Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 27, 2007

Il Secolo d'Oro nel Nuovo Mondo

Durante il periodo coloniale, una ricca tradizione musicale religiosa fiorì in America Latina. Attraverso il continente si moltiplicarono le cappelle musicali di Cattedrali e Missioni, in cui maestri spagnoli e indigeni composero centinaia di messe, mottetti e villancicos.
A un primo sguardo questo è il risultato di un'esportazione delle istituzioni musicali spagnole che, sviluppatesi nel corso di tre secoli, abbracciarono stili, epoche e modi differenti e produssero alcune opere «meticce» e originali. I brani scelti per questa registrazione illustrano uno degli aspetti più affascinanti di questa musica: chanzonetas, villancicos e romances gioiose e leggere di soggetto sacro.
Il fatto che canzoni dai ritmi agili e dal carattere così lontano dalla solennità religiosa abbiano fatto parte del servizio musicale delle chiese ispano-americane sembra oggi sorprendente. Tuttavia all'epoca sacro e profano erano indissolubilmente mescolati. Al più severo rituale cattolico seguiva la festa e la danza, si cantava in latino ma anche in spagnolo e in lingua aborigena, severe polifonie e magniloquenti opere policorali erano accostate a villancicos, romances e a danze di carattere popolare.
Non si tratta quindi di "folklore" nel senso corrente del termine: le chanzonetas erano importate dalla Spagna o scritte da maestri di cappella emigrati o da "criollos" protoispanici. In questa registrazione si trovano compositori che non hanno mai calcato il suolo americano: Gerónimo Gonzales, Juan Hildago e Diego de Salazar, accanto a immigrati come Gaspar Fernandes e Juan Gutiérrez de Padilla (Puebla), Fabián Ximeno (Messico), Tomás de Torrejón y Vellazco (Lima), Juan de Araujo (Sucre) o "criollos" come Juan García (Puebla).
Il linguaggio musicale e poetico utilizzato, in massima parte spagnolo e popolare, è rivestito di una necessità di proselitismo evidente: attirare gente al culto, in particolare al rito del mattutino o ad ore avanzate della notte. In Spagna per una dispensa papale speciale, gli otto grandi responsori del mattino delle festività principali erano sostituiti da villancicos e romances. L'importanza che veniva attribuita a queste canzoni era tale che una delle clausole di contratto tipiche fatte ai maestri di cappella stipulava la composizione di nuove villancicos ogni anno.
D'altra parte non va ignorato che il carattere pittoresco di questi brani è il riflesso di una volontà di artifizio, di ornamento, piuttosto che di un interesse profondo per la vita popolare. Per questo motivo si introducono questi elementi nelle composizioni, invece di rifarsi a una tradizione musicale più consueta. Il compositore doveva comunque dimostrare il suo ingegno nella realizzazione di opere ricche e complesse, come Al dichoso naçer de mi nino, uno dei rari madrigali spagnoli che ci restano del XVII secolo. Ma in ogni caso non bisogna pensare di trovare in queste composizioni, come accade nel madrigale italiano, temi personali. La Natività era divenuta il soggetto più importante di questi brani, dove si sviluppano l'atmosfera di gioia e di diversivo continuo proprio delle feste e dove, al contrario, l'uso di alcuni stereotipi espressivi implicherebbero una vera riduzione della verità di alcuni temi pieni di "sapore".
E' per questo che molte villancicos impiegano elementi propri ad alcuni centri socio-culturali: il dialetto e i ritmi di «Jaques» o di «Matones» (A la xacara, xacarella), dei Portoghesi (Pois con tanta graça) e dei Neri (A solo flasiquigo e Los coflades de la estleya). Altri, legati a una musica descrittiva incidentale, caratterizzano situazioni di una vivezza affettiva particolare. Questi ultimi sono pezzi particolari, come i juguetes, che si riferiscono a corridas (Salga et torillo) o a fuochi d'artificio (Un juguetico de fuego); a danze dal carattere sacro, molto consuete all'epoca in Spagna (Serenissima una noche) o a ninnananne dolci e tenere (Si el amor se quedare dormido, Desvalado dueno mio). Il carattere puntuale di questa tradizione popolare si manifesterà chiaramente nel corso del XVII secolo, quando la musica comincierà a perdere le sue peculiarità più direttamente folkloristiche in favore di un'elaborazione strutturale più importante (Torrejón, Araujo).
Diversamente dalle chanzonetas, la musica che si sviluppa a contatto con le civiltà indigene è la
più antica incisa in questa registrazione. Quest'ultima è frutto del lavoro dei missionari cattolici e va considerata come un capitolo a parte nella storia coloniale. La conversione degli aborigeni allo stesso modo era uno degli argomenti determinanti sostenuti dalla Corona spagnola per legittimare il possesso delle colonie, che si tradusse in una forte espansione delle missioni, principalmente nelle zone lontane o marginali. Una vera e propria catena di doctrinas (popolazioni indigene delle missioni separate dal territorio "bianco") fu così fondata in tutto il continente.
La musica europea costituisce quindi il miglior mezzo di proselitismo dei missionari, poiché per qualche misteriosa ragione gli aborigeni si sentivano particolarmente attratti da essa. Si fondarono, nelle doctrinas, cappelle musicali che coltivavano un repertorio di grande difficoltà, scritto in maggioranza da Spagnoli (i compositori indiani erano rari) sia all'interno che al di fuori delle popolazioni indigene. Da uno di questi repertori, facente parte del Codice Vadés (Messico), provengono i due himmi in Nahuatl (linguaggio azteco) attribuiti, non senza qualche giustificazione, allo spagnolo Hernando Franco. In un altro si trovano i brani strumentali di Avila, Diego Fernandes e Penalosa (San Juan de Ixzcoi, Guateniala) mentre di Gaspar Fernandes ci restano tre brani in dialetto indiano "meticcio", scritti durante il suo soggiorno nella doctrina di Puebla de los Angeles (Messico), due dei quli (Theycantimo e Xicochi) qui incisi. Nello stesso periodo probabilmente vide la luce, nel villaggio di Andahuaylillas, vicino a Cusco (Perù), il celebre himno in quechua Hanacpachap cussicuinin, pubblicato dal curato del villaggio Luan Pérez Bocanegra nel suo Rituel formulario del 1631, probabilmente composto da un indigeno.
In tutte queste composizioni si avverte quindi la presenza dominante del Conquistador, sia nel cattolicesimo dei testi che nella tecnica europea del contrappunto musicale.
Ma la lingua e qualche ritmo o forma melodica sono riusciti a sfuggire alla sorveglianza dei guardiani dell'ispanità e a emergere in queste canzoni, in questo caso più come portavoce d'una sensibilità differente che come caratteri puramente pittoreschi. Un'arte nuova principalmente europea, ma già «mescolata», stava per nascere.

