Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, gennaio 21, 2022

Ricordo di Guido Cantelli

Scrivere di Guido Cantelli, rievocarne la figura, l'arte, parlare della sua vita, 
è cosa che fa un poco tremare, tanto triste e vivo è ancora il ricordo di quella giovane esistenza così duramente spezzata!
Si diceva allora, mi rammento, che quel ragazzo era eccezionalmente fortunato, fortunatissimo! Direttore alla Scala a soli ventotto anni, protetto da Toscanini (anzi allievo suo, "pupillo" addirittura), procedeva veloce sulla strada che doveva condurlo alle più alte vette del magistero orchestrale; idolo di pubblici nostrani e stranieri, già ricco di successi internazionali e di critiche concordi e osannanti!
Poi un giorno, un breve volo, un urto, una fiammata e tutto finì! Aveva 36 anni! Bella fortuna!!
Ventisette luglio 1945: si presenta al battesimo del pubblico milanese un nuovo Maestro: il giovanissimo Guido Cantelli. Ce lo fa conoscere Riccardo Pick Mangiagalli, direttore del Conservatorio, proponendolo per un Concerto con l'Orchestra della Scala (nientemenol). E il Concerto ha luogo nel cortile della Rocchetta, al Castello Sforzesco, con un programma impegnativo (vi figura fra 1'altro la 6a Sinfonia di Ciaikowsky e una Humoresque di Pick Mangiagalli eseguita dal bravo Marcello Abbado, pianista); l'esito è buonissimo e il successo è dovuto, oltre che alla bravura degli interpreti, anche alla suggestione favorevole che i due giovani esercitano sul pubblico.
Così comincia Cantelli: ha fretta, molta fretta perché la sua bella carriera sarà breve (sembra quasi che già lo sappia!): ha diretto qua e là, in provincia, qualche recita d'opera lirica ingoiando di malavoglia certe orchestre da paese (col primo trombone calzolaio e il primo flauto farmacista) mettendo a dura prova nervi e carattere; poi si è dato alla musica classica dirigendo un anonimo gruppo strumentale nelle serate musicali di casa Majno e ora spera nella Scala, vuole arrivare lì, anzi, con il Concerto al Castello si può dire che è già arrivato!
Tuttavia quasi tre anni dovranno ancora trascorrere prima del 21 maggio 1948, data della vera consacrazione scaligera di Guido Cantelli: tre anni di maturazione di studio di attesa. E in questo periodo quante cose accadono! La ricostruzione del Teatro e il ritorno di Toscanini sono gli avvenimenti più importanti, legati l'uno all'altro. Il vecchio, celebre Maestro riprende l'antica sua vita scaligera: è sempre in Teatro, vede tutto, vuol sapere tutto.
Ascolta alcune prove dirette da Cantelli, si interessa al giovanissimo "collega", s'intenerisce anche perché crede di rivedere in lui sé stesso in gioventù e se lo tiene vicino e gli vuol bene. Subito si sparge la voce che Cantelli è l'allievo, il "pupillo" di Toscanini. Tanto basta per determinare interesse nel pubblico e la carriera di Cantelli inizia così, con insperata fortuna! Ma la gente si stanca presto delle favole e delle leggende: dopo un certo tempo l'interesse decade, i meriti di Cantelli vengono attribuiti più che altro a Toscanini e gli applausi ai suoi concerti si fanno meno intensi, meno convinti. Cantelli si impunta, risale la corrente, dimostra di saper fare da solo e di non aver bisogno di appoggi.
E vediamo questo ragazzo dalla figura ascetica vincere la seconda battaglia con i suoi soli mezzi, grazie alla serietà e alla forza del suo carattere, alla volontà e alla sua bella natura direttoriale. Ormai non è più il "fanciullo prodigio", ma è il Maestro, riconosciuto, classificato, ammirato e da ora in poi la sua "strada" continuerà a salire.
Oltre alle inevitabili vicissitudini artistiche che favorirono o intralciarono la via del successo, Cantelli dovette anche superare forti incomprensioni e non pochi contrasti con l'Orchestra della Scala.
