Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 23, 2008

Ricordo di Carlos Kleiber

La scomparsa di Carlos Kleiber, lo scorso 13 luglio all’età di settantaquattro anni, ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo della musica. Di lui si era cominciato a parlare nel 1973 all’epoca della prima delle sue scarse incisioni discografiche, un Freischütz per molti aspetti inarrivabile, più che una sorpresa un’autentica rivelazione. Fino ad allora la carriera del direttore berlinese, dal debutto a Potsdam nel 1954, si era svolta prevalentemente in teatri di secondo piano, fra la Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf e il Landestheater di Salisburgo, fra Zurigo e Stoccarda. Solo dal 1968 la nomina a “direttore ospite principale” dell’Opera di Stato Bavarese, ottenuta grazie all’intervento del sovrintendente Günther Rennert impose Kleiber all’attenzione del mondo musicale. Ma il vero lancio internazionale si ebbe solo nel ’73 appunto con quel sorprendente Freischütz. Il resto venne di seguito: nel ’74 il debutto a Bayreuth con il Tristano e al Covent Garden in sostituzione di James Levine, nel ’75 alla Scala con il Rosenkavalier, nel ’78 il primo invito americano a Chicago. In pochi anni fu chiaro in tutto il modo che si aveva a che fare con uno dei talenti musicali più straordinari del nostro tempo.
Da allora i grandi teatri cominciarono a contenderselo e in molti casi non tardarono a conoscere altri aspetti del personaggio Kleiber, la sua natura scontrosa e la sue bizzarrie, il rifiuto di concedere interviste, le sfuriate con gli orchestrali e con i cantanti, le frequenti rinunce e le defezioni all’ultimo momento. Kleiber era insomma un direttore affascinante ma terribilmente “difficile”, per certi aspetti perfino inaffidabile. Quasi tutti i maggiori teatri del mondo hanno avuto almeno una volta grane con lui per impegni annullati in extremis. Era intransigente, prima di tutti con se stesso, e difendeva con ogni mezzo la sua indipendenza di nemico giurato della routine, di artista poco interessato alle tentazioni della carriera. In questo ricordava altri grandi musicisti come Benedetti Michelangeli e Celibidache. Non a caso con entrambi ha avuto scontri memorabili, col primo durante quelle famose sedute di registrazione dei Concerti di Beethoven che si risolsero in un tempestoso nulla di fatto e col secondo attraverso un suo bizzarro articolo satirico pubblicato da vari giornali in risposta a certi giudizi aggressivi espressi dal direttore rumeno su alcuni interpreti del passato. Oltre al vezzo di negarsi, Carlos Kleiber aveva in comune con Celibidache e con Michelangeli la scarsa simpatia per gli studi di registrazione e l’apparente limitatezza del repertorio. Negli ultimi anni accettava di dirigere solo una diecina di opere e un numero ancor più ristretto di capolavori sinfonici, cioè solo le cose a lungo maturate e delle quali si sentiva perfettamente sicuro. Era però un’esiguità solo apparente se si considerano i lavori affrontati prima del lancio internazionale e presto abbandonati, dalla Madama Butterfly ai Due Foscari, dalla Sposa venduta all’Edipo re di Leoncavallo, dal Lago dei cigni a Coppelia, da Daphne a L’Heure espagnole, da Rigoletto alla Vedova allegra.
