Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, agosto 31, 2005

La Ciaccona secondo Maurensig

(... omissis ...)

Il violinista che avevo davanti, benché anziano, era rimasto immune da certi segni caratteristici, anzi si comportava come se il suo ruolo fosse stato da sempre quello del solista. Allo stesso tempo, però, trattava il violino, e la musica stessa, con insolenza, suonava con un'aria quasi sprezzante. Mi chiedevo che cosa mai gli fosse accaduto nella vita per mettere il suo strumento e la sua arte al soldo di un uditorio da taverna.
A un certo punto egli scese dalla pedana con il violino sotto il braccio, bevve in tutta calma un altro bicchiere di vino, e poi, picchiettando con le dita sulla cassa armonica dello strumento lo fece rullare come un tamburo. E solo quando la sala si fu zittita, con il piglio e la gravità di un imbonitore da circo che presenti uno spettacolo senza precedenti, ci annunciò che avrebbe messo il proprio violino al servizio del miglior offerente. Chi avesse pagato la giusta somma, una somma comunque trattabile, avrebbe potuto ascoltare il pezzo desiderato, qualsiasi pezzo, anche il più difficile. Dalla sala cominciarono a levarsi subito alcune richieste che lui respinse con un gesto della mano, come per dire: "Troppo facile, ci vuole ben altro!". Andava fra i tavoli e sembrava ogni tanto ammiccare al mio. Guradava me. Ma non si avvicinava. Credetti di capire che mi teneva per ultimo come un boccone prelibato. E infatti, dopo un lungo girare mi si fermò davanti. Aveva intuito non so come che ero un forestiero (mi sarei accorto solo più tardi che dalla tasca della mia giacca spuntava il programma dei concerti bachiani), ed esclamò ad alta voce: "Oh, ecco: qui abbiamo qualcuno che si trova a Vienna per sentire della buona musica". Nella sala si era fatto silenzio e il violinista sfruttò magistralmente questa sospensione, ritardando con felice effetto la battuta finale. "Che cosa gradirebbe sentire il signore?" disse infine.
Irritato da quella facile ironia, cercai di rispondergli a tono. "E a lei che cosa piacerebbe suonare?"
"Quel che il signore desidera."
"Tutto ciò che desidero?"
"Tutto!"
A questo punto non ebbi più esitazione.
"Ascolterei volentieri la Ciaccona di Bach."
E con questo pensai di essermi messo al riparo da ogni altra provocazione. Ma mi sbagliavo. L'uomo mi restò piantato davanti con fare spavaldo. Alzò il braccio per zittire il pubblico, che osservava divertito la scena.
"Udite, udite," disse "ecco finalmente un intenditore. Qualcuno che sa veramente apprezzare la buona musica. Merita un brindisi." Fece un cenno alla cameriera la quale provvide a portargli un bicchiere, riuscendo a sottrarsi appena in tempo alle sue manesche intenzioni. Accettai, seppure controvoglia, il suo invito ad alzarmi in piedi per brindare con lui. Ingollato che ebbe d'un fiato il suo vino, si lisciò i baffi imperlati di goccioline dorate, con il dorso della mano si stropicciò il naso come se fiutasse un affare, e dopo aver ruttato solennemente mi chiese:
"E quanto sarebbe disposto a pagare per sentire questa Ciaccona?"
Ora, la Ciaccona, come lei sa, è un pezzo tanto bello quanto difficile. E il suo gioco mi parve subito chiaro: qualsiasi prezzo avessi proposto, lui avrebbe detto che era troppo poco, e con quella o un'altra scusa sarebbe passato oltre. Non sono un giocatore, ma di fronte a un bluff non resisto a rilanciare. Così feci un'offerta che mi sembrava irrecusabile.
"Mille scellini. Le bastano?"
Al confronto degli spiccioli che aveva raggranellato finora, mille scellini erano un bel colpo.
"Mille scellini" ripetè l'uomo. "Mille scellini!" gridò alla sala, e il suo volto, da quella maschera ilare e buffonesca che era stata finora, si rattristò all'improvviso, come per un'offesa terribile alla quale non era in grado di reagire. Mi voltò le spalle e si allontanò lentamente, nella sua sudicia camicia tesa tra le scapole sporgenti e puntute. Avevo visto giusto, dunque! Scappava. Avrei dovuto sentirmi soddisfatto. Eppure era una mano, quella, che non avrei voluto vincere. Lo vidi andare a piccoli passi, curvo, sempre più curvo, poggiando la guancia sul suo violino, come se ne auscultasse il cuore, tastandone al contempo l'esile polso, e in quel momento avrei voluto richiamarlo, scusarmi per lamia insolenza.
Ma mentre procedeva adagio verso la pedana, già nella sala risuonarono i primi toccanti accordi della Ciaccona.
Spesso mi sono chiesto quanto impieghi l'ultima nota di un brano musicale a spegnersi del tutto. Non solo fisicamente, ma come vibrazione emotiva. Chi può dirlo?
Mi sembrò che nessuno osasse applaudire, che quella musica ci avesse tolto ogni volontà. Era stato un momento in cui il mondo s'era arrestato sul suo asse, e non c'era da stupirsi se ora stentava a rimettersi in moto. Certo è che l'intervallo di tempo che intercorse tra l'ultima nota della sua impeccabile esecuzione e il primo battito di mani (il mio), che si moltiplicò subito in un applauso appassionato, mi sembrò senza fine.
Ora però restava un conto da regolare. Gli avventori sbirciavano dalla mia parte per vedere la faccia che mi ritrovavo. Ma quell'individuo, per il quale, non lo nego, provavo un sentimento di ammirazione, sembrò voler degustare con molta calma il momento della rivincita. Si fece portare ancora del vino (ormai i bicchieri che aveva bevuto nel corso della serata non si contavano più), si strofinò i baffi nella manica della camicia e infine, appoggiato il violino sul mantello dispiegato sopra una sedia, si avvicinò a me con il cappello in mano, come un questuante. Ora tutti volevano vedere se davvero avrei onorato il mio debito. Ma la banconata da mille scellini che depositai nel cappello era ripiegata in modo che solo lui potesse vedere.
"Molte grazie, signore" disse, con un sorriso che era chiaramente di sfida. "Sempre al suo servizio, signore" sussurrò tra i denti, e reggendo il cappello sul palmo della mano, rizzò il dito medio in un gesto osceno, che io solo potei notare.

(... omissis ...)

