Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, agosto 31, 2006

L'omaggio di Max Klinger all'amico Johannes Brahms

Nel 1880, Max Klinger completa l'opus V, Amore e Psiche, e dedica il suo lavoro a Johannes Brahms, in cui vede l'ideale erede dei suoi idoli giovanili, lo scrittore Jean Paul e il musicista Robert Schumann. La dedica della monumentale interpretazione della favola antica, in sontuosa legatura, fu il punto d'arrivo di una venerazione che durava fin da quando, giovanissimo, aveva conosciuto la Sonata in fa minore per pianoforte, op. 5.
In occasione del sessantesimo compleanno del musicista, Klinger gli dedica il più visionario, solenne, tecnicamente ardito e personale dei suoi cicli, la Fantasia su Brahms (opus XII), a cui lavora da cinque anni e della quale Brahms è, più che solo dedicatario, titolo, protagonista e soggetto.
La prima edizione della serie di quarantuno incisioni è di cinque esemplari tirati privatamente, senza titolo. Il 4 gennaio 1894 Brahms scrive a Clara Schumann: «Una gioia davvero rarissima me l'ha data la Fantasia su Brahms [...] e vorrei che tu ne avessi la debita parte. Sono quarantuno disegni e acqueforti che hanno per base miei Lieder e, infine, il Canto del destino. Ma non sono illustrazioni nel senso comune, bensì stupende meravigliose fantasie». In un'altra lettera, invece, ringrazia Klinger: «Vedo la musica, vedo le belle parole [...] e senza che me ne accorga i suoi splendidi disegni mi portano più lontano; guardandoli, è come se la musica continuasse a risuonare all'infinito ed esprimesse tutto quel che avrei voluto dire, più chiaro di quanto non possa la musica e tuttavia altrettanto ricco di mistero e di presentimenti [...], in fondo sono convinto che tutte le arti sono la stessa cosa e parlino la stessa lingua».
Nell'aprile di quell'anno, Klinger, in viaggio per la Grecia via Trieste e Corfú, si ferma a Vienna per visitare Brahms.
Ecco il resoconto di quell'incontro nella lettera di Klinger ai genitori del 20 aprile 1894: «Sabato sono stato a Vienna. E stato proprio bello! Sono andato presto da Brahms. E' stato estremamente amabile. Alla buona e così carino e divertente. Mi aspettava alcuni giorni dopo e così mi ha invitato ad andarlo a prendere alle 7 di sera. Eravamo lì in quattro, col pittore Michalek e un direttore del Musikverein e ci siamo precipitati al Wurstelprater. Abbiamo visitato tutte le possibili osterie, abbiamo cenato dagli Czarda's e poi (sempre con Brahms) siamo andati sullo scivolo. Il mattino seguente Brahms e Michalek sono venuti a prendermi al caffè del Volksgarten, abbiamo visitato musei, chiese e municipio, abbiamo pranzato insieme e dopo siamo andati a Schönbrunn. [...] Poi è venuto il più bello. Brahms mi ha invitato al circolo musicale di Vienna. Lì sono stati eseguiti alcuni pezzi per coro di Palestrina, Bach e Brahms. Dopo pranzo sono stati eseguiti nuovi e inediti canti popolari di Brahms. Una signora deliziosa, la baronessa Cornaro, ha cantato gli a solo, un coro di signore era seduto ai tavoli nelle vicinanze del pianoforte e cantava il ritornello e Brahms stesso dirigeva e accompagnava al pianoforte. E' stato incantevole».
di Beatrice Buscaroli Fabbri (da "Art Dossier")

