Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 02, 2008

Orazio Vecchi a 400 anni dalla scomparsa

La prossima pubblicazione nei Quaderni di Musicaaa! della edizione critica da me curata dei Madrigali a sei voci di Orazio Vecchi, in occasione del 4° centenario della morte, colma una lacuna nella conoscenza del grande compositore modenese, lacuna spesso lamentata ma finora mai colmata.
Orazio Vecchi, pioniere del genere della canzonetta e artefice dei più importanti cicli di “madrigali drammatici”, stampò solo due raccolte omogenee di madrigali: questi, a sei voci, nel 1583 e quelli a cinque voci nel 1589 (la raccolta a cinque è stata da me edita, per i tipi dell’UT Orpheus di Bologna, nel 1997); molti altri suoi madrigali sono però compresi in raccolte antologiche.
Il libro dei Madrigali a sei voci, oltre alla raffinatezza di una scrittura polifonica complessa, presenta almeno due curiosità: la prima versione musicale della poesia di Guarini “Ardo sì ma non t’amo”, musicata poi assiduamente da molti altri compositori e soprattutto il primo esempio vecchiano di piccola “commedia armonica”, le “Hore di ricreatione” a sette voci. Qui Vecchi dipinge l’ameno ritrovo di una brigata che, tra battute scherzose e pungenti e varie citazioni musicali, si intrattiene cantando, ballando, giocando e inneggiando all’amore.
Le ragioni delle scelte compositive dei musicisti rinascimentali e barocchi sono da ricercarsi principalmente nelle richieste della committenza e, più in generale, nei gusti e nelle mode dell’ambiente sociale in cui si muovono; è determinante il tipo di incarico che svolgono e solo in subordine entrano in gioco gusti e competenze speciali personali. Ciò spiega pienamente le scelte musicali operate dal modenese Orazio Vecchi (1550-1605), musicista allievo del monaco servita Salvatore Essenga e poi attivo per lungo tempo nella città natale, organista del Duomo dal 1583 fino alla morte (a parte un’interruzione dal 1586 al 1593, quando fu in carica nella Collegiata di Correggio) e maestro di corte del Duca. I numerosi, e ripetitivi saggi a lui dedicati, nel 1950 per le celebrazioni dell’anniversario della nascita, e poi negli anni successivi, hanno sottolineato la mancanza nel catalogo di Vecchi, artista dalla personalità poliedrica e ricco di interessi, di “favole pastorali” monodiche, di stile fiorentino, nonostante i tempi fossero maturi per cantare l’amore di ninfe e pastori nel nuovo stile su basso continuo. Vecchi era ben al corrente delle nuove esperienze fiorentine, ed era anche molto pratico di teatro: aveva assistito all’allestimento dell’”Euridice” di Peri per le nozze di Maria de’ Medici, nel 1600 e aveva lui stesso collaborato per le musiche di spettacoli teatrali modenesi, ovvero musiche di scena e intermedi per il “Sacrificio” di Agostino Beccari (in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Clelia Farnese e Marco Pio, a Sassuolo, nel 1587) e per le feste del marchese Bentivoglio, a Modena, nel 1589. L’ambiente di Modena poi, amava molto la Commedia dell’Arte e si contano numerosissimi spettacoli delle migliori compagnie: ecco che Vecchi soddisfa il gusto della corte con il suo capolavoro Amfiparnaso, una “Commedia armonica” che ricalca i tipi e i motivi della commedia dell’arte in polifonia, uno spettacolo da “mirare con gli occhi della mente”, rivolto ad un uditorio colto.
Se Vecchi non si cimentò in una scrittura musicale nuova, nella sua produzione non mancarono motivi di originalità, che supplirono alle mancate occasioni melodrammatiche. Nella prefazione dell’Amfiparnaso Vecchi prende le distanze dalle “troppo smodate e spesse facetie che si veggono in molte commedie” e compone un gioiello, unico nel suo genere fino a quel momento (siamo nel 1597), ben lontano dalle rappresentazioni definite “buffonesche”, anche perché “non di ricca e vaga scena” adorno.
Vecchi aveva inserito nel 1583, nel suo primo libro di Madrigali a sei voci, una piccola commedia musicale polifonica, le “Hore di ricreatione”, in tre parti, che ben rimanda ai divertimenti di Modena, feste in piazza, giochi, mascherate. Un po’ tutta la produzione profana di Vecchi (le sue Veglie, il suo Convito e la sua Selva) è figlia delle feste modenesi, ricca com’è di “humori”, di parodie, giochi, pittura di caratteri, affetti, personaggi. Nelle “Hore di ricreatione” c’è una specie di concentrato della personalità di Vecchi: in una amena cornice campestre un gruppo d’amici s’intrattiene prima cantando Canzoni e Giustiniane (citate e parodiate), poi si dispone a giocare alla morra e a palla, il tutto condotto attraverso un dialogo serrato e divertito, tra brevi squarci descrittivi. Le commissioni del duca, amico di Vecchi, per i carnevali e le altre feste, riempiono il catalogo di Vecchi di Mascherate musicali, di dialoghi allegorici (come quello della “Allegrezza e Malinconia” per le feste di Modena Capitale), di brani festosi e celebrativi, come quelli per le nozze della secondogenita del Duca Cesare, Laura, con Alessandro Pico della Mirandola, nel 1604.