Per spiegare gli aspetti meno accattivanti del personaggio sono state fatte molte congetture richiamandosi soprattutto agli inizi della sua carriera, frustrati e intralciati più che agevolati dal rapporto col padre Erich Kleiber, il leggendario primo interprete del Wozzeck. Kleiber è stato l’unico grande direttore figlio di un grande direttore, che per di più agli inizi non aveva mosso un dito per instradarlo sulla via della musica, anzi spingendolo a studiare chimica. Nonostante la venerazione dimostrata per l’attività del padre, Carlos Kleiber aveva saputo ritagliarsi un proprio spazio interpretativo, talvolta perfino in netto contrasto con le scelte paterne. A dimostrarlo basta confrontare le registrazioni delle Sinfonie di Beethoven, del Tristano, del Freischütz o del Rosenkavalier lasciate da Erich Kleiber con quelle diversissime del figlio: un confronto quasi sempre destinato a risolversi a vantaggio delle seconde. In realtà se Erich Kleiber era un solido custode della tradizione tedesca, in qualche modo vicino a Furtwängler e a Walter, Carlos Kleiber appariva invece come un geniale “guastatore” di quegli stessi canoni interpretativi. La frenesia ritmica, la trasparenza dei timbri, il fraseggiare con imprevedibile elasticità e morbidezza facevano piuttosto pensare ad altri modelli, a De Sabata, al primo Karajan, per certi aspetti anche a Bernstein, che fu suo amico sincero.
Vedere Kleiber sul podio era uno spettacolo senza confronti. Il suo gesto costituiva uno di quei fenomeni che rendono inspiegabile il mistero di un’arte come la direzione d’orchestra e che, osservati al dettaglio, vanificano ogni possibilità di teorizzazione scolastica sul rapporto causa-effetto che si viene a instaurare fra movimento e risposta sonora. Raramente scandiva il tempo nel senso tradizionale. La correttezza impeccabile della tenuta ritmica e la realizzazione delle sottilissime fluttuazioni agogiche del “rubato” sembravano derivare piuttosto da certi atteggiamenti del corpo e del volto: un fluido misterioso che si trasmetteva agli strumentisti. I movimenti di Kleiber sul podio contravvenivano a tutte le buone regole della tecnica direttoriale: quasi impercettibili nello scatenamento vorticoso dei tempi rapidi si facevano invece più ampi ed eloquenti nella cura del fraseggio dei tempi lenti. Una specie di danza meravigliosa, quale nessun coreografo saprebbe inventare, l’esatta rappresentazione visiva di ciò che un attimo dopo si traduceva in effetto sonoro. E il risultato era una sorta di ebbrezza dionisiaca, di estasi e di abbandono totale al piacere della musica.
Kleiber è stato soprattutto un formidabile direttore d’opera. Lo stanno a dimostrare la maggiore frequenza dei suoi impegni con il repertorio lirico e quel pizzico di eccitazione teatrale che sempre si sprigionava dalle sue interpretazioni sinfoniche, dal suo Beethoven translucido e spiritato, dalle dolcissime inquietudini del suo Schubert, perfino da quella Quarta di Brahms variegatissima, continuamente animata da un soffio di tragedia. Ma in un certo senso è sostenibile anche il contrario. Tutte le esecuzioni operistiche di Kleiber possedevano una ricercatezza di dettagli, uno spolvero virtuosistico, uno spessore orchestrale, una perentoria unità di concezione di gusto sinfonico. Ciò rendeva per molti aspetti unici i suoi confronti con il grande repertorio tedesco da Weber a Wagner, da Strauss a Berg, contraddistinti da esiti di novità perfino sconcertante. Il suo Freischütz rinuncia all’enfasi retorica di quelle esecuzioni che, alla maniera di Furtwängler, puntano a evidenziare le premesse del wagnerismo. E’ un