martedì, agosto 29, 2006

Ritratti e dediche di Antonio Vivaldi

Esistono tre ritratti di Vivaldi. Il primo è il ritratto-caricatura del Ghezzi, schizzato dal vivo nel 1723 a Roma: i tratti sono un po' esagerati, ma vivacissima è l'espressione estroversa, sottolineata dalla bocca semiaperta, dall'occhio vivo, dall'atteggiamento della testa sul corpo gracile, afflitto da "strettezza di petto". Due anni dopo venne eseguito dall'incisore olandese (di origine francese) François Morellon La Cave un ritratto ufficiale; dato che le edizioni vivaldiane venivano stampate in Olanda, è verosimile che l'incisione olandese dovesse servire a scopi editoriali. Il compositore è ritratto davanti allo scrittoio e nella mano destra tiene stretto al petto un quaderno di fogli pentagrammati con qualche battuta di musica scritta: una raffigurazione stereotipa, a giudizio di Marc Pincherle, il primo grande biografo di Vivaldi. Da questa incisione ne derivarono altre, talvolta piuttosto differenti dall'originale: quella di Caldwall pubblicata nella Storia della musica (1776) di Hawkins e quella di Lambert figlio pubblicata nella Galleria di violinisti e liutai celebri (1818). Infine, per analogie con l'incisione olandese, un terzo ritratto potrebbe essere quello portato alla luce da Francesco Vatielli al Conservatorio di Bologna: il musicista è raffigurato di fronte, a mezzo busto, in abito solenne e con parrucca: nella mano sinistra tiene un violino, nella destra una penna d'oca, mentre davanti a lui sta un foglio di musica.
Il carattere del compositore veneziano, così acutamente colto dal Ghezzi, aveva aspetti bizzarri. Ad esempio, in un concerto dedicato all'amico e violinista tedesco Pisendel, Vivaldi aveva segnato nel finale la realizzazione del basso, ma poiché si trattava di un'indicazione superflua, quasi offensiva nei confronti del destinatario, ebbe il riguardo di annotare: «Per li coglioni».
Carlo Goldoni, dal canto suo, attribuisce a Vivaldi un comportamento da bigotto. Tra le bizzarrie del "prete rosso" occorre anche ricordare un improvviso moto di nazionalismo che appare nella dedica dell'opera Adelaide ad Antonio Grimani, capitano e vice podestà di Verona: «... Era parimente convenevole, che ad un Veneto Patricio fosse questo dramma dedicato, imperciocché non potendo la storia, ondè ricavata l'azione, che sommamente dispiacere ad un buon italiano che non sia, come tanti sono oggidì, di sua Nazione inimico, facendogli sovvenire, discacciati gli ultimi italiani Re, ricadde la misera Italia, per non più liberarsene, sotto giogo straniero, a tale deplorabilissima sciagura solo dà qualche compenso l'inclita Veneta Repubblica, in cui dal suo nascimento fino ai nostri giorni l'Italiana libertà si conserva, e voglia Iddio sino al finire de' secoli conservarla».
da "I Maestri della Musica", De Agostini, 1989

domenica, agosto 27, 2006

Amadeus di nome... Quartetto di professione

"Un quartetto non si può formare o fare, deve nascere"
Dalla voce del primo violino la storia di un complesso che ha saputo conservare dopo quarant'anni d'attività l'amicizia d'un tempo.

Quattro autorevoli e rispettabili signori di mezza età e un miracolo di equilibrio sonoro, di impasto timbrico: il Quartetto Amadeus. La loro storia è iniziata tanti anni fa, quando tre giovani austriaci - Norbert Brainin, Sigmund Nissel e Peter Schidlof - press'a poco coetanei, fuggirono dall'Austria invasa dalle truppe naziste per rifugiarsi in Inghilterra; là si conobbero, in un campo di prigionia, e cominciarono a suonare insieme per poter sopportare - come amano dire - gli orrori della guerra. Finita la guerra, si ritrovarono a studiare da Max Rostal, presso cui studiava anche Martin Lovett; per formare il quartetto uno di loro, Peter Schidlof, rinunziò al suo strumento, il violino, per assolvere la parte di viola che mancava. Da allora non si sono più lasciati, hanno suonato e ottenuto onorificenze in tutto il mondo, fra cui il Diploma Onorario alla York University al termine dell'incarico come quartetto stabile, il Disco d'Oro della Deutsche Grammophon a suggello di una lunga collaborazione. Nel '73, in occasione del loro venticinquesimo anniversario, fu loro consegnata la Gran Croce al Merito nel corso di una grandiosa cerimonia tenutasi presso l'Ambasciata Tedesca di Londra; pochi anni fa il musicologo inglese Daniel Snowman ha dedicato loro un libro: Il Quartetto Amadeus - Gli uomini e la musica.

Norbert Brainin, primo violino del Quartetto Amadeus, è un signore di oltre sessant'anni che possiede comunque ancora qualcosa di quella dinamitica esuberanza per cui era celebre in gioventú; inoltre sembra molto più giovane della sua età anagrafica vestito con una giacca inglese chiara, non di nero com'è in concerto. C'è una ovvia nota di orgoglio nella sua voce mentre parla della splendida formazione del Quartetto, di cui però considerarsi un po' il padre spirituale.
Alla fine di quest'anno saranno quarant'anni dall'inizio dell'attività. Il fatto è che non esiste un quartetto, per lo meno di questo livello professionale, che abbia lavorato insieme senza che sia cambiato uno dei componenti. Credo che non sia mai accaduto nella storia del quartetto d'archi, il che vuol dire dai tempi di Haydn. Ci sono quartetti che hanno avuto un'esistenza più lunga dell'Amadeus, per esempio il Quartetto Budapest, ma alla fine non c'era più uno degli originali componenti.

