Reggio Emilia. Da capitale della danza a capitale anche dell'opera barocca. Basterebbe proseguire nell'adozione di Pier Luigi Pizzi, e l'allestimento di un gruppo di esecutori specializzati. Con Pizzi, si va sul sicuro. La riproposta dell'eccitante e inquieto Hippolyte et Aricie di Rameau (a quattro anni dalla nascita in quel di Aix-en-Provence) completa idealmente un triangolo barocco sotto il segno dell'eccezionalità con Rinaldo di Haendel (1985) e l'Ode per il giorno di Santa Cecilia (1986). E se ripensiamo alle altre realizzazioni omologhe (del vivaldiano Orlando furioso di dieci anni fa, all'haendeliano Ariodante, allo sfavillante Les Indes galantes dello stesso Rameau, fino alla vitalissima Semiramide rossiniana che del barocco in musica è l'epigone sublime) è immediata l'identificazione del tratto scenico e teatrale di Pizzi con la dimensione cristallizzata, sontuosa eppure immobile, immobile eppure carica di drammaturgia segreta; caratteristica delle rappresentazioni musicali del diciottesimo secolo. Riportare alla memoria il cammino barocco del regista, dopo aver visto Hippolyte et Aricie, è automatico: in questo spettacolo denso e affascinante pare, infatti di ripercorrere tutto il percorso inventivo del Pizzi migliore. Nulla di nuovo eppure non una soluzione che sfugga al senso preciso del teatro di Rameau. Il segno di Pizzi, si rivela inconfondibile nel gesto con cui i mimi fanno scomparire il velo-sipario violetto. E' un segno dove l'oro e i marmi scuri si compongono in lega cromatica indimenticabile, ma non unica. Ogni scena dell'opera, ogni personaggio avrà poi la sua precisazione di colore, di drappeggio del costume, di collocazione luminosa. Pizzi ormai ci ha allenato a una nitidezza e un'eleganza che "fanno" di per sè la stagione più generosa del teatro in musica: opera barocca è ritrovare le posizioni diversificate a ogni sezione delle arie, è riconoscere nei gesti bloccati del coro la coscienza d'una partecipazione interpretativa che impiega l'astrazione come vocabolo pienamente espressivo. Opera barocca è il silenzioso apparire e scomparire dei protagonisti, anche loro ingabbiati in posizioni fisiche caratteristiche; privati quasi delle movenze umane come delle necessità quotidiane (cui provvedono i fidi, silenziosissimi e carbonei mimi); slanciati in una dimensione dell'esistenza che li avvicina agli dei così presenti nel loro destino terreno. Su tutto il profumo della continua meraviglia nelle immagini e d'una ritualità teatrale che si specchia nel proprio profilo artigianale esibito (i "trucchi" sono sempre evidenti seppure magici) e che fa preferire l'uomo alla macchina nelle trasformazioni scenotecniche. Il passo drammaticamente estatico di Hippolyte et Aricie ha un'urgenza espressiva che conquista, pur sfuggendo alla semplicistica sensazione estetica. La bellezza delle immagini, cioè, non soffoca la tensione rappresentativa o le venature cupe che Pizzi giustamente intravede dietro il teatro cosmopolita di Rameau. A differenza della scrittura italiana, quella razionalistica e calcolata del compositore francese (che con questo titolo nel 1733 faceva il suo esordio operistico: a cinquant'anni), si serve ma non si accontenta della gratificazione belcantistica, e assorbe dalla contemporanea drammaturgia tragica inquietudini sottili. Così come eredita da Purcell grandezza patetica e dai saloni di corte la predilezione per lunghe ma intense pagine strumentali dedicate alla danza. Rameau è autore capace di commuovere, e di bruciare di slancio la frattura tra sensibilità moderna e teatralità barocca. La qualità delle arie, lo spessore dei recitati, la facoltà di creare grandi emozioni e grandi personaggi con caratteristica concisione musicale, il gusto tipicamente francese per il timbro e i numeri d' assieme (con o senza coro), sono applicati in questa partitura con bruciante bravura. Peccato che l'esecuzione passasse dall'ottimo al pessimo: Jean-Claude Malgoire ha molti meriti, ma non è direttore. Se la cava con i "suoi" strumentisti ma quasi nulla ha potuto con l'Oser (non parliamo nemmeno del coro): ha progressivamente sacrificato flessibilità, colori, strumentalità concertanti (l'inebriante aria di caccia, senza i corni!) e tenuta complessiva. Del resto il palcoscenico non offriva sempre il meglio. C'era sì, un Licolas Rivenq formidabile; una buona Danielle Borst e un drappello di interpreti affidabili (Marie-Christine Porta, Elisabeth Baudry, Silvana Silbano, Valerie Chevalier, Silvana Manga, Carlo Gaifa, Walter Gullino e Ferruccio Furlanetto); ma anche l'insufficienza di Ambrogio Riva (Giove, Plutone e Nettuno: s' è meritato fulmini da tutti e tre); quella, nota, di Guy de Mey e quella, inaspettata, di Carolyn Watkinson apparsa il fantasma della stupenda interprete barocca d'un tempo. Capitale dell' opera barocca, sarebbe bello. Ma che lavoro, ancora.
Angelo Foletto (Repubblica, 29 marzo 1987)
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