Gabriel Garrido, nato a Buenos Aires, ha studiato flauto diritto e direzione di coro. Approfondendo in Europa i suoi interessi per la musica antica si è diplomato presso la Schola Cantorum di Basilea, sotto la guida di Michel Piguet. Ha fatto parte dei più prestigiosi gruppi di musica antica quali: «Hesperion XX», «Ricercare» e «Glosas», registrando con essi numerose incisioni. Recentemente è stato invitato al Simposium Internazionale di Nizza insieme ai più importanti musicisti specializzati nel campo della musica rinascimentale e barocca. E' Direttore artistico dei corsi internazionali di musica antica di Erice, insegna attualmente flauto diritto e musica di insieme al «Centre de Musique Ancienne» di Ginevra di cui è stato uno dei fondatori.
A questa attività didattica si affiancano inoltre svariati stages riguardanti la «Prassi esecutiva del Cinquecento» da lui tenuti periodicamente, in Francia, Italia ed America Latina.

Symphonia SY 91S05 - (p) 1992 - 1 CD - DDD

domenica, ottobre 21, 2007

Liuwe Tamminga: Mozart organista

Trovare qualcosa di davvero originale, in quest'anno mozartiano è davvero arduo. Sembra che sia riuscito nella non facile impresa di proporre una novità Liuwe Tamminga, nome noto agli appassionati di musica organistica, frequentatore di compositori, soprattutto italiani, talvolta d'alta qualità e di scarsa notorietà. Le sue registrazioni hanno anche riproposto, in modo giudicato magistrale dalla critica, la musica di Girolamo Frescobaldi, Antonio Vivaldi, Marco Antonio Cavazzoni. Tamminga, olandese di nascita, ormai bolognese d'adozione, questa volta s'è fatto tentare da un altro tipo di scelta, e con un'operazione coraggiosa, ha deciso di dedicare un intero disco alla musica organistica di Mozart.

I nostri lettori si chiederanno perché si tratta di un'operazione particolare. Proviamo a spiegarlo?
Perché nell'ampio catalogo delle opere di Mozart non sono numerosi i pezzi per organo. Oggi abbiamo una raccolta di diciassette sonate da chiesa, l'Adagio e l'Allegro KV 594, la Fantasia in fa minore KV 6o8 e l'Andante in fa maggiore KV 616 scritti per organo meccanico. Eppure sappiamo che il compositore suonava questo strumento molto bene e che lo apprezzava molto. Rimangono pochi brani perché, di solito, all'organo improvvisava. Ma diverse testimonianze raccontano che gli piaceva misurarsi con gli organi delle città nelle quali si fermava.

Infatti, il suo disco ha una particolarità legata al viaggio che il giovane Mozart compì in Italia con il padre Leopold. Come le è venuta in mente quest'idea?
Ho voluto proporre questo repertorio su strumenti che il compositore ebbe occasione di suonare. Una lettera di Leopold, datata 7 gennaio 177o, racconta di una visita alla chiesa di San Tommaso a Verona. Venne decisa all'improvviso, ma ben presto si sparse la voce che un giovane prodigioso stava suonando l'organo e la chiesa si riempì fino all'inverosimile. Lo stesso accadde a Bologna all'organo di San Domenico. Purtroppo gran parte di quello che suonava è andato perso.

Quest'idea dà un grande fascino alla registrazione, nella quale lei sembra proporre i brani meno frequentati del repertorio organistico mozartiana. Come se avesse voluto scoprire le pagine più rare per offrirle all'ascoltatore. Questa scelta che difficoltà le ha creato?
Sì, ho pensato di dedicare questo disco proprio a pagine rare, che, in un certo senso, diano idea dell'arte improvvisativa di Mozart. Ecco perché ho scelto fughe, variazioni e adagi. E anche trascrizioni, danze e vari frammenti (diversi dal London Sketchbook). In alcuni casi questi frammenti sono stati completati da compositori del passato, come Simon Sechter, in altri ho pensato di chiedere ad organisti contemporanei di finirli. Hanno dato la loro disponibilità André Isoir e Wim ten Have. Il brano che apre il disco, il Molto allegro KV 720, completato da Isoir, suonato sull'organo Bonatti di San Tommaso a Verona, del 1716, è il frammento che appare nel famoso ritratto che Saverio della Rosa fece a Mozart nel 1770. Mozart è rappresentato nel suo vestito preferito color cremisi, seduto davanti ad un clavicembalo veneziano della fine del sedicesimo secolo, sul cui leggio sta una pagina di musica: questa musica è proprio il Molto Allegro!

Tra le composizioni ce n'è una che, nonostante sia un compito scolastico, e duri poco più di un minuto, è ormai passato alla storia. E' la famosa antifona «Quaerite primum regnum Dei». Anche questa una rarità?
Certamente! Si parla spesso della prova dell'esame che Mozart sostenne per entrare nell'Accademia Filarmonica di Bologna, ma non si sente mai. Il suo compito era comporre un mottetto nello stile contrappuntistico severo su un tema gregoriano. La vicenda è nota: padre Martini intervenne sulle licenze del giovane che, pur geniali, sarebbero potute non essere gradite alla commissione d'esame. Per dare un'idea delle diverse concezioni musicali ho pensato di proporre il mottetto in entrambe le versioni: quella di Mozart e quella con le correzioni di padre Martini. Per restare in questo ambito tra i pezzi che eseguo all'organo di San Petronio diversi sono esercizi di contrappunto, come canoni o pezzi fugati. Tra questi la bellissima entrata dei due soldati nel finale dell'Atto Secondo di Die Zauberflöte, costruita sul corale «Ach Gott vom Himmel sieh' darein» di Bach. Diversi furono scritti durante le lezioni quotidiane che Mozart fece con padre Martini durante il suo soggiorno bolognese.

