Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, settembre 29, 2006

Intervista a Igor Kipnis

Un grande clavicembalista di fama internazionale, un eccezionale interprete del clavicordo e del fortepiano, un virtuoso del pianoforte sia in duo che come interprete solista. L'ultima importante intervista prima della scomparsa di Igor Kipnis, avvenuta nel gennaio del 2002, all'età di settantuni anni.

Circa trent'anni fa, quando ancora giovane iniziavo già ad appassionarmi alla musica antica, negli Stati Uniti il nome di Igor Kipnis era il sinonimo di clavicembalo. Da allora Kipnis ha continuato la sua attività in un campo che si è espanso enormemente. La lista delle stelle della musica con cui Kipnis ha collaborato è chilometrica, e allo stesso modo la sua discografia. La Angel sta ripubblicando le sue registrazioni effettuate negli anni '70 su etichetta Seraphim Classics. Recenti registrazioni di Kipnis includono una varietà di dischi di musica da camera, con speciale preferenza verso il repertorio a quattro mani che egli ha esplorato con il Duo Kipnis-Kushner ‑ Dvorák, Brahms e Grieg per la Palatine Recordings; Brahms, Schubert, Ravel, Fauré ed il brasiliano Calimerio Soares per la Parnassus Records; una collaborazione con David Shostac nella registrazione delle sonate per flauto di Bach per la Resort Classic. Ho intervistato Kipnis a casa sua immersa nel meraviglioso bosco collinare di Redding, nel Connecticut, non molto lontano da New York City.

Poco tempo fa ho letto che il suo primo approccio con il clavicembalo è stato con un Dolmetsch che apparteneva al dipartimento di musica ad Harvard.
Era un Dolmetsch Chickering del 1907, che fu anche lo strumento che Ralph Kirkpatrick fu il primo a provare. Alla fine questa esperienza lo portò ad appassionarsi in questo campo, così come successe per me, benché sicuramente io allora non lo sapessi ancora. Stavo seguendo un corso ad Harvad con Randall Thompson, dal titolo «The Age of Handel». Dovevamo scrivere pagine di termini che riguardavano i vari aspetti della vita di Handel, qualcosa che avesse a che fare con la città di Londra in quel periodo. Frequentavo una ragazza di Radcliffe, che suonava il flauto. Insieme ottenemmo l'autorizzazione ad eseguire alcune sonate per flauto di Handel, revisionate da Thurston Dart, e quella fu la prima volta che posai le mie mani su un'ottimo strumento, anche se era in pessime condizioni. Recentemente ho avuto modo di suonarlo nuovamente, ma credo che sia tuttora in condizioni pietose. Non ho idea di cosa ne pensasse lo stesso Kirkpatrick. Nei miei ricordi c'è sempre stata la passione per il clavicembalo, dapprima ascoltando delle registrazioni, mi riferisco ovviamente a Landowska. Adoravo il suo modo di suonare e collezionai un bel po' dei suoi dischi. L'ammiro ancora molto, ma gli stili sono cambiati così drasticamente e lo strumento non viene più considerato un vero clavicembalo. Un'artista di incredibile bravura, ma a questo punto l'unica dote che apprezzo in lei è solo l'abilità artistica. Può sembrare un giudizio molto duro, e non mi piace dirlo dato che si parla di una grande interprete. Ho avuto la fortuna di ascoltarla una volta. E' così che ho cominciato ‑ a parte i suoi dischi, non esistevano molte registrazioni di musica per clavicembalo. Ve ne erano alcune di altri, ma era più difficile entrarne in possesso. Dopo aver finito il servizio militare, e mentre svolgevo i lavori più disparati, mio padre, che mi aveva già regalato un televisore, mi regalò un pianoforte, ma io non lo volevo. Io credo che egli fosse preoccupato del fatto che quando tornavo a casa dal lavoro ‑ in quel periodo lavoravo da circa quattro anni e mezzo come direttore artistico ed editoriale alla Westminster Records, era un lavoro molto faticoso e stressante ‑ trascorressi l'intera serata davanti alla tv come un vegetale. Mia moglie (la stessa persona che suonava il flauto ‑ Judy) deve avergli parlato, e così i miei genitori partirono per l'Europa per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, e mi chiesero se c'era qualcosa che potessero portarmi da laggiù. Io risposi, «sì, un clavicembalo». Essi si fecero una grande risata. Mio padre collegava l'uso del clavicembalo ad opere quali Le Nozze di Figaro oppure Il Barbiere di Siviglia.
In che anno avvenne questo?
Era il 1956.
Fece il servizio militare dopo il diploma?
Me ne sono liberato. Non ci sono molte cose positive da dire sul servizio militare ‑ ci sono rimasto solo per due miserabili anni. Per tutto il tempo, a parte il periodo di indottrinamento, stavo in Camp Chaffée, Arkansas. L'unica cosa positiva che mi ricordo è che quando andavo alle scuole superiori ero sempre timido e avevo difetti di pronuncia. Quando dovevo raccontare qualcosa dicevo «vi parlerò... di... Shakespeare... e di Romeo e ...Giu... lietta». Nell'Esercito dovevo insegnare i basilari segnali di comunicazione alle reclute, e questo consisteva nel dover parlare a circa ottocento soldati, annoiati a morte, e dire «bene, signori, adesso guardate il filmato». E' stato questo che mi ha fatto capire che avrei potuto parlare ad un gran numero di persone. La cosa mi ha fatto sentire molto utile per parecchi anni. I miei genitori tornando dalla loro vacanza non portarono nessun clavicembalo, bensì alcuni cataloghi. Dovetti convincere mio padre a comprarmi il più piccolo strumento a due manuali. Era uno Sperrhake. Egli non sapeva nulla sui clavicembali, in realtà nemmeno io. Ma cinque anni dopo, l'influenza delle copie di strumenti storici ‑ la maggior parte senza pedali ‑ stava a significare che stavamo diventando sempre più puristi; questa era l'idea generale. Lo Sperrhake rifletteva questa immagine in quanto era esattamente come un Neuperts di quell'epoca. Erano prevalentemente dei clavicembali rimodernati. Ma bisognava pur iniziare da qualcosa. Così, invece di guardare la tv dopo il lavoro, mi sedevo e mi esercitavo. In modo strano ma divertente. Suonavo i vecchi pezzi che avevo imparato studiando il pianoforte ‑ lo avevo studiato sin da quando avevo sei anni ‑ e piano piano imparai un po' della tecnica per clavicembalo, principalmente come autodidatta. Presi alcune lezioni da Fernando Valenti. Coloro che lo conoscevano sapevano che era capace di farsi fuori una discreta quantità di alcool. Egli veniva per una lezione, mia moglie preparava la cena, come ricompensa, capisce, ed io ricevevo la mia lezione. Un giorno egli arrivò ed io stavo preparando dei vodka‑martini, prima della lezione, e disse: «Fra quanto si mangia?». Mia moglie rispose, «Siamo leggermente in ritardo ‑ ci vorrà forse un'altra mezzora». Così Fernando disse, «Perché non mi suoni le cose che stai studiando?» A quel punto lui si era già fatto fuori quattro martini ‑ lisci, non con ghiaccio ‑ ed io soltanto tre. Avevo difficoltà a trovare il clavicembalo, poi la sedia, e le mie dita sembravano maccheroni. La cosa irritante fu che Fernando si mise a sedere a cominciò a suonare i miei pezzi al posto mio senza sbagliare una nota. Così mi insegnò la lezione ‑ che bere è giusto, ma non bere e suonare insieme. Ebbi un altro incarico alla Westminster, a fianco a quello editoriale ed artistico. Mi presi la briga di portare fuori a pranzo gente che lavorava nelle varie emittenti radiofoniche di New York. La CBS trasmetteva un programma notturno di grande interesse, la NYC una trasmissione notturna, anche la NBC ne aveva una, ed ovviamente la WQXR. Si trattava delle principali emittenti che trasmettevano molta musica classica a quel tempo ‑ come sono cambiati i tempi, vero? Un giorno andai nell'edificio municipale dove si trovava la WNYC, e pranzai con Alexander Richardson. Egli era un organista, nonché la persona addetta al reparto dischi della WNYC. Egli sapeva che possedevo un clavicembalo e che lo suonavo. Facevo delle jam session e suonavo insieme ad un sacco di persone. Il nome di Zuckerman è piuttosto familiare. Wally Zuckerman aveva un negozio nel village ed era anche una violoncellista. Mettemo insieme un gruppo di persone, tra cui Wally. Seymour Solomon, a parte il suo legame con la Vanguard Records ‑ era uno dei due capi ‑ era un violinista. Anch'egli si unì a noi. E avevo anche un amico flautista. Eseguivamo un concerto brandeburghese oppure un concerto grosso di Handel. In ogni caso, stavo pranzando, ed Alex Richardson disse, «Perché non trasmettete un programma su WNYC?». Dovetti pensarci su circa venti secondi e poi accettare. Ma c'era un problema di base, la WNYC, allora come oggi, non aveva soldi. Io certamente non potevo permettermi di pagare per trasportare il mio strumento alla WNYC. Convinsi un ingegnere della Westminster, che voleva vivere l'esperienza di una registrazione, a venire nel nostro appartamento, sulla tredicesima della Seventh Avenue, in un weekend di novembre. Spegnemmo i radiatori e arrotolammo il tappeto per migliorare l'ambiente, sperando che non ci sarebbe stato troppo traffico in strada, e feci, in un certo senso, la mia prima registrazione. Essa venne trasmessa, e non molto tempo dopo ‑ proprio nell'arco di una settimana ‑ un giovane direttore chiamò e disse, «Salve, mi chiamo Norman Masonson. Ho ascoltato la trasmissione. lo dirigo la Greenwich Village Civic Symphony, e il nostro prossimo programma prevede una esecuzione a Greenwich Village alla Memorial Chapel. Eseguiremo il Quinto Concerto Branáeburghese. Le piacerebbe interpretare la parte del solista?» Io, nella mia totale ingenuità, risposi «Perché no?»
L'aveva mai suonato prima?
L'avevo suonato; in realtà l'avevo fatto in casa mia, impiegando solo una persona per sezione. Sì, lo conoscevo. Ma non lo avevo mai suonato prima dal vivo, e non sapevo quanto timore avrei avuto fino al momento di eseguirlo. Mi ricordo ancora di come non sei in grado di camminare per muoverti da dietro le quinte fino alla tua posizione sul palcoscenico. Non vi erano delle quinte bisognava camminare giù lungo un corridoio, come succede nei matrimoni, e ciò è abbastanza spaventoso, per dover suonare il Quinto Concerto Brandeburghese, il che era chiedere troppo. Avevo spedito gli inviti ad un sacco di gente. Tra le persone invitate vi era una delle figlie di Leopold Godowsky, il famoso pianista. Era un'attrice del cinema; spesso infatti interpretava ruoli da vamp. Esistono ancora dei film muti interpretati da lei. Lei conosceva tutti. Ha avuto a che fare con tante, tante persone diverse. Con Arthur Rubinstein ‑ egli ne parla nei suoi libri. Con Charlie Chaplin. Con Igor Stravinsky e con molte altre persone. Lei scrisse un libro dal titolo Prima Persona Plurale ‑ lungo, fuori catalogo, divertente, e racconta la storia di una festa in cui qualcuno si avvicina a lei e le chiede «Dagmar, quanti mariti ha avuto?» e lei risponde «Due miei, e un bel po' delle mie amiche». Era una persona davvero spiritosa, e la conosco praticamente dalla mia nascita. Credo infatti che lei mi conoscesse da prima che io nascessi ‑ era una cara amica di mia madre. Ed eccola lì ‑ era venuta per questo concerto di debutto, e non appena iniziai a camminare lungo il corridoio ‑ la mia faccia deve aver assunto all'improvviso il colore di un avocado ‑ fece per alzarsi dal suo posto e mi urlò «Yoo‑hoo, Igor!». Morì pochi anni dopo, ma non per colpa mia, infatti se fosse stato per me l'avrei uccisa in quell'occasione. Vi ho nominato dei mentori. Il più importante tra questi era Thurston Dart. Stava dando delle letture alla New York Public Library. Lo facevo spesso di andare alla biblioteca, per salutarlo e per dirgli quanto trovassi meravigliose le sue registrazioni, specialmente le esecuzioni con il continuo, che erano così fantasiose e che sicuramente mi hanno influenzato. Lo invitai a cena. Egli venne e mi senti suonare, e non mi allontanò da sè, cosa per cui gli sono profondamente riconoscente.
