Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, settembre 30, 2021

Il labirinto felice: i percorsi di Arianna Savall

Arianna Savall è da tanti anni un’infaticabile esploratrice dei sentieri meno battuti della musica classica e "a margine" - per usare un’espressione che in questa rivista ha successo -, sulle orme dei suoi celebri genitori Jordi Savall e Montserrat Figueras. Ma solo ora è arrivata alla decisione di pubblicare un disco completamente da sola: il titolo è "Le Labyrinthe d’Ariane", e vi ascoltiamo un repertorio che spazia dal Medioevo al Barocco, dall’Italia alla Francia alla Spagna, e con sette differenti arpe storiche.
Riportiamo la piacevole conversazione tenuta con l’artista catalana.

Perché questo titolo?
Avevo diverse idee per questo disco, ma con il team di Alia Vox abbiamo pensato che questo percorso con sette arpe fosse ben rappresentato dall’immagine del labirinto, che è però un labirinto felice, dove i1 Minotauro è un amico, un segno di speranza. L’arpa ha un suono insieme dolce ed arcaico, quasi magico, che calma e seduce. E poi il labirinto è anche simbolo di un cammino interiore, di coscienza e conoscenza.
Come ha scelto il repertorio da incidere?
Alcuni brani mi accompagnano dall'infanzia, come la Follia di Gaspar Sanz, arricchita da mie improvvisazioni, così come quelle di Marin Marais, di Lucas Ruiz de Ribayaz, di Santiago de Murcia: è musica che studiava mio padre quando io ero piccola, e con cui sono cresciuta. Invece a mia madre mi riporta "Folle è ben che si crede" perché a Merula mia madre aveva dedicato un disco: amava molto la musica italiana, specialmente Caccini e Monteverdi. La conoscenza di Kapsberger invece mi viene da Rolf Lislevand, mio maestro: l’arpa barocca ha molto repertorio in comune con la tiorba, il liuto e il cembalo, ed è bello quindi studiare con un liutista. Infine, amo anche il repertorio medievale dei trovatori, perché anch'io mi sento un trovatore del nostro tempo: è musica per la cui esecuzione abbiamo meno informazioni, e quindi c’è più libertà.
E poi le sette arpe: me ne parla?
Partiamo dalla piccola arpa romanica, compatta come le chiese di quel periodo, dal suono fosco e facile da trasportare; poi l’arpa gotica, più grande e più cristallina. Passiamo a due strumenti medievali della penisola iberica: la rota, un’arpa-salterio davvero affascinante che presenta due file di corde dai due lati della tavola armonica, e si impugna come un’arpa (non come un salterio). Questo strumento ha una "vita" di circa cent’anni, e poi intorno al 1300 è soppiantata dall’arpa doppia dell'Aragona e Valencia: entrambi sono alla base dell‘arpa doppia italiana, comparsa a Napoli. Queste erano le quattro arpe medievali; poi passiamo al Rinascimento con la citata arpa doppia italiana, che ha vita breve perché e uno strumento difficile da suonare, tanto che già Monteverdi nell'Orfeo, 1607, scrive "arpa doppia" ma intende un‘arpa tripla, ossia a tre registri. Spesso si fa confusione fra i due strumenti! L’arpa tripla italiana ha due file diatoniche all’esterno, ed all’interno le corde cromatiche: le sue possibilità sono enormi, è uno strumento indispensabile per il basso continuo, tanto che viaggia per tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra, dove Purcell se ne innamora. Ma in Spagna (e poi nel Sudamerica) invece si preferì usare un tipo di arpa doppia cruzada, ossia incrociata, con una fila di corde cromatiche e una diatonica: un suono più terreno, diretto, mentre l’arpa tripla è celestiale. Ed è la mia favorita, insieme a quella medievale.
E' il suo primo disco da sola: perché solo ora?
Ho compiuto un passo che mi è costato coraggio: ho creato 11 anni fa il gruppo Hirundo Maris con mio
marito Peter Udland Johansen, che è norvegese, unendo Nord e Sud. E io amo esibirmi in duo, o con altri musicisti, amo il dialogo: suonare da solo è un‘esperienza diversa. Ma mio padre voleva un disco così, in cui le arpe antiche fossero protagoniste, e anche Peter mi ha spronato in tal senso: quindi nel 2018 ho registrato in un piccolo castello in Belgio, casa di alcuni amici, che ha un’acustica molto bella, diretta e non troppo risonante. In questo disco io canto poco perché volevo che le arpe cantassero da protagoniste.