Questo disco sembra cogliere lo spirito mozartiano, al quale siamo abituati, ma che finora non abbiamo mai associato ad uno strumento severo come l'organo. Sarà quindi una scoperta?
Penso di sì, anche se l'organo può avere molti aspetti. Certo Mozart lo avrà amato per le infinite possibilità che offre, ma anche per gli aspetti curiosi. Ho pensato che gli saranno piaciuti moltissimo i registri più d'effetto dell'organo di Verona, come il Rossignuolo, Speranza, Passeri e Grilli, e sappiamo per certo, da una nota del costruttore d'organi Giuseppe Bonatti, che Mozart usò il registro «tamburo» nella controddanza «Das Donnerwetter» (Il temporale) KV 534.

Lei è organista titolore degli organi di San Petronio, sui quali ha registrato già diversi dischi. Anche in questo caso li usa, ma Mozart non ebbe mai occasione di suonarli. Come mai dunque li propone?
Perché Mozart ebbe senz'altro occasione di sentirli. Era a Bologna quando si festeggiò il patrono della città e in San Petronio ci furono solenni celebrazioni. Sia lui che il padre ricordano la musica molto fragorosa, eseguita da musicisti non di grandissima qualità. In quell'occasione avrà sicuramente sentito gli organi. Alcune composizioni di Mozart sembrano scritte proprio per l'antico Lorenzo da Prato, uno strumento del 1741.

di Chiara Sirk ("Falstaff", 8/2006)

martedì, ottobre 16, 2007

Azio Corghi: Animi motus

Animi motus (1994) per Quartetto d'archi ed Elettronica (durata: 23'). Edizioni Ricordi, Milano.
Prima esecuzione: Milano, Teatro alla Scala, 23.10.1994; Kronos Quartet per i Concerti della Società del Quartetto.