tratto da: "Canone inverso" di Paolo Maurensig

lunedì, agosto 29, 2005

Mahler: Das klagende Lied

Dag klagende Lied (Il canto del lamento), Cantata per soprano, contralto, tenore, coro e orchestra, completata nel 1880, all'età di venti anni.
Il testo, ispirato a una favola di Ludwig Bechstein basata su di una vecchia leggenda tedesca, è dello stesso MahIer. Due fratelli sono entrambi innamorati d'una splendida quanto orgogliosa regina, e quando il maggiore s'imbatte nel più giovane placidamente addormentato sotto un salice che s'erge nel bel mezzo d'una foresta, l'uccide. Qualche tempo dopo, un menestrello, vagabondando da quelle parti, raccoglie un ossicino del ragazzo ucciso e vi modella un flauto: appena suonato, esso emette la voce dell'ucciso che narra come fu assassinato e che lo prega di condurlo al castello dove suo fratello, l'assassino, sta per impalmare la bella regina. Il menestrello arriva al castello e, quando suona il flauto, la voce dell'ucciso ne sorte ancora rivelando alla regina ed a tutta la corte riunita l'inganno dello sposo. Il castello finisce in polvere, la regina si abbatte al suolo e gli invitati alle nozze fuggono terrorizzati.
La versione originale era in tre parti: la leggenda del bosco (cioè l'assassinio), il menestrello, le nozze. Nel 1893 Mahler espunse la prima parte e revisionò il resto; il lavoro venne eseguito per la prima volta a Vienna nel 1901. Ciò fa pensare che la versione pubblicata non sia affatto un lavoro giovanile, ma una matura ricomposizione: nulla di più errato: ché, negli elementi essenziali, l'originale è inalterato. Il personale stile di Mahler era già formato; nella revisione egli semplicemente migliorò la disposizione delle parti e la strumentazione. Come compositore egli aveva, come poi disse, già «scoperto in se stesso il Mahler»; nelle revisioni metteva a posto i dettagli, ma lasciava inalterata la forma originale del lavoro.
La Cantata mette in mostra la precoce padronanza di Mahler dell'apparato orchestrale wagneriano e il suo forte senso della psicologia dei toni: tragico Do minore, Fa maggiore pastorale, festoso Do maggiore e desolato finale in La minore.
L'introduzione orchestrale mette in mostra già i suoi ampi respiri compositivi, la predilezione per i ritmi di marcia, l'amore profondo per la natura ed il gusto del grottesco della favola tedesca. L'iniziale motivo dei bassi con le sue quarte tonica-dominante è caratteristico di Mahler, come lo sono le esposte linee contrappuntistiche dei legni; il tutto, nell'insieme, fa presagire l'inizio della Seconda Sinfonia. Se il primo culmine è un Bruckner non assimilato, i richiami di corno in Fa maggiore, in opposizione al Do minore, sono già puro Mahler, come la profusione dei temi chiaramente derivati, gli ottoni trattati a Corale presagiscono ancora la Seconda Sinfonia. L'allegro motivo del menestrello anticipa la vena folkloristica di Mahler, l'intricato serpeggiare degli strumenti a fiato, poco appresso, è profetico del Lied von der Erde (Il canto della terra); dopo il racconto introduttivo, i martellanti intervalli di quarta dei timpani sono d'assoluta impronta mahleriana. Assolutamente tipico è anche il canto del flauto di osso (contralto: «Ach, Spielmann... ») nel suo stile folkloristico slavo e le rapide incursionì tonali un tono sopra; del pari lo è la stretta struttura del finale col ritorno, rinforzato dai cori, della parte culminante dell'introduzione.
La musica festosa con cui principia la seconda parte riporta alla memoria il primo Wagner, ma la banda "popolare" tra le quinte e, più avanti, la distorsione della musica festosa effettuata dagli ottoni in sordina, sono profetiche. L'assolo del contralto «Was ist der König?» e l'arrivo del menestrello, riprendente temi della prima parte, mostrano gli ampi schemi formali di Mahler (vedi Ottava Sinfonia). La "Verità Totale" mahleriana appare per la prima volta, con l'intrusione della "volgare" musica risonante fuori scena nella tragica esposizione corale. Ulteriori anticipazioni profetiche sono il lamento finale del coro, preludente al Finale della Prima Sinfonia, il nudo contrappunto degli archi quando il tenore descrive la desolazione finale, la tenebrosa disintegrazione della struttura musicale.
La Cantata, affascinante a dispetto della fragilità, può esser definita una falsa partenza: Mahler era destinato a diventare un sinfonista e non un narratore in musica. Pure, certi appassionati appunti a margine del manoscritto al passaggio che narra la morte del fratello minore (memoria di Ernst?) mostrano ch'egli identificava già indissolubilmente la musica con la vita.

da "La musica di Gustav Mahler" di Deryck Cooke (Mondadori, 1983)

sabato, agosto 27, 2005

Gustav Mahler a Dobbiaco (Toblach)

Per tre anni Gustav Mahler trascorse le sue vacanze estive presso quel bel podere a Carbonin Vecchia, situato in posizione idillica verso il margine del bosco. L’estate 1907 Gustav Mahler la trascorse a Carbonin Nuova, ora Carbonin. Evidentemente durante una passeggiata Gustav Mahler ebbe a notare la posizione tranquilla della nostra casa, e così a primavera del 1908 prese in affitto l’appartamento dove andò ad abitare per tre estati, e che sua moglie, vedova, abitò ancora nell’anno 1911.
È una grande abitazione spaziosa, con dieci stanze e una bella veranda chiusa. La casa è una delle antiche residenze di Dobbiaco che risalgono ai tempi dell’Imperatore Massimiliano. Nel grande salone si vede sul soffitto lo stemma dei Signori di Leis. A cinque minuti di distanza, chiusa in un tranquillo boschetto di abeti, si trova una modesta casetta: ecco il luogo di lavoro di Gustav Mahler. Ogni anno a primavera arrivavano tre pianoforti che dovevano essere trasportati in questa casetta. Gran parte della giornata la passava lì, e nessuno era autorizzato, nemmeno sua moglie, a disturbarlo. La mattina presto doveva essere pronto tutto il necessario per la prima colazione: tè, caffè, burro, miele, uova, biscotti, frutta e pollame. Alle sei di mattina il direttore Mahler si recava al lavoro. Una stufa completava l’arredamento della casetta. Accesa la stufa, lui stesso si preparava la prima colazione. La casetta era recintata da uno steccato alto un metro e mezzo per il raggio di un chilometro.
Successe che due ragazzi scavalcarono la recinzione importunando il famoso compositore per chiedere l’elemosina. Allora lo steccato fu munito di filo spinato. Un giorno un avvoltoio diede la caccia ad un corvo che in cerca di rifugio volò nella stanza di lavoro di Mahler. Agitatissimo il signor direttore si recò dal vecchio Trenker, lamentandosi duramente per quell‘intruso insolente. Il signor Trenker gli rise in faccia e finirono col ridere insieme. Persino il gallo domestico finì per sconcertarlo, perché gli rovinava il sonno del mattino col suo "chicchirichi". "In che modo si potrebbe insegnare a quel gallo a non cantare la mattina?" chiese il signor direttore. "Semplice", rispose il signor Trenker, "basta torcergli il collo". Ma a tanto Gustav Mahler non volle arrivare. Nei rapporti con la gente era profondamente buono e abbastanza socievole. Spesso si raccontava come durante gli studi lui – figlio di una famiglia numerosa – per giorni avesse vissuto di un solo pezzo di pane, in modo da far bastare i soldi. Spesso raccoglieva per strada ragazzi poveri, li rivestiva e dava loro del denaro affinché più facilmente trovassero qualche lavoro. Di tale bontà gli saranno rimasti certamente riconoscenti oltre la tomba.
Gustav Mahler riceveva molti ospiti; fra loro ci fu anche Selma Kurz, una famosa cantante. Un giorno era insieme agli ospiti di sua moglie, che evidentemente non gli garbavano molto. Con uno scatto si alzò e disse con un certo gesto della mano: "Ci sono molte carogne a Vienna, e può anche darsi che ce ne sia qualcuna anche fra noi".
Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è l’immagine di Gustav Mahler a contorni precisi, con i suoi capelli spettinati, con il suo vestito semplice di tutti i giorni, con il suo modo tutto particolare di camminare. Possediamo una sua fotografia con la sua firma autografa. È un ricordo del grande compositore che ci è caro.
Dedico queste annotazioni al ricordo del celebre compositore che soggiornò nella mia terra natia.

memorie di Marianna Trenker. Carbonin Vecchia, Dobbiaco, 16 agosto 1938

giovedì, agosto 25, 2005

1952: Allarme a Dobbiaco

Gustav Mahler (1860-1911)

«Con mia Madre mi recai a Dobbiaco» scrisse nel suo libro «Memorie e Lettere di Gustav Mahler», nell'anno 1908 la vedova del Maestro - «per fare un sopraluogo su tutte le case colà disponibili. Trovammo una che sembrò adatta per noi; una spaziosa casa di contadini, fuori del paese, in posizione incantevole. Undici stanze e due bagni, il tutto piuttosto primitivo, ma l'affittammo subito per i mesi estivi. Le due più belle e grandi camere furono scelte per Mahler. Avevamo due grandi pianoforti a coda ed uno verticale per la casina nel bosco. Fu in questa casina che Mahler scrisse negli ultimi tre anni della sua vita il 'Canto della Terra', la nona e frammenti della sua decima sinfonia... ».

Di questa casina nel bosco vorrei parlare. La visitai pochi mesi fa, in occasione di un giro in Alto Adige; volendo porgere un riverente saluto alla memoria del grande musicista, la cui opera, contrastata e trascurata durante la sua vita e per parecchio dopo, oramai ha convinto il pubblico dei due emisferi; di recente anche quello italiano, così difficilmente accessibile all'apprezzamento della musica tedesca postwagneriana e neo-romantica. Proprio durante queste ultime stagioni sinfoniche in diverse grandi nostre città ho sentito accogliere con entusiasmo le opere di Mahler, sempre presentate da insigni direttori d'orchestra, tutti ossessionati dal desiderio di propagare una musica che a loro sembra l'apice della produzione sinfonica del Novecento. Ancora più rimasi dolente perciò di vedere come in terra italiana venga abbandonato all'indifferenza ed al deterioramento un luogo che dovrebbe essere onorato e rispettato dal popolo che ne ha conquistato il terreno.

