Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, gennaio 25, 2009

Handel: il "Rinaldo" di Pizzi

Reggio Emilia. Abbiamo rilevato recentemente che il teatro handeliano, nonostante la struttura rigida dell'opera, riesce qualche volta a definire caratteri precisi, e abbiamo citato il caso di Rinaldo. Come può succedere che si definisca un carattere se l'opera rimane anche in questo caso una struttura paratattica di recitativi e arie, se i personaggi raramente si trovano a dialogare tra loro e se isolatamente espongono sempre e soltanto i propri momentanei affetti? Non sarà un caso se in quest'opera si dibattono questioni di magia (amatissima questione per il barocco letterario e musicale). In Rinaldo è proprio l'elemento magico, e dunque quello più astratto, che paradossalmente porta al carattere. Armida è una maga, come è mago Argante; ma Armida, aspirando agli amori di Rinaldo, si trasforma nell'amata di lui Almirena, poi torna maga, infine, vinta da Rinaldo e Goffredo, si fa cristiana e rinuncia alle pratiche magiche. Armida insomma entra e esce dal suo personaggio di maga e assume ogni volta i connotati che il ruolo sempre nuovo le impone: restando, comunque, sempre devota all'inganno. Ma Armida, con i suoi inganni, trascina sulla sua strada anche gli altri personaggi: Rinaldo sta (per effetto di magia) e non sta (per tenace deliberazione) al gioco di Armida e anche lui diventa un personaggio articolato. Ma a uno sguardo complessivo, la prima opera hndeliana per Londra (1711) è in ogni senso eccezionale: davvero Handel si presentava al pubblico britannico con un biglietto da visita formidabile. La straordinaria varietà delle arie, la bellezza della strumentazione inchiodano lo spettatore a un teatro di qualità che verrà superato solo da Mozart. Si pensi all'uso degli strumenti concertanti: oboe e fagotto, violino e fagotto, cembalo solo, quattro trombe, contrabbasso, flauti. E si pensi alla varietà delle forme che rompono la monotonia dell'aria italiana introducendo sarabande, gavotte, ariosi; o all'adozione impropria della forma col da capo ottenuta separando la ripresa con episodi diversi e insospettati (l'aria di battaglia di Rinaldo, spezzata appunto dalla battaglia). Insomma, un'opera bellissima, che giustifica l'impegno indubbiamente rilevante dell'allestimento dell'Ater in coproduzione con lo Chtelet di Parigi. L'esecuzione musicale ha un po' sofferto dell'appiattimento dinamico imposto dal direttore Charles Frederik Farncombe (che è anche il revisore della partitura). Per fortuna Farncombe ha vivissimo il senso dei tempi, e questo certamente contribuisce a superare l'imbarazzo dell'esecuzione. Una lode va comunque all'orchestra Toscanini non solo dotata di strumentisti di prim'ordine, come s'è avvertito nelle arie con strumenti obbligati, ma tutto sommato attendibile pur nella tecnica moderna dell'approccio. In palcoscenico si facevano apprezzare soprattutto la tenera Almirena di Benita Valente e il Rinaldo di Cynthia Clarey, impeccabili anche nelle fioriture. James Bowman era il controtenore preciso ma stucchevole incaricato del ruolo di Goffredo. Elizabeth Pruett era una colorita Armida. Simone Alaimo era Argante, ma in tale ruolo non aggiunge nulla alla sua notorietà. Ma c'era un vero grande avvenimento, ed era quello scenico. Pierluigi Pizzi parte da una parete barocca che sostituisce il sipario, con porta centrale e nicchie laterali. Come comincia l'opera le nicchie svelano le statue di Rinaldo e Goffredo, la parte si sposta verso il fondo e apre spazi variabili di lucidi neri e decorazioni dorate. I personaggi sono visti e realizzati secondo un concetto marmoreo di statua barocca: non si muovono mai ma vengono mossi. Ognuno sta su una pedana mobile sospinta da mimi vestiti di nero. Ormai la capacità di Pizzi nel costruire macchine teatrali è diventata virtuosismo. Gli spostamenti sono continui e danno veramente il senso di una continua macchina barocca. Se anche i personaggi non si spostano, i grandissimi mantelli screziati vengono agitati e riempiti d'aria (che è poi un altro modo per rendere la vaporosità e l'artificiosità del teatro barocco). C'è anche il mare con i flutti bianchi e "l'orrido sasso" sul quale vive Armida ed è un monte luciferino di nera pece. Campaiono cavalli, draghi, barche, sirene e si muovono con assoluta precisione come in un balletto. Se il momento più spettacolare viene raggiunto nella scena della battaglia, con le gabbie che sorreggono cavalli e cavalieri che si intersecano e si inseguono velocemente, altri momenti strappano, giustamente, l'applauso a scena aperta. E i bravissimi mimi che agiscono lo spettacolo sono sempre in vista, realizzando così il meraviglioso con tutti i suoi trucchi. Che è poi un modo moderno e intelligente per riproporre un teatro vivissimo altrimenti incomprensibile. Successo clamoroso.