Lo schema formale di Animi motus ne illustra le linee portanti.
Come tutte le rappresentazioni grafiche di un evento, di un fatto o di un progetto, svela in modo anche intuitivo alcuni presupposti. Che si sono via via trasformati nella realtà sonora di Animi motus, il Quartetto d'archi ed elettronica composto da Azio Corghi nel 1994 su commissione della Società dei Quartetto di Milano. Si tratta infatti di un progetto strettamente legato alla realizzazione compositiva.
Balza subito all'occhio la presenza di differenti livelli, orizzontalmente disposti, che scorrono paralleli. Questo simmetrico fluire richiama con immediatezza la natura stessa della comunicazione musicale. Il disporsi, nel tempo, di eventi che la memoria collega spingendosi indietro e avanti oltre il fenomeno percepito al momento. Singoli tasselli che perdono senso se estrapolati dal loro contesto, dalla loro successione, come la psicologia della Gestalt ha nel nostro secolo ulteriormente confermato e spiegato.
E qui, già avvertiti dal titolo e dallo schema, entriamo nel vivo del Quartetto. Ogni singolo strumento utilizza un doppio pentagramma che ne rappresenta il duplice piano espressivo. Sul rigo inferiore è notato il Moto perpetuo, sorta di presenza-eco-riflesso delle prime 46 battute del Moto perpetuo di Paganini. Figurano scritti invece, sul pentagramma superiore, gli eventi che affiorano dal continuum temporale per poi esserne riassorbiti. E' come se gli episodi musicali emergessero dall'ineluttabile misurazione di una clessidra che scandisce il minuto secondo.
Afflatus, dies natalis, pueritia, amores, nell'appassionato confronto-scontro con l'animi motus, sconvolgono l'oggettività del tempo, piegandolo all'elasticità ritmica e agogica della loro natura umana, relativa, sfuggente. Un brano che sfrutta dunque la natura stessa della sua organizzazione percettiva, il tempo, come soggetto-oggetto della rappresentazione musicale. Non c'è nessun tentativo di descrivere il tempo, sia chiaro. Ma di rivelarne in musica la sostanza attraverso il gioco del movimento e della memoria tra le figurazioni musicali, il loro esistere come linea melodica, qualità timbrica, articolazione ritmica e andamento agogico. Gli strumenti, quando realizzano la parte scritta sul pentagramma inferiore, fanno scorrere il tempo, il moto perpetuo. Che sappiamo essere un fatto pur sempre soggettivo, poiché nel mondo fisico la temporalità è concentrata nel presente, ed il fluire rivolto in tutte le direzioni anziché, linearmente, verso il passato e il futuro. E non è un caso che spesso le danze primitive spingano, a causa dell'ossessiva ripetizione metrico-ritmica, verso uno stato ipnotico di coscienza, quasi precedente alla nootemporalità, cioè al tempo mentale, al tempo umano.
Anche i segni dell'inconscio sono atemporali, mentre la teoria della relatività della fisica moderna concepisce il tempo in senso geometrico. Ma è nello scontro tra moto e permanenza che il pensiero occidentale - da Pitagora fino alle più recenti considerazioni filosofiche e scientifiche - ha riconosciuto la radice del nostro essere nel tempo. Corghi ce ne restituisce tutta la tensione drammatica. La vita si sviluppa sul doppio e lacerante canale di crescita e decadenza. Noi restiamo sospesi tra i ricordi del passato e le speranze-paure del futuro. Tanto che finiamo per avvertire anche emotivamente ciò che le più recenti teorie dei quanti ci insegnano: l'immobilità e la permanenza derivano dal moto e dal cambiamento, non viceversa. Non è la catena di causa-effetto ad avviare il movimento partendo dalla staticità, ma è il movimento che nasce dal graduale accorpamento in livelli di complessità sempre maggiori.
Vorrei suggerire un modo, fra i tanti, di «entrare» nel senso della musica d'oggi. Nel caso di Corghi, spesso la scrittura evoca gesti, immagini, pensieri, pur mantenendo un'assoluta autonomia espressiva musicale.
Ognuna delle sezioni del Quartetto allude ad un evento esistenziale carico di riferimenti, citazioni, rielaborazioni di materiale già sfruttato dall'autore in opere precedenti. Ma la nuova prospettiva è data proprio dall'angoscia e dal fascino del tempo e dall'impatto affettivo ed intellettuale che ne deriva. Si scontrano il tempo storico, quello cronologico e quello sconnesso dei sogni, della fantasia, del ricordo. La musica li sfida sul terreno che le è proprio. E quando, alla fine del Quartetto, l'afflatus invade lo spazio del moto perpetuo (quello graficamente rappresentato dal pentagramma inferiore di ogni strumento) cancellandone la presenza, pare che l'arcaico homo faber delle civiltà primitive voglia ancora vincere la scommessa con la natura. Il segno creativo sottomette la rigidità del tempo astratto.
Ecco perché ho proposto Animi motus come primo brano di Corghi, dal quale spingerci verso gli altri lavori e, da questi, verso un'angolazione del pensiero musicale oggi. Perché il Quartetto, nella storia della musica occidentale, ha spesso costituito un punto d'arrivo ideale per i compositori. E, in un certo senso, anche per l'ascoltatore. Che sa di trovarsi di fronte ad un organico attraente ma impegnativo.
Scrivendo per quartetto d'archi, l'autore ha a disposizione quattro parti, nelle quali può concentrare la ricchezza di un pensiero orchestrale. Ma la libertà e l'ambizione delle idee deve «costringersi» dentro lo spazio timbrico di una tavolozza relativamente omogenea, che offre possibilità di cambiare registro, verso l'acuto o il grave, ma non di differenziare in modo evidente le qualità sonore. E' pur vero che ogni strumento ad arco ha un suono tutto suo, e quindi la varietà è giocata sul piano delle sfumature. La scrittura, comunque, ci arriva essenziale, astratta.
Ascoltare un Quartetto di Beethoven o di Bartók equivale ad inseguire lo sviluppo più puramente costruttivo di alcune premesse musicali. Animi motus è anche l'unico lavoro di Corghi, inserito in questo testo, di natura esclusivamente strumentale. Si presta, dunque, a sollecitare la nostra attenzione su alcuni aspetti caratteristici della musica contemporanea.
Con la forza delle semplici linee strutturali offerte dal quartetto d'archi, Corghi non rinuncia ad illustrare un «programma», a modellare la forma musicale sull'architettura di uno sviluppo filosofico. E così narra a traccia multipla, con continue riscritture, scarti, riappropriazioni e selezioni dei dati forniti dalla memoria. Ecco perché alcuni esperti di Intelligenza Artificiale stanno in questi anni cercando di migliorare le prestazioni dei computer allargandone i confini dalle possibilità di associazione, combinazione e selezione a quelle più varie e stratificate del «racconto».
Il tempo si svela nel suo rapporto con il movimento. Da un lato avvertiamo la tensione verso un fine, come potrebbe essere rappresentato da una freccia, e riconosciamo il costruttivismo che segue una linea logica dal passato al futuro. Dall'altro, ci appaiono briciole di ciò che è stato, nella circolarità del tempo arcaico, nietzscheiano e delle attuali teorie fisiche.
Soprattutto, il tempo sancisce la sua inesorabile e duttile legge: l'impossibilità di dimenticare e quindi di esistere in quanto esseri completamente nuovi. Per questo Corghi lascia emergere dal moto perpetuo frammenti di altre sue opere, come istantanee di un percorso esistenziale. Anche se l'ascoltatore non ne conosce il valore simbolico, ne percepisce la tensione narrativa che sovrappone ricordi, variazioni, invenzioni e intanto che racconta perde qualcosa di già sentito e aggiunge altri frammenti, fino a mescolare il futuro con il passato.
Così Animi motus ci presenta aspetti che affioreranno come sostanziali anche negli altri brani di Corghi. In particolare, la necessità di comunicare tutto ciò che di umano esiste e ci riguarda: pensieri, immagini, pulsioni. Un desiderio vorace di metabolizzare musicalmente filosofia, letteratura, cinema, quotidianità, caratterizza la sua scrittura gestuale. Possiamo ravvisare questa gestualità nelle componenti minime del discorso melodico e armonico, come nell'impalcatura formale complessiva.
Le dimensioni si inglobano come in una scatola cinese e alla fine ci chiediamo se quei gesti e quelle idee non sanciscano una sorta di superiorità della musica rispetto a qualsiasi altra forma espressiva. Senza dubbio, non c'è nessuna voglia di fuggire dal mondo, di chiudersi in un gioco astratto che poco c'entri con la storia. Anzi, l'imperativo morale è «non dimenticare», mai, anche quando potrebbe sembrare più facile o unico strumento di rassegnazione e di oblìo.
La sopravvivenza, per l'uomo, è anche tendenza a migliorare, a modificare l'ambiente, a modificare se stesso. Ecco perché chi in psicologia ha cercato di spiegare il comportamento umano con una chiusa catena di stimoli-risposte si è trovato di fronte ad ostacoli insormontabili.
Corghi ha virtualmente dilatato il quartetto d'archi tradizionale immaginandolo «doppio» nella scrittura e adottando l'amplificazione-spazializzazione elettronica. Ciò che sembrerebbe un guardare dentro la propria vita è in realtà un guardarsi allo specchio della musica. Duplicazione avvertibile molto chiaramente all'ascolto, che è smembramento, lacerazione ma anche vita e ricostruzione.
Nel brano più astratto tra quelli che proponiamo, Corghi costringe la musica, priva di spunti letterari o sfondi scenografici, a scoprirsi parte attiva nella ri-costruzione delle idee. Senza nulla perdere della propria specificità. Senz'altro un punto di vista particolare, molto differente da altre correnti e da altri importanti atteggiamenti contemporanei, ma che mette la musica alle strette, stanandola da un presunto luogo di apatica e privilegiata autoconservazione. Corghi la chiama in causa perché contribuisca all'evoluzione della società, della scienza e della politica.