Freischütz fiabesco e luminoso, restituito al primo romanticismo e all’estetica disimpegnata del Singspiel, centrato tanto negli aspetti di demonismo visionario come in quelli bonari e quotidiani di commedia. Allo stesso modo il discusso e ammiratissimo Tristano si allontana dall’eroismo teutonico del Ring per raccogliersi in atmosfere lunari e oniriche o per tendersi in frenetiche eccitazioni sensuali. Un Tristano perfino pericolosamente affascinante, già in odore di Strauss e di decadentismo. E proprio con lo Strauss del Rosenkavalier Kleiber ha rivelato i tratti più seducenti della sua personalità di interprete per quell’inscindibile connubio di eleganza settecentesca e di malinconia crepuscolare, di leggerezza da commedia viennese e di sfida virtuosistica. Qualità perfettamente comuni all’opera e al direttore. Di qui anche il logico approccio agli Strauss viennesi, mediato dalla confidenza con il mondo del balletto e dell’operetta a lungo frequentati durante gli anni di oscuro apprendistato. Dopo il suo primo, indimenticabile “Concerto di Capodanno” perfino Willi Boskowsky dichiarò di non aver mai ascoltato esecuzioni così trascinanti e autentiche delle musiche che aveva diretto per tutta la vita. Né meno elettrizzante è stato il confronto di Kleiber con la Fledermaus, capace di esprimervi una spiritualità e una leggerezza fatata senza possibili riscontri. L’opera italiana fu presente nel repertorio battuto da Kleiber negli ultimi anni con un po’ di Verdi e di Puccini. Del primo una Traviata decisamente poco italiana ma fascinosissima, filtrata per l’appunto attraverso il mondo del valzer e il tardo romanticismo, fra insistiti preziosismi timbrici e slanci travolgenti, ma anche un Otello analizzato con minuziosa fedeltà alle indicazioni della partitura e inscritto senza remore nella stagione del grande decadentismo europeo. La stessa prospettiva che consentì a Kleiber di essere interprete senza rivali della Bohème, come hanno dimostrato ripetute esecuzioni in teatro fra le più struggenti e poetiche. Scarsissime sono state le incursioni di Kleiber in altri settori della storia dell’opera. Ricordiamo per esempio una sconcertante Carmen viennese del ‘78, incredibilmente pasticciata dal punto di vista testuale in accordo con le idee registiche di Zeffirelli, ma anche punteggiata di momenti prodigiosi nel suo particolare taglio allo stesso tempo spumeggiante e drammaticissimo.
Negli ultimi anni, libero da qualsiasi impegno stabile con un’orchestra sinfonica o con un teatro altrnava lunghi periodi di assenza a rarissimi, folgoranti ritorni. Ogni sua apparizione sul podio era seguita con l’interesse un po’ morboso degli “eventi” (forse l’ultima nel febbraio del 1999 a Cagliari). Certo avrebbe potuto dare molto di più alla storia dell’interpretazione e contendere il primato a colleghi assai più impegnati di lui eppure tanto meno geniali e interessanti. E’ invece rimasto fino all’ultimo fedele all’immagine di outsider capriccioso e affascinante, rifiutando di scendere a patti con le regole di una professione, perfino a quel livello, fatta di compromessi e burocratica ripetitività. Ora che ci ha lasciati il fascino della sua testimonianza risiede anche in questo, nel rifiuto di intendere la direzione d’orchestra come una professione e nel caparbio impegno a difenderne gli aspetti misteriosi di magica possessione, di ispirato incantamento, di totale abbandono agli dei della musica.