Il suo carattere chiuso, difficile, introverso non ispirava simpatia: durante le prove assumeva atteggiamenti "più grandi di lui" e si dimostrava sostenuto, freddo, ostile, come se avesse a che fare con dei nemici. Non ci amava né ci stimava e lo faceva capire. Una volta, parlando a un giornalista di cose musicali d'America, fece un paragone fra le orchestre italiane e quelle americane. Forse il suo pensiero fu male interpretato o intenzionalmente esagerato, come sovente accade nelle interviste: sul giornale apparve un articolo inopportuno e sleale, tutto a nostro scapito.
Ne nacque un incidente piuttosto serio che fu appianato dopo difficili colloqui, trattative e ritrattazioni. Poi, finalmente, col tempo e con l'esperienza il Maestro si convinse che aveva degli amici fra coloro che collaboravano con lui, che doveva un pizzico di gratitudine agli esecutori che contribuivano ai suoi successi e che l'Orchestra della Scala (la "sua" orchestra!) aveva poco o nulla da invidiare alle sorelle d'oltremare. Allora il ghiaccio si disciolse, un sorriso di tanto in tanto apparve sul suo pallido viso e se questa trasformazione spianò quel volto solitamente corrucciato, molte facce anche in orchestra si rischiararono con evidente beneficio di tutti.
Cantelli possedeva, fra le molte sue doti, una buona memoria e ha sempre diretto senza musica sul leggio. Si impadroniva delle partiture mediante uno studio severo, poi, con originale personalissimo sistema, per tenersi "sotto pressione" nell'imminenza di un Concerto quando era in viaggio o fuori casa, ripassava i punti salienti del programma consultando più e più volte un pacchetto di cartellini che teneva nelle tasche. In questi biglietti erano trascritti brevi brani strumentali, passaggi difficili da tenere a mente, appunti di interpretazione, convenzioni mnemoniche e altro che riguardava i pezzi che doveva eseguire.
Aveva un gesto chiaro e mani belle, forse un poco rigide, ma espressive. Sapeva tenere in pugno l'orchestra e otteneva ciò che voleva. Confessava di studiare avidamente con gli occhi gli altri Maestri e, a quelli che stimava, tentava di carpire i segreti, l'esperienza e gli atteggiamenti. Ma non aveva bisogno di imitare nessuno perché la sua personalità artistica era valida e convincente.
Dopo un lungo periodo (otto anni!) dedicato esclusivamente alla musica sinfonica, il Maestro volle tentare l'opera: e ci riuscì benissimo! "Così fan tutte" di Mozart fu l'unica che diresse alla Piccola Scala; una magnifica esecuzione, con un «cast» eccezionale, addestratissimo, e con un'orchestra ben preparata attraverso prove e prove!
Quest'opera ebbe un esito trionfale e fu replicata nella stessa edizione e con il medesimo successo a Johannesburg, nel Sud Africa. Solitamente scontroso e incontentabile, il Maestro si trasformava quand'era soddisfatto. Accadeva di rado, ma qualche recita di "Così fan tutte" compiva il miracolo, poiché in quest'opera sentiva di essersi avvicinato alla mèta impossibile: la perfezione! Allora si esaltava: tutto in lui esprimeva un senso di radiosa felicità e il suo viso si illuminava per la gioia. Quando invece non era contento, e purtroppo non lo era il più delle volte, si isolava imbronciato e non c'era verso di distrarlo, di farlo parlare. Rammento una serata a Nizza, dopo il Concerto inaugurale della tournée europea. Avevamo iniziato molto bene il nostro "giro" e il Console Italiano invitò il Maestro con la moglie, la contessa Wally Toscanini e noi quattro del Quartetto della Scala a una cena notturna in un Albergo sulla Promenade des Anglais.
Malgrado il grande successo, Cantelli non era contento: qualche cosa non era riuscita come lui desiderava. A tavola rimase sempre muto senza assaggiar nulla, scuro in volto, creando col suo atteggiamento una situazione imbarazzante per tutti noi. In queste cose somigliava stranamente a Toscanini!
La tournée in Europa iniziata così bene a Nizza, si svolse poi felicemente in tutte le città del nostro itinerario e altrettanto fortunate furono le esibizioni che seguirono in Italia nel lungo giro da Milano a Catania e da Palermo a Trieste. Vedemmo non poche volte il pubblico (meravigliato e commosso per la rivelazione offerta dal giovane Maestro) in piedi alla fine del Concerto, applaudire a lungo, assolutamente entusiasta! E la doppia tournée si chiuse con un bilancio artistico e positivo.