Quando accadde?
Dovrebbe essere accaduto circa nel 1960. Il mio debutto, a proposito, avvenne un anno e mezzo dopo aver avuto il clavicembalo. Guardando indietro nel tempo trovo questa cosa un po' ridicola ‑ come ho potuto avere l'audacia di fare una cosa del genere? Ero un autodidatta ‑ Dart mi suggerì cosa guardare, cosa leggere, e prestai molta attenzione a tutto ciò. Quando iniziai a effettuare registrazioni come solista, gliele mandavo, e quasi in tutte le sue risposte vi era una critica. Egli esercitava un'incredibile influenza su di me. Venne al mio debutto a Londra nel 1967, e si mise a sedere in sesta fila, braccia conserte davanti a sé, facendomi delle smorfie, cosa piuttosto allarmante, e quando feci ritorno in albergo trovai un messaggio lasciatomi da lui in cui c'era scritto: «Bene, Igor, un bel concerto davvero. Non ti aspettare granché dal mio appartamento (sarei andato a trovarlo in quel weekend) ‑ non è troppo grande, e a proposito, se ti fa piacere, porta con te Byrd e Pachelbel,» il che stava a significare che avrebbe voluto apportare delle correzioni.
Se qualcuno le avesse chiesto nel 1950 ad Harvard se prevedeva che avrebbe debuttato come clavicembalista non molti anni dopo, lei avrebbe risposto di sì? Cosa pensava dei suo futuro quando era studente?
La musica non era la mia materia di specializzazione ‑ seguivo i corsi di musica, ma trovavo il dipartimento arido, almeno a quel tempo. Mi specializzai in relazioni sociali, che mi aiutarono in un modo piuttosto insolito. C'erano un paio di aree di specializzazione in quello che allora era il sistema delle quattro discipline, che comprendeva l'antropologia sociale e la sociologia ‑ queste veramente noiose ‑ ma anche psicologia clinica che mi piaceva molto, e psicologia sociale. Quest'ultima mi aiutò non appena mi trovai a pensare ad un metodo per attirare l'attenzione del pubblico, per promuovere un concerto. Certamente potrei fare una battuta dicendo che la psicologia clinica mi aiutò a capire il motivo per cui avrei dovuto fare una cosa così folle come quella di interessarmi al clavicembalo.
Com'era l'ambiente ad Harvard? Più tardi ci furono molte performance formali e semi-formali all'interno della struttura stessa.
Veramente anche allora ce ne erano molte. Adesso ci sono dei clavicembali nella biblioteca di Dunster House, ad esempio, e alcuni studenti hanno effettivamente il clavicembalo a disposizione. A quel tempo non vi erano molte risorse da quel punto di vista ‑ Danny Pinkham ne aveva uno, ma si era già diplomato. Era una rarità. C'era una serie di appuntamenti musicali, e venivano portate avanti alcune incredibili iniziative ‑ il Juilliard Quartet nella sua prima stagione concertistica che eseguiva i quartetti di Bartók. Ricordo di aver ascoltato delle letture di Arthur Schnabel. Lavoravo per la stazione radio di Harvard (ho fatto molto con WHRB) e morivo dalla voglia di intervistarlo. Egli disse, «Io non rilascio interviste radiofoniche». Ma io gli strinsi la mano, e tutto ciò che riuscii a pensare fu, «Ho stretto la mano che ha suonato l'"Hammerklavier". Mi fece una tremenda impressione ‑ pensavo che fosse il non plus ultra, la cosa più difficile da suonare al pianoforte. C'erano molti avvenimenti ed alcuni di essi li trasmettemmo alla radio di Harvard. Era un gran divertimento; lì si faceva tantissima musica. July in realtà cantava nel coro di Harvard‑Radcliffe. Ho sentito quella che sarebbe stata probabilmente l'ultima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Koussevitzky ‑ non ad Harvard ma proprio a Boston ‑ e lei faceva parte del coro. Disse che ad un certo punto Koussevitzky sbagliò l'attacco di una battuta, e i contralti sbagliarono, e lui divenne completamente rosso in faccia mostrando una vena che pulsava in modo evidente.
Io mi interesso anche di storia che riguarda la musica antica a Boston. Erwin Bodky si trovava già nella zona di Boston alla fine degli anni '40, ed ero affascinato dal fatto che esistesse una registrazione realizzata in quel periodo da Arthur Fielder sulla musica tedesca del XVII secolo.
Bodky suonava a volte quel repertorio. Sicuramente era una persona importante, nonché il direttore della Longy School. Tra i mentori che ho avuto più avanti nella vita c'è stato anche il direttore della Longy School, Melville Smith. Egli mi ha insegnato molto, grazie ad un paio di conversazioni avute con lui, sull'esecuzione di musica francese. In generale, il pubblico è meno sensibile persino ai compositori francesi più familiari Couperin, Rameau. M ricordo che nel 1977 stavo registrando da capo i concerti di Bach con alcuni miei pupilli con cui ho fatto parecchi concerti, e tra queste sessioni mi venne chiesto di partecipare come giudice nella competizione parigina intitolata «Festival estival». Mi esibii in un recital che comprendeva una suite di Marchand. Avevo suonato Marchand per gran parte della stagione, ed era la prima volta che mi esibivo a Parigi. Io sono in genere molto critico con me stesso, ma quella volta suonai davvero bene ‑ non ero scontento di ciò, piuttosto del fatto di aver trovato il pubblico non troppo caloroso. Pensavo tra me e me, «Ragazzi, cosa c'è che non và?» A Boston non c'era molto fermento riguardo alla musica antica. La gente suonava il flauto, le Messe di Palestrina venivano cantate con una incerta intepretazione romantica ‑ non c'era affatto un gran coinvolgimento, cosa che arrivò molto, molto tempo dopo. Guarda adesso cosa è diventata Boston, è molto più attiva di New York!
Da piccolo lei ha studiato il pianoforte, senza pensare che sarebbe diventato un concertista.
Si era capito ‑ mai dichiarato apertamente, ma si era capito ‑ che non sarei diventato un concertista. Mio padre voleva che ricevessi una paga tutti i venerdì. Pensavo che mi sarebbe piaciuto lavorare alla radio ‑ mi piaceva il tipo di lavoro e mi piacevano i dischi. Volevo diventare un produttore, colui che avrebbe detto «Mr. Heifetz, per il suo prossimo disco, come vorrebbe interpretare la Rapsodia in Blu nella versione per violino?» io credo che sia ancora una grande idea... Quando mio padre mi regalò il clavicembalo non sapeva ancora cosa sarebbe successo, e nemmeno io lo sapevo. Era solo un gioco e un divertimento. Quando feci il debutto i miei genitori erano scioccati, e non fecero niente per incoraggiarmi. Mio padre pensava che era la cosa più stupida che potessi fare, scegliere uno strumento che non dava nessuna possibilità di successo trattandosi di uno strumento per solista. Sì, egli conosceva Landowska, ma la considerava una cosa unica. Passò molto tempo prima che i miei genitori si rendessero conto che non avevo fatto la cosa più stupida che si potesse fare sulla terra. Andavo in tournée, guidavo il mio furgone e mi portavo dietro il mio clavicembalo. Avevo un clavicembalo Rutkowski & Robinette, perché avevo bisogno di qualcosa di affidabile, non solo che reggesse l'intonazione in maniera stabile, ma anche che non avesse bisogno di una continua regolazione per ottenere un bel suono. Viaggiavo per tutto il paese, e molto spesso, alla fine di un concerto, qualcuno mi chiedeva «Lei è parente del cantante Alexander Kipnis?» Certamente ti fa piacere, ma non quando la cosa accade una volta di troppo! Mentre suonavo a Praga, nella residenza dell'ambasciatore, eseguii un recital per clavicembalo, un normale concerto della durata di due ore, e un vecchio signore avvizzito venne a dirmi, con voce tremolante, «Ricordo che una volta suo padre venne a cantare a Praga, nella parte di Sarastro de Il Flauto Magico, una cosa indimenticabile.» E se ne andò. Io pensai, «ma non conto proprio nulla io?» Dopo un po' di tempo, a mio padre cominciarono a chiedere: «Lei è parente del clavicembalista?» A quel punto sembrava che la situazione stesse cambiando. Egli capì che non stavo facendo qualcosa di troppo sbagliato. Ho avuto fortuna, ho inciso parecchi dischi ‑ adesso sono più o meno ottantasei; mi sono fatto un sacco di esperienza sulle registrazioni da studio. Nel 1963 sono entrato in possesso di un clavicordo, e nel 1980 ho comprato un fortepiano antico.
Si è mai esibito in concerto con il clavicordo?
La prima volta che ho suonato un clavicordo in concerto fu a Rutgers, eseguendo un programma di musica di Bach. Ho eseguito la prima metà del concerto al clavicordo, la seconda al clavicembalo. Che ci crediate o no, la sala venne chiamata Kirkpatrick Chapel. Non accade spesso che ti chiedano queste cose.
Ci racconti qualcosa dei suo duo pianistico.
Avevo ricevuto in regalo tutte le Mazurke di Chopin da Alan Silber alla Connoisseur Society, mentre mi trovavo in tournée, e un CD player era nella stanza. Io adoravo le Mazurke di Chopin, e non sapevo chi ne fosse l'esecutore. Il nome era Karen Kushner. Dopo aver messo il disco nel lettore, ne rimasi folgorato. Avevo avuto l'opportunità di scriverne una recensione su Stereophile, e la Kushner mi rispose con una bella lettera di ringraziamento. In seguito Karen venne in un incontro con il pubblico e ci conoscemmo personalmente. Diventammo amici e scoprimmo di avere gli stessi interessi musicali: ad entrambi piacevano Brahms, Chopin e Ravel. Avevo comprato le musiche per Mother Goose Suite di Ravel. Toccavo il pianoforte ogni morte di papa. La mia allora non era assolutamente una tecnica pianistica. Ad ogni modo, ci sedemmo e provammo insieme Mother Goose Suite. Iniziammo insieme, e la cosa strabiliante che avvenne è che finimmo anche insieme. Avevamo un feeling musicale fenomenale. Debuttammo al Bohemian Club di New York, ed il pianoforte divenne per me sempre più familiare. In questi ultimi anni ho suonato quattro strumenti ‑ il clavicembalo, il clavicordo, il fortepiano e il pianoforte moderno. Devo sottolineare «moderno» dal momento che il mio pubblico non pensa che io possa avere a che fare con il moderno pianoforte. Mo nonno era un pianista; e così anche mio zio. Adoro la musica per pianoforte, e ho iniziato a collezionare dischi di pianoforte all'età di quattordici anni, e delle mie ultime recensioni discografiche, molte sono di pianoforte.
Tom Moore
("Orfeo", numero 89, marzo 2005)

