Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 25, 2012

Paolo Terni: Einstein On The Beach

Viene da chiedersi, a questo punto, se il vissuto musicale dei fisici teorici - pratica tanto intensa quanto diffusa, affettuosamente celebrata da Philip Glass nel suo Einstein on the Beach (1976, su libretto e con la messa in scena di Bob Wilson) - non sia da leggersi come segnale di un'affinità elettiva - se non proprio di un'oggettiva identità - tra stato della musica e stato della materia: realtà, entrambe, da indagare quindi congiuntamente, quasi in osmosi, definendo così strumenti critici e di pensiero ulteriormente raffinati ad arricchire, ciascuno, la percezione della vita e del significato dell'altro. Molta ricerca opera da tempo in questo senso e i contributi sono davvero assai suggestivi. Da ritenersi - e solo a titolo di campionatura - sono due casi particolarmente interessanti: l'astrofisico vietnamita Trinh Xuan Thuan che assume la musica a massimo criterio di lettura dell'Universo; il pensiero del fisico e matematico americano Brian Greene intorno alle "superstringhe, dimensioni nascoste" e alla "ricerca della teoria ultima" di cui tratta nel suo splendido saggio intitolato L'universo elegante ove la musica irrompe drammaficamente:
La musica è da sempre una ricca fonte di metafore per chi medita sui misteri del mondo. Dalla "musica delle sfere" dei pitagorici all'"armonia della natura", spesso invocata nei secoli, l'uomo ha continuato a cercare la melodia del mondo nei moti regolari dei corpi celesti come nelle violente manifestazioni del mondo subatomico. Con le superstringhe la metafora diventa straordinariamente vera: secondo questa teoria, il mondo microscopico è pieno di piccole corde di violino, i cui modi di vibrazione orchestrano l'evoluzione del cosmo. I venti del cambiamento in questo scenario spirano in un mondo soffuso di melodie.
D'altronde, lo scienziato vietnamita, nel saggio intitolato Le chaos et l'harmonie, ci ricorda che
per fabbricare la complessità la Natura scommette sul non-equilibrio, nella misura in cui le strutture nascono solo a partire da situazioni fuori equilibrio. La simmetria è interessante solo a partire dal momento in cui viene infranta. La materia genera l'inedito lontana dall'equilibrio. L'ordine perfetto è sterile, mentre il disordine controllato è creativo, il caos determinista portatore di novità. La natura innova; crea forme belle e variate che non possono più essere rappresentate da linee rette o da semplici figure geometriche, ma da curve più complesse che Benoit Mandelbrot ha definito "frattali".
Va tuttavia notato quanto, curiosamente dal nostro punto di vista, nel succitato testo di riferimento, Benoit Mandelbrot e i numerosi scienziati (in maggior parte astrofisici) che egli vi nomina, non parlano mai di musica. D'altronde gli stessi musicisti interessati alla teoria dei frattali invertono sempre l'ordine dei fattori pensando a composizioni specificamente modellate su singoli oggetti frattali e non mai all'insito carattere frattale - insomma alla "frattalità" - di qualsivoglia musica, di per sé...
Ciò detto è comunque indiscutibile il fatto che nessun passo innovatore potrà più farsi in musica se non la si concepisca come incarnazione di infinite sequenze di frattali autonomi, oggettivi, pur polifonicamente coesistenti e per ciò stesso iscritti d'ufficio nel novero universale di quanto sbrigativamente denominiamo "Natura".
A questo punto prende "nuova forza" un'intuizione filosofico-musicale di grande attualità, pur praticamente dimenticata, esclusa com'è oggi - dalla vita delle idee correnti in questo ambito. A partire dalla seconda metà del Novecento una magnifica produzione parigina dell'opéra-ballet Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau (1735) - addirittura promossa dallo stesso général De Gaulle - ha segnato il ritorno, dopo due secoli di oblio, di un personaggio fondamentale nel panorama storico della musica europea, amatissimo da Johann Sebastian Bach e, come Bach, archiviato troppo rapidamente forse perché "tropp'alto" era il segno complessivo del suo pensiero musicale. E non si tratta solamente della sua figura di compositore, ormai ampiamente celebrata, ma dell'eminente suo ruolo filosofico e teorico. Ruolo che, pur doverosamente riconosciuto, non ha invece goduto di un processo comparabile di piena riabilitazione. Intanto, dei suoi principali testi teorici - il Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels (Trattato dell'armonia ricondotta ai suoi principi naturali, Paris, 1722) e le Observations sur notre instinct pour la musique (Osservazioni sul nostro istinto per la musica, Paris, 1754) - a meno di novità editoriali recentissime, non esistono ancora oggi edizioni moderne: per leggerli occorre infatti rifarsi a mere riproposte delle edizioni originali in forma di reprints e, oltre il carattere reverenziale del doveroso ricordo - e la premura di qualche isolato studioso, come Joseph François Kremer - le tesi di Rameau rimangono praticamente intonse: ammutolite dal flusso di una successiva trattatistica scolastica che nel prendere di petto in maniera alquanto restrittiva alcune delle tesi di Rameau (quali la cosiddetta teoria dei rivolti o quella degli armonici generatori), isolandole dal contesto - sembra solamente mirata (con le dovute, importanti, eccezioni!) al trasmutare un sistema filosofico incompreso - quindi rimosso - in amorfi manuali, mere sequenze di cospicui ricettari, onde poter codificare norme rigorosissime di cui non vengono mai legittimati l'eventuale senso profondo o, comunque, la ragion d'essere.