di Giuseppe Rossi (Musicaaa!, Anno X - Numero 29, Maggio-Settembre 2004)

sabato, febbraio 16, 2008

Sergio Sablich: biografia

Sergio Sablich è nato a Bolzano il 7 luglio 1951. I genitori, nati entrambi a Fiume, oggi Rijeka in Croazia, avevano lasciato la città natale nel 1945, dopo aver optato per la cittadinanza italiana quando Fiume fu ceduta alla Jugoslavija.
Nel 1952, la Famiglia si trasferisce a Firenze, ma Bolzano resterà sempre un punto di riferimento importante nella vita di Sablich, che in età adolescenziale trascorre a casa degli zii a Bolzano buona parte delle vacanze estive e natalizie.
Dopo la maturità classica si iscrive alla Facoltà di Lettere & Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, dove nel 1976 consegue la laurea , presentando una tesi in Storia della Musica dal titolo Il " Doktor Faust " nella problematica teatrale e musicale di Ferruccio Busoni. Contemporaneamente, si diploma in Composizione, Musica Corale e Direzione di Coro presso il Conservatorio “Cherubini” di Firenze. Infine, all’Università di Monaco di Baviera si perfeziona in Musicologia.
Dal 1976 è docente di ruolo di Conservatorio per l’insegnamento di Storia della musica ed Estetica musicale e sceglie Bolzano, con abilitazione all’insegnamento in lingua tedesca, quale sede della sua prima attività di docente, seguita da Ferrara e dal 1989 da Firenze, dove risiedeva.
E’ stato per dieci anni (1976-1985) direttore del Centro Studi Musicali “Ferruccio Busoni” di Empoli; dal 1986 al 1990, durante la Sovrintendenza di Giorgio Vidusso, assistente alla direzione artistica e responsabile delle manifestazioni promozionali e collaterali del Teatro Comunale di Firenze e del Maggio Musicale Fiorentino.
Dal 1991 al 1998 ricopre l’incarico di direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica di Torino della RAI e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, dopo essere stato tra gli artefici della riunificazione delle quattro orchestre preesistenti in un’unica orchestra, ma nel 1998 lascia questo ruolo, pur con molti dubbi, per seguire a Roma il Maestro Giuseppe Sinopoli che lo invita a ricoprire la carica di Sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, incarico da cui si è dimesso nel 1999, dopo molte amarezze e delusioni.
A cavallo tra il 2000 e il 2001 crea e organizza il festival internazionale di musica sacra “Anima Mundi” a Pisa, su progetto ideato insieme a Sinopoli ed a lui dedicato dopo la prematura scomparsa del Maestro.
Sablich sarà poi Consulente per la musica della Regione Toscana, e dal maggio 2002 direttore artistico dell'Orchestra della Toscana (ORT) incarico che sarebbe terminato nel mese di aprile del 2005, e bruscamente interrotto il 27 gennaio, giorno in cui è stato colpito da ictus cerebrale.
Nel febbraio 2003 era stato chiamato al Teatro La Scala di Milano come consulente artistico, esperienza rivelatasi poi nefasta per la non chiarezza e indifferenza degli interlocutori coinvolti. Sablich ne soffrirà molto, fino a parlare chiaramente, nei mesi immediatamente precedenti la sua malattia, di danni biologici legati al malessere della vicenda Scala.
Sablich ha pubblicato, oltre a numerosi saggi e articoli, studi e monografie su Ferruccio Busoni (EDT, 1982), Wolfgang Sawallisch (Passigli Editori, 1989), Richard Strauss (EDT, 1991), Richard Wagner (Il libro bruno, Passigli Editori, 1992), Goffredo Petrassi (Suvini Zerboni, 1994), Franz Schubert (il volume L’altro Schubert, EDT, 2002), Luigi Dallapiccola (L’Epos di Palermo, 2004). Ha collaborato inoltre alla “Storia della Letteratura Italiana” Einaudi con un saggio sui rapporti tra letteratura e musica nel Novecento. Su questo argomento ha tenuto dal 1996 al 1998 un corso biennale come professore a contratto presso l’Università IULM di Milano. Nell’anno accademico 2001-2002 ha insegnato Storia della musica del Novecento come professore a contratto presso l’Università di Pisa.
Ha svolto inoltre attività di critico musicale, oltre che per “La Nazione” di Firenze, per “Il Giornale” di Milano e “La Voce” diretti da Indro Montanelli ed ha collaborato con le principali riviste musicali italiane.
Muore a Firenze, dopo 40 giorni di coma, il 7 Marzo 2005, all’età di 53 anni.