mercoledì, settembre 27, 2006

Concertgebouw di Amsterdam: una gran voglia di crescere

Tastiamo il polso ad un grande complesso orchestrale europeo: il Concertgebouw di Amsterdam tra tradizione e disponibilità a nuove esperienze

Il 4 novembre 1988 l'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam ha compiuto cent'anni. E allo scoccare del suo primo secolo di vita, sul podio del concerto ricorrenza c'era Riccardo Chailly, nuovo direttore musicale, quinto nella storia del complesso e primo straniero. Nel piccolo mazzo delle grandi orchestre europee, quella del Concertgebouw ha una storia fitta di bei nomi da raccontare e una disponibilità ai repertori moderni, alle esperienze nuove, che non è in contraddizione coi suo forte legame alla tradizione.
Da un colloquio col suo direttore artistico, Hein van Royen, esce il ritratto di un'orchestra che, nata guardando al modello di Vienna, dal rapporto ora sotterraneo ora affiorante con diverse realtà musicali di Amsterdam ha sviluppato caratteristiche strumentali e aperture insolite. Un'orchestra che, nel trovarsi decentrata rispetto ai grandi giri commerciali, s'è riservata uno spazio autonomo nel gestire i delicati "affari discografici".

Signor van Royen, circolano versioni diverse sulla nomina di Riccardo Chailly a direttore musicale dell'Orchestra del Concertgebouw. Come sono andate realmente le cose?
So che i più sorpresi e dubbiosi per questa scelta sono proprio in Italia. E noi ci sorprendiamo di questo. Invece d'essere soddisfatti per la congiuntura favorevole alle vostre migliori bacchette... Claudio Abbado organizza la vita musicale di Vienna, Riccardo Muti ha in mano, oltre alla Scala, che è un'istituzione internazionale, una delle più grandi orchestre del mondo, Chailly comincia con noi un lavoro importante e a lungo respiro ...
E Sinopoli? Oltre alla Philharmonia dirigerà dal '90 l'Opera di Berlino.
Sì, è un direttore in ascesa, anche se personalmente trovo che sia un musicista che pensa troppo. Comunque seguiamo Chailly da dieci anni, dalle sue prime uscite importanti. Ci era stato segnalato dall'Italia. Lo ascoltai per la prima volta nel Rakes Progress al teatro Lirico di Milano, nell'allestimento di Hockney e Cox acquistato dalla Scala. Poi nel lavoro con la London Sinfonietta su Stravinsky. Da allora non l'abbiamo mai perso d'occhio.
E' vero che nella scelta di un direttore giovane e "latino" ha pesato anche qualche dissapore con Haitink?
Sì. Diciamo che l'orchestra cominciava ad essere sempre meno interessata ai programmi che Haitink stava sviluppando. In generale abbiamo sentito la necessità, in questo momento, di un'iniezione di entusiasmo. Tutta la cultura nordica ha sempre avvertito la necessità di collegarsi allo spirito di Dioniso. Riccardo è, per talento naturale, portatore di quel seme mediterraneo di cui Nietzsche e la grande tradizione archeologica, ad esempio, hanno sempre dichiarato di aver bisogno. E vorrei che anche voi italiani dubbiosi ammetteste che Chailly, da quando lavora stabilmente con noi, è molto migliorato sul piano tecnico. Perché lo scambio non è mai a senso unico. L'orchestra spesso dà al direttore più di quanto non riceva. Perché è un organismo molto più complesso e difficile da costruire. Chailly dà a noi un certo spirito vitale. L'orchestra gli dà i suoi cent'anni di storia, la sua tradizione. E se uno spirito assimila, com'è il suo caso...
Chailly ha il consueto contratto quinquennale?
Sì, ma noi speriamo che stia con noi molto di più: almeno i quindici che furono di vari Beinum o i venticinque di Haitink. Lei sa che nei cent'anni della sua storia l'Orchestra del Concertgebouw ha avuto solo quattro direttori e, a parte Willem Kes, che lasciò l'incarico dopo sette anni per andare a dirigere in Scozia, Willem Mengelberg rimase al suo posto per circa quaranta.
E furono motivi politici, di "simpatia" per i tedeschi, a troncare quel rapporto.
Sì, e fu un trauma nazionale. Perché Mengelberg aveva fatto la grandezza dell'orchestra.
Fra i primi aveva creduto in Mahler.
Ed era amico di Strauss, e per lui, per i suoi rapporti con i musicisti erano venuti a dirigere tanti compositori: Stravinsky, Debussy, Ravel, Casella, Milhaud, Hindemith.
Con i direttori stabili abbiamo l'usanza di stabilire un rapporto molto più duraturo del consueto. E' il nostro stile.
Ma c'è anche voglia di novità. L'esperienza con Harnoucourt com'è nata, per quali esigenze?
Noi abbiamo una tradizione: una Passione di Bach al tempo di Pasqua. L'eseguiamo ogni anno, più o meno da quando esiste l'orchestra. Un giorno sentimmo che quella tradizione andava rinnovata. All'orchestra non interessava più il Bach massiccio e troppo sinfonico di certi direttori. Chiedemmo ad Harnoncourt di venire a dirigere la Passione secondo Matteo. Il suo lavoro piacque all'orchestra, che si accorse come altri autori, specie nel repertorio classico, avessero bisogno d'essere affrontati in un'ottica diversa. Di lì è nato il ciclo Mozart per la Teldec. Non tutte le orchestre sono disposte a lavorare a organici ridotti e revisionando il proprio stile. Qui è un'esigenza che era sentita.
In che rapporti sta l'orchestra del Concertgebouw con l'ambienteffiologico di Amsterdam? Vi conoscete? Tenete conto delle loro ricerche?
Il rapporto con Harnoncourt non è nato per caso. Sappiamo che cosa sta avvenendo nella musica del Settecento.
Ma anche oltre. Hogwood è già arrivato alla Nona di Beethoven.
Sì, ho ascoltato il suo Mozart e il suo Beethoven, che mi ha molto indisposto: trovo che sia una strada molto "cheap", molto a buon mercato. Si mette in testa una parrucca, si veste con abiti d'epoca... Trovo che Harnoncourt abbia fatto con noi un lavoro più interessante su Mozart. E intendiamo proseguire con lui anche oltre. Harnoncourt eseguirà per la prima volta con noi un pezzo di musica contemporanea.
Di?
Berio. Gli abbiamo commissionato un pezzo da inserire in un ciclo dedicato a Schubert. E lui ha avuto un'idea meravigliosa: legare i frammenti della Sinfonia in re maggiore rimasta incompiuta con materiale composto anche di temi contenuti nella musica che Schubert scriveva in quel periodo, il 1818. Sarà come la materia grezza che serve a tenere insieme e a colmare i vuoti dei frammenti di un mosaico o di un dipinto murale. I frammenti di Schubert ignoto "galleggeranno" in quel tessuto connettivo fatto anche di Schubert noto. Trovo che sia un'idea splendida, che ha anche relazioni con la ricerca musicologica ed entra da un lato diverso nel terreno in cui lavora la filologia. E sarà Harnoncourt, che ormai si sta dedicando a Schubert, a dirigerlo. Tornando comunque al discorso delle esecuzioni cosiddette "originali", trovo che Norrington o la stessa Orchestra del Settecento abbiano raggiunto un equilibrio più stabile fra strumentazione e tecnica antiche, e tradizione.
Non avete mai pensato di avere rapporti con Brüggen?
Ci abbiamo tanto pensato che cominceremo presto a lavorare insieme. Harnoncourt ci ha annunciato che dirigerà ancora il rito della Passione di Bach nel 1989, e poi più. Dal 1990 ci sarà Frans Brüggen.
Sottoponendosi a questo nuovo lavaggio del cervello l'orchestra non teme di perdere certi connotati, certa competitività che l'ha portata così vicino ai Berliner?
La ringrazio per questa stima del Concertgebouw. Io ho un'opinione un po' diversa sui valori delle orchestre europee.
Ad Amsterdam abbiamo sempre avuto come modello Vienna: lo può vedere chiunque anche nella architettura pubblica di fine secolo e primo 900, Concergebouw compreso.
Forse anche per questo io sento che i Wiener Philharmoniker sono l'unica orchestra di grande tradizione che non abbia perso la gioia di suonare. I Berliner, anche per la dominante presenza di una personalità, sono diventati negli ultimi tempi una macchina senz'anima.
Ma al Concertgebouw, come ai Berliner, sono possibili certi affondi nel Novecento che i Wiener, per maniacale ossequio alla tradizione, nemmeno concepiscono. A Vienna, sullo stampo della Sinfonia classica, i fiati sono trattati con una tecnica "di ripieno" che non è vostra.
Questo è vero. Da noi esiste una tradizione "di bottega" nella tecnica dei legni e degli ottoni. Non dico che si tramandi di padre in figlio, ma quasi. E' un patrimonio decisamente nostro.
Esistono gruppi strumentali di fiati dai quali l'orchestra attinge veri virtuosi. E questo non permetteremo mai che venga sacrificato in repertori incapaci di valorizzarlo. Nonostante ciò provo sempre al Musikverein un piacere del far musica che da anni non trovo alla Philharmonie. Anche se credo, come per noi del resto, che i Wiener diano senz'altro il meglio di se stessi con un direttore dionisiaco come Bernstein.
I Berliner sono un'orchestra eccellente, pulita, ma senza spirito, sacrificata al dio dell'efficienza.
A causa di Karajan?
Direi proprio di sì.
E anche il festival di Salisburgo versa in condizioni di sclerosi per la stessa causa?
Senz'altro. L'anno scorso ero a colazione con il presidente della Polygram e gli ho detto chiaramente che aspetto solo il giorno in cui poter andare a un festival di Salisburgo senza dischi e ritratti in vetrina. Sono dovute a quella dittatura molte, troppe esclusioni. Non è possibile che un festival nato e vissuto nel segno di Mozart non abbia mai fatto dirigere Harnoncourt. Ma l'elenco dei veti è molto lungo.
E quale uomo vede adatto alla svolta?
Abbado. L'unico che abbia autorità, cultura e aperture per avviare il festival su nuove strade, senza provincialismi.
Ma gli consentiranno, in Austria, di prendere così tanto potere? Possono coesistere i due impegni, a Vienna e a Salisburgo?
Non vedo conflitti. Per quanto ne so, credo proprio che sarà lui il prossimo direttore del festival.

intervista di Carlo Maria Cella (Musica Viva, Anno XIII n.5, maggio 1989)

lunedì, settembre 25, 2006

René Jacobs, tra Classico e Barocco

A quasi sessant'anni René Jacobs appare oggi come uno dei musicisti più completi e maturi della sua generazione; un direttore le cui esperienze come cantante, filologo e docente permettono di affrontare i problemi esecutivi con consapevolezza rara; un interprete che soprattutto in questi ultimi anni ha saputo realizzare tutte le sue potenzialità, collezionando nel frattempo ina serie invidiabile di premi e riconoscimenti. Fedele all'atteggiamento artigianale che distingue la scuola fiamminga (nato a Gand nel 1946, Jacobs ebbe presto incontri con i fratelli Kuijken e con Philippe Herreweghe), la prima metà della sua carriera appare oggi come un lungo apprendistato che prepara gli esiti raggiunti nella piena maturità. Già negli anni settanta, comunque, quando cominciò ad affermarsi seriamente come controtenore e quando iniziò una collaborazione trentennale con la sua casa discografica Harmonia Mundi, Jacobs mostrava non solo doti vocali e interpretativi di assoluto rilievo, ma anche un'intelligenza culturale fuori del comune, paragonabile a quella evidenziata dal suo idolo Dietrich Fischer-Dieskau negli anni cinquanta. Al 1977 risale la fondazione del suo Concerto Vocale, nel quale suonavano strimentisti come il gambista Wieland Kuijken, il liutista Konrad Junghänel e il clavicembalista William Christie, e memorabili in quegli anni furono i programmi dedicati a Cesti, Charpentier, Marenzio e Monteverdi. Nel 1978 Jacobs divenne docente alla Schola Cantorum di Basilea (dov'era stato allievo di August Wenzinger) e già nel 1983 salì sul podio per dirigere un'opera, quell'Orontea di Cesti che ebbe un grande successo ad Innsbruck: una città con cui mantiene tuttora uno stretto legame, essendo diventato nel 1991 direttore artistico delle Festwochen der Alter Musik. Negli anni ottanta si divise poi sempre di più tra il ruolo di cantante (nel 1985 pubblicò con Actes Sud il saggio «La Controverse su le timbre de contre‑ténor») e quello di direttore, che divenne invece dominante negli anni novanta.
Il René Jacobs di oggi, che ci accoglie con calore nel suo luminoso appartamento nel Marais, a Parigi, il giorno dopo una splendida esecuzione di Solomon di Händel al Théátre des Champs Elysées, non è conosciuto quanto meriterebbe dal pubblico italiano (anche se il suo Messiah di Händel ‑ che prossimamente uscirà anche in disco ‑ ha avuto un'ottima accoglienza sia a Milano che a Roma lo scorso inverno). Ma per fortuna ha inciso buona parte del suo repertorio ‑ ci sono ventisette titoli attualmente nel catalogo ‑ con l'Harmonia Mundi (il prossimo progetto è Don Giovanni, da realizzare in autunno dopo recite a Innsbruck e a Baden Baden), firmando negli ultimi tre lustri una serie sorprendente di edizioni di riferimento. Tra quelle monteverdiane spiccano Il ritorno di Ulisse in patria, il Vespro della beata Vergine e i Madrigali guerrieri ed amorosi. E tra quelle händeliane emerge soprattutto il Saul, premiato quest'anno con un Midem Classical Award. Non meno emozionanti sono Il primo omicidio di Alessandro Scarlatti, le Stagioni di Haydn, Le nozze di Figaro (anch'esse premiatissime) e La clemenza di Tito di Mozart. In tutte queste registrazioni emerge non solo la particolare sensibilità dell'ex‑cantante per l'articolazione della linea vocale, ma anche la capacità di affrontare le più ambiziose strutture architettoniche con un fraseggio dal respiro fisiologico, di trovare un ideale equilibrio tra suono e parola, tra propulsione drammatica e abbandono lirico. E se come controtenore Jacobs ebbe un numero limitato di occasioni per affrontare delle opere liriche in forma scenica (c'era ancora parecchia diffidenza nei confronti di questa categoria trent'anni fa), oggi è diventato uno dei più autentici uomini di teatro dei nostri tempi.