Un incredibile equilibrio, una meravigliosa intesa sono stati raggiunti nel corso di questi anni, l'unicità di questa esperienza dipende forse dal fatto che vi siate conosciuti in un momento difficile, durante la guerra, cosa che rinsalda i legami?
Non so. Vede, un quartetto non si può formare o fare, deve nascere, è qualcosa come un miracolo, un'Immacolata Concezione: è accaduto. Certo io ho voluto un quartetto; già a dodici anni, a Vienna, ho suonato in quartetto: la mia insegnante aveva invitato altre due persone e così abbiamo suonato in quartetto. In realtà era pessimo, ma io vi ho sentito qualcosa, mi sono figurato un certo suono e ho pensato che se avessi trovato le persone giuste l'avrei fatto volentieri. Poi ho conosciuto i miei colleghi durante gli studi, una volta l'ho proposto loro ed essi erano d'accordo e così abbiamo cominciato a lavorare; era il gennaio 1947. Li conoscevo da molto prima, ma allora abbiamo cominciato a preparare un programma e un anno dopo c'è stato il nostro debutto a Londra. Dopo è stato un periodo molto difficile e faticoso, ma era scattato qualcosa, eravamo molto impegnati e ogni volta era un po' come una prima assoluta.

E oggi?
Oggi no, anche se noi ci esercitiamo come se lo fosse. Ma allora fu veramente un periodo duro; poi improvvisamente, circa dieci anni dopo, ci siamo accorti di essere diventati famosi: così è stato.

Come avete scelto il vostro repertorio?
Naturalmente insieme. Abbiamo in pratica un repertorio classico con piccole eccezioni. Senz'altro c'è stata una connessione fra ciò che noi mettevamo in programma e le case discografiche per cui abbiamo inciso: negli anni '50 per La Voce del Padrone e per la Deutsche Grammophon, poi dal '57 esclusivamente per quest'ultima; ancora oggi incidiamo per la Deutsche Grammophon, ma non più in esclusiva. In quei trent'anni abbiamo inciso praticamente tutto ciò che si può incidere della letteratura classica. Vede, perché si suona professionalmente in quartetto? Per via della splendida letteratura che esiste: Beethoven, Mozart, Schubert, Haydn - degli 82 quartetti di Haydn ne abbiamo suonati circa la metà -, Bartók - che non abbiamo mai inciso perché la Deutsche Grammophon ha la singolare idea che Bartók possano suonarlo soltanto gli ungheresi; è un'imbecillità, come quella per cui possano suonare Schubert soltanto dei viennesi, ma su queste imbecillità si regge il mercato.

Non c'è musica contemporanea nel vostro repertorio?
Non è vero, è piuttosto vero che ci viene richiesto sempre il repertorio classico: tutti pensano "abbiamo il magnifico Quartetto Amadeus, facciamogli suonare qualcosa di bello, non questa musica moderna che non ci piace". Ci sono stati anche dedicati brani da compositori contemporanei, per esempio da Britten, abbiamo suonato molte cose della seconda scuola di Vienna, Schönberg e poi Bartók. Ma certe volte sento della musica che sembra un'acrobazia di note, e la cosa non mi interessa particolarmente. Poi questo grattare sul violino sarebbe un peccato per il mio Stradivari... Non vorrei essere frainteso, la sperimentazione è una cosa interessante, anche Beethoven non era compreso perfettamente dai suoi contemporanei, ma io cerco qualcosa nella musica, qualcosa di divino... non è la parola giusta, spirituale, forse.