Una domanda forse abusata: com’è stato diventare musicista con l’esempio così luminoso dei suoi genitori?
Credo che da fuori appaia più difficile di quanto sia stato per me e mio fratello, anch‘egli musicista professionista: abbiamo sempre visto i nostri genitori fare le prove a casa, il loro amore per la musica e per questa vita da nomadi, che ha momenti difficili - spesso erano fuori casa, e ci lasciavano con una babysitter. Ma mia madre si curava che avessimo sempre ottimi insegnanti di musica: io ho iniziato a studiare il piano, poi l'arpa celtica, l’arpa classica, i1 canto... A casa però non facevano tanta musica, con l’eccezione del periodo di Natale: nella famiglia di mia madre c’è una ricca tradizione di canto corale, una letteratura davvero affascinante. Io ho studiato storia dell’arte e archeologia all’università, ma a vent’anni ho capito che l'attrazione per la musica era più forte: ho scelto io questa vita, o almeno lo credo! Non è una vita facile, certo: ma quale lo è?
Oltre a Lislevand e i suoi genitori, quali figure sono stati importanti per la sua crescita artistica?
Voglio ricordare la mia insegnante di pianoforte, Susanne Hockenios, che mi ha insegnato a comporre ed a improvvisare; e poi Magdalena Barrera e Andrew Lawrence-King, con cui ho studiato l’arpa e Maria Dolors Aldea, insegnante di canto e grande amica di mia madre. Mi confronto con tutti loro ancora oggi.
I prossimi progetti discografici?
La lista di progetti è lunghissima, e non credo che porterò a termine tutto: posso dire che a settembre uscirà per Fuga Libera un disco che contiene pagine dell’Ottocento e del Novecento per voce e pianoforte, che unisce musica e poesia, fra Schubert, Schumann, Grieg e Fauré, trascritta per due chitarre, arpa barocca, mandolino, violino e contrabbasso. E poi continuerò questo "labirinto" con le arpe, allargando l'indagine ad altri ambiti geografici.
Claudio Bolzan, Nicola Cattò
("Musica", n.327, giugno 2021)

mercoledì, settembre 22, 2021

A colloquio con Vladimir Delman

Vladimir Delman (1922-1994)

Il settantenne direttore d'orchestra sembra voler trasfondere l'ardore che infiamma le sue interpretazioni nell'attività didattica: "Con i giovani si impara a comprendere meglio l'impatto con la musica".

A vederlo, sembra 
una creatura di fiaba, un folletto magico da un racconto di Hoffman. Piccolo, accigliato ma tenero, gli occhi che scintillano fulgore e passione incorniciati da una folta barba bianca, simbolo di saggezza. E invece Vladimir Delman, settant'anni immersi nella cultura e nel teatro, è un piccolo gigante della musica: padre fondatore del Teatro dell’Opera da camera e docente dell’Istituto d’Arte Teatrale di Mosca, nativo di San Pietroburgo ma cittadino italiano da quasi vent'anni, promotore di iniziative meritevoli (dal Teatro-Studio quando governava il Comunale di Bologna al concorso per direttori "Arturo Toscanini" di Parma) gratificate dal Premio Franco Abbiati, pochi anni fa. Lo dipingono come un irascibile e ruvido dittatore d’orchestra, ma dietro quella maschera c’è uno schietto e genuino fustigatore di una malattia musicale contagiosa, il lassismo parasindacale dei complessi sinfonici, aggravata dalle congiure burocratiche e dallo spreco di denaro pubblico.
Non deve essere stato facile per un musicista della vecchia guardia come lui riportare sull'onda giusta l’Orchestra della Rai di Milano in un periodo così travagliato, fra tagli di organici e amputazione del coro, liquidato senza troppe titubanze.