A Johannesburg, ove avevamo esportato un pezzetto di Piccola Scala mietendo magnifici allori, nel lungo viaggio aereo di ritorno (ben 25 ore di volo poiché allora non esistevano i jet!) eravamo un piccolo gruppo in coda all'apparecchio, gruppo del quale facevano parte maestri e alcuni artisti. Cantelli, cui era riservata da un crudele destino quella tragica fine che sappiamo a poco più di un mese di distanza, forse per la gioia del ritorno o per la soddisfazione del lavoro compiuto, era allegro e spensierato: un vero ragazzo! Faceva a cuscinate con i compagni di viaggio, scherzava, giocava, si divertiva e divertiva tutti. Era il compleanno di un collega quel giorno e il Maestro, cosa stranissima dato il suo schivo carattere, seguito da un piccolo umoristico corteo, arrivò trionfante dalla cambusa dell'aereo con una fetta di torta in un piattino e relativa candelina accesa, suscitando un mondo d'allegria. Chi avrebbe mai pensato!... Poi venne l'inaugurazione del rinnovato Teatro di Novara, ultima tappa della sua breve carriera.
Si può dire che il Coccia era stato rimesso a nuovo per lui, cittadino ormai illustre, e a lui spettava la riconsacrazione. Serata indimenticabile! Dopo una breve prova di sistemazione, vari discorsi e un rinfresco, l'orchestra aveva lasciato il Teatro. C'era un programma importante: io rimasi in camerino e rimandai la cena a dopo il Concerto. Nell'attesa suonavo per ingannare la solitudine e il silenzio. Ad un tratto si aprì la porta e, inatteso, apparì Cantelli che era pure rimasto in Teatro e che, attirato dal suono del violino, veniva a dividere con me quell'ora di riposo e di pace. Il violino tacque e noi parlammo, parlammo a lungo della nostra attività passata, presente e, in special modo, della futura. "Vedrà (mi diceva) belle e grandi cose ci attendono (era stato nominato in quei giorni direttore della nostra Orchestra), viaggeremo molto, andremo anche in Giappone, siamo già in trattative: ci va Karajan con la sua Orchestra, perché non dovremmo andarci noi pure con la nostra? E poi, lei ha visto come è stato bello e tranquillo il nostro viaggio in Africa. Gli aerei sono ormai sicuri, non è più il caso di temere come molti paurosi ancora temono...". E quella sera fu un trionfo: l'entusiasmo dei concittadini del giovane Maestro rasentò il delirio.
Fra i "bis" eseguimmo il Largo di Haendel che Cantelli faceva cominciare con un lungo assolo di violino, quel Largo di Haendel che qualche tempo dopo suonammo alle sue esequie, col nodo alla gola, senza direttore, nella Chiesa di Novara e poi sempre a suo ricordo e in suo onore, alla Scala con gli altoparlanti all'esterno del Teatro per la folla silenziosa e commossa in ascolto.
Ed ecco un'altra data: 24 novembre 1956! Quel nebbioso mattino d'autunno! La telefonata di un amico alle sette. Accostarsi all'apparecchio quasi con timore per l'ora insolita, sentire una voce concitata: "Sai, un disastro aereo, questa notte, a Orly... Cantelli fra le vittime!..." e l'istintivo presagio venne purtroppo confermato dalla tristissima notizia!
Povero Guido! Ho visto per lui colleghi in lacrime, uomini che non avrei mai pensato di veder piangere, e io pure piansi, lo confesso, come se avessi perduto un carissimo, indimenticabile fratello!
Enrico Minetti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXII, n.4 dicembre 1969)

lunedì, gennaio 10, 2022

Kundera cita Mahler

"Quando morì il padre, Agnes dovette organizzare la cerimonia funebre. Desiderava che il funerale si svolgesse senza orazioni e consistesse unicamente nell'ascolto dell'Adagio della decima sinfonia di Mahler, una musica che il padre amava. Ma era una musica terribilmente triste e Agnes temeva che durante la cerimonia non sarebbe stata in grado di trattenere le lacrime. Le sembrava intollerabile singhiozzare in pubblico e così mise sul grammofono il disco con l'Adagio e lo ascoltò. Una, due, tre volte. La musica le ricordava il padre e lei piangeva. Ma quando l'Adagio risuonò nella stanza per l'ottava, la nona volta, il potere della musica si attenuò; quando fece suonare il disco per la tredicesima volta, non ne fu più commossa che se avesse ascoltato l'inno nazionale del Paraguay. Grazie a questo allenamento riuscì a non piangere al funerale."