A osservare, ancora oggi, le faticose, penosissime, lezioni di solfeggio, di armonia e contrappunto nei conservatori, viene immediatamente da ascriverle alle pratiche ossessive, alle infinite melopee o iterazioni rituali delle madrasse coraniche o delle scuole rabbiniche, comunque ben altrimenti motivate!
Il richiamo di Rameau - variamente argomentato nelle sue opere - ai principes naturels costituisce un grido, ancora soffocato dai batisseurs, non di chissà quale sublime cathédrale (in questo caso davvero engloutie!), ma di quell'incongrua fortezza musicologica, plasmata da un pensiero sordo, inconsapevole del suo essere baluardo del nulla nel deserto dei tartari...
Certo, evocare la Natura sembra ingenuo e può essere dannosissimo: ne basterebbe il pretesto per far rientrare dalla porta chiari di luna, varia pastorizia e altre banali amenità giustamente messe a tacere da un diverso, più pertinente, approccio critico. Anche se non sia proprio da considerarsi solo "di maniera" il cospicuo, costante ricorso all'universo di pastori, ninfe e altre creature boschivé, forestali o di pianura in tutta la produzione musicale europea sin dagli albori e fino a oggi (e gronderà di uno splendido sense of bumour l'ammiccante, grottesca, aria di Polifemo in Acis and Galatea di Händel: "Oh! The pleasures of the plains, Happy nymphs and happy swains").
Ma nel suo Traité il riferirsi di Rameau ai principes naturels ha ben altro sapore in quanto esplicito richiamo - colto e aggiornato - al pensiero musicale dei greci, da Platone e Aristotele ai pitagorici, da Aristosseno di Taranto a sant'Agostino, pensiero a sua volta arricchito dal contributo di altri filosofi isolati, come il teorico musicale Gioseffo Zarlino, da Venezia.
E occorrerebbe comunque meglio integrare l'opera di Rameau, nel suo complesso, non solo all'universo del classicismo francese ma, soprattutto, di René Descartes: da Cartesio - che aveva notato il fenomeno musicale della risonanza - Rameau derivò infatti la possibilità di una serie di applicazioni nuove e complesse:
mi chiesi come si fosse giunti a ottenere del canto. Illuminato dal metodo di Cartesio che avevo felicemente letto e che mi aveva colpito, incominciai col scendere in me stesso; provai alcuni canti, più o meno come un bambino che dovesse provare a cantare.
Paolo Terni (da "Il respiro della musica", Bompiani, 2011)

sabato, febbraio 18, 2012

Foxtrot

Aprile 1972: i Genesis in tournèe italiana sull’onda degli ottimi riscontri di vendita del recente “Nursery Cryme” sbarcano nella mia città al palasport, una specie di hangar dalla pessima acustica assicurata da copertura in ferro e tribune montate su impalcature di tubi Innocenti. Il concerto è fissato per la sera, nel tardo pomeriggio passo di lì a curiosare e incontro Tiziano, giovanissimo come me e batterista di un complessino che suona nelle sale da ballo della zona. I Genesis stanno provando, si sente il boato proveniente dall’interno del palasport e allora ci facciamo coraggio troviamo una porticina incustodita e ci intrufoliamo dentro, appiattendoci sotto una tribuna e non osando avvicinarci al palco. Tre del gruppo, batterista bassista e chitarrista, sono ai loro strumenti ad eseguire reiteratamente lo stesso brano, stoppandosi frequentemente ogni volta che un tizio, capellone come loro e girovagante fra le varie tribune vuote del palasport, indica a gesti di fermarsi ed aspettare che cambi posizione. La musica che stanno eseguendo è molto ritmica, tostissima. Tiziano il mio amico è rapito da quel batterista biondo e mancino e non sta nella pelle “Senti che roba!... è un tempo dispari!... guarda come suona il biondo!…” Intanto il tizio che girava per le tribune a controllare i suoni scende, va a parlare un attimo col fonico al mixer e poi guadagna il palco, si infila dietro il castello delle tastiere e allunga le mani su una di esse… Parte una bordata di mellotron così carica di bassi che il tubo Innocenti al quale sono appollaiato mi trema sotto il sedere. Un accordo dopo l’altro, di una potenza e drammaticità uniche, siamo tutti e due a bocca aperta, coi peli dritti, felici. Due minuti buoni di questa magia poi il volume della tastiera si ritrae per fare spazio agli altri tre strumentisti per quella stessa figura ritmica appena sentita… Io ed il mio amico non lo sappiamo ancora, ma stiamo assistendo ad una fase della composizione di “Watcher Of The Skies”. Cioè il brano di apertura di questo album, parto felice di quella tournèe italiana. La ouverture di Tony Banks che aveva fatto tremare il palasport ed il mio cuore è a disposizione di tutti appena spinto il comando play, pomposa e magnifica ad introdurre la struttura ritmica in 9/8 entro la quale l’allora biondo Phil Collins, come già raccontato sopra, ci sguazza e sulla quale Peter Gabriel interpreta un testo fantascientifico (non suo ma dello stesso Banks, quello che andava in giro per le tribune del palasport non soddisfatto dei suoni, nonché di Mike Rutheford il bassista). “Time Table” che segue è una ballata pianistica logica