Eppure, adesso il connubio musicale sembra giunto al capolinea e, con buona probabilità, si profila un divorzio. Oggetto del contendere è la nuova, scintillante Orchestra Sinfonica "Giuseppe Verdi": una milizia di un centinaio di giovanissimi strumentisti, giunta da tutta Italia e con qualche innesto europeo, felicemente battezzata al Conservatorio di Milano, il 13 e 14 novembre. Un’iniziativa benemerita, si sarebbe detto, visto il desolante panorama nazionale. E invece apriti cielo! Fra ripicche, invidie e gelosie l’avvio è stato più polemico che propiziatorio. Gli strumentisti Rai hanno gridato al tradimento, qualche polemista ha tacciato l’orchestra "Verdi" di acidità interpretativa, come se non ci volessero anni, invece di settimane di lavoro, per raggiungere la piena maturità artistica. Eppure è stato bello avvertire l'entusiasmo dei giovanissimi, dopo l’esecuzione della Fantastica di Berlioz. E' stato bello sentire la compattezza degli archi e la dolcezza degli interventi solistici. E' stato incoraggiante sapere di prove che si protraggono fuori tempo massimo, senza il ricattatorio assillo sindacale. E sono confortanti le parole di Delman: "Vede, non si tratta di una novità assoluta, a Bologna ero riuscito a organizzare un laboratorio di perfezionamento che riuniva direttori, cantanti e registi. Forse erano tempi diversi dai nostri: l'Orchestra del Comunale aveva accettato di sopportare l'inesperienza dei giovani direttori, facendo pazientemente tutto il necessario per aiutarli. Qualche anno dopo a Parma, con l'Orchestra Toscanini, mi riuscì molto di più: fu creata un'orchestra di giovani che venivano da tutto il mondo: americani, polacchi, cechi, russi e naturalmente italiani. Fu un'esperienza interessante che mi ha lasciato un ricordo molto intenso. Tutto questo non è mai avvenuto casualmente, perché ho sempre creduto nell'attività didattica come a un completamento del lavoro artistico. A Milano ho sofferto moltissimo di non poter realizzare qualcosa del genere: appena approdato alla Rai, ho subito posto il problema, i soldi andavano a finanziare iniziative diverse. Io volevo che un certo periodo dell'attività fosse dedicato ai corsi di perfezionamento: lavorando con i giovani si impara a comprendere meglio l'impatto con la musica, ognuno può capire di più e trarne un vantaggio. Ma questa che per me è una necessità organica, mi è stata negata da entrambe le parti, sia dai dirigenti che dall'Orchestra".
Tre anni fa Delman chiese e ottenne dal direttore della Rai, Biagio Agnes, di realizzare una serie televisiva intitolata Le sei magnifiche, prodotta da Raiuno (trasmessa a dicembre in Tv) e dedicata alle sei Sinfonie di Caikovskij, facendo lavorare le orchestre giovanili dei Conservatori di Pittsburg, di Mosca e di Milano. "Un'operazione appoggiata con grande entusiasmo da tutti, a differenza di quest'ultima. Si pensò anche al progetto di riunire le tre orchestre, facendo eseguire la Terza Sinfonia di Mahler. Sembrava tutto risolto: date, finanziamenti, problemi pratici. Ma io mi sono ammalato e la cosa non si è fatta. Adesso siamo ritornati ai vecchi ideali, con modalità diverse, per arricchire il capitale culturale milanese e italiano, carente sul piano giovanile. Sin dall'inizio, questa orchestra è stata pensata per affrontare un problema didattico, sia per i direttori sia per i cantanti e i registi. A livello europeo abbiamo dei progetti di ampio respiro: vorremmo creare un centro di perfezionamento professionale per direttori, aperto a diversi docenti, che possa svolgere dei corsi: una sorta di laboratorio che sviluppi la "cultura" direttoriale, traducendo libri e manuali, approfondendo il lavoro di conoscenza. Questo sarà il prossimo obiettivo, sempre che riusciremo a sopravvivere".