Michelangelo Zurletti (Repubblica, 7 febbraio 1985)

lunedì, gennaio 19, 2009

Purcell: "Dido..." e "Ode" di Pizzi

Reggio Emilia. In principio, supponiamo, era il "Masque". Deve essere andata così. Il teatro municipale Romolo Valli decide di mettere in scena Dido and Aeneas di Purcell; ma Dido and Aeneas è un "Masque", o meglio ciò che ci rimane di scritto di un "Masque", e non regge la serata. Dunque, accostargli un'altra opera, oppure imbottirlo di danze, pagine strumentali e corali fino a raggiungere la presumibile ampiezza di un vero e intero "Masque". Questo era uno spettacolo di corte: su una traccia mitologica si innestava una catena di musiche, arie e danze e si concludeva con una danza collettiva, alla quale non si sottraevano neppure i reali. Ma Dido and Aeneas è un "Masque" particolare, nato non per la corte ma per un collegio di Chelsea; e si conclude non con un lieto fine ma con la morte della Regina: e per di più con una delle pagine più struggenti della musica. Come volgerlo in festa? L'idea, allora, è stata quella di incastonarlo in altra opera che non richiedesse festa. Ecco l'Ode on St. Cecilia's Day, sempre di Henry Purcell. L'Ode, forte di quindici numeri, è stata spezzata in due parti asimmetriche: l'esecuzione ha presentato i primi undici numeri, poi Dido and Aeneas e poi gli ultimi quattro numeri dell'Ode. Si è così forzato al teatro una pagina oratoriale per giustificare la teatralità di un "Masque" presentato come cantata. C'è qualcosa che non va. Non diciamo filologicamente perchè non c'è vera operazione filologica; ma semplicemente teatralmente. Un conto è inneggiare a una santa, un altro celebrare la mitologia. pur vero che il martirologio è la mitologia cristiana, ma i due spettacoli sono estranei l'uno all'altro. E non crediamo che una festa borghese di fine Seicento potesse accostare sacro e profano con tanta semplicità: diverse sono le occasioni, le forme, la destinazione. Per di più, Dido and Aeneas è un "Masque" particolare anche dal punto di vista formale. un "Masque" della Restaurazione, ed è molto critico nei confronti della società restaurata (per questo nacque in un collegio privato: a corte non sarebbe stato accettato). Nell'adattare a "Masque" il quarto libro dell'Eneide, il librettista Nahum Tate pone Enea di fronte al dilemma se seguire l'amore o il dovere. Ma il richiamo al dovere, che in Virgilio veniva da Mercurio, qui viene da una strega: la quale si comporta da pettegola borghese della società restaurata. Enea, eroe restaurato, preferisce il dovere all'amore. Questo vuol dire che formalmente Pucell non gli concede la dignità dell'aria (che ha, invece, a livello irripetibile, Didone: la quale sa amare); ma vuol dire anche storicamente che i frequentatori del collegio di Chelsea accettarono la critica alla corte restaurata. Come si può mescolare una pagina socialmente critica (Dido and Aeneas) con un' altra socialmente corriva (Oden)? Naturalmente, a Pierluigi Pizzi non mancano fantasia e gusto per giustificare scenicamente l'impossibile innesto. Ma dobbiamo rinunciare a porci troppe domande sulla liceità dell'operazione e accettarla semplicemente come pretesto per una serata tutta Purcell. Rinunce che compiamo, soprattutto perchè le due pagine sono di straordinaria bellezza: e non solo le arie, ma i cori, le parti strumentali, il vivissimo recitativo, il gusto per i duetti. E allora godiamo della festa, del sontuoso salone ligneo che Pizzi ha costruito, della fioca luce di candela che l'ha cordialmente illuminato, dei bellissimi e semplici costumi, ovviamente realizzati da Tirelli, della bella distribuzione scenica di strumenti e cori, della quantità di simboli, perfino dell'azione mimica che sintetizza il mito di Atteone. Cosa succede, dunque, in questo salone di Chelsea? Accomodatosi il pubblico in una sala pochissimo illuminata, entra il padrone di casa, Josias Priest, direttore del collegio, con le inservienti che prendono a accendere le candele. Arrivano gli strumentisti, i coristi, il direttore e si dà il via alla celebrazione ceciliana, alla quale il padrone di casa dapprima assiste in disparte, col figlio sulle ginocchia e consorte a fianco, e poi vi prende parte personalmente. Giunti all'undicesimo numero dell'Ode, Priest consegna al direttore la musica del "Masque" e questi, compiacente, la esegue. Uno degli organi costruiti in onore di Santa Cecilia viene girato e si presenta come alcova di Didone. Pochi elementi scenici portati a mano bastano per continuare l'azione. Morta la Regina, si riprende l' esecuzione dell'Ode, tra cortei di musicisti e cori e comparse. Tutto molto elegante. Musicalmente tutto invece pochissimo elegante. Strumenti d'epoca (suonati così così) accanto a strumenti moderni (suonati così così). Direzione di Charles F. Farncombe di inarrivabile piattezza e monotonia. Compagnia di canto discreta, con Margarita Zimmermann, Didone musicale ma del tutto incomprensibile, Fiorella Pedicone (Belinda), Nicolas Rivenq (Enea), Thamas Thomaschke nella parte del padrone di casa, e molti altri, quasi sempre a posto e qualche volta no: si veda Nathalia Stutzmann, contralto evanescente e inespressiva. Dunque, siamo alle solite. Reggio Emilia ci propone da anni spettacoli fortemente divaricati tra la qualità eccellente dell'aspetto visivo e quella preoccupantemente povera dell'aspetto musicale. Non sarà che arrivano tardi a prendere le decisioni, quando tutti sono già impegnati e ci si deve accontentare di quelli che non lo sono, i quali se non lo sono hanno buoni motivi per non esserlo? Gran successo, da parte di un pubblico costretto a quasi due ore di immobilità. Applausi e urla di consenso soprattutto all'indirizzo di Pizzi, con un inopinato "buu" indirizzato alla Zimmermann.