«In questo posto silenzioso, sulla radura muscosa circondata da alti abeti, finalmente trovò la pace per lavorare» così continua ancora la Signora Mahler. «Dopo una notte di pioggia calda si videro spuntare intorno alla casetta innumerevoli funghetti bianchi. Egli tornò a mezzogiorno commosso, le lagrime negli occhi, attento a non pestare camminando uno solo di quei minuscoli organismi viventi. Lavorò con passione incandescente tutta l'estate a metter in musica le poesie cinesi di Hans Bethge. Sotto la sua penna l'opera crebbe, si amplificò, prese sempre più profondo respiro. Le singole poesie furono collegate mercè interludi orchestrali e l'opera si avvicinò alla forma base della più alta ispirazione Mahleriana, di quella sinfonica. La superstizione di non dover sopravvivere alla composizione di una "Nona" gli impedì di chiamare il lavoro "Sinfonia". Pensò così di giuocare un tiro al destino. Ma la musica creata in quell'estate esprime tutta l'angoscia e la desolazione di un condannato a morte prematura. In origine, all'intera sequenza dei brani fu imposto il nome: «Il Canto della afflizione terrestre». Forse era anche impressionato dal trapasso di Anton Bruckner, quasi suo contemporaneo; quale pochi anni prima dopo aver terminato la sua "Nona", sparì, colpito dall'analogo fatale capriccio della sorte. Ma nell'estate successiva l'impulso di produrre fece superare a Mahler questo sbigottimento e sempre nella medesima casina, compose la sua "Nona"». A finire la "Decima" non arrivò.

In collina sopra Val Pusteria, nella frazione del comune Dobbiaco chiamato Alt-Schluderbach, si può sempre visitare l'abitazione che vide fra le sue pareti le sofferenze e l'estasi del genio creatore. Anzi, si può perfino affittarla. E' sempre proprietà della stessa famiglia di contadini tirolesi da più di quaranta anni fa; c'è chi ricorda ancora il soggiorno del «Signor Direttore» della Hofoper Viennese. Ci stanno i villeggianti durante i periodi di vacanze; chiunque può dormire nel letto di Mahler, suonare il suo pianoforte che è sempre lì, insieme col cassettone ove tenne i suoi spartiti. Nessuna lapide lo ricorda. E la capanna nel bosco è vuota, lurida, colle finestrine cieche e le pareti insudiciate da iscrizioni volgari, anche di quelle di certe coppiette che si godono la solitudine della fitta foresta. Fra le tante altre ne trovai una sola commovente, firmata "N". L'anonimo scrittore aveva copiato le parole di una delle strofe più ispirate del "Canto della Terra", e ci aveva aggiunto «per B. W.». Evidentemente stava rievocando anche l'immagine di Bruno Walter e di qualche indimenticabile esecuzione di questo lavoro offerta dal maestro direttore, amico, discepolo, sommo interprete, cui l'opera risuscitata deve più che a chicchessia, se la sappiamo oggi viva ed ammirata. Quelle righe tracciate col lapis sulla misera tavola di legno testimoniavano che c'era passato uno che ricordava Mahler.

Gli Italiani ebbero sempre comprensione per gli illustri stranieri che scelsero il loro paese per soggiornarvi. Sapevano di dare e ricevere; quando un capolavoro nacque entro i loro confini, seppero apprezzarlo e prima o poi commemorarne la nascita. Ci sono innumerevoli case in Italia adornate di lapidi; tavole di marmo che ricordano - nella lingua più bella e più adatta del mondo per esprimere il rispetto di un grande passato - gli stranieri che ci vissero e lavorarono. Ci sono quelle che ricordano Goethe, Byron, Shelley, i Browning, ci sono le molte dimore di Wagner a Napoli, Sorrento, Roma, Siena, fin a quella a Venezia che doveva essere l'ultima sua terrestre. Tutte queste case conservano la memoria di uomini ed avvenimenti importanti per noi ed anche per le future generazioni.

L'Alto Adige oramai è italiano come lo sono quegli altri luoghi; e colui che visse in quella casina modestissima, parlò la lingua della musica, la lingua che non conosce confini, che parla attraverso le frontiere in termini universali, a tutto ed a tutti. Queste poche righe vorrebbero servire da appello a coloro che hanno l'autorità per decretare, i mezzi per realizzare, ed anzitutto la convinzione del dovere di emanare provvedimenti per salvare la casina ad Alt-Schluderbach dall'irreparabile deperimento. Non ci vorrebbe molto: l'assistenza della Provincia di Bolzano, quella del Comune di Dobbiaco, qualche iniziativa privata che organizzasse a beneficio del progetto concerti con esecuzioni delle opere di Mahler, sia da noi in Italia, sia all'Estero; concerti ai quali certamente i migliori direttori d'orchestra si presterebbero con entusiasmo. Comperare, pulire, assiepare quel pezzettino di terra ombreggiata, spazzare, nettare la casina, le pareti, di fuori e di dentro. Applicare la lapide semplicissima che dice: «Qui visse e lavorò Gustav Mahler... ». Che dice, anche senza parole, il pensiero di Goethe: «Il luogo che abbia accolto un valoroso è sacro; dopo cento anni risuona la sua parola e l'opera al nipote».

articolo di Gisella Selden-Goth, apparso sulla rivista "La Scala" (dicembre, 1952)

martedì, agosto 23, 2005

Il Quartetto in due tempi (1955) di Bruno Maderna

Bruno Maderna
Gli inizi, contrariamente a quanto si crede, son sempre facili. Le opere I nascono sotto il crisma della felicità. Si dice quello che passa per la testa, senza porsi problemi di originalità stilistica. Nei sentieri già aperti si cammina molto piú svelti che su terreno vergine. Maderna non aveva difficoltà a riconoscere i propri debiti: «Una volta - scrisse nella già citata autopresentazione - si aveva la piú grande fiducia nella bontà dell'imitazione; oggi ognuno custodisce gelosamente la propria sensibilità coccolata al riparo degli influssi». Queste cautele non erano per lui, che la pratica della direzione d'orchestra esponeva ai quattro venti della musica presente e passata.
Difficile non è cominciare, difficile è continuare. Le pene della creazione, les offres du style, gli affanni della consapevolezza stilistica cominciano con le opere 2. Prendiamo ad esempio il Quartetto in due tempi, un altro dei lavori giovanili di Maderna, insieme con la Serenata, che costituiscono un punto fermo, un riferimento essenziale.
Qui sí, siamo in piena dodecafonia. L'esaltante parentesi bartokiana è stata niente piú che la scappata d'un puledro selvaggio, buttatosi fuori della pista. Il Concerto per due pianoforti sembra un frutto maturo, ma quella maturità è finta, è stata raggiunta attraverso una scorciatoia, rinunciando all'originalità stilistica. L'autenticità del suo stile Maderna non la può trarre dall'esperienza isolata del geniale ungherese. Deve entrare in quella che - piaccia o non piaccia - sta allora diventando la strada maestra della musica nuova: la dodecafonia nelle sue ultime formulazíoni, quelle che, attraverso la lezione di Webern, portano al momento puntillista. Col Quartetto (e con la Serenata) Maderna trova il suo posto nel quadro della musica europea. Non definitivo, ché Maderna non era tipo da restare l'epigone di nessuno, e anche la crisalide postweberniana, al momento giusto egli la farà saltare. Diciamo che ha trovato la sua strada, e comincia a percorrerla in umiltà, stringendo i denti e sopportando un duro basto. Nessun dubbio che il Quartetto è meno piacevole da sentire di quanto lo fosse il Concerto per 2 pianoforti, con l'euforia del suo dinamismo ritmico. Eppure è molto piú avanti. Non diciamo che sia piú vero, piú autentico. Neanche qui Maderna non è ancora lui. Ma è sulla strada giusta per trovarsi. Attraverso quell'inizio cauto, esplorante, del puntillistico primo movimento, attraverso le fiammate drammatiche del secondo tempo, con quegli incendi di trémoli, con gli accessi furiosi di sciabolate sonore alternate a smarrimenti quasi statici, si istituisce una bilancia tra Schönberg e Webern, ma fanno pure capolino gli estremi della personalità di Maderna, macerati in un'ascetica disciplina. C'è un'insistenza singolare sulla ripetizione d'un singolo suono, assunta quasi a funzione tematica, come un rifiuto a dis-correre, cioè a trascorrere via da una nota all'altra. Accanto a questa mortificazione e accanto all'esasperato rigore seriale, l'altro aspetto della natura di Maderna, la sua insaziabile golosità del fenomeno acustico, si manifesta nell'interesse per i piú diversi attacchi del suono: il pizzicato, l'arco, gli armonici, i colpetti battuti sulla cassa dello strumento.
Magistrale nella scrittura seriale, che nel secondo tempo riproduce a specchio il primo, fedelmente, nota per nota, il Quartetto può anche parere una tappa poco amena nell'itinerario stilistico di Maderna, qualcosa come una penitenza, un'autopunizione. Ma di lí bisognava passare, e fu un esempio, un modello per molti.

da "Maderna musicista europeo" di Massimo Mila (Einaudi, 1976)

domenica, agosto 21, 2005

La stereofonia secondo Stravinsky

Robert Craft chiede a Igor Stravinsky cosa significhi per lui la stereofonia, come compositore e come esecutore, e qual'è la sua opinione sull'uso che se ne fa attualmente nella tecnica di registrazione.