Poi azzarda un giudizio sulla preparazione complessiva dei "suoi" fanciulli. "Vede, al momento il livello professionale è mediocre. Ma la mia idea non è cambiata: i musicisti italiani, per diversi motivi, non hanno gli strumenti adatti per arrivare a grandi risultati, ma posseggono una natura ricchissima. Sono ragazzi spaventosamente bravi, in grado di affrontare un repertorio tecnicamente superiore alla loro preparazione e alla loro maturità umana. Io sono convinto che gli italiani siano eccezionalmente adatti a fare questo mestiere. Eccezionalmente, ripeto, meravigliosamente dotati. E' solo la natura. I russi sono adatti agli scacchi, per esempio. Certo, manca la disciplina, mancano gli insegnanti giusti. Ma quando io dico che sono "mediocri", voglio far capire che le migliori orchestre non sono fatte dai grandi solisti: può essercene qualcuno, ma l'importante è il livello generale, la potenzialità d'insieme che qui esiste. Non può negarlo nessuno. Hanno scritto che noi proviamo per due mesi. In realtà le prove durano soltanto tre settimane, una a sezioni e due con me. In tre settimane non si fa un'orchestra, ma con il tempo possiamo riuscirci. Ammiro e amo moltissimo questi ragazzi, lavoro tanto volentieri con loro nel mio tempo libero. Mi commuove la loro capacità di capire il fraseggio finissimo, anche per certe musiche che non sono troppo vicine alla loro sensibilità. L'entusiasmo finora esiste. Ma c'è bisogno che questo entusiasmo cresca: voglio che in futuro questi giovani possano provare sul palcoscenico un brivido speciale, quello che in altre professioni non esiste".
Gli obiettivi e i traguardi sono molto ambiziosi, basta scorrere i programmi che vanno da Berlioz a Mahler, da Prokovief a Shostakovich: "L'alto profilo delle partiture è superiore alle nostre forze, indubbiamente. Ma nonostante la mancanza d'esperienza, il successo e l'accoglienza del pubblico ci dicono che siamo sulla buona strada. Certo, non basta fare in modo pulito la propria parte, bisogna che ciascuno di loro abbia la concentrazione giusta e il rispetto per il lavoro di tutti, che sacrifichi agli altri la sua personalità. Suonare in orchestra richiede una grandissima arte, che non ha nulla da invidiare alle difficoltà di un quartetto da camera. E' importante anche che tutti arrivino alle prove conoscendo bene la loro parte, cosa rarissima in Italia: in caso contrario impiegheremmo anni, non giorni, per fare la Quinta di Mahler".
Poi il discorso cade sulle note dolenti: "In Russia, quando ho cercato di fare qualcosa di simile, il potere voleva distruggerci, ma la gente stava dalla nostra parte. Qui vorrei sbagliarmi, ma qualcuno non ha capito lo spirito dell'iniziativa".
Forse la Rai si sente un'amante tradita, proviamo a domandargli. La replica è quasi uno sfogo: "Qualsiasi cosa debba succedere, io auguro all'Orchestra Rai un futuro migliore di quello avuto sinora. Ho fatto di tutto per accrescere l'attenzione del pubblico, abbiamo avuto dei concerti in cui tre o quattrocento persone non sono riuscite ad entrare. Questo non succede casualmente. Io credo che con un maggior interesse da parte della struttura artistica e amministrativa il successo avrebbe potuto fruttare molto di più. La mia nuova iniziativa non ha scatenato invidie, ma piuttosto può aver pesato l'incertezza del destino per gli orchestrali, persino la disinformazione. Adesso, può darsi che io sia uno stupido, ma la mia coscienza è tranquilla. Tradire un'amante vuol dire abbandonarla: finora io questo non l'ho mai fatto. Per il concerto d'apertura ho lavorato sulla Seconda Sinfonia di Mahler come un negro, senza mai vedere, in due settimane di prove, un dirigente. Ebbene, se questo vuol dire tradire un'amante, allora io sono un traditore".
Luigi Di Fronzo
("Amadeus", Anno VI, numero 2 (51), febbraio 1994)

giovedì, settembre 02, 2021

Eduardo Rescigno: la Prima Sinfonia di Gustav Mahler

La Prima venne iniziata nel 1884, cioè pochi mesi dopo l’inizio dei Lieder eines fahrenden Gesellen
, e conclusa alla fine del 1888. In un primo tempo Mahler concepisce la composizione come una vasta musica a programma e la intitola esplicitamente “poema sinfonico in due parti”: non c’è dubbio che si tratta, nella mente dell’autore, di qualcosa di autobiografico, sul tipo della Sinfonia Fantastica di Berlioz. Molti anni dopo, quando ogni esplicito riferimento autobiografico era stato tolto, Mahler scrisse: "Vorrei ben mettere in evidenza il fatto che la sinfonia inizia al di là della relazione amorosa; questa ne è la base, dal momento che nella vita sentimentale del compositore le preesistette. L’esperienza esteriore divenne quindi l’occasione, non il contenuto dell’opera".