farina del sacco di Tony Banks, il testo stavolta è favolistico e piuttosto lineare, si canta di cavalieri e di onore. Il primo contributo sostanzioso di Gabriel è in “Get’em Out By Friday”, denuncia di espropri edilizi e di soprusi nella quale il carismatico cantante riversa tutta la propria teatralità, dando voce diversa a vari personaggi ed infine assoggettando completamente la musica alla propria dilagante verbalità. La storia è lunga e articolata e non c’è respiro strumentale per gli altri quattro musicisti, che evidentemente concedono al loro grande cantante questo sfogo pronti a rifarsi in altre tracce. Ad esempio in quella successiva “Can Utility And The Coastliners”, una minisuite a firma Steve Hackett, primo importante suo contributo al gruppo. Deliziosa e complessa, priva di appeal commerciale e quindi assai sottoesposta nella memoria storica dei fans del gruppo, ha ottimi passaggi quali l’introduzione guidata dalla 12 corde e soprattutto la porzione strumentale centrale, chiaramente sviluppata da una jam session di gruppo, in particolare nei passaggi dove l’organo di Banks duetta alla grande con la batteria di Collins. Ancora Hackett sugli scudi per il celebre saggio sulla sei corde classica (seppur molto effettata) “Horizons”, due minuti di magici arpeggi derivati da un’aria Bachiana e con grande utilizzo di armonici al settimo e al dodicesimo tasto. Una palestra per legioni di praticanti della chitarra.Quando il Sol basso finale del saggio chitarristico si spegne e d’improvviso esordisce la magnifica voce di Gabriel contornata da ben tre chitarre a 12 corde (Banks che è il compositore + Rutheford + Hackett), siamo al passaggio più bello del disco, forse della discografia Genesis, forse forse del progressive tutto. “Supper’s Ready” è una delle riconosciute perle di questo genere, per molti irraggiungibile (per Gabriel, ad esempio), per altri un pelino lunga e un poco tediosa. I Genesis ci aprirono i concerti italici del 1981 e ancora mi ricordo il boato di sorpresa e approvazione dei ventimila convenuti a Tirrenia per vederli. La suite ha la caratteristica di avere un testo così surreale che non si capisce ancora oggi dove vada a parare, continue immagini di realtà quotidiana e mondi paralleli, Peter Gabriel è proprio una persona complessa. Dischi così la mamma non ne fa più, è non è neanche il migliore dei Genesis: ha chiare carenze di produzione (alcuni volumi non proprio indovinati, il suono chioccio e poco corposo dell’elettrica di Hackett, i riverberi molto confusi, ma il budget era ancora limitato…). Con il successivo “Selling England By The Pound” andrà tutto a posto, o quasi. Per poi andare tutto a ramengo a inizio anni ottanta con “Abacab”, ma questi sono altri capitoli della storia.

di Pier Paolo Farina

sabato, febbraio 11, 2012

Monteverdi: il "Secondo Libro de' Madrigali" (1590)

Tre anni dopo il suo precedente lavoro dedicato alla più alta forma di sperimentazione linguistica e musicale del rinascimento, Claudio Monteverdi pubblica a Venezia il suo Secondo Libro de’ Madrigali nel 1590 dall’editore Angelo Gardano. A ventidue anni, dalla sua città natale di Cremona, dichiarandosi ancora discepolo di M.A. Ingenieri, offre il lavoro ad un importante personaggio milanese: il senatore G.Ricardi. Non è chiaro se il musicista tenta di ottenere servizio in questa città, che l’aveva apprezzato per le doti di violista, o se offre il proprio lavoro quale ringraziamento di una plausibile raccomandazione alla rinomata corte mantovana dei Gonzaga che, proprio in quel momento (1589/90), lo assume proprio come strumentista di “vihuola”. Probabilmente Monteverdi aveva tentato più volte di entrare in contatto con la vicina e prestigiosa Mantova: la massiccia presenza in questo Secondo Libro di opere di Torquato Tasso, quel “poeta maledetto” tanto amato dagli Estensi di Ferrara come dai vicini Gonzaga, può essere testimonianza di un lento lavoro di avvicinamento a quella corte che più coltivava e apprezzava il madrigale quale il simbolo della sintesi tra arti e frutto della raffinata cultura aristocratica.
Rispetto al Primo Libro i brani abbandonano quasi totalmente quella tipica costruzione ripetitiva tipica della seconda parte della composizione, ricorrendo sempre più a quella “forma senza forma” che si forgia sulla lirica testuale da cui prende ispirazione e sostegno. Le scelte poetiche e le immagini privilegiano qui i due temi cari alla cultura di corte: l’amore e la natura. Se il primo argomento era già stato ampiamente accolto dal compositore e dalla cultura musicale del tempo, notiamo viceversa che la natura nel suo apparire alternativamente vivida, dolce ma anche prorompente e accesa, offre all’autore ampi spazi a descrizioni musicali e alla pittura sonora tipici di quest’opera. Nel momento estatico di contemplazione della natura fatta d’eventi visivi, suoni e di rumori, si colloca il sentimento dei protagonisti che, alternativamente, si accosta in similitudine o si contrappone in contrasto alla serenità offerta da tale spettacolo.