"Le nostre due orecchie sono separate da una distanza di circa quindici centimetri, mentre i microfoni stereofonici che captano per noi i suoni di un'orchestra in diretta sono talvolta lontani l'uno dall'altro dieci volte tanto. Quindi noi non udiamo stereofonicamente le esecuzioni dal vivo, e la stereofonia - invece di darci «il miglior posto nella sala da concerti» - in realtà è una sorta di poltrona inesistente e onnipresente. (E non è neppure un posto in seno all'orchestra, poiché un'orchestra non percepisce se stessa stereofonícamente). Dico questo però non per criticare la stereofonia, ma per contestare il significato di «alta fedeltà». Fedeltà a che cosa? Ma per quanto la stereofonia possa essere irreale secondo il mio senso, in un altro senso può essere ideale e come tale avere conseguenze importanti. Per dirne una, essa è una sfida alle attuali sale da concerti; come possiamo continuare a preferire una realtà inferiore (la sala da concerti) all'ideale stereofonico?
I1 principio stereofonico per cui la distanza tra gli altoparlanti è il «microfono», invece del microfono stesso, è dimostrato in modo ancora troppo imperfetto dalla maggior parte dei dischi che ho sentito; mi rendevo conto infatti molto piú del passaggio da un altoparlante all'altro che non dello spazio intercorrente. Questo effetto di «ping-pong», in certi generi di musica - quella di Wagner, per esempio - può davvero diventare una distorsione fastidiosa. L'idea acustico-musicale di Wagner a Bayreuth era di giungere a una fusione completa dell'orchestra, di raggrupparla in un tutto unico. La separazione stereofonica, con la sua illusione di spazio orchestrale, è quindi del tutto estranea alle sue intenzíoní musicali. Ma qualsiasi musica puramente armonica - musica che dipenda cioè da fusione e da equilibrio - risentirà dell'eccessivo focalizzare le sue singole parti. In teoria, naturalmente, la registrazione stereofonica dovrebbe essere in grado di ottenere fusione ed equilibrio ma in pratica abbiamo spesso la sensazione che si prova seguendo l'equivalente di una partitura «Arrow» (un'edizione americana di partiture orchestrali in cui si usano frecce per guidare il lettore a seguire ciò che vien fatto apparire come la parte principale), cioè di saltare sui violini quando entrano, o di deviare a mo' di riflettore acustico verso l'entrata dei tromboni.
Ma d'altra parte una distorsione di questo genere non guasta certi tipi di musica polifonica, per la semplice ragione che questa musica è poli-fonica, cioè la si può ascoltare da diverse prospettive uditive. Certa musica polifonica non dipende da un equilibrio armonico circolare e in questo caso siamo persino riconoscenti quando certi brani di costruzione interna vengono improvvisamente fatti risaltare, oppure quando particolari di scrittura contrappuntística vengono messi in rilievo.
La stereofonia ci mette anche in grado di udire il vero effetto di molti tipi di «vera» musica stereofonica, come il Notturno per quattro orchestre di Mozart, per esempio, o i cori spezzati dei veneziani, musica in cui la stereofonia è stata composta piuttosto che congegnata. Vorrei inoltre includere in questa categoria la maggior parte delle opere di Webern, poiché una composizione quale le Variazioni per orchestra Op.30, mi sembra sfrutti il «fattore distanza» e anticipi la nuova idea stereofonica.
La stereofonia ha esercitato la sua influenza anche sulla musica già composta. Su un piano questo equivale allo sfruttamento dell'effetto stereofonico (o meglio, del difetto stereofonico) per mezzo della sua «immissione» artificiale nella musica, creando cioè distanza e separazione con una ri-disposizíone dell'orchestra, ecc..
(Quando ascolto della musica cosí riprodotta, scopro che sto guardando nella direzione del suono, come faccio al Cinerama; perciò «direzione» mi sembra un termine altrettanto buono quanto «distanza» per descrivere l'effetto stereofonico). Gruppen di Stockhausen e Doubles di Boulez sono esempi di questa influenza. Su di un altro piano, i compositori si avvedranno presto di come la stereofonia li obbligherà a costruire nella loro musica una «dimensione centrale» piú interessante.
Non posso contribuire molto sul tema delle attuali tecniche di registrazione stereofonica, ma so qualcosa delle difficoltà che i direttori d'orchestra incontrano per soddisfare le esigenze dei microfoni stereofonici durante le loro sedute di registrazione. La separazione stereofonica era solita richiedere una separazione tra coristi e orchestrali per cui i vari gruppi separati di strumentisti e di cantanti vengono talvolta molto ostacolati nel reciproco ascolto; e inoltre cantanti solisti o gruppi di cantanti, o forse un tamburo particolarmente risonante, devono essere talvolta isolati mediante pannelli, il che rende quasi impossibile l'esecuzione d'insieme.
Ma nonostante tutte le mie riserve sulla stereofonia, so che quando mi ci sarò abituato - abituato al suo volume e alla sua gamma dinamica piú potenti, al suo potere veramente notevole di chiarificazione dei raddoppi orchestrali (che probabilmente era meglio lasciare nell'ombra), alla sua capacità di creare la distanza tra uno strumento vicinissimo e un altro molto lontano - non sarò piú in grado di ascoltare altro.

da "Colloqui con Stravinsky" di Igor Stravinsky e Robert Craft (Einaudi, 1977)

mercoledì, agosto 17, 2005

Haydn verso Mozart

Per qualche tempo il dolore per la morte di Mozart mi ha sopraffatto; non riuscivo a comprendere come la Provvidenza avesse reclamato tanto precocemente a sé la vita di un uomo così insostituibile.
Rimpiango solo che, prima della sua dipartita, non sia riuscito a convincere gli inglesi - che per questo aspetto brancolano nel buio della sua grandezza: perché ciò si realizzasse li ho implorati ogni giorno della mia vita. [...]
Voi dovreste essere così cortese, mio gentile amico, da inviarmi un catalogo dei brani, in modo da promuoverne la circolazione a beneficio della vedova. Scrissi a quella povera donna tre settimane fa, dicendole che quando il suo figliolo prediletto avrà raggiunto l'età adatta, sono disposto a impartirgli lezioni di composizione al meglio delle mie possibilità, e senza richiedere nessun compenso, in modo da prendere, in un certo senso, il posto di suo padre.

lettera di F.J.Haydn del 1792 da Londra a Johann Michael Puchberg, editore musicale di Vienna.