In un secondo momento, organizzatasi l’opera come una sinfonia in quattro movimenti, l’autore le diede il titolo di “Titan” (Titano), che tuttavia non aveva alcun riferimento con i giganti della cosmogonia greca. Il riferimento era invece al romanzo omonimo di Jean Paul, in cui non si trova nulla di titanico, ma che, al contrario, è l’esaltazione di un puro adolescente che non riesce mai a mutarsi in un adulto e ad agire: c’è insomma un chiaro riferimento al motivo dell’eterno viandante che già Mahler aveva cantato nei Lieder; un viandante immerso in una splendida, incontaminata natura, la stessa natura che costituisce l’aspetto più poetico e riuscito del romanzo. Nell’ultima fase di elaborazione Mahler tolse il titolo (che tuttavia viene ancora talvolta citato nei programmi concertistici e nelle copertine discografiche, soprattutto per il richiamo di esso con il finale, come vedremo) e modificò qualche altra cosa.
Prima di addentrarci nell’analisi della sinfonia, ancora un accenno alla sua formulazione precedente, dove, per la presenza di titoli illustrativi, è possibile cogliere alcuni significati che permangono anche nell’opera definitiva. La Sinfonia comprendeva cinque movimenti ed era suddivisa in due parti. La prima parte era costituita dai primi tre movimenti e portava il titolo "Dai giorni giovanili; frammenti di giovinezza, frutti e spine”. Il primo movimento, corrispondente all’attuale, aveva il titolo: "Primavera senza fine. L’introduzione descrive il risveglio della Natura al primo mattino”. Il secondo movimento, un Andante che poi venne soppresso, portava il titolo di “Capitolo dei fiori”. Il terzo movimento, corrispondente all’attuale secondo movimento, cioè lo Scherzo, "A gonfie vele”. La seconda parte aveva per titolo, in italiano, “Commedia umana”: comprendeva l’attuale terzo movimento, cioè "I funerali del cacciatore”, ispirati a una pittura popolare, e, a conclusione, l’attuale finale "Dall’Inferno al Paradiso”, anche questo titolo indicato in italiano, con la precisazione: “Allegro furioso - come l’improvviso scoppio di un cuore ferito in profondità”. "In questa ripartizione della Sinfonia - scrive Luigi Rognoni - è contenuto già tutto il dramma “umano” vissuto da Mahler sino alla Decima, dove ancora ricorreranno i riferimenti all’Inferno e al Purgatorio; ma il Paradiso mahleriano, nonostante si sia voluto vedervi un’allusione dantesca per il fatto che i titoli sono stati posti in italiano, non esprime una trascendenza religiosa: e il Paradiso del Knaben Wunderhorn, la "vita celestiale” celebrata nella Quarta dove "gli angeli cuociono il pane” e i santi attendono alla cucina e dove "le voci celesti - esortano i sensi - a risvegliarsi alla gioia”: cioè è il ritorno all’infanzia, è la ripetizione" (1).
Ascoltando la Sinfonia, teniamo presenti queste indicazioni, naturalmente ricordando che l’originale secondo movimento è stato eliminato (ed è stato distrutto da Mahler).
La sinfonia ha inizio wie ein Naturlaut, come un suono della natura: tutti gli archi, dai più gravi ai più acuti, partono con un unico suono, un la, che copre il più ampio spazio possibile, da quello più grave dei contrabbassi a quello più acuto degli armonici artificiali dei violini. E' il suono puro, immobile, anonimo della natura, qualcosa che suggerisce l’idea di una staticità primordiale Qualcosa che richiama il lungo pedale di mi bemolle che apre L'oro del Reno wagneriano, che l’autore definisce come “elemento primordiale”, ma che psicologicamente è forse più vicino all’inizio della Pastorale beethoveniana, con quel suo brevissimo bicordo fa-do, una quinta vuota che è un po’ il simbolo di un mondo naturale indifferenziato, in Cui poi fa il suo ingresso l’uomo.