Com'è stata preparata la nuova incisione della Clemenza di Tito?
Abbiamo fatto delle esecuzioni in forma di concerto prima di realizzarla e nei primi tre giorni di prove ci siamo concentrati interamente sui recitativi. E' lì infatti che si concentra il dramma di Metastasio e Mazzolà, e per fortuna disponevamo di un gruppo di cantanti intelligenti che avevano voglia di approfondirli. Non avevano bisogno di un regista per spiegare loro i personaggi: bastava leggere con attenzione il libretto. La qualità poetica dei testi è molto elevata: a volte gli interpreti non si rendono conto del fatto che anche i recitativi secchi sono modellati su versi poetici regolari ‑ settenari o endecasillabi ‑ e che le pause tra un verso e l'altro in partitura vanno assolutamente rispettate. E' vero che i recitativi non furono musicati da Mozart. Il tempo a disposizione era poco, e probabilmente fu Süssmayer a realizzarli: si capisce infatti che furono messi in musica da un compositore che non conosceva bene l'italiano (hanno difetti simili a quelli mostrati da Haydn nelle sue opere italiane). Proprio per questo motivo mi sono permesso di correggere qualche errore palese e di modificare alcuni passi in cui serviva una maggiore varietà melodica e armonica. Ho anche arricchito in qualche caso l'accompagnamento del recitativo secco, e devo dire che gli strumentisti della Freiburger Barockorchester che hanno realizzato il basso continuo hanno mostrato molta fantasia e una perfetta comprensione del contesto drammatico.
Sono ricche di varianti anche le parti vocali.
Ho dato diverse indicazioni ai cantanti sui luoghi in cui variare o introdurre cadenze. Ai tempi di Mozart le corone per esempio indicavano chiaramente un'occasione per improvvisare. Si abbelliva molto nel tardo Settecento, ed è giusto eseguire la musica di Mozart con la stessa libertà con cui si eseguono Cimarosa e Paisiello. C'è persino una lettera del compositore al padre in cui si lamenta di dover lavorare con un tenore poco intelligente, incapace di improvvisare delle semplici transizioni da un episodio musicale all'altro.
Queste cose si sanno da decenni, eppure capita ancora oggi di sentire esecuzioni mozartiane senza neppure le necessarie appoggiature.
La colpa è innanzi tutto dei direttori. Anche quelli più celebri sono spesso del tutto indifferenti a questioni del genere. Mi ricordo di aver detto una volta a un cantante italiano di inserire le appoggiature, e lui mi rispose che gli era stato detto che si trattasse di una scelta puramente facoltativa... Nel Settecento in realtà le appoggiature venivano inserite sempre nei recitativi, e l'edizione critica delle opere pubblicata da Bärenreiter le indica chiarissimamente. Le introduzioni alle singole partiture contengono dei suggerimenti stilistici molto intelligenti: nell'edizione di Mitridate troviamo la migliore introduzione al recitativo che io conosca, firmata dal grande studioso e organista italiano Ferdinando Tagliavini. Purtroppo la maggior parte dei direttori non legge neppure questi testi! Ci sono naturalmente delle eccezioni ‑ Charles Mackerras è stato un pioniere da questo punto di vista ‑ ma altri come Harnoncourt, che in teoria sarebbe un campione della prassi autentica, trascurano questi dettagli. E francamente non li capisco.
Secondo Lei i soprani che interpretano ruoli come Vitellia devono avere perforza un registro di petto ben sviluppato?
Assolutamente sì. Non si può immaginare una Vitellia senza quel registro, e lo stesso vale per Fiordiligi in Così fan tutte. E' evidente che Mozart amasse questo tipo di voce. Del resto l'ideale di una voce ‑ o di uno strumento ‑ che abbia lo stesso colore in tutta l'estensione è un retaggio dell'Ottocento. Pensiamo per esempio al flauto traverso: prima che venisse costruito in metallo, aveva sempre delle note deboli, una specie di passaggio di registro.
La clemenza di Tito è la prima opera seria di Mozart che ha diretto?
Sì, ma mi piacerebbe molto fare anche Lucio Silla e Idomeneo, e non credo mancheranno delle occasioni per farle: c'è già un progetto infatti per Idomeneo.
Ritiene che ci sia qualche legame filosofico tra Le nozze di Figaro, l'ultima opera mozartiana che ha inciso, e La clemenza di Tito?
I libretti sono molto diversi, ma la filosofia dell'Illuminismo è evidente in entrambi. In Figaro, le idee pre‑rivoluzionarie sono palesi, e va ricordato che La clemenza fu concepita come Fürsten-spiegel: letteralmente uno «specchio» per l'Imperatore. L'opera finge di rendere omaggio a Leopoldo II paragonandolo a Tito, ma in realtà il paragone non fa altro che palesare l'inferiorità di Leopoldo a Tito sul piano dell'idealismo. L'opera contiene an­che diversi elementi massonici: gli studi più recenti hanno evi­denziato le somiglianze con Die Zauberflöte, composta nello stes­so periodo. Secondo me poi i tumulti del finale primo ‑ con i suoni del coro fuori scena ‑ echeggiano chiaramente le atmosfe­re delle rivoluzione francese: e ricordiamoci che la sorella di Leopoldo si trovava già nel carcere della Bastille ai tempi della prima rappresentazione.
La prossima opera mozartiana che dirigerà, a Innsbruck nel mese di agosto, è Don Giovanni.
Don Giovanni ha invece radici antiche: per capirlo bisogna conoscere l'opera veneziana del Seicento, con la sua mescolanza ambigua tra comico e tragico. Come nelle opere di Cavalli, che conosco bene, non si sa mai se un personaggio dice il vero o il falso. Incideremo l'opera in autunno, con Simon Keenlyside, Lorenzo Ragazzo e Alexandrina Pendatchanska nel cast.
Come affronta la questione dei tempi in Mozart?
I tempi naturalmente sono dettati soprattutto da quanto è scritto sullo spartito. Quando per esempio Mozart indica «alla breve», lo interpreto letteralmente. Un Adagio alla breve è chiaramente più mosso di un Adagio in quattro. Nei pezzi concertati i tempi sono dettati anche dalla necessità di articolare chiaramente le parole. Ci sono del resto due tipi di concertato: quello dove l'azione progredisce, in cui le parole devono essere dette con un ritmo simile a quello dei recitativi, e quello in cui l'azione si ferma, dove occorrono naturalmente tempi più lenti. Per stabilire i tempi giusti possono essere utili anche le testimonianze d'epoca: quelle del primo Ottocento, per esempio, che parlano già di un forte rallentamento dei tempi mozartiani. Per Don Giovanni e Die Zauberflöte abbiamo i ricordi di strumentisti che eseguirono queste opere sotto la direzione di Mozart: sembra per esempio che negli anni 1820 la durata media dell'esecuzione di «Ach, ich fühls» era raddoppiata rispetto al tempo imposto da Mozart. E quello del compositore era un tempo così veloce che nessuno oggi oserebbe proporlo. Ma ha una sua logica: comunica infatti il rapido battere del cuore di una donna che si sente tradita e pronta a morire. C'è anche il commento di Dionys Weber, citato da Wagner, che ricordava come Mozart desiderava tempi sempre più spediti per l'ouverture delle Nozze di Figaro.
Accetterebbe oggi di dirigere Mozart con un'orchestra di strumenti moderni, o si sentirebbe ormai a disagio con una soluzione del genere?
Ho avuto un'esperienza positiva dirigendo Die Zauberflöte al Théátre de la Monnaie di Bruxelles con l'orchestra del teatro, ma sono venuti incontro ad alcune mie richieste. Volevo che fossero gli stessi strumentisti a suonare ogni sera (capita spesso che ci siano delle rotazioni nei teatri) e che ci fosse un Konzertmeister proveniente da un'orchestra che utilizza strumenti antichi. In quest'occasione ha usato uno strumento moderno, ma ha insegnato agli archi come fraseggiare secondo la prassi d'epoca. Ho voluto poi strumenti antichi per la sezione degli ottoni, e per fortuna c'erano diversi professori del teatro capaci di suonarli. Con queste modifiche il suono si è già trasformato, anche se un'orchestra moderna non può mai raggiungere in questo repertorio gli esiti stupefacenti della Freiburger Barockorchester.
Le Sue interpretazioni cambiano a seconda dell'acustica delle sale?
Si dovrebbe cambiarle sempre, anche se in tournée è difficile trovare il tempo per individuare le sonorità ideali per ogni edificio. Non proporrei mai L'incoronazione di Poppea in un grande teatro d'opera con quello che forse era l'organico originale di Monteverdi: due violini e un basso continuo di quattro strumenti. Il compositore infatti scriveva per un teatro di duecentocinquanta posti; per i teatri più grandi bisogna aggiungere altri archi e dei fiati - tromboni e cornetti - che si sentono bene anche in una sala ampia. Recentemente abbiamo proposto il Messiah di Händel nella sala più grande del Parco della Musica a Roma: l'organico era relativamente piccolo, ma l'acustica della sala è eccellente e gli strumentisti della Freiburger Barockorchester hanno suonato come se la loro vita vi dipendesse.
Lei è stato molto attivo come didatta. Insegna ancora?
Non più. Non trovo più il tempo. Insegnavo la prassi esecutiva barocca a cantanti e continuisti alla Schola Cantorum Basiliensis. Ed è soprattutto quella scuola a incoraggiare le forme più elaborate di basso continuo. In altri paesi questa materia non viene insegnata così approfonditamente. Lavorando per esempio sul Solomon di Händel con l'Orchestra of the Age of Enlightenment, che pure è bravissima, non ho potuto realizzare neppure la metà degli effetti che riesco a trarre dai recitativi con la Freiburger Barockorchester. Purtroppo le orchestre britanniche hanno sempre fretta e va a finire che i recitativi vengono realizzati in maniera meccanica.
In che modo la Sua esperienza di cantante influisce sul Suo modo di dirigere?
Saper respirare è fondamentale per un direttore non meno che per un cantante. Il modo migliore di indicare all'orchestra un attacco in levare e respirare come se stessi per cantare una frase: il gesto che deriva da quel respiro sarà quello giusto. Chiaramente il mio repertorio, incentrato sulla musica vocale, rispecchia il mio passato come cantante, ma in futuro mi dedicherò sempre di più alle composizioni puramente orchestrali. Dopo il buon esito dell'incisione delle sinfonie di Haydn, la Harmonia Mundi mi ha chiesto di incidere le ultime quattro sinfonie di Mozart, due delle quali saranno incise già quest'anno. E mentre dirigo la sola orchestra, mi rendo conto di essere non meno «cantante» di quando dirigo una composizione vocale, perché l'orchestra canta di continuo, e nella musica sinfonica si svolge sempre una specie di dramma, anche se mancano le parole.
Dove ebbe luogo la Sua prima formazione musicale?
Nel coro della cattedrale di Gand, nel Belgio. Era un coro per ragazzi e uomini, ma i ragazzi avevano poi un altro coro più piccolo con una propria attività concertistica. Avevo una voce mezzosopranile, abbastanza buona per poter fare degli assoli. Era il periodo prima del Concilio Vaticano II in cui si eseguiva il canto gregoriano in chiesa ogni giorno. Si tratta del migliore esercizio vocale che si possa immaginare: pagine ricche di melismi, ma con un'estensione limitata. Il nostro maestro, che si chiamava Noel Van Wambeke, mi incoraggiava comunque ad affrontare un vasto repertorio, tra cui i Lieder di Mozart e Schubert e persino La camera dei bambini di Mussorgski, che cantavo in traduzione tedesca. Senza Van Wambeke, che era un prete e che purtroppo morì presto in un incidente d'auto, non sarei mai diventato un musicista professionista. Mi portava volumi di Lieder e mi accompagnava al pianoforte. Mi fece ascoltare le incisioni di Dietrich Fischer-Dieskau della Winterreise e della Schöne Müllerin. E da quelle incisioni nacque il mio amore per la lingua tedesca. La mia lingua madre è il fiammingo, e a scuola studiai il francese e l'inglese, ma il tedesco è la mia lingua preferita. Esiste persino qualche registrazione privata delle mie esecuzioni liederistiche di allora. Van Wambeke veniva a casa poi con delle musiche pianistiche a quattro mani e mi fece suonare con lui tutte le nove sinfonie di Beethoven. Ricordo che era difficilissimo e che facevo moltissimi errori, ma lui mi diceva sempre: «Vai avanti, non smettere di suonare» e così acquisii una grande facilità nel suonare a prima vista.
In quell'epoca assisteva pure ad esecuzioni altrui?
Andavo spesso a concerti di musica da camera a Gand, e talvolta anche all'opera. La prima opera che vidi fu Cavalleria rusticana. Avevo dieci anni, ma ricordo ancora alcune soluzioni registiche che mi fecero sorridere. La seconda fu il Don Carlos, con Boris Christoff nel ruolo di Filippo II. Lui mi fece una forte impressione, ma la compagnia intorno a lui era pessima, ed era difficile restarne coinvolti. Dopo quell'esperienza infatti non volli più andare all'opera. Soltanto molti anni dopo cominciai a scoprire il teatro di Mozart attraverso le incisioni di Karajan e di Böhm, che mi piacquero moltissimo. Così mi avvicinai gradualmente anche all'opera barocca, che mi permise di capire il genere anche dal punto di vista filosofico. Il dramma per musica dopotutto è un'invenzione barocca, e tutte le sue potenzialità sono già riassunte in Monteverdi.
Dovette smettere di cantare durante l'adolescenza a causa della muta della voce?