BRAMANI: L'allusione al vuoto è evidente. Il vuoto che c'è in noi, l'altro spazio delimitato dalla forma e dalla vita. L'assenza. Ma guardando lo schema e ascoltandone la realizzazione compositiva scorgiamo quella soglia tra il nulla e il tempo che già Proust aveva individuato nel linguaggio. Perché?
CORGHI: Sotto un certo aspetto, oggi, nella nostra società sembra riscontrabile un vuoto lasciato dall'assenza di un progetto. Definizione che sottolinea il fallimento dei grandi sistemi interpretativi che, fino a pochi anni fa, erano alla base della modernità. Ho sempre cercato di evitare di frapporre barriere ideologiche (anche di comodo) al mio contradditorio metro di giudizio, tuttavia non posso fare a meno di prendere atto che, nel mondo contemporaneo, alla polarità costituita dalla coppia morale/politica e si va sostituendo quella che si articola intorno all'edonismo e all'estetica.
BRAMANI: Che cosa intendi per edonismo estetico?
CORGHI: Michel Maffesoli, in un suo saggio intitolato Per un'etica dell'estetica, fa notare che l'attuale edonismo predominante sembra essere un valore trasversale. A seconda dei mezzi finanziari o dei differenti gusti culturali può prendere forme molto diverse, ma si può affermare che nel senso assoluto dei termine vi sia uno stile edonista che si oppone ad una concezione del tempo finalizzata, un concetto di società che poggia sull'individuo e sulla ragione meccanica. Si tratta di un vissuto più amorale, più sensibile, più immaginifico che considera l'insieme sociale come un ordine di una moltitudine di gruppi che si adattano l'uno all'altro. Il tempo sociale, in quest'ultimo caso, è concepito in maniera ciclica: ricettacolo di ciò che accade piuttosto che creatore di obiettivi da realizzare. A tutta prima, io mi sento imbarazzato di fronte a simili affermazioni, poi immagino quanto lo possa essere maggiormente chi ha dissertato sul modo di «pensare la musica, oggi» oppure ha proposto una dimensione «stocastica» nella concezione del tempo musicale. Allora cerco di riflettere senza abbandonarmi a depressivi autodafé. Mi chiedo se stia rifiorendo, anche in musica, un disordinato neo-barocchismo. Se all'ideale astrazione parmenidea stia forse subentrando il gioco senza fine dell'immaginazione sfrenata. Come affrontare il problema del presente che tende oggi a prevalere nei confronti di un'etica ancora fortemente ancorata alla memoria storica ?
BRAMANI: Cerchiamo di orientare e nello stesso tempo allargare il tuo intervento a tutto il campo della musica d'oggi.
CORGHI: Forse le considerazioni fin qui espresse, da te sollecitate attraverso il discorso sul fattore tempo nella presentazione di Animi motus, possono diventare altrettanto significative se rapportate alla tematica del comunicare, attraverso la musica, nel nostro tempo. Una tematica che continuamente rimbalza sulle tavole rotonde attorno alle quali vengono chiamati a dibattere compositori e musicologi. Durante il nostro colloquio avremo certamente modo di approfondire questi punti.
Per quanto mi riguarda, premetto che intendo rispondere alle tue domande cercando di stare al di sopra delle classificazioni in uso di «musica contemporanea», «nuova musica» o «musica colta» in opposizione a «musica pop», «musica rock» o «musica extra-colta». Desidero parlare, pur dal mio limitato punto di vista, della musica nel nostro tempo. Non sono sicuro di riuscirci. Ma qui sta la scommessa di un compositore spesso definito «colto, accademico, serio» e per di più «musicologo a tempo perso»... al quale piace cogliere l'evento musicale, sia creativo che ri-creativo, partecipando «con tutto il corpo» alle piccole o grandi verità che ogni forma d'arte porta con sé.
BRAMANI: Che cosa significa, per te, partecipare con tutto il corpo?
CORGHI: Ricordo d'aver letto da qualche parte che «il corpo non può mentire». La valorizzazione multiforme del corpo, cui assistiamo quotidianamente, sembra rimandare ad un clima generale che favorisce il contatto o privilegia le relazioni fra le persone e le cose. In tal senso è significativo notare come la partecipazione fisica, concreta, diretta all'evento musicale - per coloro che operano di fronte a migliaia di persone - abbia altrettanta importanza di quella in origine astratta-creativa. E ancora una volta tendo a sottolineare che non faccio distinzioni fra generi musicali (ovvero fra Woodstock e il Lingotto di Torino).
Confesso che mi piace terribilmente suonare e ho sempre considerato lo strumento meccanico come un prolungamento del corpo. Pertanto anche la musica, quando è ricerca di autenticità, forma di comunicazione, tende a diventare per me un fatto corporeo. Essere musicisti con tutto il corpo può essere un modo di riscattare la musica contemporanea dalle secche degli intellettualismi da carta millimetrata o dallo sbracamento dilettantesco «neo-post».

Lidia Bramani a colloquio con Azio Corghi (Jaca Book, 1995)

sabato, ottobre 13, 2007

Hans Werner Henze: Phaedra

Commovente successo a Berlino per l'opera più recente del compositore. Phaedra è il coronamento di una poetica da sempre affascinata dalla classicità greca.

Nella sessantennale carriera di Hans Werner Henze la classicità è un'utopia che lo spinge a lasciare le macerie della Germania postbellica all'inizio degli anni Cinquanta per trasferirsi in Italia, culla dei miti e della bellezza; il riferimento al mondo classico è costante nella sua produzione e trova il suo coronamento in quest'ultimo lavoro, Phaedra. Commissionata dalla berlinese Staatsoper Unter den Linden e dai Berliner Festspiele con il Théátre Royal de la Monnaie di Bruxelles, le Wiener Festwochen e l'Alte Oper di Francoforte, la quattordicesima opera di Henze arriva a quattro anni dall'Upupa o il trionfo dell'amor filiale, accolta con grande successo al Festival di Salisburgo nel 2004. Quattro anni segnati dalla perdita di persone care e dalla grave malattia che ha colto Henze a metà del lavoro e l'ha costretto a sospendere per un lungo periodo la composizione del secondo atto. Eppure, a dispetto della sua tormentata gestazione, questa nuova opera si fa ammirare per il grande equilibrio e le classiche simmetrie raggiunti con magistrale economia di mezzi espressivi.
E proprio attraverso questi elementi, prima ancora che per il soggetto, Henze sembra dare un senso all'utopia della sua esistenza. Tutto in Phaedra è costruito sulla coniugazione di opposti, su di un'aurea dualità che conferisce a questo lavoro la serena nobiltà delle costruzioni classiche. La duplice natura è esplicitata già nella definizione: «Konzertoper», concerto e opera. Due atti di uguale durata (circa 45 minuti), ma in qualche modo opposti per colore, di compostezza apollinea il primo e di dionisiaca inquietudine il secondo. Due atti scritti per un organico ridotto di soli 23 strumentisti per una trentina di strumenti e 5 cantanti-interpreti. Dualità e simmetrie si ritrovano persino nella strumentazione, "henzianamente" concepita in funzione drammaturgica e articolata sui due grandi blocchi degli ottoni - che evocano la regalità del mondo di Fedra - e dei legni - che restituiscono il colore dei boschi nei quali caccia Ippolito - cui si aggiunge un significativo contributo delle percussioni che tingono di arcaico alcuni passaggi significativi dell'opera.