Michelangelo Zurletti (Repubblica, 23 febbraio 1986)

martedì, gennaio 13, 2009

Rameau: "Hippolyte et Aricie" di Pizzi

Reggio Emilia. Da capitale della danza a capitale anche dell'opera barocca. Basterebbe proseguire nell'adozione di Pier Luigi Pizzi, e l'allestimento di un gruppo di esecutori specializzati. Con Pizzi, si va sul sicuro. La riproposta dell'eccitante e inquieto Hippolyte et Aricie di Rameau (a quattro anni dalla nascita in quel di Aix-en-Provence) completa idealmente un triangolo barocco sotto il segno dell'eccezionalità con Rinaldo di Haendel (1985) e l'Ode per il giorno di Santa Cecilia (1986). E se ripensiamo alle altre realizzazioni omologhe (del vivaldiano Orlando furioso di dieci anni fa, all'haendeliano Ariodante, allo sfavillante Les Indes galantes dello stesso Rameau, fino alla vitalissima Semiramide rossiniana che del barocco in musica è l'epigone sublime) è immediata l'identificazione del tratto scenico e teatrale di Pizzi con la dimensione cristallizzata, sontuosa eppure immobile, immobile eppure carica di drammaturgia segreta; caratteristica delle rappresentazioni musicali del diciottesimo secolo. Riportare alla memoria il cammino barocco del regista, dopo aver visto Hippolyte et Aricie, è automatico: in questo spettacolo denso e affascinante pare, infatti di ripercorrere tutto il percorso inventivo del Pizzi migliore. Nulla di nuovo eppure non una soluzione che sfugga al senso preciso del teatro di Rameau. Il segno di Pizzi, si rivela inconfondibile nel gesto con cui i mimi fanno scomparire il velo-sipario violetto. E' un segno dove l'oro e i marmi scuri si compongono in lega cromatica indimenticabile, ma non unica. Ogni scena dell'opera, ogni personaggio avrà poi la sua precisazione di colore, di drappeggio del costume, di collocazione luminosa. Pizzi ormai ci ha allenato a una nitidezza e un'eleganza che "fanno" di per sè la stagione più generosa del teatro in musica: opera barocca è ritrovare le posizioni diversificate a ogni sezione delle arie, è riconoscere nei gesti bloccati del coro la coscienza d'una partecipazione interpretativa che impiega l'astrazione come vocabolo pienamente espressivo. Opera barocca è il silenzioso apparire e scomparire dei protagonisti, anche loro ingabbiati in posizioni fisiche caratteristiche; privati quasi delle movenze umane come delle necessità quotidiane (cui provvedono i fidi, silenziosissimi e carbonei mimi); slanciati in una dimensione dell'esistenza che li avvicina agli dei così presenti nel loro destino terreno. Su tutto il profumo della continua meraviglia nelle immagini e d'una ritualità teatrale che si specchia nel proprio profilo artigianale esibito (i "trucchi" sono sempre evidenti seppure magici) e che fa preferire l'uomo alla macchina nelle trasformazioni scenotecniche. Il passo drammaticamente estatico di Hippolyte et Aricie ha un'urgenza espressiva che conquista, pur sfuggendo alla semplicistica sensazione estetica. La bellezza delle immagini, cioè, non soffoca la tensione rappresentativa o le venature cupe che Pizzi giustamente intravede dietro il teatro cosmopolita di Rameau. A differenza della scrittura italiana, quella razionalistica e calcolata del compositore francese (che con questo titolo nel 1733 faceva il suo esordio operistico: a cinquant'anni), si serve ma non si accontenta della gratificazione belcantistica, e assorbe dalla contemporanea drammaturgia tragica inquietudini sottili. Così come eredita da Purcell grandezza patetica e dai saloni di corte la predilezione per lunghe ma intense pagine strumentali dedicate alla danza. Rameau è autore capace di commuovere, e di bruciare di slancio la frattura tra sensibilità moderna e teatralità barocca. La qualità delle arie, lo spessore dei recitati, la facoltà di creare grandi emozioni e grandi personaggi con caratteristica concisione musicale, il gusto tipicamente francese per il timbro e i numeri d' assieme (con o senza coro), sono applicati in questa partitura con bruciante bravura. Peccato che l'esecuzione passasse dall'ottimo al pessimo: Jean-Claude Malgoire ha molti meriti, ma non è direttore. Se la cava con i "suoi" strumentisti ma quasi nulla ha potuto con l'Oser (non parliamo nemmeno del coro): ha progressivamente sacrificato flessibilità, colori, strumentalità concertanti (l'inebriante aria di caccia, senza i corni!) e tenuta complessiva. Del resto il palcoscenico non offriva sempre il meglio. C'era sì, un Licolas Rivenq formidabile; una buona Danielle Borst e un drappello di interpreti affidabili (Marie-Christine Porta, Elisabeth Baudry, Silvana Silbano, Valerie Chevalier, Silvana Manga, Carlo Gaifa, Walter Gullino e Ferruccio Furlanetto); ma anche l'insufficienza di Ambrogio Riva (Giove, Plutone e Nettuno: s' è meritato fulmini da tutti e tre); quella, nota, di Guy de Mey e quella, inaspettata, di Carolyn Watkinson apparsa il fantasma della stupenda interprete barocca d'un tempo. Capitale dell' opera barocca, sarebbe bello. Ma che lavoro, ancora.

Angelo Foletto (Repubblica, 29 marzo 1987)

martedì, gennaio 06, 2009

Quartetto Belcea: il moderno dell'antico

Ogni quartetto d'archi ha la fortuna di poter contare su un ampio repertorio di enorne spessore musicale: il problema semmai è quello di esserne pienamente all'altezza. Seppure ancor giovani (le loro date di nascita sono comprese fra il 1971 e il 1976), i componenti del Quartetto Belcea ne sono ben consapevoli: suonano con la grinta e la brillantezza tecnica proprie di un quartetto moderno, ma sanno coniugarle a un'eleganza e uno spirito che rammentano le migliori formazioni del passato. Costituitosi a Londra nel 1994, il Quartetto Belcea (Corina Belcea, Laura Samuel, Krzysztof Chorzelski, Alasdair Tait) si è rapidamente imposto all'attenzione generale grazie alle vittorie nei concorsi intemazionali di Osaka e Bordeaux (1999), seguite da molti altri riconoscinienti internazionali. Gli impegni e le passioni di Alasdair Tait l'hanno poi condotto per altre vie: nel 2004 ha infatti dato vita all'Ulysses Ensemble ‑ specializzato nel repertorio del XX e XXI Secolo ‑ assumendo poi la direzione del dipartimento di musica da camera del Royal Northern College of Music a Manchester. Nel 2006 Tait è stato dunque sostituito dal violoncellista francese Antoine Lederlin, che nel corso dell'intervista ha dimostrato di aver già raggiunto un perfetto affiatamento con i suoi nuovi compagni d'avventura.