"Laura amava la musica sinceramente e profondamente; nel suo amore per Mahler vedo un significato preciso: Mahler è l'ultimo grande compositore europeo che ancora si rivolge ingenuamente e direttamente all`homo sentimentalis. Dopo Mahler, il sentimento nella musica diviene sospetto; Debussy vuole incantarci, non commuoverci, e Stravinsky addirittura si vergogna del sentimento. Mahler è per Laura l'ultimo compositore e quando lei sente dalla camera di Brigitte il rock a tutto volume, il suo amore ferito per la musica europea che scompare sotto il frastuono delle chitarre elettriche la fa andare su tutte le furie; dà a Paul un ultimatum: o Mahler o il rock; il che significa: o io o Brigitte."

«Mia moglie adora Mahler» disse poi. «Mi ha raccontato che quando mancavano quattordici giorni alla prima della sua Settima sinfonia, Mahler si chiuse in una rumorosa stanza d'albergo e passò le notti intere a rivedere l'orchestrazione››.
«Sì,» confermai «fu a Praga nel 1906. L'albergo si chiamava Modrá hvĕzda, Stella azzurra››.
«Me lo immagino in quella stanza d'albergo circondato da fogli di note,›› continuò Paul senza lasciarsi interrompere «convinto che tutta la sua opera sarebbe stata rovinata se nel secondo movimento la melodia fosse stata suonata dal clarinetto invece che dall'oboe››.
«E' proprio così» dissi pensando al mio romanzo.
Paul continuò: «Vorrei che un giorno quella sinfonia fosse eseguita davanti a un pubblico di famosi esperti, prima con le correzioni delle ultime due settimane e poi senza correzioni. Vi garantisco che nessuno riuscirebbe a distinguere una versione dall'altra. Intendiamoci: certamente è meraviglioso che il motivo suonato dal violino nel secondo movimento sia ripreso nell'ultimo movimento dal flauto. Tutto è elaborato, meditato, profondamente sentito, nulla è lasciato al caso, ma questa immane perfezione ci supera, supera la capacità della nostra memoria, la nostra capacità di concentrazione, cosicché anche l'ascoltatore più fanaticamente attento non percepirà che una centesima parte della sinfonia e sicuramente quello che per Mahler era meno importante››.
Il suo pensiero, così palesemente giusto, lo rallegrava, mentre io diventavo sempre più triste: se un mio lettore saltasse una frase del mio romanzo non lo capirebbe, eppure quale lettore al mondo non salta neanche una riga? Io stesso non sono forse il più grande saltatore di righe e di pagine?
«Non nego alle sinfonie la loro perfezione›› continuò Paul. «Nego soltanto l'importanza di quella perfezione. Queste arcisublimi sinfonie non sono che le cattedrali dell'inutile. Sono inaccessibili all'uomo. Sono inumane. Abbiamo ingigantito il loro significato. Ci hanno fatto sentire inferiori di fronte ad esse. L'Europa ha ridotto l'Europa a cinquanta opere geniali che non ha mai capito. Immaginate questa diseguaglianza provocatoria: milioni di europei che non significano nulla, contro cinquanta nomi che rappresentano tutto! La diseguaglianza di classe è il male minore, rispetto a questa ingiuriosa diseguaglianza metafisica, che trasforma gli uni in granelli di sabbia e proietta sugli altri il senso dell'essere!››.
da "Život je jinde" (La vita è altrove), Adelphi, 1987

sabato, gennaio 01, 2022

Verdi e il suo Quartetto d'archi

In data 22 marzo 1873 Giuseppe Verdi da 
Napoli così scriveva all'amico Opprandino Arrivabene: "In quanto ad Aida, mi pare prudente sorvegliare l'esecuzione, soprattutto qui a Napoli, ove non si capisce nulla, assolutamente nulla, precisamente come a Roma". "Aida", andò in scena al San Carlo il 31 marzo, con notevole ritardo sulla data prevista, causa un'indisposizione della protagonista Teresa Stolz.