Esemplare è Non si levav’ancor, composto in due parti, sicuramente uno dei brani più celebri e studiati non solo di questo libro ma del repertorio madrigalistico in genere. La musica parte sommessa descrivendo una natura ancora addormentata, ove le immagini imminenti ma non ancora avvenute (anzi negate: non si levava - né spiegavanma fiammeggiava) dell’alba, degli uccelli ancora rintanati nei nidi e la presenza della luce ancora sfavillante della stella di Venere, celano i protagonisti ai quali lentamente (come uno zoom cinematografico) dedichiamo la nostra attenzione: due amanti devono separarsi, dopo una lieta notte trascorsa insieme. Questo sprigiona in loro mille contrastanti slanci: baci, pianti e sospiri. Questi sentimenti nella seconda parte si trasformano sempre più in vive sofferenze: la natura effettivamente si sveglia, condannando la loro separazione. La musica segue questo divenire con il madrigalismo, cioè con l’utilizzo di quei procedimenti visivi nella scrittura musicale che disegna la parola testuale con immagini sullo spartito e nella musica: i duo vaghi amanti divengono due sole voci, il fiammeggiare di Venere un tema brillante e fugace seguito da quello dolce amoroso, il librarsi degli uccelli in volo una voluta di note, la felice notte un tema danzante, i sospiri un tema interrotto, i pianti e la sofferenza della partita (cioè quella separazione che per i due amanti è simile alla morte) armonie dissonanti durissime e salti melodici che ancor oggi colpiscono per la loro ardita efficacia. Soprattutto qui colpiscono i silenzi, tradotti in pause musicali che Monteverdi desidera elevare d’ora in poi a momenti di massima espressività. Geniale, inoltre, la presenza del tema iniziale che, stemperando ad arcata verso l’alto le note a similitudine dell’alba, ritorna come un refrain al termine della prima parte del brano e anche nella seconda, quando l’apparire del sole tanto previsto quanto indesiderato, condanna i due amanti alla dolorosa successiva separazione.
La natura con i suoi movimenti, rumori, colori, è ancora protagonista (ma questa volta assoluta, senza personaggi) in Ecco mormorar l’onde, capolavoro di grande freschezza e maestria: la natura assonnata si risveglia all’alba, percorsa da un fremito di vita che, partendo dalle voci più scure in tessitura grave, si dipana lentamente verso zone acute ad imitazione del cinguettio degli uccelli. Questi, dal buio iniziale, annunciano la trionfante entrata del sole (ad imitazione d’una fanfara) che illumina il mare e le montagne, percorrendole con leggere vampate di vento (suggerite in musica da folate di note che si rincorrono nelle varie voci). Raramente troveremo in altri madrigali una simile capacità evocativa di situazioni scenico-visive così puntuale, raffinata ed efficace.
Insieme a quest’ultimo madrigale, altri due costituiscono un prezioso trittico sulle Rime che Tasso pubblica tra il 1586 e 1587: Dolcemente dormiva e Mentr’io mirava fiso. Le tre composizioni, non casualmente poste dall’autore al centro del Libro, iniziano con una specie di recitativo, una nota ribattuta a voce sola poi ripresa a tre voci, sfociando in una meravigliosa fusione tra contrappunti e armonie, in variati impasti timbrici, in una sapiente ispirazione musicale che sottolinea ed esplica perfettamente il testo scherzoso e spesso malizioso. Nel primo le fermate riflessive e le rapide melodie che segnano il turbinoso apparire degli amorini, sottolineano i sentimenti contrastanti di desiderio e timidezza d’un amante verso la propria amata. Un meraviglioso episodio centrale, che è sicuramente qualcosa di più di un semplice madrigalismo, descrive musicalmente il suo lento e pavido chinarsi sulla bocca: al progressivo scendere della melodia in zona grave (come una pittura in movimento), contrasterà la successiva scala ascendente verso la sensazione di paradiso che offrono il contatto sensuale delle loro labbra.
Molte altre le scene amorose (o anche erotiche) presenti nel libro: a cominciare da Quell’ombra fino a Intorno a due vermiglie, da Non son in queste rive fino a Tutte le bocche belle. Tali cospicue presenze ci incoraggiano ad insistere nell’ipotesi che Monteverdi ambisse a quella corte del Duca Gonzaga di Mantova che amava così tanto tale argomento da far costruire un Palazzo dedicato all’ozio e al piacere ricco d’affreschi a tema: il Palazzo Te. Sempre in ambito amoroso e ironico, troviamo Mentr’io mirava fiso, capolavoro assoluto di contrappunto: un velocissimo turbinio di testi e melodie sovrapposte, ma anche contrapposte, che ben dipinge la confusione e stordimento provocato da Amore. All’uomo colpito dalle frecce di Cupido (in questo caso dai due vaghi spiritelli) non resta altro che arrendersi ed abbandonarsi alle grida disperate d’aiuto che, nella seconda parte del madrigale, si concretizzano in melodie a valori lenti sovrapposte, costruttive d’armonie verticali dissonanti (a contrasto con la prima parte viceversa molto orizzontale) di grande efficacia sonora. Tale procedimento si ritrova anche in Non m’è grave‘l morire, dove la seconda parte colpisce per il lento procedere di affascinanti armonie sulle parole lagrimar per pietà, dopo una prima parte orizzontale (con inizio in stile recitativo su una sola nota) e una seconda riflessiva dove grappoli di voci si muovono verticalmente con lo stesso ritmo e testo. S’andasse Amor a caccia è un bell’affresco che ci coinvolge nella descrizione dell’avventuroso cavalcare della caccia , dei richiami e dei suoni tipici di quest’avvenimento della corte rinascimentale.
Conclude il Libro, Cantai un tempo un madrigale “antico” sia per il procedimento compositivo molto arcaico che per l’autore del testo. Un intero brano dedicato al madrigalismo visto che “il deliberato stile arcaizzante d’imitazione mottettistica, i melismi lussureggianti e il flusso non interrotto delle cinque voci, quasi alla maniera di C.de Rore del 1542 o di Willaert” (A.Einstein: The Italian Madrigal, 1949) ci mostra come il compositore conosca e parta dal passato per costruire, già in questo Libro, qualcosa di assolutamente nuovo. Tanto più questo madrigale, non casualmente posto in posizione privilegiata al termine del Libro, canterà come un tempo passato oramai trascorso, lontano, perduto, tanto più appariranno assolutamente innovativi i procedimenti compositivi che Claudio Monteverdi da questo momento in poi amerà sperimentare conducendo la musica verso una nuova epoca, quella moderna.