Come e quando vi siete conosciuti, e soprattutto come siete giunti alla decisione di dar vita a un quartetto d'archi?
Corina Belcea: Ci siamo incontrati all'inizio degli anni '90 al Royal College of Music di Londra. Studiavamo musica da camera con il Quartetto Chilingirian, e l'idea di dar vita a u n quartetto d'archi è nata spontaneamente dalla nostra amicizia e dalla nostra comunanza di interessi. All'inizio per noi si trattava soprattutto di un'esperienza forinativa: poi, con il tempo, è diventata una cosa seria. Abbiamo partecipato a vari corsi estivi, in particolare in Austria, e incontrato altri quartetti. Lo studio, lo scambio di idee e l'approfondimento del repertorio hanno rafforzato in noi la convinzione che quella era la nostra strada.
Oltre alla vostra attività con il quartetto, attualmente suonate in altre formazioni, in orchestra o come solisti?
Corina: Pur avendo alle spalle altre importanti esperienze, io, Laura e Krzysztof negli ultimi quindici anni ci siamo concentrati soprattutto sulla musica da camera. Essendo entrato a far parte del nostro ensemble molto più tardi, sull'argomento Antoine può senz'altro dire qualcosa di più.

Antoine Lederfin: Sì, come ultimo arrivato penso che la domanda riguardi soprattutto me. Non ho studiato a Londra come i miei tre colleghi. Mi sono diplomato al Conservatorio di Parigi e ho compiuto la mia prima esperienza importante in orchestra quando a vent'anni ho vinto un concorso all'Orchestre Philharmonique de Radio France. In seguito ho lavorato molto anche in Italia, con la Filarmonica Toscanini: ora vivo a Basilea e sono primo violoncello nella Sinfoniecorchester Basel. Naturalimente, prima di conoscere Corina e gli altri, ho acquisito parecchia esperienza anche nell'ambito della musica da camera.
Corina: [ride] Beh, altrimenti non ti avremmo preso con noi!.
Krzysztof Chorzelski: Credo che per ogni musicista sia fondamentale non circoscrivere la propria esperienza a un solo ambito. Naturalmente bisogna avere volontà e fortuna. Io, per esempio, anche grazie alla vittoria al premio Wronski di Varsavia nel '92 ho avuto l'occasione di suonare spesso come solista. Però non ci si può neanche «disperdere» troppo, se si è determinati all'approfondimento. Le nuove esperienze offrono stimoli per imparare e per migliorarsi, ma non bisogna mai cedere alla frenesia. C'è il tempo dell'azione e il tempo della riflessione: per comprendere ciò, la musica da camera aiuta moltissinio. Non solo ad ampliare i propri orizzonti culturali, ma anche a conoscere meglio tutte le potenzialità del proprio strumento.
Antoine: Verissimo. Del resto lo sviluppo della personalità e quello della tecnica sono più interconnessi di quanto non si creda. Negli ultimi tre anni, lavorare così intensamente in quartetto mi ha condotto a ripensare completamente il mio modo di suonare il violoncello e al tempo stesso ha rivoluzionato il mio approccio alla musica. La precisione, la concentrazione, il lavoro di cesello, l'approfondimento stilistico che questo repertorio richiede non ammettono scuse o approssimazioni.
Vi siete perfezionati con il Chilingirian, l'Amadeus e più tardi con il Berg, ma esistono anche dei quartetti del passato più o meno lontano che avete preso a modello per qualche loro particolare caratterística?
Corina: Anzitutto penso che siamo stati incredibilmente fortunati ad avere simili maestri: è stato un privilegio conoscere da vicino dei musicisti di tale spessore e tale esperienza, fra l'altro così instancabilmente generosi nel trasmetterci le loro conoscenze. Naturalmente ammiriamo anche le formazioni del passato più lontano: ad esempio le registrazioni del Quartetto Busch costituiscono per noi una fonte d'ispirazione inesauribile.
Antoine: Anche a distanza di tempo ci sono dei raggiungimenti che continuano a costituire dei modelli assoluti: così all'impronta mi vengono subito in mente il Ravel del Quartetto Italiano, o il Webern del LaSalle. Ancor più specificamente, ascoltare le registrazioni dei grandi quartetti del passato è importantissimo per avvicinarsi alla tradizione più prossima agli autori che affrontiamo di volta in volta. Ora che stiamo lavorando intensamente su Bartók, per esempio, abbiamo studiato con attenzione le incisioni del vecchio Quartetto Ungherese capeggiato da Zoltári Székely, che come tutti sanno era un caro amico del compositore. Molto prima di incontrare i miei attuali compagni di viaggio mi sono innamorato del repertorio quartettistico ascoltando in disco il Beethoven del Quartetto Talich: la ricordo ancora come un'esperienza sconvolgente. Così come il Debussy del Quartetto Calvet, un meraviglioso ensemble francese che ha lasciato pochissime registrazioni e purtroppo oggi è quasi dimenticato.
Ormai avete effettuato parecchie incisioni discografiche, ma entrando in studio per la prima volta avete dovuto superare qualche tipo di imbarazzo o difficoltà?
Corina: Quando abbiamo realizzato il nostro primo CD per la Emi nel 2001, avevamo già fatto diverse registrazioni in concerto per la BBC: l'impatto con i microfoni, i tecnici del suono e così via non ci ha dunque causato particolari imbarazzi. Devo dire però che entrando in studio per registrare un disco si avverte una pressione completamente nuova: tutto deve essere subito impeccabile e le responsabilità aumentano. Devo ammettere che il primo giorno mi sentivo un pesce fuor d'acqua.
Laura Samuel: Quando si fa musica le giuste sensazioni, l'ambiente, la serenità di spirito sono determinanti per raggiungere la necessaria concentrazione: e se proprio qualcosa va storto, c'è sempre la prossima volta! Qui, se alla fine delle sedute non hai raggiunto il risultato sperato, non esiste rimedio. Ricreare in studio le stesse sensazioni del concerto non è faccenda così semplice, almeno all'inizio: tutto sembra troppo asettico. In fin dei conti, però, superare questo «blocco» iniziale non è stato difficilissimo. E' lo stesso che tuffarsi in piscina: dopo due minuti ci si accorge che l'acqua non era poi così gelata.
Antoine: Sì, beh, sempre a patto di saper nuotare. [risata generale]