Il giorno seguente sul giornale "Il Popolo" si potevano leggere queste parole: Accasciati, per così dire, sotto l'impressione immensa che ci ha destato quel capolavoro ch'è l'Aida, non sapremmo quest'oggi proferire altro giudizio se non che forse difficilmente potremo in vita nostra assistere all'audizione di un'altra epopea musicale come questa. Il delirio del pubblico fu continuo e crescente. Le 37 o 38 chiamate unanimi colle quali l'illustre maestro Verdi fu chiamato alla ribalta dimostrano come il pubblico di eri sera assistesse ad un grande avvenimento musicale. E tale fu infatti, chè l'inappuntabile esecuzione orchestrale e quella bellissima e pregevolissima della parte vocale diedero alla prima di "Aida" tutta l'importanza di un grandioso ed artistico fasto musicale.
Gli attori Patierno, Miller, Collini e Monti e le signore Stolz e Waldman dimostrarono tutte le gradazioni del loro bel canto, tutta la passione da cui erano dominati ed infiammati, tutta la potenza drammatica di cui si sentivano ispirati e questo assieme, unito alle sfolgoranti bellezze della musica, fu ciò che stabilì quella misteriosa e magica catena, che faceva palpitare tanti cuori, che teneva assorte tante menti, che infine faceva prorompere in quelle grida entusiastiche e frementi, in quegli applausi unanimi, incessanti, fragorosi e deliranti.
Ed ecco come Verdi giudicava la superba esecuzione del Teatro San Carlo in uno scritto al Arrivabene: "non t'ha detto il vero chi ha fatto troppo lo schizzinoso sull'esecuzione dell'"Aida" a Napoli. Nulla vi è di perfetto, ma questa esecuzione fu nel complesso migliore di quella di Milano e di Parma. Orchestra superiore alle altre due. Cori soltanto inferiori a quelli di Milano".
Verdi, felice per il trionfale successo della sua "Aida", doveva attraversare un periodo di vera euforia, se nella stessa lettera all'Arrivabene dava questa assolutamente inimmaginabile notizia: "Ho scritto proprio nei momenti d'ozio di Napoli un quartetto, l'ho fatto eseguire una sera in casa mia senza dargli la minima importanza, e senza fare inviti di sorta. Erano presenti soltanto sette od otto persone solite a venire da me. Se il quartetto sia bello o brutto non so... so però che è un quartetto".
Verdi ha scritto un quartetto!! Verdi, che aveva sempre considerato questa forma d'arte come "espressione di germanesimo, che avrebbe finito con lo snaturare la nostra musica". Verdi in continua polemica con il giovane scapigliato Arrigo Boito, con Franco Faccio, con l'autorevole critico musicale della "Perseveranza" Filippo Filippi instancabili paladini della diffusione in Italia della musica classica e romantica tedesca. Verdi, che aveva rifiutato la presidenza onoraria della "Società del Quartetto" di Milano ed ancora Verdi che in una sua lettera con cui rifiutava la presidenza della neocostituita "Società orchestrale della Scala" offertagli dal Faccio, così scriveva: "Sono dolente di non poter accettare l'onorevole titolo. Come ben sanno, io sono alieno per natura da questa sorta di incombenze e tanto più ora nel caos di idee, in cui tendenze e studi contro l'indole nostra, hanno travolto l'arte musicale italiana. In questo caos, dal quale può sortire benissimo un mondo nuovo - non più nostro - ma più facilmente il Nulla, io non desidero prendervi parte alcuna".
L'anno seguente (1880) accetta dimostrativamente la presidenza della "Grande Accademia Palestriniana" promossa dalla Società musicale romana. Ed ancora Verdi che così scrive all'amico Arrivabene: "Noi tutti maestri, critici, pubblico abbiamo fatto il possibile per rinunciare alla nostra nazionalità musicale. Ancora un passo e saremo germanizzati. E' una consolazione il vedere come dappertutto si istituiscono Società di Quartetti e Orchestre, Orchestre e Quartetti... Allora a me qualche volta viene un pensiero e mi dico sottovoce: ma se noi in Italia facessimo un "Quartetto di Voci" per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei, Marcello, ecc., ecc. Questa sì sarebbe Arte Grande! e sarebbe Arte Italiana... ma zitto, che nessuno mi senta".
