. Il 5 gennaio 1882, a proposito di Berlioz, scrive: «Aveva il sentimento dell'istrumentazione e ha preceduto Wagner in molti effetti d'orchestra. (I wagneriani non ne convengono ma è così)». L'anno dopo, il 13 febbraio, Wagner si spegneva a Venezia. Il giorno successivo Verdi indirizza a Giulio Ricordi queste parole, che lo mostrano pervaso da un sincero e degno compianto, da quell'alta malinconia che sempre domina i cuori non volgari, alla scomparsa di coloro che più alto ascesero nell'ideale, nella bellezza, nella verità: «Triste. Triste. Triste. Wagner è morto. Leggendo ieri il dispaccio ne fui, sto per dire, atterrito. Non discutiamo. E' una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella Storia dell'Arte».
E il musicista? Fino a qual segno guardò a quel grande modello e ne trasse realmente partito? Fin dove giunsero le sue riflessioni e le sue conclusioni, durante il lungo silenzio che precede «Otello» e «Falstaff», rotto soltanto dal rimaneggiamento del «Simon Boccanegra»? Domanda non intempestiva e inopportuna, nella coincidente ricorrenza commemorativa dei due sommi, nati nello stesso anno.
E, diciamolo subito, nulla ci appare più inattendibile, più remoto dal vero dell'asserzione tante volte ripetuta (ed anche di recente) che Verdi sia uscito dalla propria orbita per entrare in quella del suo antagonista. Verdi guardò certo a Wagner, ma vi guardò con 1'occhio d'aqui1a del genio, serbandosi intimamente fedele agli imperativi della propria arte. Affinò l'orchestrazione, ma non mortificò la vocalità, che anche nelle due ultime opere rimane in primo piano; ruppe gli schemi convenzionali del pezzo chiuso, ma serbò alla frase la nitida modellatura del periodo melodico; accolse il cromatismo e scaltrì la tecnica armonica ma non obliterò i caratteri a lui connaturati della chiarezza, dell'evidenza, dell'icastica incisività, del colpir direttamente nel segno, del tratto asciutto e preciso, senza ridondanze e frondosità; epurò il suo stile e allargò la cerchia dei mezzi compositivi, ma non rinunciò ad alcuno dei suoi caratteri essenziali, alla shakespeariana totalità del suo sentimento umano e terreno, alla sua fibra drammatica, alla sua personalissima maniera di sentire e di cantare il dramma; insomma: non ignorò Wagner, accolse anzi alcuni elementi della sua riforma drammatica, ma li fece così compiutamente propri da farli apparire (non per deliberato proposito ma per virtù d'incoercibile forza creativa), come estratti dal proprio intimo, attraverso un processo di esplorazione e di approfondimento tutto interiore, frutto d'uno svolgimento autonomo, d'una necessità scaturita dal pieno esplicamento e potenziamento della sua stessa personalità.
Non si può quindi accettare l'asserzione fatta di recente da un critico di molto valore, che nell'«Otello» e nel «Falstaff» Verdi sia passato «dall'opera al dramma», perché drammi musicali potenti, vibranti, scultorei sono nella loro sfera e secondo le loro prospettive e finalità il «Rigoletto», «La traviata», «Il trovatore». E non si fa qui eccezione neppure per il «Don Carlos», non potendosi consentire che in quest'opera vi siano tracce di «decadentismo wagneriano» (formula poco appropriata ad entrambi), poiché anche in questo spartito il vigore creativo di Verdi appare integro ed intatto, l'invenzione musicale singolarmente nuova, copiosa e magistralmente elaborata, alcuni caratteri e scene d'una sorprendente novità di concezione e intensità di realizzazione (per esempio il carattere di Filippo II, così mirabilmente rilevato nella sua regale solitudine e nella sua umana malinconia, espressa nel monologo famoso, e che stupendamente si determina e s'innalza nella scena col Grande Inquisitore, dove la ragion di Stato si erge contro quella del cuore, la necessità politica contro il sentimento paterno; situazione nuovissima alla scena lirica, espressa con un pathos commovente e solenne).
Il decadentismo che si crede riscontrare in quest'opera non proviene da più o meno percettibili influssi wagneriani, ma dall'esplorazione di stati d'animo nuovi al poliedro psicologico della musicalità verdiana, dall'intensa penetrazione di un dramma morboso ed ambiguo, a cui il compositore aderisce con una convergenza di forze e di facoltà raramente distratte da indulgenze melodrammatiche. Dramma certamente alieno dalla tempra morale di Verdi, integra e schietta, ma al quale egli tuttavia aderisce fortemente, in virtù di quelle capacità di trasferimento e d'oggettivazione, proprie del vero drammaturgo, ch'egli possiede in alto grado e che gli fanno risentire i torbidi fermenti di repressioni tortuose e di cupe passioni che vi serpeggiano, sullo sfondo d'un amore colpevole.
Non ha quindi senso parlare di «Wagnerismo» o di «conversione a Wagner» a proposito di Verdi, e sia pure soltanto per le ultime opere. Il genio è sempre assimilatore; e Verdi (che pur meno di qualsiasi altro musicista, tranne forse Chopin, assimilò dall'esterno), non poteva non accorgersi d'una personalità così potente e permeante come quella wagneriana; e, segnatamente, non poteva non tener conto di alcune idee fondamentali enunciate da Wagner, che hanno segnato un taglio netto nella storia del melodramma, ove Wagner sta ad indicare un «prima» ed un «poi» assolutamente irreversibili. Ma Verdi rimane sempre Verdi, cioé uno dei compositori più originali e personali che mai siano apparsi, senza scuola o maniera, e, come ben fu detto, «beethoveniano senza conforti metafisici», senza aperture trascendenti. «Nessuno - ha scritto Arrigo Boito - ha, meglio di Verdi, compreso ed espresso il senso del vivere. Egli era uomo tra gli uomini ed osava esserlo. Se gli si fosse offerto di diventare un Dio, avrebbe rifiutato, perché egli amava di sentirsi umano e vincitore nel cerchio ardente della prova terrena».
Antonio Capri
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII n.3, settembre 1963)