Detto senza piaggeria, credo l'abbiate dimostrato. Capovolgendo la domanda: tutte le vostre registrazioni Emi, fino a oggi, sono state effettuate in studio. Avete mai pensato di incidere un disco dal vivo?
Antoine: Ne abbiamo discusso a lungo, fra noi. La cosa però risulta abbastanza complicata, perché ottenere il materiale necessario al montaggio comporterebbe almeno tre concerti nella stessa sede: il che è quasi impossibile. Specialmente ora, per Bartók, sarebbe stato fantastico: ma programmare i suoi quartetti per tre sere di seguito in una sola città sperando di riempire ogni volta la sala è decisamente utopistico.
Domanda a bruciapelo. Se fosse in vostro potere salvare un singolo quartetto per archi in tutta la letteratura, quale scegliereste? Ovviamente ciascuno di voi può dare una risposta differente.
Corina: Certo che questo segnerebbe la nostra fine prematura, come quartetto! Non ci ho mai pensato: passo la mano, mi è proprio impossibile rispondere.
Laura: Davvero non potrei vivere senza la Cavatina del Quartetto in Si bemolle maggiore: sì, messa proprio alle strette, sceglierei l'op.130 di Beethoven.
Antoine: Sarebbe concesso conservare almeno tutti gli ultimi quartetti di Beethoven? Non mi chieda di restringere ulteriormente il campo!
Krzysztof: Anch'io mi associo.
Con quale frequenza vi riunite, per studiare insieme?
Corina: Diamo circa settanta concerti all'anno e di conseguenza dedichiamo parecchio tempo allo studio e alla prove. Salvo brevi periodi di riposo e spazi per assolvere gli impegni personali, direi che ci riuniamo quasi quotidianamente. Com'è naturale ci sono poi momenti di particolare intensità, che coincidono con le tournée. Quest'anno, ad esempio, abbiamo in programma un lungo giro di concerti in Inghilterra. Dopo l'estate saremo in Austria e Olanda, a fine ottobre torneremo in Italia per suonare a Ischia. Il 2008 si concluderà a Bucarest e con una tappa a Istanbul.
In percentuale, quanto tempo riservate allo studio e alla pratica individuale, e invece a quella collettiva?
Corina: I tempi sono equamente ripartiti, anche perché è importantissimo che ciascuno porti la sua esperienza e la sua riflessione individuale nel lavoro di gruppo.
C'è qualcosa in particolare che sacrificate della vostra vita, per lavorare a questi livelli in quartetto?
Antoine: Da un certo punto di vista bisogna pagare un alto prezzo alla disciplina richiesta dal lavoro in quartetto. Ogni più piccolo sbandamento è sotto gli occhi di tutti, anche perché il pubblico che frequenta i concerti da camera è in genere molto competente: e soprattutto non si può scendere ad alcun tipo di compromesso con se stessi. Più che in termini di tempo, sono le energie fisiche, intellettuali e spirituali ad essere messe a dura prova; ma com'è ovvio, le soddisfazioni che si traggono frequentando ogni giorno questa grande musica ripagano ampiamente di tutto ciò.
Laura: Direi che la cosa veramente difficile sia migliorare sempre come individuo e come gruppo, seguire tutti assieme un coerente e armonioso percorso di sviluppo. Se si riesce a farlo, ogni sacrificio diventa secondario.
Krzysztof: Si sta toccando un punto molto importante, perché la natura introspettiva della musica che trattiamo ci mette ogni giorno di fronte a uno specchio non sempre facilissimo da osservare. Indagare quotidianamente questioni tanto profonde e allo stesso tempo delicate rappresenta un grande impegno.
Antoine: In effetti, confrontando la mia esperienza in orchestra con quella in quartetto, la differenza principale non è certo rappresentata dallo stress o dalla fatica, bensì dall'esposizione che in quest'ultimo ambito si ha dal punto di vista umano. Ciò vale sia nella relazione col pubblico sia in quella con gli altri componenti del gruppo, che diventano il tuo lavoro e contemporaneamente la tua famiglia. Siamo carissimi amici dentro e fuori l'attività musicale, e tutto questo va coltivato. Non mancano i momenti di tensione, i guai esterni e interni, ma il nostro sodalizio ci permette di superare ogni problema.
Corina: Sono considerazioni che valgono sicuramente anche per me. La possibilità di approfondire questo repertorio in compagnia di splendidi amici mi ripaga di ogni possibile rinuncia, comprese quelle musicali. Del resto, come diceva prima Krzysztof, non si può suonare un giorno un quartetto di Beethoven e il giorno dopo essere solista nel Concerto in Re minore di Sibelius. Finora non mi sono mai pentita delle mie scelte, e spero sarà sempre così.
Quando si tratta di scegliere un ingaggio, una tournée o un nuovo brano da studiare, chi ha la prima e l'ultima parola?
Antoine: [ride, indicando Corina e Laura] Non guardi da questa parte...
Laura: Ognuno fa presente le sue necessità le sue idee: poi si decide di comune accordo. E se proprio ancora non basta, mettiamo al voto sperando che una decisione passi per 3‑1!
Corina: Ciascuno di noi, del resto, conosce le esigenze di tutti gli altri: infatti cerchiamo di non prendere mai impegni che superino le due settimane consecutive. Per quanto riguarda il repertorio, in generale leggiamo regolarmente per nostro conto nuovi brani e poi scegliamo di approfondirne alcuni e accantonarne altri. A volte ci vengono anche presentate delle richieste dall'esterno, e meditiamo con attenzione se accoglierle.
Negli ultimi anni avete suonato in tutto il mondo. A parte le ovvie differenze di clima e di latitudine, che cosa cambia nel vostro modo di suonare a Honolulu e a Salisburgo, come appunto avete fatto?
Antoine: Beh, è chiaro, a Honolulu suoniamo in costume da bagno. [risata generale] A parte gli scherzi, ogni platea reagisce a suo modo. La differenza tra il pubblico europeo e quello degli Stati Uniti o dell'Australia è notevole. In questi ultimi luoghi, l'assenza di una forte e lunga tradizione è compensata da una partecipazione di solito più disinvolta e curiosa dei giovani.
Krzysztof: Lo stesso vale per il Giappone. Quando siamo arrivati sul posto non solo l'attenzione e la concentrazione del pubblico ci hanno vivamente colpito, ma anche l'accoglienza davvero entusiastica riservata alle nostre esecuzioni.
Corina: E' vero, pensavamo che pur ormai abituati al repertorio sinfonico e a quello operistico, fossero meno interessati alla musica da camera: un pregiudizio clamorosamente smentito.