sabato, febbraio 09, 2008

Johannes Brahms: vecchiaia da genio

I grandi maestri nella loro quotidianità: scopriamo gli ultimi anni di Brahms, fra amici e péchés de vieillesse, sullo sfondo di Vienna come delle villeggiature fra boschi e laghi austriaci.

Lo scapolo Brahms era uomo di poche ma profonde amicizie.
Tra il febbraio e l’aprile del 1894 la morte gliele rubò quasi tutte: prima Theodor Billroth, luminare della chirurgia e suo mecenate, poi Hans von Bülow e Philipp Spitta, apostoli del suo verbo musicale. Due anni dopo spirava a Bonn la sua musa Clara Wieck, ed egli correva a Bonn per ricongiungerla nella tomba al marito Robert Schumann. Dal triste viaggio tornò dimagrito e itterico in volto. Era l’esordio di un carcinoma al fegato (o forse al pancreas) che lo ucciderà alle 8.30 del 3 aprile 1897. Riposa ai piedi di una stele liberty nel Zentralfriedhof, il cimitero centrale di Vienna, nel settore che ospita anche Beethoven, Schubert, Johann Strauss jr. e Schönberg. Il palazzotto di Karlsgasse 4, dove dal 1887 subaffittava un appartamento dalla vedova Celestine Truxa, fu demolito nel 1907, ma parte del suo mobilio convive in strani connubi nella casa che fu l’ultima di Haydn (Haydngasse 19). Pure scomparsa la trattoria “Zum roten Igel” (Al Riccio rosso) in Tuchlauben 12, dove Brahms era titolare di un barilotto personale di Tokay cui attingeva per innaffiare larghe fette d’arrosto con cipolle.
Una foto del 1892 ci trasmette l’immagine del Maestro nel suo alloggio (stanza da letto, studio e sala da musica) circondato da un pittoresco bric-àbrac. Frau Truxa, spentasi nel 1935 alla bella età di 77 anni, tollerò con indulgenza il bizzarro stile di vita del suo inquilino e forse aggiunse un po’ di suo ai racconti che circolavano nella pettegola metropoli. Pare che Brahms ricevesse gli ospiti mattutini in pigiama, accappatoio e pantofole, fumando sigari e bevendo caffè nero in quantità. Non era certo povero, ma spendeva in libri la maggior parte dei suoi introiti e odiava perder tempo dal sarto. Spesso usciva di casa spettinato, la lunga barba incolta, indossando pantaloni rappezzati e troppo corti, drappeggiato a mo’ di poncho in una coperta assicurata con una spilla da balia. Si metteva in ghingheri solo per le occasioni mondane, nel corso delle quali si divertiva a modo suo. Lasciando una festa, pare dichiarasse con aria compunta: “Se ho trascurato d’insultare qualcuno, me ne scuso”. Più che nell’alta società si trovava a proprio agio nei caffè di dubbia reputazione o nei veri e propri postriboli fra il Graben, la Singerstraße e l’Opernring, dove sedeva al pianoforte per strimpellare canzonette e ballabili, così come aveva fatto per bisogno nei primi anni di Amburgo.
Di Vienna il nordico Brahms detestava anzitutto l’afa estiva. Per questo nel catalogo delle sue composizioni ricorrono i nomi dei luoghi di villeggiatura dove ancor oggi si venera la memoria dell’ospite illustre con musei e festival a lui dedicati. A Pressbaum, nel Wienerwald di straussiana memoria, Brahms occupò nell’estate del 1881 una villa in località Brentenmais, componendovi il Concerto per pianoforte op. 85. A Pörtschach i giardini in fiore sulle rive del Wörthersee s’alternano alle ville e ai ritrovi eleganti. Qui, tra 1877 e 1879, nacquero la Seconda sinfonia e il Concerto per violino. Mürzzuschlag in Stiria, fra i boschi ai piedi del Semmering, è la culla della Quarta sinfonia e di parecchi lavori vocali. Grazie al lascito dell’industriale Victor von Miller, Gmunden sul Traunsee (Alta Austria) ha anch’essa il suo museo brahmsiano in Kammerhofgasse 8. Dal 1880 Brahms soleva villeggiare a Bad Ischl nella Gruber-Haus di Salzburgerstraße 51.
Aveva come vicini di casa il Kaiser Francesco Giuseppe e il collega Johann Strauss; inoltre gli era facile raggiungere gli amici: von Miller ad Aicholz e Billroth a St. Gilgen, sul Wolfgangsee. Proprio a Bad Ischl, su richiesta di Richard Mühlfeld, compose nell’estate del 1894 le due sonate dell’op. 120. Mühlfeld era primo clarinetto dell’orchestra di corte di Meiningen, dove lo stesso Brahms aveva operato come direttore. Provate insieme le due sonate, partirono per Berchtesgaden; la prima audizione ebbe luogo il 23 settembre nella Villa Felicitas, edificata in località Stangaß dalla principessa Marie di Sassonia-Meiningen. Lo storico edificio sopravvisse fino al 1974 come ospedale pediatrico. Ne ha ereditato il nome l’Altenheim St. Felicitas, casa di riposo gestita dalla Caritas bavarese; ma dell’antico splendore sopravvive solo il parco dagli alberi secolari.