Essenza classica
In ammirevole sintonia con l'essenzialità della musica di Henze, il librettista Christian Lehnert restringe il dramma a pochi personaggi: gli umani Fedra e Ippolito più i loro alter ego divini, Afrodite ed Artemide; e il Minotauro, sintesi delle due nature, che compare solo alla fine di tutto. Più che narrare attraverso una drammaturgia strutturata, Lehnert evoca la vicenda per grandi blocchi, reminiscenze del mito di Fedra così come è stato tramandato nel corso dei secoli da Euripide, Seneca, Racine fino alla drammaturga inglese Sarah Kane. Più che alle reminescenze classiche del testo di Lehnert, il regista Peter Mussbach è sembrato interessato a dare un senso concreto al concetto di Konzertoper e realizza un'abile sintesi fra due generi in larga misura antitetici. Rovesciando la convenzione dello spettacolo operistico, colloca l'orchestra alle spalle del pubblico e fa raggiungere agli interpreti la scena lungo un catwalk che attraversa la sala. La scena è spesso coperta interamente da una grande superficie riflettente che restituisce alla visione del pubblico l'orchestra e la severa cornice neoclassica della sala della Staatstoper: è il concerto che si fa teatro, al quale gli interpreti/personaggi tendono e nel quale si smaterializzano.
Nulla nella visione di Mussbach evoca l'antichità classica: né i costumi "da concerto" disegnati da Bernd Skodzig né lo spazio di luce ed ombra concepito da Olafur Eliasson, uno degli artisti di punta della scena artistica contemponea alla sua prima esperienza teatrale. Grazie ai giochi di luce e alle macchine illusionistiche di Eliasson, Mussbach traduce in immagini di grande forza espressiva le dualità di cui è fatto il testo: nel primo atto i personaggi sono ombre che agiscono in un universo di luci (raffinatissime), mentre nel secondo domina l'oscurità e la frammentazione dei personaggi è concretamente realizzata attraverso grandi prismi che spaccano e moltiplicano i frammenti dei corpi. A tenere le fila musicali della serata è Michael Boder che con grande autorevolezza guida dal fondo della sala la complessa macchina dello spettacolo. La sua è una lettura controllata e rigorosa che si fa apprezzare soprattutto per l'analitica chiarezza con cui guida i 23 perfetti solisti dell'Ensemble Modern, un complesso che vanta una frequentazione relativamente lunga con la musica di Henze che per loro ha scritto il Requiem (1993) e L'heure bleue (2001). Esemplari i cinque interpreti vocali tutti assolutamente calati nei propri ruoli e, soprattutto, adeguati a realizzare il difficile equilibrio di narratori ed interpreti della tragedia. Maria Riccarda Wesseling è una Fedra dura e spietata nel suo trattenuto dolore. Il suo doppio divino, Afrodite, è resa da Marlis Petersen con siderale distacco e controllo perfetto delle asperità della tessitura. John Mark Ainsley disegna con eleganza un Ippolito di profonda umanità e melancolici abbandoni. Axel Köhler tratteggia con la sua vocalità ibrida un'Afrodite tragica e dolente. Malgrado il breve ruolo, si fa notare infine anche la corposa sensualità del Minotauro "in smoking" del giovane baritono Lauri Vasar. Il pubblico ha salutato in piedi con un lungo, affettuoso applauso l'ingresso in sala di Hans Werner Henze. Alla fine dello spettacolo un lungo applauso ancora più caloroso ha festeggiato anche tutti gli interpreti, decretando il pieno successo di questa nuova Phaedra.

Stefano Nardelli ("il giornale della musica", 10/07)

domenica, ottobre 07, 2007

Fabio Vacchi: Teneke

Il tormentato percorso di un prefetto che non vuol farsi corrompere e viene cacciato. «E' un'opera di stampo sociale che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro» racconta il regista Ermanno Olmi. Libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, dirige Roberto Abbado