Scelte esecutive e interpretative
La prima stampa del Secondo Libro ci rimane purtroppo in una versione incompleta che solo grazie alle due successive ristampe del 1607 e del 1621, riusciamo fortunatamente a completare. La prima edizione si differenzia però per la diversa successione dei brani che, per ragioni tipografiche, scambia quattro dei madrigali centrali: fedeli all’intenzione e alla stampa curata dall’autore, abbiamo preferito ripristinare l’ordine originale (riproposta modernamente solo nell’edizione della Fondazione C. Monteverdi, Cremona 1979).
Coerentemente alle scelte interpretative già enunciate e giustificate nel precedente disco (Naxos 8.555307), continuamo a prediligere l’esecuzione con basso seguente, temperamento mesotonico e voci maschili: dai controtenori nelle linee acute di cantus, scendendo gradualmente ai tenori, baritono e basso si ha un amalgama timbrico molto affascinante, del tutto inedito per i madrigali monteverdiani. Sappiamo che le voci femminili cantavano la musica profana (e solo quella) nelle corti italiane, ma riteniamo che tale testimonianza possa essere intesa più come eccezione che come regola: comunque, con fedeltà filologica, desideriamo offrire un’interessante alternativa alle esecuzioni registrate in passato. In omaggio agli apprezzamenti offerti a Monteverdi quale violista proprio nell’anno della pubblicazione di questo libro, inseriamo nell’organico tale strumento: recenti studi di James Bates Italian Viola da Gamba (Solignac-Torino 2002), confermano la maestria e il costante uso di tale strumento da parte del compositore.
Rispetto al Primo, il Secondo Libro offre meno alternative interpretative riguardo le cadenze e la cosiddetta musica ficta, per la maggior chiarezza di scrittura ricercata dall’autore, ma offre sempre più problematiche riguardo l’espressività vocale. Sfruttando l’approfondimento testuale e la nostra naturale sensibilità “tutta italiana”, tentiamo di attuare i precetti interpretativi suggeriti da Nicola Vicentino, già noti nel 1555: “si dè cantare le parole conformi all’oppinione del compositore, et con la voce esprimere quelle intonazioni accompagnate dalle parole con quelle passioni ora allegre ora meste et quando soavi, et quando crudeli, et con gli accenti aderire alla pronunzia delle parole et delle note (…) Si usa un certo ordine di procedere, nelle composizioni che non si può scrivere, come sono il dir piano et forte, et il dir presto e tardo, et secondo le parole muovere la misura per dimostrare gli effetti delle passioni delle parole et dell’armonia”.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555308)

venerdì, febbraio 03, 2012

Marco Rapetti: l'Opera pianistica di Lyadov

Nonostante Ljadov non abbia mai portato a compimento gli studi pianistici al conservatorio (a un certo punto abbandonò anche quelli violinistici), egli riuscì comunque a sviluppare un notevole livello di abilità pianistica. La sua scrittura così idiomatica per il pianoforte è una riprova di quanto padroneggiasse lo strumento, da lui suonato spesso durante le riunioni del gruppo di Balakirev, sia da solo sia a quattro mani con altri membri della Mogučaja Kučka.
L'unico appunto rivoltogli da Rimskij si riferisce alla sua tendenza a suonare troppo piano e in modo introverso. Con il tempo, Ljadov si dimostrò sempre più timido e riluttante a esibirsi di fronte ad altri, tranne quando veniva colto da imprevedibili momenti di irrefrenabile ispirazione (simili, in qualche maniera, agli attacchi di logorrea che interrompevano all’improvviso i suoi prolungati silenzi). Non interessato a perseguire una carriera come esecutore, apparve pubblicamente soltanto nel ruolo di direttore d'orchestra, soprattutto nella stagione della Società Imperiale di Musica Russa e nei concerti sinfonici sponsorizzati da Beljaev (dove diresse, tra l'altro, la prima esecuzione delle Sinfonie nn.1 e 2 di Scriabin).
Come nel caso di Scriabin, la parte più cospicua della sua opera si compone di musica pianistica, fermamente radicata nella tanto ammirata tradizione romantica europea. Ljadov, tuttavia, era poco attratto dalla forma-sonata e non scrisse mai pezzi di lunga durata. Anche le due più imponenti composizioni per pianoforte non sono altro che insiemi di brevi variazioni abilmente giustapposte: l'op.35 (sul tema di una romanza italianeggiante, Nuit vénitienne, composta da Glinka nel 1832) e l'op.51 (su un tema popolare polacco). Nei lavori giovanili, come sottolinea il compositore e musicologo Guy Sacre, "Schumann è il modello onnipresente e tirannico, e non molto spazio rimane all'imitatore per incontrare sé stesso".
Nella prima opera pianistica, lo scintillante polittico Birjul'ki (termine che indica il gioco cinese degli stecchetti, detto Shangai), sono evidenti gli echi di Papillons e di Carnaval (pezzo, quest’ultimo, che più tardi Lyadov orchestrerà insieme ad altri membri del circolo di Beljaev).