Quando una voce sopranile si trasforma in un basso, il cambio può essere brusco e traumatico. Più graduale è la trasformazione di un alto in un tenore. Io cantai con la mia voce mezzosopranile fino all'eta di sedici anni, poi - dopo una pausa di circa un anno - incominciai a cantare da tenore. E a diciotto anni io pensavo di essere un tenore. Presi lezioni di canto da Louis Devos, un tenore e direttore d'orchestra, e feci dei concerti come tenore solista in esecuzioni delle Cantate di Bach dirette da Philippe Herreweghe, che veniva dalla stessa mia città ed era all'inizio della carriera pure lui. Poi ebbi il primo contatto con Alfred Deller: venne a Gand per un'esecuzione in forma di concerto della Faery Queen di Purcell. Io cantavo nel coro, mentre le parti solistiche erano affidate al Deller Consort. E quando Deller incominciò a cantare un nuovo mondo si aprì davanti a me. Allora non sapevo bene cosa fosse un controtenore, ma riconobbi subito quel registro di falsetto che già impiegavo come tenore nel registro acuto, anche se il mio maestro mi diceva che non avrei dovuto usarlo.
Che tipo di uomo era Deller?
Aveva quella flemma tipicamente britannica. Una volta, quando gli chiesero come reagiva alle recensioni negative, rispose: «Possono impedire il pieno godimento della prima colazione, mai del pranzo». Deller non insegnava in modo regolare, ma ogni estate, a Senanque nel sud della Francia, faceva dei corsi estivi, gestiti da quella che si chiamava scherzosamente la «Deller mafia». Fu lì che ebbi le mie prime e uniche lezioni con un controtenore. L'insegnamento più importante che mi trasmise riguardava non tanto la tecnica quanto la proiezione delle parole, che devono essere sempre comprensibili ed eloquenti. Quando studiai con lui l'Ode to St. Cecilia di Purcell, si cominciò con una lettura ad alta voce delle parole. Devo dire che nessun controtenore dopo Deller è riuscito a far vivere il testo come lui, a dargli una colorazione così espressiva.
Era tentato di imitare il suono di Deller?
Lui era l'unico mio modello, perché non c'erano altri controteneri di primo piano allora, se si eccettua l'americano Russell Oberlin. Tuttavia, a differenza di Deller, che era un falsettista puro, io ho sempre usato il mio registro di petto tenorile per l'estensione grave. Più tardi subii l'influenza di un altro controtenore, Paul Esswood, sentendolo cantare la parte per alto in una registrazione della Passione secondo Matteo diretta da Harnoncourt. Fino a quel momento avevo sostenuto le parti tenorili nella Passione, tra cui l'Evangelista, e all'inizio non avevo l'estensione acuta per affrontare da controtenore una pagina come «Erbarme dich ». Ma lavorai molto sodo per conquistare le note alte e alla fine ci riuscii. Per farlo bisogna impostare bene il passaggio di registro superiore. Ho lavorato tecnicamente anche con un soprano olandese: ho scoperto che il meccanismo vocale di un controtenore è più vicino a quello di una voce femminile che a quello di un tenore. Quando sfruttavo però l'estensione acuta, era più faticoso usare poi l'emissione di petto per l'estensione grave. L'Orfeo di Gluck era particolarmente difficile da questo punto di vista: nei recitativi, dove c'è un accompagnamento orchestrale con un forte tremolo negli archi, c'era sempre il rischio di portare il registro di petto troppo in alto.
Quando cantava, c'era qualche ruolo che sembrava scritto proprio per la Sua voce?
C'è un ruolo che in realtà non ho mai cantato ma che sarebbe stato ideale per la mia voce com'era all'inizio della carriera. Si tratta di Ottone nell'Incoronazione di Poppea. Fra l'altro è difficile trovare controtenori adatti a questa parte oggi. Quando la mia voce divenne più acuta, la maggiore parte dei ruoli scritti da Händel per Senesino andavano piuttosto bene per la mia voce.
L'influenza di Deller si è sentita nelle scelte del repertorio?
Non ho fatto in realtà molto repertorio inglese. Ho inciso alcune musiche di Purcell per la Harmonia Mundi, ma non essendo di madre lingua mi sembrava difficile uguagliare la dizione di Deller. E secondo me neppure altri controtenori inglesi e americani riescono ad avvicinarlo. Come controtenore mi sono concentrato sempre di più sul repertorio italiano, tedesco e francese. Ho inciso persino un disco di ariette di Bellini e Donizetti: un disco che va considerato però come un péché de jeunesse. Anche la pronuncia italiana non è facile, e sono sicuro che se dovessi riascoltare oggi le prime incisioni che feci in italiano troverei errori ricorrenti: doppie consonanti trascurate, vocali impure ecc.. Il mio amore per la dizione italiana perfetta deriva dalla collaborazione con cantanti e maestri sostituti italiani nella preparazione di spettacoli teatrali. E ogni volta che ho diretto un lavoro italiano in disco, ho sempre voluto con me un preparatore esperto della lingua. L'abbiamo avuto anche per la Clemenza di Tito.
Come trova le giovani voci italiane di oggi?
L'Italia continua a essere un paese di ottime voci, ma la qualità dell'insegnamento è generalmente scarsa. Lavoro spesso con cantanti italiani, ma sento che i soprani in particolare vanno incontro a problemi tecnici molto presto. Mi capita sovente di scoprire un giovane soprano con delle qualità fantastiche, ma quando torno a lavorare con lei dopo un paio d'anni sento qualcosa che non va nella voce. Spesso le cantanti italiane affrontano ruoli drammatici troppo presto, sviluppando magari un registro acuto molto voluminoso ma perdendo di qualità nei centri. E non vengono seguite sempre da un maestro di canto, mentre un soprano tedesco come Dorothea Röschmann è capace di volare a Londra tra una prova e l'altra per farsi controllare dalla sua maestra Vera Rosza.
Quando sente che un cantante ha dei problemi tecnici, cerca di parlarne insieme?
E' molto difficile dire la verità a certi cantanti. Alcuni mostrano risentimento anche se dici che sono calanti o crescenti d'intonazione. Mi piace infatti lavorare molto con i giovani perché posso dire tutto quello che penso!
Com'è stato il Suo rapporto con registi d'avanguardia, come David McVicar?
Con McVicar abbiamo allestito l'Agrippina di Händel a Bruxelles, e poi a Parigi. Una regia attualizzante in maniera intelligente. Curiosamente però, quando lo stesso regista tentò un approccio simile con L'incoronazione di Poppea due anni dopo, non funzionò altrettanto bene. In linea teorica fu una scelta logica, perché le due opere hanno diversi personaggi ‑ Nerone, Poppea, Ottone ‑ in comune, ma in teatro vennero a galla le forti differenze tra Händel e Monteverdi. In entrambe le opere ci sono scene comiche, ma nell'Incoronazione c'è pure la morte di Seneca, che rappresenta il cuore dell'opera: un momento di notevole gravità. E secondo me l'approccio del regista qui era troppo leggero, troppo vicino al musical. Curiosamente la Poppea di McVicar fu realizzata prima al Théátre des Champs Elysées, e i francesi l'odiavano. Poi l'abbiamo fatto a Berlino, e i tedeschi l'adoravano ‑ forse perché sono più abituati agli allestimenti in abiti moderni.
Quanta influenza ha il direttore sulle messe in scena delle opere che concerta?
Cerco sempre di incontrare il regista con grande anticipo, in modo che possa capire le sue idee e soprattutto capire se ama veramente l'opera che deve mettere in scena e se ha fiducia nella drammaturgia. Si tratta di una questione fondamentale, perché se quella fiducia non c'è, è probabile che il regista tenterà di cambiare la drammaturgia. Personalmente ho avuto delle esperienze molto positive con alcuni dei registi più giovani, come Vincent Boussard ‑ con cui farò Don Giovanni a Innsbruck e a Baden Baden quest'anno ‑ e Stephen Lawless, il regista con il quale l'anno scorso abbiamo messo in scena Don Chisciotte in Sierra Morena di Francesco Conti, sempre a Innsbruck. Una messa in scena eccezionale per un'opera straordinaria che sarà ripresa al Théátre de la Monnaie nel 2010.
Don Chisciotte non è certo l'unica opera dimenticata che ha riproposto in questi anni...
In effetti mi piace molto riscoprire opere ingiustamente trascurate. Con Lawless ho fatto pure La Griselda di Alessandro Scalatti, un'opera fantastica. E' un vero peccato che non si facciano più spesso le opere di Scarlatti: secondo me sono molto più interessanti di quelle di Vivaldi, che era più grande come compositore di musica strumentale che come operista, anche perché aveva un atteggiamento decisamente mercenario, riciclando di continuo gli stessi pezzi. Scarlatti era molto più serio: non riclicava mai; ogni aria era una nuova invenzione, e di conseguenza la sua musica è piena di sorprese. In Händel, quando si sentono le prime quattro misure di un'aria, qualche volta si riesce a indovinare la quinta misura. Con Scarlatti è ben più difficile. Vorrei dirigere Il Tigrane, una delle sue ultime opere, ma non ci sono per ora progetti precisi. Un altro compositore che vorrei dirigere è Agostino Steffani: un vero genio, che lavorò soprattutto in Germania. E' un peccato che non ci sia maggiore interesse per lui in Italia, dove viene ancora troppo trascurata l'opera barocca. Non a caso conosco diversi bravissimi strumentisti italiani che hanno studiato alla Schola Cantorum Basiliensis e poi sono rimasti all'estero, costretti all'esilio. Anche Cavalli risulta piuttosto trascurato nel suo paese d'origine. Lo ho diretto recentemente a Bruxelles e a Innsbruck la sua ultima opera: L'Eliogabalo, composta nel 1668. Abbiamo dovuto lavorare esclusivamente sul manoscritto della partitura, perché non esiste nessun libretto stampato: il Senato si rifiutò di autorizzare la sua pubblicazione perché era ritenuto politicamente scorretto. In partitura la musica è scritta molto chiaramente, ma è più arduo decifrare il testo perché manca la punteggiatura. Abbiamo lavorato per diversi giorni per stabilire una versione plausibile. L'opera si è rivelata veramente notevole: un po' somigliante all'Incoronazione di Poppea con la differenza che Eliogabalo è ancora peggiore di Nerone. La conclusione però è moraleggiante, perché nel frattempo Venezia era diventata una città meno libertina.
Lei ha dedicato molte energie in questi anni a Monteverdi. Delle tre opere trova che Il ritorno di Ulisse in patria sia la più difficile da interpretare?
Io adoro Il ritorno di Ulisse. In Poppea c'è il problema che non tutta la musica è di Monteverdi. Era vecchio e ammalato e si avvalse dell'aiuto dei suoi collaboratori, tra cui Francesco Sacrati e Benedetto Ferrari. Il ritorno di Ulisse in patria invece è tutto Monteverdi grand cru. Il ruolo di Penelope rappresenta un problema perché è lunghissimo e ci vuole un mezzosoprano grave oppure un vero contralto. A Berlino ho avuto un'interprete eccellente in Patricia Bardon, mentre nell'incisione dell'Harmonia Mundi c'era Bernarda Fink: una cantante che riesce a commuovere sempre, ma che probabilmente non canterebbe più questo ruolo oggi perché la voce si è spostata in alto. Penelope è un'altra parte per la quale il registro di petto è indispensabile, e ci vuole una cantante che sappia recitare con la voce. Solo alla fine dell'opera, quando Penelope è nuovamente felice dopo aver ritrovato Ulisse, sentiamo un canto puro e melismatico.
In Italia dirige relativamente poco...
C'è il progetto di fare un Tancredi in forma di concerto, magari con entrambi i finali, nell'ambito della stagione di Santa Cecilia a Roma. Alcuni anni fa diressi l'Orfeo di Monteverdi al Teatro Goldoni di Firenze. Un allestimento di Luca Ronconi, che ebbe l'idea di riempire d'acqua la platea. Una scelta molto stravagante che lasciava a disposizione del pubblico soltanto centosessanta posti a sedere. La regia poi non andò oltre quella trovata. Sono rimasto molto deluso, perché non c'era nessun dialogo tra di noi, e il regista non parlava neppure con i cantanti: mandava semplicemente i suoi assistenti per comunicare ciò che voleva. Avevo una buona compagnia e mi sono trovato bene con i cantanti, ma il coro aveva dei problemi di intonazione, l'acqua divenne sempre più maleodorante con il passare dei giorni (abbiamo fatto dieci recite in venti giorni) e i tecnici di scena facevano molto rumore. La Rai infatti ha girato un film sulla realizzazione di questo Orfeo: un film che comincia con qualcuno che grida «Silenzio!». Ero io.
L'anno scorso invece ha portato in tournée il Messiah, che poi è stato inciso per l'Harmonia Mundi.
Ho un legame emotivo molto forte con quest'oratorio, avendolo cantato molte volte. E mi colpisce sempre la raffinatezza con cui il librettista Charles Jennings adattò i testi biblici. In quest'incisione ho scelto di adoperare un'edizione dell'oratorio usata spesso da Händel al Teatro Reale di Covent Garden negli anni 1750: una versione riscritta per creare un ruolo in cui potesse emergere il talento del castrato Gaetano Guadagni (il creatore dell'Orfeo di Gluck). Guadagni fu un personaggio molto interessante che parlava perfettamente l'inglese: trascorse infatti molto tempo a Londra e prese lezioni di recitazione dal grande attore David Garrick. Fu probabilmente il primo castrato ad essere seriamente interessato alla recitazione. Secondo me Messiah racconta una storia veramente drammatica, quella della redenzione, e nell'incisione disponiamo di ottimi solisti come Patricia Bardon e Larry Zazzo, il controtenore americano, e anche della Freiburger Barockorchester, che come sempre si è impegnata in modo fantastico.
intervista di Stephen Hastings ("Musica", nr.177, giugno 2006)