Antoine: Un'altra bellissima esperienza è stata quella in Romania, la patria di Corina. Abbiamo suonato a Bucarest, per un pubblico molto giovane e davvero speciale.
Praticate mai lo scambio del primo e del secondo violino, come fanno ad esempio il Quartetto Emerson o il Quartetto Artemis?
Corina: No, questo no: però suoniamo anche musica per trio d'archi ‑ che ovviamente prevede la presenza di un solo violino ‑ e a volte è Laura ad eseguirla. Ho anch'io bisogno di riposo!
Krzysztof: Uno fra i brani che Antoine ed io prediligiamo è il meraviglioso Divertimento per violino, viola e violoncello K 563 di Mozart. Dobbiamo solo aspettare un momento di stanchezza in Corina o Laura e finalmente possiamo suonarlo.
Vi è mai capitato di trovarvi in forte disaccordo circa le modalità esecutive o interpretative di un brano?
Laura: E' umanamente impossibile che non capitino divergenze di opinione. Ciascuno espone con tranquillità la sua: il gruppo ascolta e poi sceglie la più convincente.
Corina: Del resto, per fortuna, non siamo mai arrivati a scontri particolarmente aspri: alla fine siamo sempre riusciti a trovare una soluzione comune a ogni problema.
Parlando più in generale, i vostri gusti musicali sono abbastanza simili o capita che siano anche molto diversi?
Laura: Credo che i miei gusti siano un po' più conservatori di quelli degli altri, specialmente in termini di musica contemporanea. Non sono così avventurosa e coraggiosa, nello sperimentare il nuovo.
Antoine: Sì, ma è anche vero che per approfondire adeguatamente il repertorio classico, romantico e del primo Novecento non basta un'intera vita: quindi non capita così spesso di mettere Laura in difficoltà con scelte troppo azzardate.
Corina: Anche perché ora ci attende un progetto ad ampio respiro: inizieremo presto a incidere tutti i quartetti di Beethoven, e questo ci terrà impegnati molto a lungo.
Krzysztof: In ogni caso abbiamo commissionato varie volte nuovi brani a compositori di oggi, e continueremo sicuramente a farlo.
Una delle vostre realizzazioni discografiche più belle e importanti è quella dedicata ai quartetti di Britten, generalmente trascurati dagli interpreti. Come vi siete avvicinati a queste pagine, e quali loro pregi vi hanno spinto a inserirle in repertorio?
Krzysztof: Avendo studiato in Inghilterra conoscevamo i quartetti di Britten fin da ragazzi: li abbiamo approfonditi con il Chilingirian, li abbiamo eseguiti spesso in pubblico e nel tempo abbiamo sviluppato con questi brani un fortissimo legame sentimentale. Ci è parso dunque più che naturale proporre alla Emi di registrarli. All'inizio ci sono state delle difficoltà, perché non si trattava certo d'un progetto capace di garantire un formidabile risultato commerciale. Dopo qualche insistenza la nostra proposta è stata accolta e ne siamo stati felici, anche perché l'esito delle sedute d'incisione ci ha davvero soddisfatti.
Corina: La cosa buffa è che il box con i quartetti di Britten risulta a oggi il nostro disco più venduto.
Antoine: Io invece non conoscevo i quartetti di Britten prima di entrare nel Belcea, e in tutta sincerità non immaginavo fossero tanto belli e importanti. Invece quando ho ascoltato i dischi sono rimasto subito folgorato: è musica fantastica, geniale e profonda. Una vera sorpresa.
Laura: Ancor più sconosciuti dei quartetti sono i Tre divertimenti del 1936, che al pari della Simple Symphony costituiscono un esempio dell'incredibile freschezza e libertà inventiva del giovane Britten. Perciò abbiamo voluto a tutti i costi includerli nella raccolta.
In passato avete collaborato con famosi cantanti quali Ian Bostridge, Simon Keenlyside e Anne Sofie von Otter: cosa rammentate di quelle esperienze?
Corina: Anzitutto è stato molto stimolante confrontarsi con personalità musicali così forti e definite eppure così diverse. Soprattutto direi che sul piano artistico sono state esperienze molto gratificanti, e sul piano pratico hanno influito assai positivamente sulla nostra duttilità.
Laura: Aggiungo una cosa secondo me molto rilevante: per eseguire bene i quartetti di Schubert o di Schumann è assolutamente necessario conoscere in profondità anche la loro produzione liederistica. C'è di meglio che discuterne con un Bostridge o una Otter?
Krzysztof: Infatti: siamo tutti e quattro innamorati del repertorio liederistico, e la possibilità di avere scambi di opinioni con degli artisti tanto validi e affermati nel campo è stato un vero privilegio. Qualche anno fa, inoltre, abbiamo partecipato a un allestimento di uno dei più grandi capolavori di Britten, The Turn of the Screw. Nel ruolo di Quint c'era Mark Padmore, secondo me uno dei cantanti più raffinati e sensibili di oggi. Con noi hanno suonato i London Winds e al pianoforte c'era Huw Watkins, ottimo camerista. Anche quella è stata un'occasione da ricordare.
A proposito, avete in repertorio anche il Quartetto con soprano di Schönberg?
Krzysztof: Certo che sì, e lo adoriamo.
La vostra più recente registrazione riguarda un monumento della letteratura novecentesca, i Sei Quartetti di Bartók. Ovviamente sono dei capolavori, ma quali elementi vi hanno colpito di più nello studiarli ed eseguirli?
Laura: Anche se la complessità e l'audacia della loro struttura lascia a bocca aperta, da parte mia direi l'inventiva timbrica, ritmica e armonica senza limiti.
Krzysztof: Io invece direi proprio la forma: o ancor meglio, la capacità di rifarsi alla forme classiche eppure di reinventarle completamente.
Antoine: L'addentrarsi senza paure ed esitazioni in territori vergini. La forza barbarica, quasi feroce, combinata a una lucidità assoluta. Mi riferisco soprattutto alla «fisicità» dirompente del Quarto e del Quinto Quartetto. Non conosco nessun altro compositore che sappia combinare tanta scienza a questa energia brutale, direi primordiale.
Corina: Non so se le mie origini rumene influiscano in ciò, ma sicuramente l'uso così sofisticato eppure così autentico dei materiali folclorici conferisce ai quartetti di Bartók un sapore del tutto particolare. Ma attenzione, andiamo ben oltre l'oleografia, oltre il folclore e perfino oltre l'antropologia: in questa musica è la natura stessa, che parla e che danza.