La nuova opera di Fabio Vacchi, Teneke, su libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, regia di Ermanno Olmi, sul podio Roberto Abbado, vedrà la luce il 22 settembre alla Scala (la prima è dedicata all'associazione di volontariato Vidas). La vicenda è tratta dall'omonimo racconto di Yashar Kemal; il termine del titolo è intraducibile, indica un rudimentale strumento di percussione, un tamburo di latta, in italiano gode dell'assonanza con "tanica" ma con poco senso. Forte socialmente ed eticamente è invece il nocciolo della storia, il tormentato percorso di un "prefetto" alle prese con proprietari terrieri senza scrupoli, coltivatori di riso, che lo ammansiscono con doni quasi al punto di corromperlo per i loro tornaconti. Quando, in uno scatto di dignità, il protagonista decide di far applicare la legge, viene immediatamente cacciato.
Per presentare Teneke abbiamo seguito idealmente il passaggio dalla prosa originaria al palcoscenico.
«Definirei la mia un'operazione di doppio servizio - spiega Marcoaldi -. Il primo è stato quello di trasformare un racconto, che si affida a un tono epico, poco censorio alla nostra narrativa, in una scrittura drammaturgica. Bisognava trovare un taglio teatrale, adatto a un libretto d'opera, che però conservasse i modi originali. A questi ho voluto dare un andamento poetico, ne è uscito un italiano che ha la cantabilità propria della poesia. Il secondo servizio riguardava il rapporto con la composizione. Ho piena consapevolezza di quanto diceva Auden, cioè che i versi del librettista non si rivolgono al pubblico, sono una lettera privata diretta al compositore. Naturalmente ho portato a termine questa doppia mediazione tenendo presente che avevo a che fare con Fabio Vacchi, col quale sono legato da un'estetica, da un'etica comune e da una lunga collaborazione».
Ha dovuto fare ritocchi al Suo testo durante la lavorazione?
«Più che ritocchi, taglie aggiunte. Rispetto al racconto di Kemal, nell ibretto per esempio viene data molta importanza alla fidanzata lontana del protagonista, una figura che consente di tenere un ponte sospeso fra Occidente e Oriente. Inoltre la fidanzata insieme alla madre contadina, donna di grande coraggio che sbeffeggia gli uomini che non riescono a sostenere la durezza della situazione, in qualche modo rafforza l'elemento femminile come uno degli elementi portanti della storia».
E il protagonista? Sconfitto eppure vincitore?
«Incarna l'idea stoica della morale, virtus ipsa praemium est. Il dramma scoppia quando si rende conto di non essere stato sufficientemente fermo nell'imporre la legalità. Viene cacciato, ma torna nel giusto, tranquillo con la propria coscienza. L'opera si chiude con la speranza dovuta a questa riappacificazione con se stesso, l'uomo se ne va, ma potrebbe anche tornare».
Nel racconto di Kemal si dice che il protagonista canterella il tema dell'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Un segno musicale importante, che Vacchi ha però volutamente lasciato sullo sfondo.
«Non l'ho voluto inserire in partitura, l'ho fatto semplicemente fischiettare a un certo punto della vicenda - spiega il compositore -. Significa voglia di pace, di libertà, una voglia di Europa per i valori etici che teoricamente rappresenta. Nel senso della gioia come uno degli aspetti fondamentali del mondo illuminista. Quel piccolo fischiettare insomma rappresenta un anelito all'Illuminismo».
L'altra protagonista assente è Nermin, la fidanzata. I due hanno connotazioni musicali diverse?
«In Teneke è un continuo passaggio fra vari registri, etnico e colto, alto e basso. Generalmente nella mia musica questo procedimento è spesso rintracciabile in filigrana, qui invece risulta più marcato. Non si tratta di citazioni vere e proprie, è un materiale riconoscibile pur nella elaborazione che ne ho fatto. In Nermin invece non è nulla di tutto questo. Musicalmente la fidanzata è una specie di distillato della tradizione europea colta, dove è riconoscibile la mia matrice culturale. In altri momenti invece, come per esempio nella festa, saltano fuori spiccatamente dei dati etnici che vanno poi a fondersi col discorso prettamente compositivo. A parte Nermin, le connotazioni di tutti gli altri personaggi risultano sempre amalgamate, anche perché il più delle volte partecipano a scene d'insieme; le caratteristiche dell'uno e dell'altro sono abbastanza generiche, comunque si fondono continuamente a seconda del contesto in cui si trovano. Diciamo che non c'è un Leitmotiv, nè uno strumento caratteristico che indica un volto particolare. E' la situazione scenica che determina il risultato musicale".
Quanto alle voci, ci sono combinazioni particolari?
«C'è il più grande assortimento possibile di atteggiamenti vocali, manca solo l'uso del recitato, ma il resto c'è. Le modalità di canto abbracciano tutto lo scibile vocale, sempre alla luce del mio concetto di grande forma che si basa, si puntella, sul gioco dei contrasti, sulle attese che vengono smentite dalle sorprese, ecc. Quindi grandevarietà, però tutto molto unitario, compatto, mentre all'interno è la massima articolazione. Questo vale in generale per tutto il mio lavoro oltre che per Teneke».
Il coro come viene trattato?
«Per la prima volta nella mia produzione ilc oro ha una funzione da protagonista a pieno titolo. Il coro è spessissimo presente, Teneke è piena di scene concertate dove si fronteggiano due cori, in pratica dialogano: il coro dei proprietari e quello dei contadini che possono essere rappresentati da uomini e da donne o da soli uomini e da sole donne».
A ospitare tutto questo sarà una drammatica scenografia ideata da Arnaldo Pomodoro, giovane ottantenne, residente a Milano da 54 anni e che ora debutta alla Scala. Lui ci ride sopra, come a dire che era ora!
«Ad apertura di sipario si vede solo una montagna con terrazzamenti, sono le risaie della storia di Kernal - spiega Pomodoro. - Le risaie che ho visto in Kurdistan, Turchia, Madagascar, a Bali non sono sullo stesso piano come le nostre della Lomellina o del Pavese, ma a diversi livelli. In teatro non viene mai mostrato il cielo, quando i terrazzamenti vengono invasi dall'acqua, ne riflettono delle parti. Il cielo è proiettato su un grande telone in alto, non visibile in sala. Per far apparire via via le zone d'acqua ci sono dei mimi, visibili solo di schiena e camuffati da zolle di terra, che tolgono piano piano una specie di tappeto sotto il quale si vede un materiale acrilico color argento».
Ci sono elementi che richiamano le Sue sculture?
«La montagna ha un campo arato dall'aspetto molto inquietante, lascia supporre una tragedia; come i miei lavori, il campo è pieno di appigli, di intrighi... C'è un tessuto di tagli, di elementi cuneiformi. Dal basso sale poi una specie di medusa che lascia intravvedere degli artigli. Naturalmente è una forma astratta, ma mostra la forte aggressivitá della terra coltivata».
Non a caso agricoltura e mondo contadino sono temi cari a Ermanno Olmi, che proprio in questi giorni sta girando un documentario nell'ambito di Terra Madre, movimento promosso da Slow Food. La regia di Teneke rientra quindi a pieno diritto nei suoi attuali interessi.
«A dir la verità la mia partecipazione a questa avventura lirica è nata nel segno dell'amicizia. Tutto ha avuto origine da un incontro che ho avuto con Vacchi, dove invece di parlare di musica abbiamo parlato di letteratura. Gli ho segnalato i libri di Kernal che a mio avviso è una delle più belle penne del secolo, tanto che considero davvero un privilegio averlo incontrato e esserci reciprocamente capiti. Vacchi così si è innamorato di Teneke, al punto di confessarmi di volerne fare un'opera. Di qui è sorta una specie di gemellaggio ideale, che ha seguito il suo corso».
Rispetto a un titolo di repertorio che problemi ha posto l'opera di Vacchi?
«In Teneke non si ha a che fare col tipo di drammaturgia che ha caratterizzato la storia del melodramma, quando gli uomini parlavano con gli dei o si struggevano d'amore, tipicamente segnati dal loro tempo. Teneke, per dirla con un termine alla mano, è un'opera di stampo sociale, che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro, il potere. In questo senso è un'opera che marchia il nostro tempo, suggerisce una musica aspra, tanto che il tamburo di latta è lo strumento sul quale si battono i colpi della festa o della protesta, non è, certo strumento classico. Dal punto di vista registico quindi non si è trattato di essere innovativi con qualcosa di preesistente e di tradizionale, ma di collocare nel filone del melodramma elementi che normalmente non gli appartengono. E' dalla stessa naturalità delle cose, dalla materia stessa della vicenda che abbiamo fatto affiorare questi elementi estranei alla tradizione operistica».
«Tra i momenti più lontani dalla consuetudine è senz'altro il finale aggiunge il direttore d'orchestra Roberto Abbado -. Un lungo brano puramente orchestrale, in cui il coro comincia a battere sui teneke, è un saluto al protagonista in partenza ma è anche una protesta. L'orchestra nel frattempo cresce d'intensità e quando cessano i teneke prorompe dall'orchestra un canto straziante. Ma non è ancora la chiusa, perchè ha l'ultima parola il ritmo. Un sovrapporsi di ritmi, direi africani».
Si tratta di una partitura generalmente molto complessa?
«Senz'altro. Le scene si differaziano una dall'altra, anche nello stile. I due cori per esempio danno vita a grandi affreschi, secondo la tradizione italiana, penso alle scene corali verdiane. Mentre la prima scena, dopo la brevissima introduzione orchestrale esplosiva, è un concertato rossiniano, una rivisitazione del sestetto della Cenerentola. Ci sono poi temi popolari, alcuni di questi anche se non esattamente turchi banno una matrice mediorientale; e c'è pure un canto friulano, ma la conformazione melodica e gli intervalli che lo compongono lo trasformano in qualcosa di mediorientale. Compare anche una situazione ricorrente, caratteristica dell'opera, quando una parte dell'orchestra, rappresentata anche da un solo strumento o una coppia, agisce indipendentemente dal tempo principale dell'orchestra, improvvisando su note e ritmi dati. Nella scena dello smarrimento totale del protagonista corrisponde addirittura a un'orchestra impazzita, dove non esiste più un tempo metronomico e dove il procedimento di accavallamento arriva al massimo grado, l'orcbestra suona sulla base di un cronometro e non di un tempo scandito. Si passa da scene musicalmente violente ad altre poeticissime, come quelle di Nermin, l'amore assente».