Vecchi era anche attivo nel Duomo di Modena dove gareggiava in bravura e a volte si scontrava con l’organista Fabio Richetti, allievo del grande Luzzaschi. È normale perciò che scrivesse composizioni per le celebrazioni liturgiche e infatti ci sono rimasti molti brani sacri, spesso con polifonia ricca di voci, quali mottetti, lamentazioni, inni e Messe. Tra essi spicca la raccolta “Sacrarum cantionum” a 5-8 voci, del ’97, in cui usa la terminologia più nuova di “sacre canzoni” invece che mottetti: tale definizione diventerà più frequente nel primo ‘600, specialmente per i mottetti a voce sola su basso continuo, introdotti da Viadana nei suoi Cento Concerti Ecclesiastici e coltivati poi nel Veneto e a Pavia, Como e Novara.
Un altro aspetto, non secondario, della figura di Vecchi è la sua attività d’insegnante: era il maestro infatti dei figli del duca, delle monache (e all’epoca, come ci dice il cronista modenese Spaccini, nei conventi fioriva la musica e c’erano artiste quali Sulpizia Censis e Faustina Borghi) e di molti giovani. Tra di essi spiccano l’amatissimo Paolo Bravusi (che curò le edizioni postume dei Dialoghi del maestro, con l’aggiunta della “partitura”), Geminiano Capi Lupi, collaboratore di Vecchi nelle Mascherate, che ebbe inserite sue musiche nelle raccolte del maestro, ma che ebbe un grave e doloroso conflitto con lui e, forse, fu maestro pure di Nicolò Rubini, un bravo cornettista di corte.
La riflessione didattica si imponeva dunque ad un maestro che doveva istruire al canto e alla composizione allieve e allievi di tutte le età. Da qui le ragioni per la stesura di un trattato, “Mostra delli Tuoni”, che Vecchi donò all’allievo Bravusi, trattato che venne poi ricopiato nel 1630 da un ignoto Ercole Giacobbi e ha visto recentemente la luce in una edizione da me curata. Nel trattato si trova eco dell’attività didattica di Vecchi, della sua familiarità con gli strumenti - particolarmente amati alla corte di Modena - ed è segno della sua profonda cultura di polifonista, che gli faceva privilegiate una scrittura a molte voci, anche nella produzione profana (è l’autore più incline alla scrittura a sei voci del suo periodo) ed infine della sua competenza teorica.
Il trattato di Vecchi vuole principalmente “dar mostra” dei modi, della loro formazione e loro trasposizione e degli affetti ad essi legati, vuole descrivere le cadenze e le chiavi consone ad ogni scala. Si ispira direttamente al pensiero teorico di Gioseffo Zarlino, l’unico maestro citato e si serve di esempi musicali importanti, tratti da Palestrina, Marenzio, De Rore, Striggio, Ingegneri e Padoano. Vecchi descrive i 12 modi in maniera molto vicina alle definizioni di Zarlino e si discosta dal pensiero più moderno, quello espresso da V. Galilei nel suo Dialogo della Musica Antica e della Moderna, che nega la validità dei quattro modi aggiunti all’ochtoeco e soprattutto contesta la possibilità espressiva dei modi, vanificata dal perdurare dell’intreccio polifonico. Vecchi prevede nel suo trattato la trasposizione dei modi, da effettuarsi anche solo per comodità degli organisti o per facilitare il canto ai fanciulli e alle monache, tecnica deplorata nel trattato di Galilei. Vecchi utilizzò i suoi Tuoni, a seconda degli affetti, nelle sue composizioni, a giudicare da una breve disamina dei suoi madrigali a 5 voci, a 6 voci nelle raccolte omogenee, delle Canzonette a 6 voci e dei 16 brani a sei del Convito Musicale.
Nei brani esaminati (20 più 20 madrigali, 21 canzonette e ancora 16 madrigali) si nota una netta predominanza di composizioni in modi trasportati (1°, 2°, 9°, 12°), mentre i modi usati nelle corde naturali sono il 1° e l’11°, il 7° e il 9° (nelle canzonette anche l’8°). Vecchi inoltre esprime l’esigenza di non attenersi alle regole con troppo rigore: si possono perfino mescolare tra loro le cadenze regolari e irregolari o “per l’immitatione della parola” o “per lascivia del Canto” ed è possibile, almeno nella musica da camera, uscire dall’ambitus proprio di ogni tuono. La conoscenza degli affetti attribuiti a Vecchi ad ogni modo può essere utile alla definizione spesso difficoltosa del modo usato in ogni suo brano. Nei Madrigali a sei voci per esempio troviamo il 12° modo, atto al trionfo, in una coppia di madrigali che descrivono una grandiosa scena natalizia, con cori celesti, fuochi, stelle, pastori, armenti, gli elementi della Natura placati dinnanzi al “tenero Re”.

di Mariarosa Pollastri (Musicaaa!, Anno XI - Numero 31, Gennaio-Aprile 2005)

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