di Carlo Vitali

sabato, febbraio 02, 2008

Orazio Vecchi a 400 anni dalla scomparsa

La prossima pubblicazione nei Quaderni di Musicaaa! della edizione critica da me curata dei Madrigali a sei voci di Orazio Vecchi, in occasione del 4° centenario della morte, colma una lacuna nella conoscenza del grande compositore modenese, lacuna spesso lamentata ma finora mai colmata.
Orazio Vecchi, pioniere del genere della canzonetta e artefice dei più importanti cicli di “madrigali drammatici”, stampò solo due raccolte omogenee di madrigali: questi, a sei voci, nel 1583 e quelli a cinque voci nel 1589 (la raccolta a cinque è stata da me edita, per i tipi dell’UT Orpheus di Bologna, nel 1997); molti altri suoi madrigali sono però compresi in raccolte antologiche.
Il libro dei Madrigali a sei voci, oltre alla raffinatezza di una scrittura polifonica complessa, presenta almeno due curiosità: la prima versione musicale della poesia di Guarini “Ardo sì ma non t’amo”, musicata poi assiduamente da molti altri compositori e soprattutto il primo esempio vecchiano di piccola “commedia armonica”, le “Hore di ricreatione” a sette voci. Qui Vecchi dipinge l’ameno ritrovo di una brigata che, tra battute scherzose e pungenti e varie citazioni musicali, si intrattiene cantando, ballando, giocando e inneggiando all’amore.
Le ragioni delle scelte compositive dei musicisti rinascimentali e barocchi sono da ricercarsi principalmente nelle richieste della committenza e, più in generale, nei gusti e nelle mode dell’ambiente sociale in cui si muovono; è determinante il tipo di incarico che svolgono e solo in subordine entrano in gioco gusti e competenze speciali personali. Ciò spiega pienamente le scelte musicali operate dal modenese Orazio Vecchi (1550-1605), musicista allievo del monaco servita Salvatore Essenga e poi attivo per lungo tempo nella città natale, organista del Duomo dal 1583 fino alla morte (a parte un’interruzione dal 1586 al 1593, quando fu in carica nella Collegiata di Correggio) e maestro di corte del Duca. I numerosi, e ripetitivi saggi a lui dedicati, nel 1950 per le celebrazioni dell’anniversario della nascita, e poi negli anni successivi, hanno sottolineato la mancanza nel catalogo di Vecchi, artista dalla personalità poliedrica e ricco di interessi, di “favole pastorali” monodiche, di stile fiorentino, nonostante i tempi fossero maturi per cantare l’amore di ninfe e pastori nel nuovo stile su basso continuo. Vecchi era ben al corrente delle nuove esperienze fiorentine, ed era anche molto pratico di teatro: aveva assistito all’allestimento dell’”Euridice” di Peri per le nozze di Maria de’ Medici, nel 1600 e aveva lui stesso collaborato per le musiche di spettacoli teatrali modenesi, ovvero musiche di scena e intermedi per il “Sacrificio” di Agostino Beccari (in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Clelia Farnese e Marco Pio, a Sassuolo, nel 1587) e per le feste del marchese Bentivoglio, a Modena, nel 1589. L’ambiente di Modena poi, amava molto la Commedia dell’Arte e si contano numerosissimi spettacoli delle migliori compagnie: ecco che Vecchi soddisfa il gusto della corte con il suo capolavoro Amfiparnaso, una “Commedia armonica” che ricalca i tipi e i motivi della commedia dell’arte in polifonia, uno spettacolo da “mirare con gli occhi della mente”, rivolto ad un uditorio colto.
Se Vecchi non si cimentò in una scrittura musicale nuova, nella sua produzione non mancarono motivi di originalità, che supplirono alle mancate occasioni melodrammatiche. Nella prefazione dell’Amfiparnaso Vecchi prende le distanze dalle “troppo smodate e spesse facetie che si veggono in molte commedie” e compone un gioiello, unico nel suo genere fino a quel momento (siamo nel 1597), ben lontano dalle rappresentazioni definite “buffonesche”, anche perché “non di ricca e vaga scena” adorno.
Vecchi aveva inserito nel 1583, nel suo primo libro di Madrigali a sei voci, una piccola commedia musicale polifonica, le “Hore di ricreatione”, in tre parti, che ben rimanda ai divertimenti di Modena, feste in piazza, giochi, mascherate. Un po’ tutta la produzione profana di Vecchi (le sue Veglie, il suo Convito e la sua Selva) è figlia delle feste modenesi, ricca com’è di “humori”, di parodie, giochi, pittura di caratteri, affetti, personaggi. Nelle “Hore di ricreatione” c’è una specie di concentrato della personalità di Vecchi: in una amena cornice campestre un gruppo d’amici s’intrattiene prima cantando Canzoni e Giustiniane (citate e parodiate), poi si dispone a giocare alla morra e a palla, il tutto condotto attraverso un dialogo serrato e divertito, tra brevi squarci descrittivi. Le commissioni del duca, amico di Vecchi, per i carnevali e le altre feste, riempiono il catalogo di Vecchi di Mascherate musicali, di dialoghi allegorici (come quello della “Allegrezza e Malinconia” per le feste di Modena Capitale), di brani festosi e celebrativi, come quelli per le nozze della secondogenita del Duca Cesare, Laura, con Alessandro Pico della Mirandola, nel 1604.