lunedì, agosto 15, 2005

Claude Debussy: l'oblio

Certi defunti sono davvero troppo discreti e aspettano troppo lungamente la melanconica riparazione della gloria postuma.
Per sollevare il velo della morte, sono necessarie mani scrupolose; purtroppo le esumazioní sono fatte in genere da mani maldestre o sospettose, le quali, guidate da un volgare e segreto egoismo, lasciano ricadere nell'oblio quei poveri funebri fiori. A dire il vero, quel monumento di gloria che è Johann Sebastian Bach ci nasconde Händel: di lui si ignorano gli oratori, più numerosi della sabbia del mare. Essi contengono, come la sabbia, più sassi che perle; ma è altrettanto certo che, con gusto e pazienza, non mancherebbero i motivi d'interesse.
Un altro maestro (per costui si tratta di un oblio senza remissione), Alessandro Scarlatti, fondatore della Scuola Napoletana, è davvero sbalorditivo per il numero e per la diversità delle sue composizioni. Par di sognare constatando che, nato nel 1659, egli aveva scritto verso il 1715 più di centosei opere! Senza contare tutto quello che d'altro si può scrivere in musica. - Signore! Quali doni dovette possedere quest'uomo, e come poté trovare il tempo per vivere? - Conosciamo di lui una Passione secondo san Giovanni che è un piccolo capolavoro di grazia primitiva, e in cui la scrittura dei cori ha il colore dell'oro pallido, che tanto delicatamente contorna il profilo delle Madonne negli affreschi dell'epoca. E' una musica assai meno faticosa da ascoltare che non l'Oro del Reno, e la serena emozione che da essa emana è dolcemente confortante. Non so come quest'uomo ebbe il tempo di avere un figlio, e di farne un illustre clavicembalista, ancor oggi apprezzato con il nome di Domenico Scarlatti.
Altri ancora ve ne sono... Tranquillizzatevi: non ho alcuna intenzione di contribuire alla storia della musica. Ho voluto soltanto insinuare che si ha forse torto a eseguire sempre le stesse cose, il che può far credere a tante oneste persone che la musica sia nata ieri, mentre essa ha un Passato di cui si dovrebbero rimuovere le ceneri: vi si troverebbe quella fiamma inestinguibile alla quale il nostro Presente dovrà sempre una parte del suo splendore.
da "Il Signor Croche antidilettante" di Claude Debussy

sabato, agosto 13, 2005

Bach e l'allievo Paolo Cavatini

Johann Sebastian Bach
Durante un certo tempo Sebastiano ebbe allievo un giovane proveniente dall'Italia, Paolo Cavatini, che a tutta prima mi parve uno strano e turbolento ragazzo. A differenza dei nostri saldi tedeschi, egli era cupo, grave, scontroso e geloso, ma molto intelligente, a quanto ne pensava Sebastiano; era da poco tempo con noi quando cominciò a dimostrare un'appassionata devozione pel suo Maestro, lontano dal quale non pareva potesse trovare felicità, e che seguiva dovunque coi suoi grandi e neri occhi melanconici. Era terribilmente geloso degli altri allievi, e dichiarava con passione che «le loro tarde intelligenze di Sassoni» non avrebbero potuto nemmeno lontanamente apprezzare un genio divino come quello di Sebastiano. Se per qualche ragione Sebastiano non era soddisfatto del suo lavoro, egli si buttava al suolo e piangeva come un bambino imbizzito o malmenato. Eravamo tutti piuttosto disorientati da lui, ed a me specialmente con quel suo fare appassionato ed eccitabile egli incuteva un certo spavento, ma Sebastiano pareva comprenderlo meglio di noi tutti (Friedmann lo odiava apertamente) ed era molto paziente con lui. Diceva e faceva le più strane cose. Un giorno si precipitò nella camera con l'aria ancor più eccitata del solito, e si buttò lungo disteso sul tappeto fissandomi come un pazzo. Io me ne stavo seduta vicino al tavolo col mio cestino da lavoro. «Eccoti lì seduta a cucire e a rammendare», gridò, «e non sai neppure che tuo marito ci ha suonato della musica dinanzi alla quale i cori celesti debbono chinare. il capo? Lo ami tu? e lo comprendi forse? Ma quale donna lo potrebbe? Rammendare i suoi vestiti e cucinargli il pranzo, ecco quanto di meglio puoi fare per lui». Mi sentivo un poco irritata ma non troppo perché il ragazzo sembrava fuor di senno. «Paolo», dissi, «le tue osservazioni non sono molto rispettose per la moglie del tuo maestro; ma ti voglio dire che lo amo e forse lo comprendo meglio di quanto tu credi». «Perdonami», rispose lui con aria desolata, «non so ciò che mi dica; quella musica mi commuove al punto da farmi perdere la ragione e io amo il mio maestro fino a soffrirne».
A quelle parole mi sentii presa da un subitaneo impulso, e chinatami su di lui, lo baciai sul capo ricciuto. «So quel che tu senti, Paolo», gli dissi, e da quell'istante fummo amici.
Non rimase a lungo con noi dopo quella piccola scena; di lì a poco, venuto l'inverno, prese un raffreddore e morì. Purtroppo si capiva che non era fatto per questa vita, tanto era appassionato, eccitabile e squilibrato; ma si fece così buono, così paziente, nei brevi giorni della malattia. Sebastiano rimase profondamente colpito dalla sua morte. Nei giorni della malattia per stargli vicino aveva abbandonato tutto il suo lavoro, tranne le composizioni e le partiture che recava seco al letto del morente e scriveva tenendo il foglio sulle ginocchia; oppure sedeva tenendo nella sua una mano di Paolo, con gli occhi neri di lui fissi nei suoi. « Sono più felice di quanto non sia stato mai », mi disse un giorno Paolo, accogliendomi con un bellissimo sorriso mentre entravo in camera con un infuso; lo trovai che stringeva nella sua mano affilata quella di Sebastiano, raggiante in viso, con un'espressione che mai gli avevo veduta. Quando morì aveva appena incominciato a comporre sul serio, e Sebastiano aveva una sì alta opinione del suo lavoro, che mi disse: «Temo assai che abbiamo perduto un altro Scarlatti; quel ragazzo era pieno di genio e ciò spiega perché fosse infelice in questo mondo».
da "Piccola cronaca di Anna Magdalena Bach".

giovedì, agosto 11, 2005

Matthäus Passion

"Allorché ebbe inizio nella Thomaskirche quella musica di teatro, tutti si guardarono, manifestando il più grande imbarazzo e si chiesero costernati dove mai, dove mai si sarebbe andati a finire."
 
Così, molti anni dopo, scriveva il Gerber, sintetizzando in poche parole l'impressione superficiale che suscitò l'esecuzione della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach il 14 aprile 1729 nella Chiesa dì San Tommaso a Lipsia.
Di chi la colpa? Non sembra difficile individuarlo. L'apparizione dei grandi capolavori ha sempre sconcertato i mediocri e perfino i sapienti. La storia della musica è ricca tanto di fallimenti come di trionfi. La folgorazione dei genio è troppo al di sopra e al di fuori dei calcoli umani da permetterne una ricezione quasi automatica. Ne consegue che i comuni mortali o non l'avvertono per incapacità di assimilazione o la rifiutano per l'innata allergia alle novità che, ieri come oggi, divide scioccamente gli uomini fra progressisti e conservatori. Stando alle cronache pare purtroppo che nei confronti della Passione secondo San Matteo i progressisti non siano esistiti se ci vollero cent'anni per riportarla in quota.
Un'altra ragione, non meno valida, sta sicuramente nell'abítudine di presentare opere di grande respiro con troppa approssimazione. Si pensi che Bach doveva provvedere ad un servizio liturgico piuttosto pesante: ogni domenica una Cantata nuova con tutto il resto. Molte Cantate di Bach sono di difficile esecuzione. Si arrivava alla vigilia con le parti ancora da correggere e gli esecutori di cui disponeva non erano certo di prima qualità. Ciò può spiegare il fallimento dell'esecuzione di quel memorabile 14 aprile 1729 e le conseguenti rimostranze di Bach che col Memoriale dell'agosto 1730 denuncia una situazione di disagio ormai insopportabile: «Attualmente, fra gli allievi interni, 17 sono degli incapaci... ». Pare anche che la pedagogia del Kantor non fosse di altissima classe: è Wagner a riferire le lamentele di un cantore della Thomaskirche che ricorda: «Prima noicantavamo in modo orrendo epofluicíriempíva dibotte... ».