Riferimenti ad altri lavori schumanniani trapelano dalla serie di Arabeschi op.4 (dedicati a Rimskij-Korsakov), dal gracile Improvviso op.6, dai vivaci Intermezzi opp.7-8 e dall’impetuosa Novelletta op.20. Paradossalmente, sia gli Intermezzi sia la Novelletta furono dedicati a Vladimir Stasov, l'irriducibile propugnatore della “russicità” in arte, nonché padre ideologico dei Cinque (ugualmente paradossale sarà la dedica del pezzo di matrice folklorica più marcata, la Ballata 'dei tempi che furono' op.21, al compositore più filo-occidentale e conservatore dell’epoca, Anton Rubinstein).
A partire dai primi anni '80, l'influenza di Schumann lascia il posto a quella di Chopin, destinata a diventare pervasiva nello stile di Ljadov. Le tre Mazurke op.3b (1877) sono il primo lavoro che si rifà a Chopin e in particolare al lato slavo del suo carattere. Decisamente chopiniani, ma in un’atmosfera più salottiera, sono lo Studio in la bemolle maggiore, op.5 (dedicato a Balakirev), il Valzer in fa diesis minore, op.9 n.1, il Preludio in re bemolle maggiore, op. 10 n.1, e numerose altre pagine fino all'op.57. Nonostante l'occasionale vacuità della loro eleganza, queste composizioni non sono mai prive di interesse musicale; si notino, ad esempio, la Ninna-nanna op.24 n.2, e la Barcarola op.44, smaccatamente forgiate su modelli chopiniani. Secondo Guy Sacre, l'opera che ha maggiormente influenzato lo tile di Ljadov sono i Tre Nuovi Studi composti da Chopin nel 1840. La loro scrittura estremamente raffinata, l'uso di poliritmi e di modulazioni audaci, e la minor importanza data all'elemento virtuosistico (rispetto ai 24 grandi studi) si accordavano perfettamente con "la delicata sensibilità di Ljadov, il suo gusto aristocratico e il suo orecchio divinatore".
Diversamente da Scriabin, che non s’interessava al canto popolare e considerava il nazionalismo musicale obsoleto, Ljadov rielaborò spesso temi russi e polacchi nelle sue composizioni, coerentemente con il suo imprinting slavofilo all'interno della Mogučaja Kučka.
Va anche ricordato che, nel 1897, la Società Geografica Imperiale lo invitò a raccogliere canti popolari in vari distretti dell'impero, insieme a Balakirev e a Ljapunov. Tale esperienza portò alla pubblicazione di varie raccolte di arrangiamenti vocali (le principali apparvero nel 1898, 1899 e 1902) e a una serie di aforistiche Canzoni popolari infantili per pianoforte, senza numero d'opera. Tratti slavi sono percepibili anche in composizioni largamente permeate da modelli occidentali: vedi, ad esempio, il sesto pezzo di Birjul'ki, con il suo tema modale in ritmo quinario, e il quinto pezzo della stessa raccolta, con l'inequivocabile citazione della Promenade di Musorgskij (Quadri di un'esposizione era stato appena composto, nel 1874). Il primo brano inconfondibilmente russo resta comunque il Preludio in si minore, op.11 n.1 (1886), basato su un tema popolare pubblicato in precedenza da Balakirev (il Preludio sarà orchestrato da Stravinskij).
Gli anni 1889-90, durante i quali il compositore si recò a Parigi con Beljaev per ascoltare l’esecuzione di suoi pezzi presentati all'Esposizione Universale, videro una particolare concentrazione di pezzi pianistici scritti nello spirito dei Cinque, ossia "in modo russico", come Musorgskij aveva scritto all'inizio dei Quadri. Tipicamente russa è la già menzionata Ballata 'dei tempi che furono', di cui Ljadov curò più tardi anche la versione orchestrale (in questo brano l’autore evoca anche il gusli, uno strumento tipico del folklore russo); citiamo inoltre, lo schizzo Nella radura op.23, l’allegra Processione (costruita sopra un basso ostinato di tre note: si bemolle/B, la/A, fa/F, simbolicamente riferito al dedicatario Beljaev), i Tre Pezzi op.33 (il terzo dei quali non è altro che una trasformazione di carattere pastorale del malinconico tema russo esposto nel primo pezzo). Chiari riferimenti al folklore slavo sono rintracciabili ovunque, nelle mazurche, nei cicli di variazioni e nella spiritosa Danza della zanzara, ultimo pezzo pubblicato vivente l'autore (sulla rivista Galčjonok, nel 1911).
Tra il 1891 e il 1893, Ljadov pubblicò alcune composizioni in forma di valzer che utilizzano solo i registri medio-acuti della tastiera e che testimoniano la sua passione per i giocattoli e gli strumenti meccanici. Mentre il Piccolo Valzer op.26 e le deliziose Marionette op.29 non hanno mai riscosso molta attenzione, la Tabacchiera musicale op.32 è riuscita a insinuarsi nel repertorio pianistico di tradizione e a diventare un noto bis da concerto, preservando così il nome del compositore da un completo oblio. Questo originale e tintinnante valse-badinage dedicato al figlio Miša, fu successivamente trascritto dall'autore per ottavino, flauti, clarinetti, arpa e glockenspiel, e riporta un’indicazione agogico-espressiva quantomai insolita: “Automaticamente” (un’indicazione che deve essere assai piaciuta a Stravinskij, il quale dichiarò di amare particolarmente questo brano, così spiritoso e anti-romantico).