intervista di Paolo Bertoli (Musica, luglio-agosto 2008, n.198)

giovedì, gennaio 01, 2009

Nuovi amori di Alma Mahler


Alma Mahler: scoperti nuovi amori Gli ultimi segreti della Circe Liberty.

E uno di piu'. Insospettato. Anche il pittore belga Fernand Khnopff, il misteriosofico evocatore di Meduse addormentate e di sirene dalle labbra sigillate, conobbe gli abbracci esperti e fatali di Alma Mahler. Dopo Mahler, Klimt, Kokoschka, Gropius, Werfel, il reverendo Hollensteiner - in odore cardinalizio e trent'anni di meno - e non pochi altri (sapeva scegliere, la Signora) Khnopff - in questa geografia dell'eros famoso - davvero ci mancava. A scoprire queste tracce è stato un simpatico musicologo inglese trapiantato in Germania, Anthony Beaumont, un direttore d'orchestra che ha scelto di sacrificare la propria vita a Busoni (cui ha dedicato una monografia) e a Zemlinsky, di cui presto dovrebbe licenziare una completa biografia. E' da anni che sta frugando tra carte inedite e manoscritti incompiuti, in quel formidabile serbatoio che è l'America dei college, dove l'agghiacciante stoltizia del talent scout più celebre della storia, Adolf Hitler, riuscì a convogliare il più invidiabile nucleo di intelligenze, a seguito della diaspora nazista. Beaumont è venuto a Dobbiaco, alla "Settimana Mahler", proprio per presentare delle interessanti pagine inedite di Zemlinsky, per complesso da camera. Alexander von Zemlinsky, in Italia, lo si è incominciato a conoscere anni fa a Venezia, grazie ad una Biennale Musica curata da Mario Messinis, che presentò la felice sorpresa dell'opera lirica Una tragedia fiorentina, da Wilde. Poi è diventato più facile ascoltare l'altra opera sinistra, Il compleanno dell'infanta (ovvero Il Nano), la splendida integrale dei suoi Quartetti, nella magnifica edizione del La Salle Quartett, infine Chailly, soprattutto, ha riportato in auge la fascinosa Lyrische Suite, che ispirò Berg, che a Zemlinsky dedicò la sua, di Suite Lirica. Con la consueta intelligenza di programmazione, il Teatro Massimo di Palermo annuncia per il prossimo anno una vera rarità: Der Traumgorge, ispirato al figlio sognatore di Schoenberg. Che di Zemlinsky Alma fosse stata invaghita - per lo spazio rapido di un'infatuazione - questo era noto, ne parla lei stessa nei suoi diari. Anche se lo apostrofa crudamente "ranocchio schifoso", "gnomo orrendo", se non sopporta quel suo lato trasandato e clochard, i capelli trascurati e quel fascino magnetico che certo non deriva da una bellezza olimpica, la giovanissima, irraggiungibile musa è subito sedotta dal genio di questo magister nato. Gustav Mahler si è già profilato all'orizzonte, ma ha il pallido fascino di un adolescente linfatico, gli occhialini da professore: distribuisce poesie d'amore (sospette in casa di Karl Moll, il patrigno di Alma, geniale architetto) sempre sul bilico di risultare goffo, ridicolo. Zemlinsky è più tragico, invece: una specie di professor Unrat da Angelo Azzurro. Si prostra, l'insegue, la perseguita, l'implora: è l'unica donna ad avere l'accesso alla sua scuola, ed è un'allieva piuttosto dotata. Ma è tremenda: accetta di fidanzarsi, lei la così bella, l'Unica, "con cosi' tanto da donare che costringe gli altri a mendicare". Scambia con lui lettere infuocate pur di non mostrarsi insieme in pubblico. Mitologiche gelosie retrospettive perchè lui è già stato con una donna. E si concede a pezzettini, da buona allumeuse, ma guai, "la prova d'amore, un'ora di felicità", no, non vuole concederla, "attribuisce alla sua verginità un valore simbolico" chiosa Francoise Giroud. Eppure, mentre Zemlinsky delira, "Voglio prostrarmi davanti a te, riverirti come un idolo sacro", lei confida al suo diario: "Vorrei inginocchiarmi davanti a lui, baciare il suo ventre scoperto, tutto, tutto. Amen!". L'Amen lo portò Gustav Mahler, che pure era devotissimo a Zemlinsky: gli mise in scena una delle sue prime opere, C'era una volta e da grandissimo maestro concertatore considerava Zemlinsky il maggiore direttore vivente (anche Webern e Stravinskij, del resto, ne erano convinti): collaboratore di Klemperer alla Krolloper di Berlino, egli fece moltissimo per la musica contemporanea, e per lo stesso Mahler, dirigendo le sue dieci sinfonie ed i Lieder. Ma all'imperante dodecafonia della Scuola di Vienna preferì sempre Bartok o Hindemith, Stravinskij o Malipiero. Racconta Beaumont, che a Filadelfia ha scovato oltre ventisei taccuini di