sabato, settembre 23, 2006

Ferruccio Busoni: Le Opere per pianoforte (1908-1921)

Il biennio 1908-1909 è un periodo cruciale nel percorso artistico ed umano di Ferruccio Busoni: la pubblicazione delle Elegie e di An die Jugend da un lato, la morte del padre dall'altro, rappresentano un momento significativo e doloroso di crescita ed insieme una definitiva emancipazione artistica dai modelli formali e linguistici ottocenteschi che avevano costituito l'humus di tutta la sua produzione fino ad allora. Del resto è lo stesso Busoni a marcare la nascita di un nuovo stile e un nuovo personale linguaggio scegliendo, per la prima delle Elegie, il titolo Nach der Wendung, cioè 'Dopo la svolta'.
Sembra incredibile, a distanza di quasi un secolo, non solo che i grandi capolavori della maturità busoniana siano più celebrati e ammirati che non eseguiti ed ascoltati, ma soprattutto che l'attenzione della maggior parte dei pianisti si rivolga ancora in misura tanto maggiore alle virtuosistiche trascrizioni bachiane dall'organo (che avevano costituito uno dei cavalli di battaglia del giovane Busoni concertista attorno al 1890) che non ai grandi cicli delle Sonatine e delle Elegie (successivi di un ventennio) e persino alla monumentale Fantasia Contrappuntistica.
A ripensare al bizzarro aneddoto raccontato dal grande pianista e discepolo prediletto Egon Petri, che narrava come una volta la moglie Gerda sia stata presentata da una signora americana quale «Signora Bach-Busoni» (gaffe dovuta all'automatica ed inevitabile associazione di idee tra la figura del grande virtuoso empolese ed il genio di Eisenach) si direbbe che, per la fortuna critica del Busoni compositore, un secolo sia passato in parte invano. E' pur vero, d'altra parte, che l'attuale dilagare di Preludi e fuga in re maggiore e Ciaccone rappresenta un atto di giustizia postumo nei confronti di un Busoni furioso e quasi incredulo alle osservazioni di quella «Società del Quartetto» di Milano che nel 1895, a proposito della natura di trascrizione della celebre Toccata e Fuga in re minore, ebbe l'ardire di dire che «sarebbe meglio non farlo notare sul programma!»
Se dunque le roboanti trascrizioni giovanili sono a tutt'oggi più note di capolavori come il Concerto per pianoforte e orchestra, il Doktor Faust, o la Berceuse Elégiaque, certamente non stupirà l'assenza pressoché totale dalle sale da concerto e dalla produzione discografica anche recente di quei lavori che segnano un radicale mutamento di prospettiva nell'arte della trascrizione di Busoni nonché nel suo rapporto con la produzione bachiana: il Preludio, Fuga e Allegro, la Fantasia, Adagio e Fuga ed infine la Fantasia, Fuga, Andante e Scherzo.
Torniamo per un istante alle grandi Trascrizioni da Concerto - espressione busoniana da intendersi in opposizione a Trascrizioni da Camera - per chiarire come paradossalmente uno dei motivi della loro popolarità risieda proprio nel loro appartenere sia cronologicamente che spiritualmente all'Ottocento. Esse infatti presentano senz'altro un arricchimento di mezzi ed un allargamento di prospettiva rispetto alle analoghe operazioni di Tausig e Bülow, gli elementi di novità vengono però utilizzati per portare al massimo fulgore uno stile ancora basato in larga parte sull'amplificazione della sonorità e l'arricchimento della scrittura pianistica. Il pubblico delle grandi sale percepisce la straordinaria fattura dell'operazione busoniana ed allo stesso tempo si sente gratificato dalla scrittura pianistica di stampo romantico che sontuosamente riveste l'austera struttura delle fughe bachiane.
A partire dal 1908, abbandonando tanta opulenza sonora, Busoni nel suo confronto con i modelli bachiani imbocca come si è detto strade completamente nuove: ecco allora la sovrapposizione del materiale di partenza (è il caso ad esempio del Preludio, Fuga e Fuga figurata), l'estrapolazione di melodie interne altrimenti non intelligibili (come nell'ultimo dei Drei Albumblätter), la citazione tanto esplicita quanto «in maschera» (Fantasia nach Bach), la deformazione e lo «straniamento» per mezzo di alterazioni della linea melodica o per immissione di elementi armonicamente eterogenei (Terza Elegia). Di qui una scrittura talvolta spigolosa, scabra, asciutta e un generale senso di modernità che infatti venne stigmatizzato da un critico proprio a riguardo della Fantasia nach Bach: «nel lavoro c'è un carattere moderno e non bachiano» (Busoni laconicamente osservava «ogni Bue se ne accorge»!).
Si potrebbe obiettare che i brani citati appartengano a tutti gli effetti alla produzione di Busoni, nella quale Bach entra come elemento germinativo di opere originali. L'autore infatti nel pubblicarle le inserisce fra le sue composizioni o Nachdichtungen, cioè libere ricreazioni. Anche rimanendo strettamente nel genere della «trascrizione» si dovrà tuttavia osservare innanzitutto come le Übertragungen (vere trascrizioni da un originale per organo o violino) cedano il passo alle Bearbeitungen (piuttosto riedizioni di opere scritte da Bach per il cembalo, strumento che Busoni sentiva come assolutamente contiguo al pianoforte). Inoltre l'uso di tecniche compositive più complesse che non quello della semplice riscrittura per lo strumento moderno viene introdotto anche nei pezzi catalogati come semplici arrangiamenti: vediamo dunque l'accostamento di opere di origine diversa (nella Fantasia, Fuga, Andante e Scherzo), il completamento (dell'incompiuta Fuga BWV 906 inglobata nella Fantasia, Adagio e Fuga), la presenza di brevi interpolazioni (ancora nella Fantasia, Fuga, Andante e Scherzo) e addirittura lo smontaggio e rimontaccio in altra successione (come nel Preludio, Fuga e Allegro).
Tutte queste nuove tecniche, tanto quelle usate in questi ultimi brani quanto quelle citate in precedenza a proposito dei pezzi originali, sono presenti, non a caso, in quella Fantasia nach Bach che a parere di chi scrive rappresenta, accanto alla Fantasia Contrappuntistica anche se in scala diversa, il punto emotivamente più alto dell'intera produzione pianistica busoniana. Dedicata alla memoria del padre e scritta di getto (se Busoni può definirla «uno dei miei pezzi migliori» già in una lettera a Petri del 26 giugno 1909, a sole cinque settimane dall'evento luttuoso) l'opera nasconde sotto le sembianze appunto della Freie Fantasie una innovativa e rigorosa forma palindromica (realmente percettibile è soltanto la somiglianza delle due parti estreme) che ha nel suo centro un climax tanto lentamente costruito quanto subitamente negato. E' questa forse una delle ragioni per cui il brano è difficile al primo ascolto e svela solo un po' alla volta la sua ruvida e altissima poesia, tanto meglio compresa alla luce del difficile rapporto di Busoni col genitore. Questi infatti, clarinettista di talento ma musicista superficiale, fu marito e padre di presenza incostante e capricciosa, anche se Ferruccio gli riconobbe tra tanti difetti almeno un merito: proprio quello di aver insistito sull'importanza di Bach nell'educazione musicale del figlio.
Il visionario inizio dal tono sommesso ed estremamente scuro, le diverse cellule cromatiche che costituiscono altrettante cifre del dolore e dell'affanno, le «campane» finali, sulle note delle quali l'autore appone le parole «PAX EI!» e la desueta didascalia esecutiva di «riconciliato» e che sembrerebbero un gesto conclusivo di grande pace interiore, poi subito contraddetto dai tre accordi di fa minore che chiudono il brano con una delle più terrificanti rappresentazioni in musica del rantolo di un morente: tutto, in quest'opera, porta il segno di un dolore tale da non poter essere sciolto neanche nella sublimazione artistica e nella completa, abbandonata confessione alla pagina musicale.
Sembra quasi impossibile che solo un mese separi la composizione di questa Fantasia da quella del gioiosissimo Preludio, Fuga e Fuga figurata (poi inserito nella succitata raccolta «An die Jugend») in cui al già virtuosistico originale bachiano che costituisce i quasi due terzi del pastiche (il Preludio e Fuga in re maggiore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato) succede come parte finale addirittura la sovrapposizione della fuga al preludio! E' uno «studio» dove il carattere «spiritoso» (entrambe le definizioni sono di Busoni) si intreccia, contrappuntisticamente e pianisticamente, al «diabolico». Il gusto per le possibili sovrapposizioni è presente peraltro in molte delle riflessioni teoriche e durante l'intero arco creativo busoniano, a partire dai lavori giovanili e della prima maturità, come la Fantasia in modo antico, il cui modello per la fuga centrale è tematicamente Mendelssohn (vera e propria citazione è l'allusione al Preludio op 104 n. 2 ) ma dal punto di vista formale di nuovo Bach, la cui Fantasia e Fuga BWV 904 è il riferimento dello stile arcaizzante dell'inizio ma soprattutto della doppia fuga centrale, il cui secondo tema cromatico sembra ricalcato su quello del pezzo per cembalo. La consapevolezza di tante innovazioni, apparentemente poco visibili nella lettura del segno, diventa imprescindibile nella lettura del «senso», nella resa esecutiva e persino nell'ascolto delle trascrizioni qui presentate: sia della semplice Fantasia, Fuga, Andante e Scherzo, sia nei due grandi trittici del Preludio, Fuga e Allegro e della Fantasia, Adagio e Fuga.
Per chiarire la natura dei due trittici sembra opportuno cedere la parola a Busoni, che ad introduzione di quest'ultima composizione scrisse : "I pezzi qui da noi riuniti in un gruppo sono, nella forma originale, indipendenti l'uno dall'altro e possono rimanere separati; ma avendo la Fuga bisogno di un'introduzione, a questo scopo si presta la Fantasia quasi come se vi fosse predestinata". A testimonianza della grandezza del Busoni teorico e musicologo basterebbe questa intuizione straordinaria considerato che, fatto a lui sconosciuto, i due brani sono davvero stati scritti da Bach per essere eseguiti in successione. «L'Adagio poi che abbiamo collocato tra i due pezzi si trova in una sonata scritta dal Bach per violino solo; lo stesso maestro l'ha trascritto per il pianoforte in un modo talmente perfetto che bastarono pochissimi ed insignificanti tratti di penna per adattare la riduzione al moderno pianoforte a coda. [ .. ] La bella copia della Fuga non fu mai terminata, il manoscritto originale non si è trovato, però si assicura che esso conteneva la Fuga tutt'intera». Il manoscritto originale è stato in seguito ritrovato, ma la fuga è realmente incompiuta anche se taluni erroneamente ritengono che si tratti di un caso, rarissimo in Bach, di fuga con il da capo e che pertanto non di incompletezza ma di abbreviazione di scrittura si tratti. «Noi abbiamo provato con tutte le nostre forze di completarla secondo le indicazioni facilmente riconoscibili che ci sono date dalla costrnione del frammento». Incredibile è infatti la mancanza di soluzione di continuità tra frammento e completamento, anzi busoniana sembra già l'esposizione del soggetto: se il debito di ciascun compositore successivo e più di tutti di Busoni nei confronti del Thomaskantor è immenso, abbiamo qui forse iperbolicamente un caso di quel bel paradosso di Borges secondo il quale i geni creano i propri predecessori: il che trasmette il desiderio di suonare queste prime pagine uscite dalla penna di Bach immaginando non il cembalo ma la più visionaria delle sonorità pianistiche busoniane.
Per chiarire il senso del suo intervento sul Preludio, Fuga e Allegro, che è invece il titolo originale di un'opera di Bach concepita probabilmente per liuto ma eseguibile anche per cembalo e per quel cembalo-liuto che Bach prediligeva come «il più soave fra gli strumenti a tastiera», Busoni in nota scrive: «L'esatta ripetizione dell'intera prima parte della Fuga allaf ine della medesima non soddisfa, dal punto di vista artistico, l'autore della presente edizione. Quindi egli si permette la licenza d'attaccare l'Allegro immediatamente alla fine della parte seconda, più animata, della Fuga e di fare poi seguire, dopo l'Allegro, il resto della fuga; così la composizione nel suo insieme apparirà più perfetta come forma, ed il sentimento che la ispira sarà reso con maggiore fedeltà e unità».
«Omaggi postumi», come vengono definiti da Sergio Sablich, i Drei Albumblätter pubblicati nel 1921 raccolgono in un unico fascicolo tre composizioni di periodi e stili diversi, la terza della quali presenta ampie citazioni bachiane tanto nel testo quanto nel titolo («Nello stile di un Preludio-Corale»).
In realtà, elemento finora apparentemente trascurato dagli esegeti, è l'intera raccolta ad essere di fatto posta sotto il segno di Bach, con la più sottile allusione del secondo brano (una atonale fughetta) e soprattutto il quasi esoterico ma sicuro richiamo al corale Jesu, meine Freude che costituisce l'ossatura dell'elegiaco tema del primo dei tre pezzi. Proprio il fil rouge bachiano potrebbe essere tra le ragioni della ripresa di un pezzo di tanto precedente (l'originale, per flauto e pianoforte, era già stato scritto nel 1916) accanto ai due fogli d'album del 1921. In ogni caso, pur avendo del brano d'occasione tanto il titolo quanto la durata, si tratta di composizioni di notevole valore, in mirabile equilibrio fra slancio e malinconia, pervase dal tono profetico tipico della produzione (ma anche della corrispondenza) dell'ultimo Busoni. In una lettera a Petri infatti, a proposito del pezzo che apre la raccolta, il compositore dice dapprima: «Ho trascrittoper pianoforte solo il piccolo foglio d'album, quello che ti piaceva». E subito di seguito aggiunge: «Mi aspetto ancora qualcosa dalla vita e dall'arte, ma bisogna avere coraggio, non chinare mai la testa».
di Andrea Padova ("Orfeo", numero 90. aprile 2005)