La continua alternanza di elementi occidentali e slavi nella musica di Ljadov sembra riflettere la dicotomia socio-linguistica che caratterizza la Russia del secolo XIX: mentre le classi più elevate e le persone di cultura comunicavano in francese (e talvolta in tedesco), il popolo e – fino al 1861 – i servi usavano invece il russo. È più appropriato considerare Ljadov uno slavofilo moderato, un convinto filoccidentale (zapadnik), o un'originale commistione di entrambi? Ciò che senza dubbio lo attraeva era la ricerca di proporzioni perfette all'interno di un ristretto limite temporale, e il contrappunto barocco gli forniva un mezzo ideale per i suoi esperimenti di geometria sonora. Come un entomologo che osserva la struttura simmetrica di un insetto, si dilettava a comporre fughe e canoni secondo le regole tradizionali dell'armonia e del contrappunto. Alcuni di essi furono pubblicati come pezzi pianistici a sé stanti: la Giga e la Fuga incluse nell'op.3, i Canoni op.34 (estrapolati da un volume di canoni pubblicati da Beljaev nel 1898) e le due Fughe op.41 (per quanto spesso menzionati nel catalogo delle opere pianistiche di Ljadov, i 12 Canoni pubblicati nel 1914 sono una collezione di elementari esercizi teorici senza finalità artistiche).
Nel 1916, l'illustre musicologo Aleksandr Ossovskij, a suo tempo frequentatore del circolo di Beljaev, fece pubblicare alcuni frammenti manoscritti di Ljadov sul Giornale Musicale Russo.
Oltre al brevissimo e verosimilmente incompiuto Scherzo in si minore (denominato anche Coro, per oscure ragioni), si trovava anche un Fugato a tre voci sul tema LA-DO-FA. Questa specie di firma polifonica autografa è verosimilmente l'ultima pagina musicale lasciata dal compositore. Il suo testamento pianistico, tuttavia, era apparso in stampa tre anni prima, nel 1910, e consisteva di Quattro Pezzi op.64. Questi capolavori lillipuziani danno l’impressione che “Ljadov si stesse imbarcando in una nuova avventura, senza bussola e quasi senza bagaglio, soltanto con una piccola mappa scribacchiata da Scriabin”, per citare Guy Sacre.
“Attraverso i suoi accordi audaci, le loro particolari atmosfere, i loro titoli e le loro indicazioni poetiche, questi pezzi inaugurano una nuova maniera nel momento stesso in cui la sigillano definitivamente.” Il silenzio offriva a Ljadov un riparo preferibile alla modernità e la sua nostalgia per un passato ormai perduto trova la sua più pregnante espressione nell'ultima e malinconica Mazurka in fa minore, op.57 n.3, scritta nel 1905. Questa pagina sottilmente anacronistica, in cui compare l'ossimoro “Allegretto con amarezza”, rappresenta il tanto procrastinato addio del compositore al XIX secolo.

Entrambi i circoli di Balakirev e Beljaev si caratterizzavano, fra le altre cose, per la collaborativa partecipazione di vari compositori a opere collettive. L'idea di scrivere un pezzo per pianoforte in cui una semplice cellula melodica ricorresse a mo' di ostinato nel registro acuto della tastiera, venne un giorno a Borodin dopo aver ascoltato una delle sue figlie adottive strimpellare con due dita il cosiddetto “tema delle cotolette” (noto altresì come “tatitati”, “tema dei bastoncini cinesi”, o “valzer del cane”). Borodin riciclò il motivetto e gli costruì sotto un brillante Galop. L'idea piacque molto a Rimskij-Korsakov, che invitò i compagni della Mogučaja Kučka a compilare un'antologia di simili Parafrasi. Oltre a Borodin, soltanto Cui e Ljadov accettarono la sfida compositiva, e nell'arco della stagione 1878-79 vennero sfornate dozzine di ingegnosi e divertenti pezzi nei generi più diversi, di cui solo 14 vennero infine prescelti per la pubblicazione (è possibile ascoltare il ciclo completo delle Parafrasi nel cd Brilliant 93984 dedicato all'opera pianistica di Borodin).
Definito da Cui come “uno dei più sbalorditivi tour de force contrappuntistici mai visti”, le Parafrasi furono assai ammirate da Liszt, che considerava la nuova scuola russa come la più interessante e promettente del suo tempo. Il 28 luglio 1880, l'anziano maestro scrisse un piccolo preludio introduttivo al Galop di Borodin (incluso poi, volutamente manoscritto, nella seconda edizione delle Parafrasi). Il Preludio di Liszt non era solo un cordiale omaggio al gruppo di colleghi russi, ma serviva anche da autorevole garanzia contro eventuali detrattori di una composizione tanto eccezionale quanto eccentrica. Ljadov contribuì con uno scintillante Galop, un Valzer, una Giga (in cui viene citata la sequenza del Dies Irae) e un pomposo Corteggio trionfale. Le 24 Variazioni e Finale, dedicate “ai piccoli pianisti in grado di suonare il tema con un dito di ciascuna mano”, formano una serie a parte di brevissimi pezzi costruiti sopra la medesima idée fixe. Rimskij è l'autore delle variazioni 1, 2, 6, 11, 12, 13 ,16, 19; Cui delle var. 3, 5, 8, 17, 18 e del Finale; le rimanenti undici variazioni (nn. 4, 7, 9, 10, 14, 15, 20, 21, 22, 23, 24), tra le quali troviamo quelle di carattere più spiccatamente russo, furono composte dal giovane e promettente Anatolij.