Questo lungo pedale di la, che si protrae immutato per 46 battute e, limitatamente ai bassi, prosegue ancora per altre 10 battute, viene poi arricchito da altri suoni, un mi alla terza battuta (ed ecco formarsi anche qui la quinta vuota la-mi, analoga a quella della Pastorale). Poco dopo si avverte un primo elemento melodico, un intervallo di quarta discendente, costruito sulle note la-mi, Anche la quarta discendente è, per Mahler, un suono della natura, di cui farà grande uso in tutto il suo periodo giovanile: è il canto del cuculo (che però, in realtà, è formato da una terza discendente, e così lo intende anche Beethoven nella Pastorale). La quarta discendente tende lentamente ad organizzarsi in un accenno di discorso, sempre costituito dal concatenarsi di quarte discendenti: più che un tema, è un seguito di intervalli.
Poco oltre, si ode una fanfara lontana, di straordinaria suggestione non soltanto sonora, ma anche visiva: è certamente anche questo un ricordo d’infanzia, la visione e anche il suono particolare di quelle squallide guarnigioni di frontiera poste all’estrema periferia dell’Impero, dove appunto Mahler trascorreva l’infanzia e che alcuni decenni dopo rivivranno magistralmente, e con l’identico significato di tragica esperienza umana, in molti romanzi di Joseph Roth.
Il risuonare lontano della fanfara, il concatenarsi delle quarte e un altro spunto tematico più sostanzioso, affidato a violoncelli e contrabbassi e agli ottoni, portano avanti questo lungo episodio introduttivo, esasperandone la staticità fino all’ingresso, in re maggiore (fin qui siamo restati in re minore), del primo tema: uno spunto di canzone, caratterizzato dall’intervallo iniziale di quarta discendente. Si tratta dello stesso tema del secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen, il cui testo inizia con le parole "me ne andavo stamane per i campi". Lo sviluppo sinfonico, cui viene sottoposto questo tema semplice e delicato, è caratteristico di tutto il primo movimento della sinfonia, intessuta di elementi molto semplici,
fittamente elaborati. Più avanti, infatti, più che di un secondo tema, si può parlare di vari spunti tematici, che alternativamente sembrano assumere un ruolo predominante, ma sono quasi sempre derivati dall’intervallo di quarta, che è veramente l’elemento unificatore di questo movimento. Si sente ancora l’effetto del pedale, si sente a volte nuovamente risuonare in distanza il richiamo militare, ma è sempre lui, il viandante che passeggia nei campi, in mistica e felice unione con la natura, ad apparire in primo piano.
Il viandante, che ha così liberamente espresso la sua gioia di vivere nell’abbraccio della natura, lo ritroviamo anche nel secondo movimento, costruito nella forma tradizionale dello Scherzo: un movimento anch’esso costruito sul simbolico intervallo di quarta (la-mi-la) che si ode all’inizio, e che imposta quel caratteristico ritmo di Ländler che Mahler aveva già usato nel Lied giovanile Hans und Grete. Ma certo il culmine di questo movimento, e forse il centro focale di tutta la sinfonia, è il trio centrale, con quella sua melodia tipicamente viennese e post-bruckneriana, che tuttavia è condotta attraverso un gioco estremamente sottile di oscillazioni, sospensioni, false riprese: una splendida conquista della più matura arte mahleriana.
Il terzo movimento, che in origine, si ricordi, portava il titolo di “marcia funebre”, è di complessa concezione. Esso è tutto costruito su una successione di immagini visive e sonore, montate come attraverso una serie di dissolvenze, al contrario di quanto era avvenuto nel primo movimento, dove tutto era stato assimilato attraverso l'immagine dell’intervallo di quarta. E' interessante leggere il programma che Mahler concepì al tempo di una delle prime esecuzioni, così come ci è stato trascritto da Paul Stefan: "Arenato. Una marcia funebre alla maniera di Callot. A chiarimento serva, se necessario, il seguente: l’Autore ricevette i suggerimenti esterni di questo pezzo musicale dal quadro parodistico, ben conosciuto da tutti i bambini della Germania del sud, I funerali del cacciatore, da un antico libro di fiabe infantili: gli animali del bosco accompagnano il feretro della guardia forestale morta; le lepri portano innanzi la piccola bandiera, una banda di musicanti boemi accompagnata in coro da gatti, rospi, cornacchie ecc. Cervi, caprioli, volpi e altri quadrupedi e piumati animali del bosco seguono, in buffi atteggiamenti, il corteo. In tale atmosfera è concepito questo pezzo come espressione di uno stato d’animo ora ironicamente allegro, ora carico di sinistri presentimenti".