giovedì, settembre 21, 2006

Alan Curtis: pioniere ed esteta

Alan Stanley Curtis nasce il 17 novembre 1934 a Mason, nel Michigan. Studia prima alla Michigan State University (nella cui biblioteca scopre l'edizione di Chrysander delle opere complete di Händel) e in seguito con Gustav Leonhardt (1957-59) ad Amsterdam. Il dottorato lo prende all'Università dell'Illinois, dopo di che egli entra a far parte del corpo docente a Berkeley, in California. Per un certo periodo si divide tra Europa ed America, poi sceglie l'Italia, dove vive in una bella casa alle porte di Firenze. Musicologo, clavicembalista e direttore d'orchestra Curtis ha scritto pagine significative nella storia dell'interpretazione. E' stato uno dei primi ad occuparsi seriamente della problematica dei tempi nella musica per tastiera di Couperin; il primo a dirigere l'Incoronazione di Poppea tentando un'autentica "ricostruzione" dell'orchestra seicentesca. Altrettanto pionieristica è stata la sua volontà di restituirci, insieme al suo Complesso Barocco, un repertorio teatrale pressoché sconosciuto: titoli come La Schiava liberata di Jommelli, l'Erismena di Cavalli, La Susanna di Stradella, La Liberazione di Ruggero dall'isola di Alcina di Caccini, Giustino e, ora, Montezuma di Vivaldi. Infine c'è stato un interesse costante per le opere di Händel. Un interesse che ha motivato sia il direttore (che dall'inizio della carriera è stato molto attivo anche in sala d'incisione) sia lo studioso: è riuscito a comporre le parti mancanti di alcune opere con una tale adesione stilistica che persino gli specialisti faticano a distinguere la sua mano da quella del compositore. La casa di Curtis è scrigno di raccolte d'arte: dimora di un uomo affascinato dal bello. Nella vita privata come nella professione è il Settecento il periodo che ama, e gli piace contornarsi di oggetti di quell'epoca. Qualche volta potrebbe sembrare distratto, ma in realtà è attentissimo a tutto quello che gli accade intorno, e si applica al lavoro con dedizione maniacale, pretendendo molto dai suoi co-interpreti.