Vecchi era anche attivo nel Duomo di Modena dove gareggiava in bravura e a volte si scontrava con l’organista Fabio Richetti, allievo del grande Luzzaschi. È normale perciò che scrivesse composizioni per le celebrazioni liturgiche e infatti ci sono rimasti molti brani sacri, spesso con polifonia ricca di voci, quali mottetti, lamentazioni, inni e Messe. Tra essi spicca la raccolta “Sacrarum cantionum” a 5-8 voci, del ’97, in cui usa la terminologia più nuova di “sacre canzoni” invece che mottetti: tale definizione diventerà più frequente nel primo ‘600, specialmente per i mottetti a voce sola su basso continuo, introdotti da Viadana nei suoi Cento Concerti Ecclesiastici e coltivati poi nel Veneto e a Pavia, Como e Novara.
Un altro aspetto, non secondario, della figura di Vecchi è la sua attività d’insegnante: era il maestro infatti dei figli del duca, delle monache (e all’epoca, come ci dice il cronista modenese Spaccini, nei conventi fioriva la musica e c’erano artiste quali Sulpizia Censis e Faustina Borghi) e di molti giovani. Tra di essi spiccano l’amatissimo Paolo Bravusi (che curò le edizioni postume dei Dialoghi del maestro, con l’aggiunta della “partitura”), Geminiano Capi Lupi, collaboratore di Vecchi nelle Mascherate, che ebbe inserite sue musiche nelle raccolte del maestro, ma che ebbe un grave e doloroso conflitto con lui e, forse, fu maestro pure di Nicolò Rubini, un bravo cornettista di corte.
La riflessione didattica si imponeva dunque ad un maestro che doveva istruire al canto e alla composizione allieve e allievi di tutte le età. Da qui le ragioni per la stesura di un trattato, “Mostra delli Tuoni”, che Vecchi donò all’allievo Bravusi, trattato che venne poi ricopiato nel 1630 da un ignoto Ercole Giacobbi e ha visto recentemente la luce in una edizione da me curata. Nel trattato si trova eco dell’attività didattica di Vecchi, della sua familiarità con gli strumenti - particolarmente amati alla corte di Modena - ed è segno della sua profonda cultura di polifonista, che gli faceva privilegiate una scrittura a molte voci, anche nella produzione profana (è l’autore più incline alla scrittura a sei voci del suo periodo) ed infine della sua competenza teorica.
Il trattato di Vecchi vuole principalmente “dar mostra” dei modi, della loro formazione e loro trasposizione e degli affetti ad essi legati, vuole descrivere le cadenze e le chiavi consone ad ogni scala. Si ispira direttamente al pensiero teorico di Gioseffo Zarlino, l’unico maestro citato e si serve di esempi musicali importanti, tratti da Palestrina, Marenzio, De Rore, Striggio, Ingegneri e Padoano. Vecchi descrive i 12 modi in maniera molto vicina alle definizioni di Zarlino e si discosta dal pensiero più moderno, quello espresso da V. Galilei nel suo Dialogo della Musica Antica e della Moderna, che nega la validità dei quattro modi aggiunti all’ochtoeco e soprattutto contesta la possibilità espressiva dei modi, vanificata dal perdurare dell’intreccio polifonico. Vecchi prevede nel suo trattato la trasposizione dei modi, da effettuarsi anche solo per comodità degli organisti o per facilitare il canto ai fanciulli e alle monache, tecnica deplorata nel trattato di Galilei. Vecchi utilizzò i suoi Tuoni, a seconda degli affetti, nelle sue composizioni, a giudicare da una breve disamina dei suoi madrigali a 5 voci, a 6 voci nelle raccolte omogenee, delle Canzonette a 6 voci e dei 16 brani a sei del Convito Musicale.
Nei brani esaminati (20 più 20 madrigali, 21 canzonette e ancora 16 madrigali) si nota una netta predominanza di composizioni in modi trasportati (1°, 2°, 9°, 12°), mentre i modi usati nelle corde naturali sono il 1° e l’11°, il 7° e il 9° (nelle canzonette anche l’8°). Vecchi inoltre esprime l’esigenza di non attenersi alle regole con troppo rigore: si possono perfino mescolare tra loro le cadenze regolari e irregolari o “per l’immitatione della parola” o “per lascivia del Canto” ed è possibile, almeno nella musica da camera, uscire dall’ambitus proprio di ogni tuono. La conoscenza degli affetti attribuiti a Vecchi ad ogni modo può essere utile alla definizione spesso difficoltosa del modo usato in ogni suo brano. Nei Madrigali a sei voci per esempio troviamo il 12° modo, atto al trionfo, in una coppia di madrigali che descrivono una grandiosa scena natalizia, con cori celesti, fuochi, stelle, pastori, armenti, gli elementi della Natura placati dinnanzi al “tenero Re”.

di Mariarosa Pollastri (Musicaaa!, Anno XI - Numero 31, Gennaio-Aprile 2005)