Verdi però sbagliava.
Il quartetto d'archi aveva antiche, salde radici anche in Italia. Basta ricordare Pietro Nardini (1722-1773) il geniale allievo di Tartini, che pubblicò 6 Quartetti, Luigi Boccherini (1743-1800), grande compositore, tutto ancora da scoprire, autore di 64 quartetti, 68 quintetti nei quali si possono addirittura notare delle anticipazioni beethoveniane ed ancora un nome quasi ignoto: Giovanni Giuseppe Cambini (1746-1823) autore di ben 144 quartetti!
Ma come mai Verdi ignorava l'opera di questi nostri Autori?
In quegli anni Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi con i loro trionfanti melodrammi erano i dominatori assoluti della Musica. Per di più Nicolò Paganini con la sfolgorante luce del suo genio aveva messo in ombra i nostri grandi maestri del '700.
La «Gazzetta Musicale» pubblicava il seguente articolo in data 3 aprile 1873:
«Un quartetto di Verdi! Sissignori, proprio un quartetto per due violini, viola e violoncello. Un quartetto in quattro tempi».
L'altra sera dopo la prima rappresentazione dell'"Aida", che ha avuto quel po' di successo, che tutti sanno, si va in casa Verdi e meraviglia: ecco schierati due classici leggii con le classiche candele e le classiche quattro sedie. Cos'e questo? ed il Maestro sorridendo, a pregarci di andare per i fatti nostri, per il pericolo di addormentarci nel dover digerire l'audizione d'un quartetto.
Proteste, contro proteste, trattative. Infine si viene ad un accomodamento con l'accettare di sederci su soffici poltrone, ove Morfeo dolcemente ci avrebbe potuto cullare "si casus erit". Ma pare che caso non ci fosse, perché non solo si udì una volta il quartetto, ma si volle ad ogni costo riudirlo una seconda volta per intero".
La relazione continua con la disamina dei quattro tempi e conclude così; «Verdi ha dato un nuovo capolavoro all'arte italiana e ci auguriamo che non s'arresti su questo cammino".
Parlando poi dell'esecuzione dice: "E' un gran piacere l'udire quattro esecutori come Ferdinando e Salvatore Pinto (violini), il Salvatore (viola) ed il Giarritiello (violoncello). Espressione, energia, dolcezza, sobrietà, che volete di piu?"
Il quartetto incontrò subito il favore del pubblico in molte esecuzioni. A Parigi con Camillo Sivori e Armand Marsick (violino), Delsadt (viola) e Viardot-Garcia (cello), a Vienna, a Milano con un'applaudita esecuzione al Conservatorio del Quartetto Fiorentino capeggiato dal violinista Giovanni Becker.
In tale occasione Verdi raccomandava a Giulio Ricordi di sorvegliare lo "studio preparatorio del pezzo" con osservazioni finissime. "Vorrei fosse ben eseguito. I tre primi tempi non presentano grandi difficoltà d'interpretazione, ma l'ultimo tempo sì. Se alle prove voi sentiste - termometro infallibile - qualche squarcio un po' impacciato, dite pure che, se anche ben eseguito, è mal interpretato. Tutto deve sortire, anche nei contrappunti più complicati, netto e chiaro e questo si ottiene suonando leggerissimamente, molto staccato in modo che si distingua il soggetto sia diritto, che rovesciato".
Verdi teneva molto a questo suo unico quartetto, se al caro Opprandino Arrivabene scriveva in questi termini: "Il quartetto va abbastanza bene anche fuori d'Italia. Anzi giorni fa mi si chiese da Londra l'autorizzazione di eseguirlo raddoppiando a venti ciascuna parte. Eseguito da ottanta esecutori, dovrebbe far bene, soprattutto perché vi sono frasi, che esigerebbero un suono pieno, grasso piuttosto che il magro suono di un solo violino. Ero quasi tentato di rispondere: vengo io stesso ma invece devo andare a Colonia per i Festivals del 20 e 21 giugno. Nel primo si eseguirà "La Creazione" di Haydn, nel secondo la "Messa" che dirigerò io stesso. Si potrebbe quasi arguire che per Verdi il suo unico quartetto valesse quanto la «Messa da Requiem».
Cesare Barison
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIII, n.1 marzo 1970)