Chi è Alan Curtis?
Sono un musicista americano, ammiratore di tanti aspetti della vita italiana. Spero di finire i miei giorni in questo paese.
Viene da una famiglia musicale?
No.
Come ha scoperto, da ragazzo, la passione per la musica?
Con grande difficoltà!
Perché?
Perché vivevo in un luogo dove la cultura musicale era... un po' come in Italia ora: altre cose erano più importanti della musica! Mia madre era contenta che amassi la musica, anche se non se ne intendeva molto; mio padre, invece, si preoccupava delle mie possibilità far carriera.
Ha studiato musica a Mason, la sua città natale?
Sì, però non offriva molte opportunità. Non molto distante tuttavia c'era l'università di Michigan State: lì insegnavano persone del calibro di Hans Nathan, un musicista ebreo che era fuggito dalla Germania nazista ed era finito in quel postaccio! Si era creata lì un'oasi di cultura in mezzo al deserto.
Parla di «postaccio» e «deserto»: sembrerebbe che sia stato molto contento di poter scappare da quei luoghi.
Si! Quando ci sono tornato per i funerali di mio padre, ho notato che la campagna era molto bella: più bella di quanto ricordassi. Però sempre deserto culturale è!
Non sarebbe più stimolante per un direttore specializzato nel repertorio barocco vivere in un paese dove questa musica è ancora più apprezzata, come la Francia o la Germania?
Si, però mi piace di più stare in Italia e contribuire alla promozione della musica barocca in questo paese. Secondo me, il pubblico c'è, anche se in questo momento, rispetto almeno ad altri paesi, la musica del Sei-Settecento non è così vistosamente di moda. Voglio però continuare a combattere, facendo delle cose buone che possano stimolare e eventualmente cambiare la moda.
Come spiega il grande interesse negli ultimi decenni per le opere di Händel?
Le sue opere comunicano qualcosa al pubblico di oggi che non riuscivano a comunicare trent'anni fa. E' cambiata la mentalità del pubblico. Un ruolo maschile cantato da una donna non dà più fastidio, e si riesce ad apprezzare di più la drammaturgia un po' nascosta delle opere di Händel. Una drammaturgia che sta dentro la musica e che psicologicamente è assai sottile. Per dare un esempio: una volta veniva criticata quell'aria di Alceste in Admeto nella quale la donna esprime speranza, piuttosto che lamentarsi, quando scopre che Admeto è infedele. Oggi, invece, si apprezza meglio la psicologia di una moglie che, comunque gelosa a causa di una rivale, reagisce grintosamente nel tentativo di riconquistare il marito. Prima si pensava insomma che Händel avesse soltanto scritto della bella musica senza badare alle parole. Un errore di percezione che impediva di capire bene anche la musica. Adesso stiamo gradualmente imparando ad apprezzare la sua straordinaria capacità di interiorizzare nella musica le emozioni molto forti che alimentano i suoi drammi, e di sviluppare un complesso intreccio emotivo che, alla fine, a volte viene risolto, a volte no. E' una cosa che pochi compositori sanno fare. Il pubblico oggi non è più condizionato da una forte esigenza di realismo: accetta benissimo il fatto che un personaggio che dichiara di essere in partenza per la guerra si lanci poi in una lunga aria tripartita. Oggi siamo assolutamente coscienti che ciò che è importante in un'opera non sia il realismo ma la verità delle emozioni. E in Händel questa verità c'è quasi sempre. La percezione di questa verità dipende però anche moltissimo dagli interpreti. Oggi ci sono cantanti in grado di convincere il pubblico più di vent'anni fa.
Il revival della musica barocca è dovuto anche alla ricerca filologica?
No, penso semmai che avvenga il contrario. Quando c'è l'interesse di sentire un'opera, allora è facile trovare qualcuno che sia stimolato a fame un'edizione critica. L'esistenza di un'edizione ben realizzata di una partitura non stimola necessariamente l'esecuzione di quell'opera. Tante sono le opere in biblioteca, anche in edizioni meravigliose, che non vengono mai sfogliate da nessuno! Per me, del resto, la filologia non deve essere una meta in sé. E' interessante sapere quale musica Händel usasse in una determinata opera nel 1724, e quale in una ripresa del 1726. Alla fine però dobbiamo decidere noi quale versione sia la migliore per il pubblico moderno. Un'edizione critica può aiutarci in questo, ma non risolvere i problemi. Ci vuole un po' di tutto: filologia, storia, musica pratica. L'ideale sarebbe una stretta collaborazione tra musicologi e interpreti, ma ciò avviene raramente, purtroppo.
Roberto De Simone ha affermato che non è possibile fare un'interpretazione «filologica» delle opere barocche perché non sono più disponibili le voci dei castrati...
Conosco bene De Simone; so che anche lui come me ama la musica del Settecento. Sono d'accordo che non sia possibile riproporre qualcosa esattamente come fu in origine. Nella vita però non c'è soltanto il bianco e il nero: anche le zone grigie possono essere interessanti! Dal mio punto di vista è molto importante capire perché nel Settecento scrissero esattamente in quella maniera per i castrati. Noi naturalmente non disponiamo di castrati ma abbiamo bravi cantanti capaci di restituirci questa musica in modo interessante.
Nei decenni scorsi impiegava tanti controtenori nelle Sue esecuzioni. Ha usato persino quattro nella stessa opera...
Si, nell'Erismena di Cavalli: un'opera che ho fatto un po' dappertutto. Il debutto credo che fosse in Olanda con quattro controtenori molto diversi: c'era René Jacobs ma anche John Ferrante, che fece la sua audizione con una rosa in bocca cantando l'Habanera di Carmen! L'hanno preso proprio per il suo senso dell'umorismo. Erismena è piaciuta al pubblico proprio perché era un'opera buffa: o più precisamente una tragi-commedia, molto più commedia che tragedia. Per me era molto interessante finalmente poter mettere in scena un'opera barocca con tutti i diversi ruoli senza dover fare delle trasposizioni per nessuno. Ma adesso, se ci fosse la possibilità di rifare un'opera simile, probabilmente la farei con delle interpreti femminili. Non sono contrario all'idea di usare controtenori. Si presentano in tanti a fare delle audizioni con me, e non tanto tempo fa, nel Giulio Cesare che ho diretto a Monte Carlo, ho usato addirittura tre controtenori! Quasi come in Erismena.
In che cosa consiste la sua «reconstructed performing edition» di Rodrigo?
Il motivo perché nessuno aveva affrontato quella partitura prima di me è che fu pubblicata incompleta, senza inizio e senza fine. Dopo averla letta, però, mi sono molto incuriosito; in seguito ho parlato con lo studioso händeliano Winton Dean che mi ha detto di aver ritrovato il coro finale. Poi, in un'opera tarda di Händel, è stata trovata un'aria che molto probabilmente deriva dal Rodrigo. Così, a poco a poco, cominciavano a ricomparire i pezzi mancanti. Ciò che sembra perso per sempre è l'inizio dell'opera. Allora ho deciso di riscriverlo io seguendo lo stile che Händel adoperava in quegli anni.
Ho anche ricostruito pezzi mancanti per opere di Cavalli e di Monteverdi: nella mia edizione del Ritorno di Ulisse c'è un ballo e dei ritornelli mancanti... E' interessante comporre in stile ma si tratta di un esercizio di utilità limitata se si considera quanta musica bella aspetta di essere riscoperta. Per me ha una sola funzione, la stessa che adotta un restauratore di mobili o quadri: ricostruire qualche cosa di mancante per far vedere quanto sia bello l'originale.
Le parole c'erano già?
Sì, certo! Non avrei mai tentato di ricostruire le parole... Però c'è chi fa anche questo: ho un amico che scrive sonetti nello stile del Cinquencento.
Chi ama Verdi e Puccini pensa talvolta che nella musica barocca non ci siano vere emozioni.
Io al contrario non direi mai che Puccini e Verdi siano privi di emozioni... Recentemente però ho sofferto parecchio quando ho accompagnato un'amica a vedere una rappresentazione di Butterfly. Devo dire che l'ho trovata molto noiosa, e con poca varietà emotiva! Le emozioni in un'opera di Händel sono molto più sottili e raffinate e anche più musicali, direi: c'è dietro ogni nota qualcosa di sorprendente, mentre in Puccini ho trovato poco di nascosto!
Verdi è un altro paio di maniche, ma anche lui ha i suoi momenti noiosi. Mentre persino quelle opere di Händel che erano considerate noiose o almeno non di grande qualità oggi vengono rivalutate. Delle quarantadue opere che ha scritte, pochissime sono noiose. Forse solo tre o quattro. E anche quelle hanno almeno qualche aria che meriti di essere salvata! Ma ci sono almeno trenta opere di Händel che sono di livello altissimo, direi.
Quale sono le opere che considera noiose?
Silla è una delle peggiori, e anche una delle più corte. Pure l'atto che Händel scrisse per Muzio Scevola ha due o tre arie belle, per il resto non è gran che. Comunque preferisco lodare le opere meravigliose che egli compose, piuttosto che parlare delle meno riuscite.
Una delle sue ultime incisioni è quella del Floridante.
E' un'opera che conosco già da molti anni ed è tuttora molto negletta. Non l'ho mai vista in scena. L'avevo portata in tournée nell'America del Nord con il complesso Tafel Musik e dei bravi solisti, circa quindici anni fa. Ebbe grande successo, ma è sempre stata fatta in forma di concerto oppure semi-scenica, mai in teatro con i costumi. Da tempo avevo in animo di ritornare su quest'opera, perché non ero soddisfatto della registrazione parziale già effettuata. Cercavo anche dei ruoli ideali per Joyce DiDonato e per Marijana Mijanovic: due cantanti bravissime che volevo unire in un'opera di Händel, e questa mi sembrava l'ideale...
Com'è l'esperienza di lavorare con Joyce DiDonato?
Oh, molto bello! Una persona squisita. E molto facile dal punto di vista delle relazioni umane, ma musicalmente assai esigente... e ha ragione di esserlo!
Farà altri dischi con il soprano Simone Kermes, che è stata una Sua stretta collaboratrice?
Non lavoriamo più insieme!
Posso chiedere perché?
Sembra che lei non voglia... forse lei direbbe la stessa cosa di me, ma è così!
Quale fu l'atteggiamento di Händel nei confronti dei libretti? C'è una sorta di distacco culturale dovuto al fatto che i libretti erano scritti in italiano mentre Händel lavorava in Inghilterra?
No. La mia impressione è che l'italiano fosse per Händel una seconda lingua, mentre l'inglese era la terza, il francese la quarta, lo spagnolo la quinta! Egli scrisse in tutte queste lingue, ma bisogna ricordare che la cultura nella quale un artista cresce tra i diciotto e i ventidue anni tende a risultare particolarmente formativa. Credo che questo sia vero per tutti. E Händel trascorse quegli anni per la maggior parte in Italia! Scelse di andare in Italia perché amava molto la musica italiana... E lì comprese che quello era il suo genere e che il suo talento naturale di compositore drammatico aveva bisogno di svilupparsi in Italia.
Si possono e si devono tagliare le opere di Händel? Meglio tagliare un intero brano oppure i da capo?
Mah... dipende. Io non sono contrario a nessuna forma di taglio, tranne i tagli fatti male! Non sono d'accordo che per principio il da capo non si tagli mai oppure che il recitativo non si tagli mai. Si taglia quando si deve per forza accorciare. Però, si deve essere molto attenti anche nel recitativo a non interrompere l'armonia, la progressione melodica: non bisogna accorgersi, quando si ascolta, del punto di sutura. Si devono eliminare queste cesure, anche se ciò significhi trasporre, oppure modificare il ritmo o la linea. In un'aria naturalmente non si fanno cambiamenti del genere: o si taglia una ripetizione o si taglia la parte B e il da capo. Io sono contrario ad una pratica diffusa: quella di trasformare un'aria di Händel in un'aria di Bach! Perché Bach spesso scriveva la parte B e il ritornello senza voce: il da capo è solo per gli strumenti. Invece Händel e tutti gli altri compositori teatrali fanno il contrario, semmai: se tagliano, tagliano la parte strumentale nel dacapo, ma non la parte vocale!
Nelle opere serie di Händel c'è una componente ironica?
A volte sì! In Deidamia, molte scene sono piene di ironia... quasi buffe! E' un'idea di oggi quella di separare l'opera seria da l'opera buffa; non devono essere per forza due cose distinte. L'esempio classico è Don Giovanni: è un dramma giocoso dove ci sono scene buffe come il «catalogo» di Leporello e poi ci sono quelle tragiche come la morte di Don Giovanni. Ma rimane nella tradizione di questo genere misto. Ci sono alcune opere serie di Händel che non hanno scene esplicitamente buffe ma contengono sempre una vena di ironia: qualche esagerazione che fa quasi ridere senza però diventare una parodia. E' come la vita stessa: la prendiamo sul serio, ma vediamo delle cose buffe anche nelle situazioni tragiche!
Che cosa pensa delle messe in scena che trasformano l'azione in parodia?
E troppo facile al giorno d'oggi prendersi gioco di una cosa antica. Mi sembra molto noioso, per esempio, pensare che sia un'idea nuova quella di prendere in giro l'aristocrazia. Semmai, ora che sono passati più di due secoli dalla Rivoluzione Francese, possiamo tranquillamente rivalutare il concetto di nobiltà. Personalmente ammiro molto quei personaggi nelle opere serie di Händel che hanno un senso di onore o di dovere portato all'esagerazione. Non sono da prendere in giro.
Un discorso simile vale per Monteverdi. Se Nerone viene presentato come un uomo d'affari e Poppea come una prostituta costosa ma molto volgare, l'opera - e perfino la musica stessa - diventa molto banale. In realtà è impossibile distruggere la musica di Monteverdi, ma perché i registi di oggi insistono nel tentativo di ridurre tutto al livello banale della televisione? Perché non continuano a guardare la televisione, e lascino a noi il teatro?
In che modo lavora con i cantanti sugli abbellimenti e sulle variazioni?
A volte lascio fare ai cantanti e poi dico «Questo sì, questo no! ». L'ideale però è sempre collaborare dall'inizio: aiutare loro nello stile e anche negli abbellimenti. Non ci si può aspettare necessariamente che un interprete vocale conosca lo stile appropriato per ogni epoca. Se nel Settecento i cantanti sapevano variare bene, era perché quello stile era l'unico che conoscevano...
Le piace avere l'ultima parola su simili questioni?
Si, debbo confessare che mi piace! Ma mi prendo anche la responsabilità. E per questo che ho studiato per tutta la vita e che continuo a studiare... Il prossimo anno, per esempio, mi prenderò qualche mese per ristudiare tutte le fonti sul «recitativo», perché trovo che i recitativi siano molto importanti. E in un'opera come quella che abbiamo appena finito di registrare [Motezuma, n.d.r.], ho visto quanto è difficile farli vivere. Ho dovuto per esempio insistere molto con Vito Priante per ottenere un determinato effetto, quasi facendolo arrabbiare! Quando infatti pensava già di aver fatto del suo meglio, l'ho spinto a tentare qualcosa di più azzardato, e sono riuscito ad ottenere quello che volevo... è stato infine bravissimo!
Lei è stato il primo direttore a reintrodurre nell'orchestra uno strumento che era caduto in disuso: l'arciliuto, la cui presenza è oggi considerata normale.
Feci ricostruire il primo arciliuto in America da un liutaio molto bravo per un allestimento dell'Incoronazione di Poppea che realizzammo negli anni sessanta in California. Da allora sono rimasto innamorato di questo strumento. Mi sembrava illogico che improvvisamente nel Seicento questo strumento fosse caduto in disuso, soprattutto nell'accompagnamento dei recitativi. E, infatti, Winton Dean ha ritrovato una lettera di un francese che aveva sentito un'opera händeliana a Londra (non ricordo esattamente quale, probabilmente l'Admeto). Nella lettera riferisce che c'erano ben due arciliuti: cioè un chitarrone ed un arciliuto. Dopo si sono scoperti anche altri documenti che testimoniano la presenza di questo strumento nelle orchestre delle sue opere. Oggi si sa, infatti, che la rappresentazione dell'ultima opera di Händel fu probabilmente l'ultima occasione in cui si suonasse l'arciliuto in teatro a Londra nel Settecento.
Come è nato il Suo ensemble il Complesso Barocco?
In Italia cominciai a lavorare con un gruppo di madrigalisti, strumentisti e cantanti che si chiamavano I Febi Armonici: così si chiamava infatti un gruppo itinerante di musici del Seicento. Ma successivamente un altro ensemble ha utilizzato questo stesso nome e io, invece di fargli causa, ho scelto un nome al quale avevo già pensato quando ero in Olanda: il Complesso Barocco. Mi sembra che questo nome, essendo talmente comune, non possa essere rubato! Per Complesso Barocco intendo qualsiasi gruppo per la musica del Sei/Settecento che diriga io. In questo complesso gli orchestrali naturalmente vanno e vengono. Tanti iniziano con me, poi si dedicano ad un altro repertorio. In Italia c'è sempre un po' il rischio di cadere in una certa routine, e cosi, invece di concentrarsi sulla musica, si perde del tempo discutendo di cose stupide! Per evitare questa tendenza è meglio avere un certo ricambio. Tuttavia certi solisti mi piacciono così tanto che vorrei sempre collaborare con loro. Per fare Monteverdi naturalmente è sufficiente un piccolo complesso, ed è meglio che non siano gli stessi utilizzati per un'opera di Händel.
Parliamo di Motezuma. Messa ad acta tutta la questione su a chi appartenessero i diritti sulla partitura...
Che non è ancora risolta! Vedremo...
Adesso esce la prima incisione: quella di Alan Curtis. Qual'è l'importanza dell'opera?
E' molto importante, secondo me. Non conosco un altro Vivaldi di questa qualità o di questo interesse drammatico. Recentemente ho diretto a Genova Orlando, che musicalmente si può paragonare a Motezuma, anche se ci sono molti numeri deboli nel terzo atto: li ho tagliati. Ma drammaticamente non c'è paragone! Inoltre, c'è un aspetto di particolare attualità: Motezuma è l'unica opera di quell'epoca nella quale si racconta la conversione al cristianesimo di un popolo indigeno da un punto di vista che non segue pedissequamente i dettami del Cattolicesimo. Il librettista Girolamo Giusti si dichiara «Cattolico» nella prefazione e definisce Fernando Cortez come «valorosissimo». Ma nel corso dell'opera lo stesso Cortez viene presentato in una luce ben diversa. La prima reazione di Asprano, Generale dei Messicani, quando lo incontra è: «Che orgoglio!». E Mitrena, moglie di Motezuma, descrive gli eccidi compiuti da Cortez; gli inganni per appropriarsi dell'oro. Insomma, ci sono molte similitudini tra l'invasione del Messico e la recente invasione dell'Iraq. Per me, è molto commovente questa visione di un poeta del Settecento che dice qualcosa di molto ardito per l'epoca, criticando in modo obiettivo l'idea allora diffusa che ogni mezzo è giustificato purché si riesca a convertire un popolo al cattolicesimo. Il che è molto simile all'idea di convertire l'Iraq alla democrazia: non importa se si devasta il paese, l'importante è imporre la cosiddetta «democrazia»! Ma in realtà si capisce che altrettanto importante è il petrolio, così come all'epoca di Cortez la vera motivazione era l'oro.
Non ebbe problemi di censura un'opera così poco allineata?
Non ci sono state riprese al di fuori di Venezia: città nella quale tutto o quasi era permesso... non c'era una forte censura. Non a caso, la città era stata bandita dal Papa all'inizio del Seicento! A Galileo era stato proposto l'asilo a Venezia, ma stupidamente egli scelse Roma dove fu quasi ucciso... dal Papa.
Il cast che ha scelto per l'incisione è ottimo. C'è il rimpianto di non essere riuscito ad avere Cecilia Bartoli?
Ho parlato con il suo agente, il quale mi ha detto che era interessata. Ma poi alla fine ha deciso che non aveva tempo... e in fine dei conti è stata una cosa molto fortunata per noi perché, se la Bartoli avesse inserito Motezuma nella sua agenda, l'incisione sarebbe avvenuta tra due anni, e nel frattempo l'opera sarebbe stata incisa due o tre volte da altri! Pare invece che saremo i primi. E devo dire che l'abbiamo realizzato nel migliore dei modi.
Quali sono i Suoi prossimi progetti discografici?
Ogni anno per cinque anni dovrei incidere sia un'opera di Händel sia qualcos'altro. Per quanto riguarda il repertorio non-händeliano, vorrei concentrarmi su opere inedite: sto pensando in particolare a Vivaldi e a Caldara. Il repertorio händeliano invece è quasi tutto già pubblicato in disco: rimane, infatti, soltanto Giove in Argo, che è un pastiche e che come tutti gli altri pasticci - tranne Oreste, che è stato fatto a Spoleto due anni fa - non è ancora stato pubblicato. Ma Giove in Argo è un pasticcio che contiene cinque o sei arie nuove, cioè sconosciute, oltre ai cori e ai recitativi... e questo sarebbe un bel progetto. Forse è l'ultima composizione importante di Händel che non sia stata ancora registrata.
In tutta la musica che conosce, c'è una melodia che ama più delle altre?
Difficile dirlo. Un'aria che amo molto è «Ombre pallide» in Alcina, e non solo per la melodia!
Va ad ascoltare la... «concorrenza»?
Si, certo! Non per spiarli, ma per essere aperto ad altre interpretazioni e, soprattutto, per scoprire pregi e difetti dei cantanti ai quali sono interessato.
Chi ammira tra i Suoi colleghi «barocchisti»?
Bill Christie, soprattutto per la musica francese. Anche Minkowski, e non solo per la musica francese. E poi, ci sono anche tanti altri che piacciono per la loro particolarità: René Jacobs, che conosco da moltissimi anni. Diressi il suo debutto in scena (nell'Erismena di Cavalli ad Amsterdam). L'ho ascoltato dirigere a Berlino L'opera seria di Gassmann con libretto di Calzabigi, che in realtà è un opera buffa, una parodia di un'opera seria. Divertentissima!
Un'opera o un compositore che non dirigerebbe mai?
Wagner!
Perché?
Lo odio ...
Che cosa pensa della critica musicale?
Fare recensioni deve essere un'arte. Quando Andrew Porter era il critico musicale del «New Yorker» mi sono abbonato a quella rivista soltanto per leggere i suoi articoli! Ogni settimana c'era una recensione di una o più recite o concerti nella quale egli dava informazioni incredibili che non si trovavano in nessuna enciclopedia. Non scriveva subito, la notte stessa, come spesso si fa. La recensione era il frutto di giorni di studio e normalmente usciva una settimana dopo la recita o il concerto. Questa è una vera arte: non sorprende poi che le sue recensioni siano state raccolte in vari volumi.
di Franco Soda ("Musica", n.74, marzo 2006)