«Nel 1726 - quando Bach era già a Lipsia - un certo Joachim Meyer, dottore in legge e professore di musica a Gottinga, scrisse contro la musica sacra drammatica un suo libretto in cui faceva un'aspra critica del nuovo genere di cantate e di passioni. Subito ne seguì una polemica accanita come quella che era sorta trent'anni prima a proposito della rappresentazione dei drammi biblici. Gli argomenti fatti valere di rimando dai sostenitori della musica nuova si trovano tutti nel Musikalischer Patriot di Mattheson (1728): «Perché - egli si chiede - la musica nuova trova avversari? Soprattutto perché non ha mai quella buona esecuzione che le sarebbe indispensabile. I cori di chiesa nelle condizioni in cui si trovano ancor oggi, potevano forse bastare per la musica antica; ma come si possono far cantare a dei solisti, che da questi cori provengono, le grandi arie moderne?». E prosegue facendone una divertente descrizione: «Un soprano che canta come una vecchia sdentata, un contralto sfiatato, un tenore dall'ugola che sembra quella di un asino, un basso le cui note gravi danno l'impressione di un calabrone chiuso in una scarpa, e quelle alte ricordano il ruggito di un leone indiano... ». Si diano alla musica nuova gli elementi di cui ha bisogno, se si vuol giudicare del suo vero valore». (A.Schweitzer, J.S.Bach, "Il musicista poeta")

Non va infine dimenticato che dai contemporanei Bach non era ritenuto altro che un ottimo organista e le sue magiche composizioni suscitarono solo critiche negative.
Tutto questo può spiegare il crollo di quel monumento che per noi oggi è semplicemente un miracolo e di fronte al quale è di obbligo la stupefazione più commossa, senza riserve. Fiumi di parole sono state scritte per la San Matteo da quando il giovane Mendelssohn la rimise in luce: critici e ipercritici hanno detto tutto quello che si poteva dire, milioni di ascoltatori ne hanno recepito il grandioso messaggio di fede; folle sempre più attente vi si accostano ancora come a un mistero di smisurata profondità. La grande composizione è quindi ormai acquisita alla coscienza musicale dell'universo. Non resta quindi che lasciarla così com'è e riascoltarla il più spesso possibile in modo da penetrarne il profondo contenuto musicale e religioso che la permea, in un contesto generale molto più vasto che è l'anima di tutta la musica sacra di Bach: la gloria di Dio, soli Deo gloria.

Padre Pellegrino Santucci

martedì, agosto 09, 2005

Andrea Luchesi: la riscoperta continua...

Andrea Luchesi (1741-1801)
Ad un Simposio internazionale tenutosi a Berlino qualche anno fa il più importante ed esperto musicologo italiano, Luigi Della Croce, ha presentato Andrea Luchesi come il vero e unico maestro di Ludwig van Beethoven.
La riscoperta di Andrea Luchesi (Motta di Livenza 1741 - Bonn 1801) prosegue con grande energia; nella scorsa edizione del Festival Lodoviciano abbiamo presentato al pubblico il maestro italiano proponendo il suo pregevole Requiem e un’inedita opera buffa, L’Inganno Scoperto, lavori che hanno rivelato non solo un sommo compositore, ma un vero antesignano delle migliori opere mozartiane e questo senza dubbio alcuno.
Andrea Luchesi, Kapellmeister a Bonn per trent’anni, ebbe a Venezia la miglior istruzione musicale e culturale del suo tempo grazie a maestri che furono tra i più grandi compositori e didatti dell’epoca. Sotto la direzione del maestro italiano, allievo di Galuppi, Cocchi e Saratelli, la Cappella Elettorale di Bonn fu annoverata tra le migliori di tutto il Settecento europeo non solo dagli addetti ai lavori, ma altresì dai numerosi viaggiatori che allora visitarono le terre del Reno.
L’odierno biografo di Luchesi, Giorgio Taboga, nel suo spiccato pensare ci ha mostrato quale via intraprendere per lo studio del musicista: l’esame scientifico. La via della vera conoscenza dei fatti è l’unica rotta che un serio studioso della musica del passato possa intraprendere, senza lasciarsi fuorviare o “guidare” dai mostri sacri della musicologia, dottrina ahimè assai fallace e poco propensa a ravvedersi (ogni scienza è stata scritta, cancellata e riscritta più volte alla luce di nuove scoperte, dunque mi chiedo quale giustificazione ha avuto ed ha tuttora la musicologia per non ricredersi mai?). Taboga offre oggi l’unico punto di riferimento storico attendibile per lo studio del compositore, poiché i lavori dei numerosi musicologi italiani, troppo spesso asserviti alla musicologia anglosassone, e gli stessi, a volte evanescenti testi degli storici della musica di lingua inglese o tedesca, pur occupandosi di Haydn, Mozart e Beethoven e del loro tempo, inspiegabilmente non contemplano la figura del musicista italiano che pure rivestiva all’epoca il ruolo più prestigioso cui un compositore potesse ambire non solo, ma in una delle più importanti corti europee.
Troppe volte abbiamo avuto modo di constatare come la passiva accettazione e celebrazione delle tre grandi e consacrate figure del panorama musicale si tramandi di musicologo in musicologo in modo stereotipato, senza che più nessuno si preoccupi di verificare l’attendibilità o parzialità dei dati della passata musicologia. Ma al di là di tutte le polemiche passate e future, un dato sicuro e confortante ci rivela che siamo nel giusto e ci sprona a proseguire in questa titanica impresa. Musicisti che come me hanno studiato, eseguito, messo a confronto quasi tutte le musiche di Luchesi con i capolavori coevi della Wiener Klassik si sono arresi all’evidenza: Mozart, Haydn e lo stesso Beethoven probabilmente non sarebbero mai esistiti senza il Kapellmeister mottense.

La Sinfonia in Re maggiore, con il suo arioso Adagio in “incipit mozartiano” con flauto solista accompagnato dalla sola compagine dei fiati, prelude ad un allegro di bellezza ritmica trascinante, dove le rullate dei timpani e gli squilli delle trombe permeano l’intera pagina offrendo un ambiente di autentica festosità. Seguono due movimenti intermedi danzanti. Il movimento conclusivo, con numerosi ed impegnativi movimenti coreutici in terzine affidati ai violini e con un notevole gioco di rimandi tra archi e fiati, ha un finale in crescendo degno della mano di un grande compositore italiano.

Una celebre opera di Luchesi, presente all’epoca in tutti i teatri d’Europa, fu L’Ademira rappresentata per la prima volta nel 1784 a Venezia nel giorno dell’Ascensione. In occasione della visita del re Gustavo di Svezia nella città lagunare, il governo veneziano aveva dato l’incarico al “celebre Luchesi” (così era chiamato in vita) di comporre un’opera che potesse omaggiare il sovrano; il programma di questa sera prevede una preziosa aria per contralto e orchestra Sento da un giusto sdegno tratta appunto da quest’opera. Il solista dialoga con l’intera orchestra a volte accompagnato dal tutti a volte in contrapposizione alle virtuosistiche volate dei violini.

La Cantata per l'Elezione a Vescovo dell’Arciduca Max Franz d’Austria, fratello dell’imperatore Giuseppe II, fu composta dal maestro italiano proprio in qualità di Maestro di cappella del principe ed unico responsabile della musica del principato di Colonia-Bonn. Presso lo Stadtarchiv di Bonn esiste il libretto della "Festkantate" che recita: Festeggiandosi il giorno che S.A.S.E. di Colonia L'ARCIDUCA MASSIMILIANO P.T. fù consacrato vescovo li 8. maggio 1785 CANTATA eseguita alla corte e posta in musica da Andrea Luchesi maestro di cappella di detta S.A.S.E..
Dopo una pregevole Ouverture a tutta orchestra anticipatrice delle ouvertures rossiniane, la cantata arcadica (le voci sono due Muse) presenta recitativi accompagnati carichi di pathos accanto ad arie di sicuro effetto melodico e virtuosistico. Il testo, scritto in un perfetto linguaggio metastasiano ci conduce in un mondo ideale: Silenzio o Muse… tutta l’ampia compagine orchestrale tace.
L’aria del soprano in dialogo con l’oboe, il duetto e il momento catartico del tutti finale Facciam di lieti accenti sono di indubbio valore formale. Tutti poi ad ascoltare l’eco che di lì a poco risponde.
Solo chi non ha udito potrebbe non sentirvi Haydn e Mozart.

La Sinfonia in Do maggiore è di altissima fattura stilistica, formale, creativa, melodica e contrappuntistica.
Senza dubbio si tratta da una sinfonia Londinese, forse una sinfonia che Haydn dimenticò di portare con sé dopo essere passato (casualmente?) da Bonn nel suo viaggio verso Londra.
Prove circostanziate ci inducono a sostenere la tesi per la quale delle molte sinfonie haydniane solo alcune (forse neppure quelle) sono state scritte dal Cigno di Rorhau, protetto del principe Estherazy, le altre appartengono senza dubbio a compositori italiani del Settecento: Sammartini (maestro di cappella a Milano), Fischietti (maestro di cappella a Salisburgo), Guglielmi (a Dresda), Boroni (a Stoccarda), Luchesi (a Bonn); o al più dotato fratello Michael già maestro di cappella a vent’anni e konzertmeister del Principe Arcivescovo di Colloredo a Salisburgo. L’Adagio introduttivo si pone dinanzi con un introduzione interrogativa che poco lascia all’immaginazione: è emozione allo stato puro. Tutta l’orchestra guidata dai timpani sembra indicare agli astanti lo scorrere del tempo. Il solare e fantasioso tema dell’Allegro, prima affidato agli archi poi ai fiati, è degno delle più alte pagine della storia della sinfonia europea di ogni tempo. Dopo i numerosi contrasti armonici che dimostrano un compositore ben conscio del mestiere, anche i violoncelli ed i fagotti possono cantare la loro parte; in tutto il movimento i finali e le particolari cadenze mozartiane si sprecano.
L’Andantino scorre veloce e danzante preludendo al pregevole Minuetto nel caratteristico andamento ternario. Il finale Allegro assai con il suo motivo gioioso, cantabile e ben costruito ci conduce per mano sino al gran finale tra mille corse degli archi e dei fiati in un universo che tutto comprende. Ogni strumento indistintamente è chiamato ad esprimersi, nulla è secondario.