Anche quando stava ancora lavorando nell'impresa di famiglia, l'illuminato dilettante Beljaev era solito invitare dei musicisti, ogni venerdì sera, per studiare ed eseguire i quartetti di Haydn, Mozart e Beethoven nel suo palazzo. In pochi anni il repertorio si estese, diventando principalmente russo, e i Pjatnicy (venerdì) di Belajev divennero presto una delle maggiori attrazioni per l’intelligencija di San Pietroburgo. Rimskij, Ljadov e Glazunov presenziavano regolarmente a questi incontri, durante i quali le loro opere venivano spesso presentate per la prima volta in pubblico (composto peraltro di soli uomini, data la profonda misoginia del padrone di casa). Nel 1887, in occasione dell'onomastico di Beljaev, ciascun compositore scrisse un movimento di un quartetto per archi basato su temi popolari russi (l'anno precedente, Rimskij, Borodin, Ljadov e Glazunov avevano composto un quartetto sul tema B(si bemolle)-LA-F(fa), per celebrare il 50° compleanno del loro benefattore). Il secondo movimento del Quartetto per l'Onomastico fu assegnato a Ljadov, che compose un solenne Canto celebrativo (Veličanie). L'intero quartetto fu quindi trascritto per pianoforte a quattro mani. Anche la Sarabanda in sol minore non è altro che la versione pianistica di un pezzo in stile barocco per quartetto d'archi concepito per una delle grandi serate musicali di Beljaev.
Negli altri pezzi pianistici collettivi - incisi qui per la prima volta - compaiono i nomi di vari membri illustri del circolo Beljaev. Molti di essi furono allievi di Rimskij-Korsakov al conservatorio di San Pietroburgo prima di diventare a loro volta docenti nello stesso istituto.
Nel 1890, Nikolaj Artsibušev (1858-1937), il compositore lettone Jāseps Vītols (1863-1948), e Nikolaj Sokolov (1859-1922) si unirono alla potente triade Rimskij-Ljadov-Glazunov nella composizione di uno scherzo (in russo, Šutka), ovvero in una parodia delle eccitanti quadriglie di Lanner e Johann Strauss. Nata nella seconda metà del secolo XVIII, la quadriglia era una contraddanza che coinvolgeva quattro coppie di danzatori alle prese con continui volteggi e scambi di partner. Assai di moda in Francia e Inghilterra, si diffuse quindi in Germania e Austria, dove divenne celebre anche come forma puramente strumentale. La tipica struttura francese in cinque parti (intitolate: Pantalon, Été, Poule, Pastourelle, Finale) si arricchì a Vienna di una sesta figura, Trénis (dal nome del maestro di danza Trenitz). Ljadov collaborò allo Scherzo-Quadriglia (Šutka-Kadril') in sei parti scrivendo la musica per la terza figura, la Poule (la gallina).
Il 2 gennaio 1894, Ljadov, Glazunov e il brillante compositore, pianista e direttore d'orchestra Felix Blumenfeld (1863-1931) festeggiarono il 70° compleanno di Vladimir Stasov con alcune solenni fanfare (Slavlenija) per pianoforte a quattro mani. Fratello del cantante e compositore Sigismund Blumenfeld (1859-1920), Felix Blumenfeld è ricordato, tra l'altro, per aver diretto la prima esecuzione in Russia del Tristan und Isolde, molte opere di Rimskij-Korsakov, e nel 1908, la storica prima parigina del Boris Godunov (Ljadov gli dedicò i Quattro Preludi op.39).
Nel 1899, Blumenfeld collaborò alla composizione di una serie di virtuosistiche variazioni per pianoforte, insieme a Rimskij, Ljadov, Glazunov, Sokolov, Vītols e Aleksandr Winkler (1865-1935). Il tema fu estrapolato da una raccolta di canti popolari pubblicata nel 1879 da Nikolaj Abramičev, a cui le Variazioni su un tema russo sono dedicate (Ljadov aveva in precedenza dedicato al medesimo studioso i suoi Tre Pezzi op.33). La prima frase del tema, “Malenkij Mal'čišenko v gorenke sidel” (“Un ragazzino se ne stava seduto in una cameretta”) corrisponde a una semplice melodia di cinque battute basata sulla triade di la maggiore; la seconda frase, “Zadumal ja dumušku: ženit'sja choču” (“Mi è venuta un'ideuzza: voglio prender moglie”) corrisponde a quattro battute di una melodia più elaborata che termina sulla dominante. Nell'armonizzazione del tema fatta da Ljadov queste ultime quattro battute vengono ripetute due volte (la seconda volta con ritorno alla tonica) dando origine a un asimmetrico tema di 13 battute. Si direbbe che Ljadov abbia rivestito un ruolo protagonistico in questa composizione: oltre alla stesura del tema, vennero incluse due sue variazioni, a differenza dei colleghi che ne inclusero una soltanto. La prima variazione (n.6, in re bemolle maggiore) è un plateale omaggio all'ampio cantabile chopiniano, mentre la seconda (n.7, in la maggiore) mostra la predilezione di Ljadov per le combinazioni poliritmiche (in questo caso, cinque note contro tre). Tutte le variazioni mantengono la tonalità maggiore del tema, tranne quella pateticissima - e sornionamente ironica - di Sokolov. La variazione di Rimskij-Korsakov fu collocata per diritto d'anzianità e di prestigio al primo posto; Glazunov, invece, ebbe l'incarico di concludere il ciclo con un vigoroso finale “alla polacca”. Le Variazioni su un tema russo furono pubblicate nel 1900 e da allora non sono state quasi mai eseguite. Con questa coinvolgente composizione pianistica, ingiustamente ancora sconosciuta, Beljaev e i suoi amici inaugurarono il nuovo secolo nel modo più giocoso e spensierato.

Marco Rapetti (note al CD Brilliant Classics 94155)