di Stefano Jacini ("il giornale della musica", 09/07)

Arnold Schönberg: On revient toujours

Nessuna circostanza specifica e diretta determinò Schönberg a scrivere questo articolo che si riferisce alle sue rare ma per molti aspetti sconcertanti composizioni tonali. Egli deve evidentemente avere avvertito che si attendeva da lui una precisazione sull'argomento. Porta la data del 1948, non meglio precisata. Inedito fino alla pubblicazione in Style and Idea.

Ricordo con estremo piacere una passeggiata su un fiacre viennese attraverso il famoso Höllenthal. Il fiacre procedeva lento e noi potevamo conversare e ammirare le bellezze della zona, o piuttosto il suo orrido aspetto per cui fu chiamata Valle dell'Inferno. Rimpiango sempre che non si possano più avere i nervi abbastanza saldi per sopportare passeggiate cosí tranquille.
Difatti quando, vent'anni dopo, feci una gita in macchina attraverso una delle piú famose valli svizzere, non vidi quasi nulla, e la persona che mi accompagnava preferí illustrarmi gli aspetti commerciali e industriali della vallata. Nel breve spazio di vent'anni la gente aveva perso ogni piacere alla contemplazione delle bellezze naturali e non riusciva piú a godere di esse.
Ho ripensato a questi due episodi di recente, allorché un tedesco - un mio vecchio allievo e assistente - mi chiese quale risposta avrebbe dovuto dare a chi gli domandava se avessi rinunciato a comporre con le dodici note, dato che ormai componevo cosí spesso musica tonale: la Variazione per banda op.43b, la Seconda Kammersymphonie, la Suite per orchestra d'archi e molti altri lavori.
Diedi una risposta ispirata ai due episodi citati, e dunque basata su fatti reali. Dissi: dovremmo meravigliarci che i compositori classici - Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Schumann, Brahms e persino Wagner - pur venendo dopo le vette contrappuntistiche toccate da Bach e nonostante il loro stile essenzialmente omofonico, interpolino cosí spesso un contrappunto severo diverso da quello di Bach soltanto per le specifiche caratteristiche dovute al progresso musicale. Vale a dire uno sviluppo piú elaborato mediante le variazioni del motivo.
E' indubbiamente singolare la coabitazione di questi due tipi di strutture. Infatti essi sono contraddittori. Nello stile contrappuntistico il tema è praticamente immutabile e tutti i dovuti contrasti sono provocati dall'aggiunta di una o piú voci; al contrario l'omofonia crea i suoi contrasti mediante lo sviluppo a variazione. Ma quei grandi maestri possedevano un senso cosí elevato delle esigenze etiche ed estetiche della loro arte, che possiamo senz'altro tralasciare di controllare se ciò fosse sbagliato.
Non avrei mai immaginato che la spiegazione di questo deviamento stilistico avrebbe spiegato anche i miei deviamenti. Ero solito dire: i compositori classici, cresciuti nell'ammirazione delle opere dei grandi maestri del contrappunto, da Palestrina a Bach, devono essere stati spesso tentati di ritornare all'arte dei loro predecessori, arte che consideravano superiore alla propria. Cosí grande era infatti la modestia di quegli uomini, che sapevano apprezzare le conquiste degli altri pur non essendo affatto privi di orgoglio, benché ad essi sarebbe stato pur permesso di essere arroganti. (Ma solo un uomo degno di rispetto è capace di portare rispetto a un altro uomo, e solo chi possiede dei meriti può riconoscere i meriti altrui.) Sentimenti simili possono dunque essersi sviluppati in loro fino al punto di tentarli a provare d'ottenere, nel vecchio stile, ciò che sapevano di poter realizzare nel loro stile piú avanzato.
E' un sentimento paragonabile a quello che ci fa preferire il lento e pigro fiacre alla veloce automobile, che ci fa rimpiangere i vecchi tempi, il modo di vivere dei nostri genitori. Naturalmente non si vuol spazzar via il progresso, anche se la macchina ha eliminato tanti mestieri: quello di legatore, quello di ebanista, quello di calligrafo, quello di intagliatore e, in certo senso, quello di pittore.
Quando terminai la mia prima Kammersympbonie op.9 dissi ai miei amici: "Ora ho fissato il mio stile. Ora so come comporre."
Senonché, nelle opere successive deviai notevolmente da quello stile e fu un passo avanti verso lo stile che pratico attualmente. Il destino mi ha spinto in questa direzione: ossia non ero destinato a continuare nella maniera della Notte trasfigurata o dei Gurre-Lieder o persino del Pelleas et Melisande. Il Comandante Supremo mi ha ordinato un cammino piú ardito.
Ma il desiderio di tornare al vecchio stile fu sempre molto forte in me, e di tempo in tempo ho ceduto a questo impulso.
Ecco come e perché talora scrivo musica tonale. A parer mio differenze stilistiche di questa natura non sono di grande importanza. Né so dire quali siano le mie composizioni migliori: io le amo tutte, perché le ho amate quando le scrissi.

Arnold Schönberg ("Style and Idea", Feltrinelli, 1975)