Reggio Emilia. In principio, supponiamo, era il "Masque". Deve essere andata così. Il teatro municipale Romolo Valli decide di mettere in scena Dido and Aeneas di Purcell; ma Dido and Aeneas è un "Masque", o meglio ciò che ci rimane di scritto di un "Masque", e non regge la serata. Dunque, accostargli un'altra opera, oppure imbottirlo di danze, pagine strumentali e corali fino a raggiungere la presumibile ampiezza di un vero e intero "Masque". Questo era uno spettacolo di corte: su una traccia mitologica si innestava una catena di musiche, arie e danze e si concludeva con una danza collettiva, alla quale non si sottraevano neppure i reali. Ma Dido and Aeneas è un "Masque" particolare, nato non per la corte ma per un collegio di Chelsea; e si conclude non con un lieto fine ma con la morte della Regina: e per di più con una delle pagine più struggenti della musica. Come volgerlo in festa? L'idea, allora, è stata quella di incastonarlo in altra opera che non richiedesse festa. Ecco l'Ode on St. Cecilia's Day, sempre di Henry Purcell. L'Ode, forte di quindici numeri, è stata spezzata in due parti asimmetriche: l'esecuzione ha presentato i primi undici numeri, poi Dido and Aeneas e poi gli ultimi quattro numeri dell'Ode. Si è così forzato al teatro una pagina oratoriale per giustificare la teatralità di un "Masque" presentato come cantata. C'è qualcosa che non va. Non diciamo filologicamente perchè non c'è vera operazione filologica; ma semplicemente teatralmente. Un conto è inneggiare a una santa, un altro celebrare la mitologia. pur vero che il martirologio è la mitologia cristiana, ma i due spettacoli sono estranei l'uno all'altro. E non crediamo che una festa borghese di fine Seicento potesse accostare sacro e profano con tanta semplicità: diverse sono le occasioni, le forme, la destinazione. Per di più, Dido and Aeneas è un "Masque" particolare anche dal punto di vista formale. un "Masque" della Restaurazione, ed è molto critico nei confronti della società restaurata (per questo nacque in un collegio privato: a corte non sarebbe stato accettato). Nell'adattare a "Masque" il quarto libro dell'Eneide, il librettista Nahum Tate pone Enea di fronte al dilemma se seguire l'amore o il dovere. Ma il richiamo al dovere, che in Virgilio veniva da Mercurio, qui viene da una strega: la quale si comporta da pettegola borghese della società restaurata. Enea, eroe restaurato, preferisce il dovere all'amore. Questo vuol dire che formalmente Pucell non gli concede la dignità dell'aria (che ha, invece, a livello irripetibile, Didone: la quale sa amare); ma vuol dire anche storicamente che i frequentatori del collegio di Chelsea accettarono la critica alla corte restaurata. Come si può mescolare una pagina socialmente critica (Dido and Aeneas) con un' altra socialmente corriva (Oden)? Naturalmente, a Pierluigi Pizzi non mancano fantasia e gusto per giustificare scenicamente l'impossibile innesto. Ma dobbiamo rinunciare a porci troppe domande sulla liceità dell'operazione e accettarla semplicemente come pretesto per una serata tutta Purcell. Rinunce che compiamo, soprattutto perchè le due pagine sono di straordinaria bellezza: e non solo le arie, ma i cori, le parti strumentali, il vivissimo recitativo, il gusto per i duetti. E allora godiamo della festa, del sontuoso salone ligneo che Pizzi ha costruito, della fioca luce di candela che l'ha cordialmente illuminato, dei bellissimi e semplici costumi, ovviamente realizzati da Tirelli, della bella distribuzione scenica di strumenti e cori, della quantità di simboli, perfino dell'azione mimica che sintetizza il mito di Atteone. Cosa succede, dunque, in questo salone di Chelsea? Accomodatosi il pubblico in una sala pochissimo illuminata, entra il padrone di casa, Josias Priest, direttore del collegio, con le inservienti che prendono a accendere le candele. Arrivano gli strumentisti, i coristi, il direttore e si dà il via alla celebrazione ceciliana, alla quale il padrone di casa dapprima assiste in disparte, col figlio sulle ginocchia e consorte a fianco, e poi vi prende parte personalmente. Giunti all'undicesimo numero dell'Ode, Priest consegna al direttore la musica del "Masque" e questi, compiacente, la esegue. Uno degli organi costruiti in onore di Santa Cecilia viene girato e si presenta come alcova di Didone. Pochi elementi scenici portati a mano bastano per continuare l'azione. Morta la Regina, si riprende l' esecuzione dell'Ode, tra cortei di musicisti e cori e comparse. Tutto molto elegante. Musicalmente tutto invece pochissimo elegante. Strumenti d'epoca (suonati così così) accanto a strumenti moderni (suonati così così). Direzione di Charles F. Farncombe di inarrivabile piattezza e monotonia. Compagnia di canto discreta, con Margarita Zimmermann, Didone musicale ma del tutto incomprensibile, Fiorella Pedicone (Belinda), Nicolas Rivenq (Enea), Thamas Thomaschke nella parte del padrone di casa, e molti altri, quasi sempre a posto e qualche volta no: si veda Nathalia Stutzmann, contralto evanescente e inespressiva. Dunque, siamo alle solite. Reggio Emilia ci propone da anni spettacoli fortemente divaricati tra la qualità eccellente dell'aspetto visivo e quella preoccupantemente povera dell'aspetto musicale. Non sarà che arrivano tardi a prendere le decisioni, quando tutti sono già impegnati e ci si deve accontentare di quelli che non lo sono, i quali se non lo sono hanno buoni motivi per non esserlo? Gran successo, da parte di un pubblico costretto a quasi due ore di immobilità. Applausi e urla di consenso soprattutto all'indirizzo di Pizzi, con un inopinato "buu" indirizzato alla Zimmermann.
Michelangelo Zurletti (Repubblica, 23 febbraio 1986)
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