Qualcuno nel tempo ha scritto che la musica di Haydn, attraverso Mozart, giunge arricchita a Beethoven. E se artefice fosse una stessa mano?
 
programma di sala al concerto del 31/10/2004 nell'ambito del "X Festival Lodoviciano" di Viadana (G.B.C.)

domenica, agosto 07, 2005

Colloquio con Roman Vlad

Roman Vlad
La melodia un segno riconoscibile.

Melodia è, in senso fisico, una successione di suoni di varia altezza. Anche ad una scala, a un semplice arpeggio, si può applicare questa definizione; eppure non si parla di melodie. Quale passaggio li renderebbe tali?
Intanto, tutte le melodie sono costituite da segmenti più o meno estesi di scale o di accordi arpeggiati. Una bellissima melodia inizia il 2° tempo del Concerto per 2 violini e orchestra di Bach, e non è altro che una scala discendente di Fa maggiore; un esempio che spiega come avvenga la promozione a melodia: grazie alla struttura ritmica che sottende la successione di note in modo che non venga dato subito all'ascoltatore quello che si aspetta. Si stabilisce un'articolazione: l'inciso, cioè lo spunto, ritmico, sì sposa a quello melodico.
Il ruolo del ritmo lo avvertiamo anche in un testo messo in musica.
La melodia nasce come canto monodico, canto a una sola voce, in stretta connessione con la parola. Nel canto gregoriano confluiscono i risultati di una millenaria tradizione melodica, che include l'area della cultura mediterranea, del Medio e Vicino Oriente...
L'avvento della polifonia, scrittura musicale a più voci, ha in qualche modo sacrificato la melodia?
In origine, no; è stata istituita proprio per permettere la nascita di nuove melodie. I canti gregoriani erano detti «canti fermi» perché non si potevano modificare; nacque allora il contrappunto, dove ad ogni nota d'una linea melodica veniva sovrapposta cioè intonata contemporaneamente da un'altra voce - una nota diversa, fino a formare un'altra linea melodica. Se però la polifonia da mezzo diventa fine, come in certe composizioni cinquecentesche a 24, 48, 60 voci, la melodia va a farsi benedire; ma perlomeno nella scrittura a quattro parti, ogni voce deve possedere una sua autonomia melodica. Insomma, l'armonia nasceva come corollario, per rendere la melodia più idonea e felice. C'è poi l'eterofonia, una loro congiunzione particolare; ad esempio l'attacco della «Danza Russa» in Petruska di Stravínski: la melodia è semplicemente riprodotta, conservando gli intervalli, in una fascia superiore o inferiore; è una melodia ispessita, che sembra armonizzata.
Monodia, polifonia... Come prosegue l'evoluzìone?
Vediamo altre tappe. Monteverdi ha l'ideale del "recitar cantando"; la sua melodia aderisce dunque alle parole, per esaltarne il significato; la forma è quella del recitativo: molte ripetizioni della stessa nota, scansione sillabica. Il recitativo può distendersi e diventare un arioso, e l'arioso è matrice dell'aria. Se prendiamo le arie di Rossini, illustrano chiaramente il concetto di «belcanto». Che non è canto bello, ma melodia ornata. Si parla anche di coloratura, perché le note di ornamento sono rapide e dunque sul pentaprisma "colorate" di nero, per distinguerle da quelle bianche, più lunghe. Anche Bellini, genio della melodia, era un belcantista; era simile a Chopin che, nell'ambito strumentale suo proprio, ornava molto le sue melodie. Mai come Liszt però: aggiungeva fioriture persino a Chopin.
Melodia vocale, melodia strumentale. Ci sono caratteri differenti?
Certo, legati all'esecuzione concreta. La melodia vocale deve accettare i limiti di estensione dell'organo vocale: dunque, avremo intervalli relativamente esigui; una voce non potrebbe eseguire il passo del primo tempo del Concerto per fagotto dì Mozart, si bemolle e subito si bemolle tre ottave sopra. D'altra parte, la melodia strumentale si conforma alla tecnica propria di ogni strumento. La grande divaricazione degli intervalli per la voce, come nella musìca della seconda scuola di Vienna, può diventare mezzo espressivo e fattore dì tensione: perché l'ascoltatore percepisce le difficoltà di intonazione.
Il compositore agisce dunque sulla melodia. Eppure noi pensiamo che sia un dono innato, di spontaneità.
Prendiamo l'esempio dell'attacco della Quinta di Beethoven; quale tema sembra più spontaneo? Eppure ci sono più di quaranta abbozzi. Non è per nulla facile trovare una melodia soddisfacente; c'è tutto un lavoro consapevole, e in parte inconscio. La mia melodia sull'incipit di Immer Wieder, che considero molto riuscita, mi è arrivata in sogno. E' un lavoro anche simile a quanto non si riesce a ricordare una cosa, che tornerà in mente quando non la si aspetta.
Ci sono dunque dei procedimenti compositivi legati alla melodia?
Vediamone alcuni. Nel canone, la melodia si sovrappone a se stessa, inseguendosi da una voce all'altra. Nell'Aida di Verdi, la stupenda melodia del duetto finale è costruita con l'intervallo più grande inferiore all'ottava, la settima maggiore, subito seguito dal più piccolo, la seconda minore, poi da una quarta, e intervalli sempre più piccoli, come una spirale sempre più intima intorno al cuore del soggetto. Nella forma-sonata abbiamo due temi di carattere contrastante, in rapporto dialettico: ad esempio se uno è a prevalenza melodica, l'altro avrà spiccato carattere ritmico. Si dà anche il caso di una cellula generatrice, che chiamiamo "Ur-Motiv", motivo originario, che può stare alla base di più temi. Questa cellula ho scoperto essere in Schubert, spesso, una successione di tre note adiacenti, trasposte poi ad altri toni, o trattate con motivi ritmici. Il dattilo, un suono lungo e due brevi, è per Schubert un metro fondamentale: quello del Lied la Morte e la Fanciulla, persino dell'intera Wanderer-Phantasie. La struttura metrica si contrappone all'accentuazione ritmica: Karajan diceva in una prova agli archi, per l'attacco del secondo tempo della Quinta di Beethoven, di non abbassare il gomito, per evitare gli accenti ed esaltare la semplice durata delle note.
Vi sono espedienti per manifestare uno stato d'animo determinato?
D'istinto, si è creata la relazione salire - al cielo, discendere - all'inferno, ma si trovano melodie discendenti eppure celestiali. Wagner usa il "Leit-Motiv", motivo conduttore, e lo riprende per riferirsi a un personaggio, a un'idea, a un sentimento, che sono di volta in volta legati al loro proprio "Leit-Motiv".
Noi dimostriamo di assimilare i procedimenti quando sappiamo "dove va a finire" una melodia; ma non sempre lo sappiamo. Si può parlare di una crescente complessità della melodia?
Sì, nell'ambito dei rapporti con l'armonia. Haydn affermava: «ogni buona melodia contiene in sé la sua armonia». Per Debussy, molti anni dopo, dovremmo dire viceversa. Ma solitamente, prima di Debussy, una melodia veniva armonizzata secondo certi canoni di appartenenza a una determinata tonalità. Invece ad esempio Liszt, nella sua Tredicesima Rapsodia per pianoforte armonizza ogni nota della Marcia Racoczy secondo accordi di tonalità diverse, e solo in un secondo tempo ripristina l'armonizzazione propria. Bartòk svilupperà questa tecnica in relazione ai canti popolari. Ancora sui rapporti melodia-armonia: un caso lampante di melodia implicita nell'armonia è quello del Primo Preludio dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach: la sentiamo tra le note dei puri accordi arpeggiati; Gounod, sovrapponendo la sua Ave Maria, ha svilito un'idea preziosa.
Per complessità, volevo intendere anche una difficile relazione con la memoria. Insomma, capita più spesso di fischiettare Mozart che Webern.
Non è un argomento. Provi Lei a fischiettare il passo dei Concerto di Mozart che ho citato prima. Con una serie di fischietti o di fischiettatori, va benissimo anche Webern. Si tratta di assimilazione; gli jodler dei montanari svizzeri o tirolesi ci paion difficili da riprodurre per gli intervalli strani. Sembra che questi ultimi siano favoriti dall'aria rarefatta dell'altipiano: non vi sono più settime e none, intervalli 'difficili', che nella musica degli Incas. Comunque, gli intervalli che meglio ricordiamo sono quelli più facili da intonare; e la memoria di una melodia è sempre aiutata dal suo ritmo.
Si può parlare di crisi della melodia nella musica contemporanea?
E' una crisi che tende più largamente alla negazione dell'intervallo, base indispensabile della melodia. Chopin la preavvisava a metà dell'800: nessun pianista sensibile eseguirebbe la successione di none nella Berceuse come accordi dissonanti: è invece la ricerca di un nuovo amalgama. Il Jazz preferisce il glissando tra due note all'intervallo puro; e lo Sprechgesang, come nel Pierrot Lunaire di Schónberg, l'intervallo parlato, meno preciso. Crisi non solo orizzontale, tra note successive, ma anche verticale, tra note costituenti un'armonia. Perché con la dodecafonia si è esaurito il potenziale armonico e melodico del sistema temperato.
Per concludere, non tentiamo riassunti; un'ultima osservazione.
Ecco, nelle Variazioni per pianoforte op.27 di Webern, al centro del primo brano, la mano destra deve suonare una nota all'estrema sinistra della tastiera, e viceversa subito dopo. E' un aspetto di visualizzazione gestuale della melodia: allora, non si tratta di limitarsi ad ascoltare un disco.