diario inedito di Alma: "E' ben noto l'astio che lei conservà per tutta la vita a Mahler, che le impedì di comporre. In uno di questi taccuini scrive: "Se me lo chiedesse Alexander, che è un grande musicista, forse potrei anche accettare. Ma Gustav! Diventera' mai un vero compositore? Non lo so, penso che rimarrò una donna libera"". Libera, ma sposata, con Mahler: perchè, osserva, "ho l'impressione che farà di me un essere migliore, che mi nobiliterà". Ora è lo stesso Zemlinsky ad avvicinare i Mahler alla Scuola di Vienna: Zemlinsky, la cui sorella Mathilde ha sposato Arnold Schoenberg. "Era un'amicizia essenziale, di poche parole, quella con Schoenberg - ricorda Beaumont - ed io credo che nonostante tutti i conflitti estetici non si sia mai davvero infranta". Gli Schoenberg vivevano praticamente in una comunità febbrile di intelligenze che non si lasciavano mai, tra cui primeggiava il genio tormentato e depresso di Richard Gerst, il grandissimo pittore espressionista ora riscoperto, che dipinse per una sola estate, passando furiosamente da un secessionismo puntinista alla Klimt al più sguaiato urlo fauve di derisione. Si era perdutamente innamorato di Mathilde, tante volte ritratta: fuggirono anche insieme. Fu Webern a riportare a casa la sposa traviata: Gerst andò di là, in salotto, fece harakiri e poi si finì con una pistola, a ventitrè anni. Mathilde Zemlinsky non parlò più, tragica "donna silenziosa": Schoenberg non l'aveva perdonata. "Ed io credo - sostiene Beaumont - che Zemlinsky non perdonò mai a lui quella durezza calvinista: Mathilde morì distrutta, di lì a poco. Poi si moltiplicarono le tensioni teorico-musicali. Quando l'ebreo sefardita Zemlinsky - ho trovato radici della sua famiglia perfino ad Ancona, anche se la sua seconda moglie, morta recentemente, negava con me l'origine semita di Alexander - sebbene "con pochi dollari in tasca" dovette abbandonare la Germania per l'America, con Schoenberg si vide una volta sola. Appena sceso dalla nave, l'intervistatore lo interrogò proprio sulla dodecafonia. "Durante il viaggio ho studiato il Quartetto per fiati di Schoenberg. Non ci ho capito nulla". Scrisse anche, al cognato, candidamente, per avere delucidazioni. Schoenberg non rispose. Ma Beaumont ha scoperto una lettera, mai spedita, in cui Schoenberg tentava un estremo contatto. "Soltanto in seguito - precisa ancora Beaumont - mi resi conto di quali secondi fini nascondessero quelle domande". Probabilmente, invece, Zemlinsky non riuscì mai a liberarsi dalla sua fedeltà ad un solido impianto tonale, brahmsiano. E del resto il frammento di quintetto giovanile (1897), intensamente eseguito a Dobbiaco dal Manderlring Quartett, fu presentato proprio al cospetto di un sorpreso Johannes Brahms. E' Zemlinsky a raccontare: "Richiese lo spartito e mi domandò di andarlo a trovare, dicendomi ironicamente: "Naturalmente solo se è interessato a discuterne con me". Non era facile parlare con lui. All'inizio apportò cautamente delle modifiche, senza mai lodare o incoraggiare, infine diventò anche impetuoso". E quando il giovane fresco di conservatorio cerca di difendere un passaggio "che mi sembrava riuscito, dal punto di vista brahmsiano", il vecchio sapiente, sornione, risponde: "Lei non si preoccupi di Brahms, pensi piuttosto a Mozart". Forse per questo il manoscritto è andato in parte disperso: mai pubblicato per non dover seguire i consigli di Brahms. Zemlinsky, del resto, è autore di molti numeri incompiuti. Come l'opera non finita Re Candaule, che Beaumont sta ultimando per l'attesa prima del '96, a Zurigo, poi a Vienna e Berlino, con la regia del grande Kremer. Ispirata al dramma di Gide (a sua volta ispirato da Hebbel) nella traduzione di Franz Blei, l'aforista del Bestiario, l'opera è la storia di Gide, cui Candaule - per il suo eccesso di generosità malata - permette, grazie ad un anello magico, di vedere la propria moglie nuda: è così perfetta che vuol condividere questa gioia. Il problema è che il soprano (a Zurigo sarà la povera Julia Varady, staremo a vedere) deve dunque comparire nudo in scena. Arthur Bodansky, il celebre direttore austriaco amico di Bruckner e collaboratore di Toscanini, il primo ad eseguire, nel 1914, Parsifal fuori da Bayreuth, sconsigliò Zemlinsky: "Tu sei pazzo, come si fa?". E Zemlinsky si arrese, consolandosi con un'altra incompiuta, la conturbante Circe!: chissà se pensava ancora ad Alma.

Marco Vallora (La Stampa, 5/8/1994)