L’intero movimento è costruito su tre elementi molto diversi fra loro, i quali si presentano sempre separatamente. Una lunga marcia funebre, segnata dal monotono battere del timpano (re-la-re-la...), che ancora una volta ci riporta al simbolico intervallo di quarta. Sopra questo movimento ossessivo si disegna un canone, formato con un tema notissimo, la vecchia melodia popolare Frère Jacques (in italiano Fra Martino), portata però dal maggiore al minore. E' una marcia funebre grottesca e, proprio per questo, di una lacerante desolazione.
Ad essa fa seguito un autentico episodio parodistico, che mescola assieme spunti melodici tipicamente boemi, che fanno pensare a Liszt, trattati con estrema volgarità: effetti di timpani e piatti come in una mediocre banda militare, glissandi di violini come in una altrettanto mediocre esecuzione di musica leggera. Questa improvvisa apertura su un mondo triviale, dove la musica è ridotta al ruolo di una pietanza, ci fa pensare ad analoghe situazioni, qualche decennio più tardi, presenti in Kurt Weill.
Il terzo episodio del movimento è totalmente diverso: Mahler riprende, lasciandola praticamente immutata, la parte finale del quarto dei Lieder eines fahrenden Gesellen, alle parole: "In una Strada v’è un tiglio, sotto il quale una volta ho riposato! Sotto questo tiglio, che lasciava piovere su di me le sue foglie e i suoi fiori, non sapevo come va la vita, era tutto, tutto molto bello... Amore e dolore! Realtà e sogno!". E' una melodia molto semplice, di esplicito carattere popolare, che va eseguita, come precisa Mahler, "in maniera semplice e disadorna" e anche in maniera "non sentimentale".
Dopo questo suggestivo richiamo a quello che è il mondo della natura, riprendono ancora, in forma abbreviata, la marcia funebre sul Frère Jacques e la triviale musica da fiera; ed è sui rintocchi del timpano, cioè ancora sulla quarta discendente, che il movimento si conclude o, per meglio dire, si sospende in attesa della improvvisa esplosione del piatto che "come un lampo fra le nubi oscure", dà inizio al Finale.
"Questo inizio così esplosivo - scrive Hans F. Redlich - rappresenta evidentemente la lotta con le forze ostili del fato, caratterizzate da violente esclamazioni nei legni, che interrompono il motivo eroico suonato dagli ottoni. L’elemento di contrasto è fornito da un “cantabile” di grande bellezza e anche dall’improvviso ritorno al wie ein Naturlaut del primo movimento, quasi montaggio cinematografico." Il fresco e gioioso senso della natura dei primi movimenti, e anche i risvolti grotteschi che ad esso si contrapponevano, dovrebbero essere qui riscattati con un vigore più drammatico, in una sorta di volontarismo eroico; e bisogna anche dire che la fusione dei due elementi risulta decisamente forzata, anche se questo finale ha un grande fascino sonoro e certamente una vigorosa presa sul pubblico. Esso è in sostanza costruito sui due elementi che ha già indicato Redlich: un vigoroso tema di marcia, che affiora in mezzo alle tempeste di accordi dissonanti e assume via via il sapore di un grande appello, quasi un corale eroico, e un tema melodico di grande dolcezza. I due elementi sono portati avanti nella forma tripartita: prima il tema eroico, poi quello melodico, poi di nuovo quello eroico che subisce un ampio sviluppo e inizia una specie di perorazione finale. Ma questa viene interrotta dall’affiorare del suono della natura, così come era apparso all’inizio del primo movimento, con il suo lungo pedale, con i suoi intervalli di quarta, con i richiami del cuculo; sopra di esso si distende nuovamente il tema melodico. Infine riprende il tema iniziale e sopra di esso è costruita la grandiosa perorazione finale.
Una conclusione che potrebbe essere definita beethoveniana e che fa spesso accettare il titolo di "Titan”; ma una conclusione che contrasta con il resto della sinfonia, decisamente "anti-titanica”.
Eduardo Rescigno
("I Grandi Musicisti", Nuova edizione riveduta 1978, Fabbri Editori)

(1) Luigi Rognoni, "Riscatto e attualità di Gustav Mahler", in L’Approdo Musicale, n..16-17, ERI, Torino, 1963.