intervista di Maria Majno (Musica Viva, Anno III n.1, gennaio 1979)

venerdì, agosto 05, 2005

Beethoven: un accenno a Mozart lo punse sul vivo!

Il rifacimento del Fidelio andava in scena il 29 marzo 1806. La direzione del teatro aveva assicurato questa volta al compositore una percentuale sull'incasso. Ma proprio la liquidazione delle percentuali dette origine a una delle famose violente sfuriate di Beethoven, di cui fu involontario testimone il tenore Roeckel. Ecco quanto egli narra:

... Mi ero recato dal banchiere di corte von Braun, allora direttore del teatro "An der Wien", per ritirare il mio onorario dopo la terza rappresentazione del Fidelio. Mentre, nell'anticamera, aspettavo di essere ricevuto, ebbi l'occasione di ascoltare un violento alterco fra Beethoven furente e il barone. Beethoven, diffidente, credeva che gli spettasse una percentuale maggiore di quella che il direttore voleva pagargli. Ma questo gli faceva notare che egli era il primo compositore al quale, per i suoi meriti straordinari, fosse stata attribuita una partecipazione agli utili e che se l'incasso non era stato pari all'aspettativa, si doveva al fatto che i palchi e le poltrone erano sí occupati, ma non cosí gli altri posti. Il loggione, per esempio, sempre superaffollato alle rappresentazioni di Mozart, era rimasto deserto. E von Braun spiegava questo fatto dicendo che, mentre la musica di Mozart entusiasmava la folla, quella di Beethoven era stata compresa e apprezzata finora soltanto dalle persone colte.
Dall'anticamera sentivo i passi d'un Beethoven furente che gridava: « Io non scrivo per la folla, io scrivo per le persone colte ». « Ma queste da sole non riempiono la sala di un teatro » rispose il barone con calma. « Abbiamo bisogno della "folla" per aumentare le entrate e questa volta lo dobbiamo alla sua musica, se gli utili sono stati cosí scarsi. Se avessimo dato a Mozart la percentuale che diamo a lei, egli sarebbe diventato milionario! »
Questo confronto cosí poco felice col suo famoso predecessore sembrò toccare nel vivo Beethoven che si mise a gridare come una furia: « Mi restituisca la partitura! ».
Il barone esitava, sbalordito. Ma il compositore ribadí con ancor maggior impeto la sua richiesta: « Voglio la mia partitura, e subito! ».
Il barone suonò il campanello, accorse un servitore.
« Porti a questo signore la partitura dell'opera che è stata rappresentata ieri sera », disse il barone. Il servitore si affrettò a eseguire l'ordine.
« Mi dispiace » continuò von Braun « tuttavia spero che lei, ripensandoci... » Ma Beethoven non udí piú queste parole; aveva strappato il grosso volume dalle mani del domestico precipitandosi attraverso l'anticamera e, senza neppure accorgersi di me, giú per le scale.

mercoledì, agosto 03, 2005

Alcuni giudizi di Andrés Segovia

Andrés Segovia (1893-1987)
La musica moderna
La musica «moderna» si trova al di fuori di quel che io chiamo «il mio tempo». Stringendo, potrei dire che io la eseguo, tranne quando essa è costituita da «rumori». Mi piacerebbe constatare l'evoluzione delle sperimentazioni che si stanno verificando in campo musicale, in modo tale che la cadenza che inizialmente si presenta come rumore, diventi poi suono e, finalmente, musica.

La chitarra e i compositori
La chitarra è come un giardino labirintico per i cui percorsi i compositori non possono transitare da soli. Se non vogliono smarrirsi dovranno percorrerli dalla mano di un chitarrista.

Allievo e maestro
Sono stato allo stesso tempo mio allievo e mio maestro. E ancora oggi continuo ad imparare. E' meglio essere allievo di un'arte a 90 anni, piuttosto che maestro a 14.

La chitarra
La chitarra è stata mia amante, mia moglie, mia figlia, la mia vita. E anche se è difficile come una donna isterica, io le sono stato fedele.

L'«eterna giovinezza»
La gente si chiede sempre com'è che mi mantengo così «giovane». La musica aiuta, ma anche il duro lavoro. Ma la cosa più importante è mantenersi in attività.

Preghiera
Segovia possedeva un forte senso umoristico e maneggiava con sapienza la più sottile ironia. Amava raccontare agli amici quella che era la sua preghiera all'Altissimo, che riflette anche quello speciale rapporto con la morte proprio del popolo andaluso:

Signore! Mi confesso un povero peccatore che non merita di godere della Tua compagnia. E' per questo che ti chiedo una sola cosa: Lasciami ancora quaggiù per altri 50 anni!

In altre occasioni, egli diceva:

Signore! Ti prego, ascoltami! Non vorrei addormentarmi in questa vita suonando la chitarra e svegliarmi nell'altra suonando l'arpa!

da Musicalia (Anno III n.13, maggio 1994)

martedì, agosto 02, 2005

L'ultima lezione di Anton Bruckner

Negli ultimi anni di vita, mentre le esecuzioni delle sinfonie si facevano più frequenti (anche se in versioni ancora non autentiche) Bruckner cominciò persino a temere che i posteri potessero tradire la sua lezione. Nel 1892-93 raccolse e rilegò tutti i manoscritti delle versioni definitive e li chiuse in un plico sigillato. Nel testamento, dettato nel 1894, stabilì che questi manoscritti venissero consegnati alla Hofbibliothek di Vienna per la conservazione e l'affidamento (se richiesti) alle case editrici. I suoi timori non erano infondati. In quello stesso anno Franz Schalk dirigeva a Graz la prima esecuzione della Quinta in una versione da lui stesso ridotta e riorchestrata mentre Bruckner, gravemente infermo, non era presente; questa, nel 1896 (quando Bruckner era prossimo alla morte), ne sarebbe divenuta la prima edizione. Lo stesso destino toccò alla Nona, nel 1903 (a sette anni dalla morte di Bruckner), ad opera del Löwe. La Internationale Bruckner Gesellschaft venne fondata, nonostante la ferma opposizione di Löwe e di Franz Schalk, soltanto nel 1927. Nel 1931 si iniziava il lungo lavoro di edizione delle partiture definitive. E finalmente veniva meno il fantasma che aveva angosciato l'autore. Grazie alla sua tenacia, Bruckner aveva imposto, dopo la morte, la sua volontà nell'unica iniziativa editoriale veramente importante.