Cosa ritenete sia fondamentale per l'interpretazione?
Per prima cosa si deve leggere esattamente la partitura, seguire precisamente le istruzioni e sentire come suona; le prescrizioni del testo non devono solo essere seguite, si deve anche interpretarle e trasformarle in suono, senza interventi, altrimenti ciò che ne viene fuori è qualcosa d'altro. Alcuni pensano che questo qualcosa d'altro possa essere migliore, ma non è migliore; è soltanto una falsificazione, e io mi guardo da ciò. Per esempio Beethoven scrive precisamente cosa vuole, e se scrive piano, dolce e null'altro, così dev'essere fatto con piena espressione, senza effetti di su e giù con il suono. Va interpretato con abnegazione, compreso e interpretato, sentendo attentamwte come suona; se sembra venir fuori qualcosa di non perfettamente bello, un po' duro, difficile, alcuni tentano di lisciarlo, di renderlo completamente tondo, ma se quello è ciò che Beethoven intendeva, così va fatto, anche se suona brutale. E' un po' come una religione, come nella Bibbia: noi crediamo che i Profeti siano stati estremamente saggi e abbiano riportato esattamente ciò che Dio attraverso loro ha prescritto, e anche se qualcosa può sembrare strano, nessuno oserebbe contraddire. Così ci si deve confrontare anche con Beethoven, Mozart, Brahms o Schubert, senza lasciarsi infastidire da qualcosa che può non piacere. Questo chiamo io interpretazione. Sono profondamente convinto che ci sia qualcosa di divino nell'ispirazione dei compositori; sa cosa diceva Furtwägler di Beethoven? "E' la legge": in altre parole Beethoven era un profeta, i compositori ci parlano come profeti, nel corso del tempo me ne rendo sempre più conto. Poi c'è il grosso spazio interpretativo del colore strumentale, del fraseggio, che sono un po' i nostri attrezzi di lavoro. Così vengono fuori le diverse interpretazioni, e questo va benissimo, dev'essere così, sempre però tenendo in gran conto le intenzioni del compositore.

Siete sempre d'accordo sull'interpretazione?
Noi ci lavoriamo tanto finché siamo d'accordo. Se non si è d'accordo non viene fuori alcuna musica. Ma è proprio per questo che abbiamo così tante cose in comune e che siamo rimasti così a lungo insieme: vuol dire pur qualcosa, no? Su numerosi punti discutiamo, su cosa significhino e come vadano eseguiti: si arriva sempre ad un punto in un brano in cui non si riesce ad essere uniti, ci si allontana, ma noi discutiamo e impariamo sempre, e grazie a Dio siamo ancora insieme.

Cosa pensa del fatto che la musica da camera venga eseguita in grossi spazi?
C'è un fraintendimento: si pensa che la musica da camera presupponga spazi ristretti... magari una soffitta! In realtà musica da camera non ha niente a che fare con la "camera", "camera" è la camera del tesoro: questa musica veniva pagata dal Ministero del Tesoro perché destinata al re o al principe. Può sicuramente essere suonata anche in grossi spazi - acustica permettendo - e poi io penso che il messaggio filosofico della cosiddetta musica da camera travalichi spesso di molto la propria stessa orbita. Per esempio Beethoven scrisse la propria musica da camera per un pubblico immaginario, senza pensare che potesse essere suonata davanti ad un grosso pubblico, come avviene oggi. Certe cose di Beethoven non le comprendiamo ancora.

Non ha mai avuto il desiderio di suonare come solista?
Sì, e lo faccio anche. Anche il nostro violista, Schidlof, quando ce n'è l'occasione; gli altri meno; suoniamo anche insieme, brani per violino, viola e orchestra. Ciò che forse non sa è che noi suoniamo anche in trio; il nostro secondo violino, Sigi Nissel, ha avuto un infarto sei anni fa, e i medici gli hanno prescritto non più di quaranta concerti l'anno. Così per quelli che facciamo in più ci presentiamo come trio, o in qualsiasi altra formazione che non richieda un secondo violino, trio con pianoforte o cos'altro.

Non pensate ad una sostituzione?
Non avrebbe senso, significherebbe ricominciare tutto da capo. E poi sarebbe estremamente sgradevole.

Ad un certo punto emerge la sua viennesità, e divaga, in una lunga digressione, sui capolavori della produzione di Schubert.
Sì, nonostante siano ormai quarantotto anni che vivo a Londra, da qualche parte di me sono ancora viennese; quando sono a Vienna poi sono più viennese che mai. Ma - si stupirà - quando sono fuori dall'Inghilterra mi rendo conto di essere diventato estremamente british.

Avete fissato un termine alla vostra attività?
Accetto il fatto che prima o poi dovrà accadere, ma non sono stati fatti piani a proposito.

Tutti i membri dell'Amadeus insegnano; vedete fra i vostri allievi dei possibili eredi?
A Colonia abbiamo avuto degli allievi che sono già entrati nel mondo della musica, il Quartetto Cherubini o il Quartetto Aurin, che sono entrambi tedeschi, il Voces, che è rumeno. C'è una certa continuità... Si spera che trovino la forza di continuare ad evolversi, perché non sono molti i quartetti veramente di prima qualità nel mondo, si contano veramente sulle dita di una mano. E arrivare a certi punti di concezione spirituale richiede molto, molto tempo... Arrivare al punto che ai concerti la gente senta la musica con grande piacere e anche rispetto, devozione. Credo che uno di questi ensemble farà parlare di sé, e ne sono molto fiero.

Qual è il ricordo più bello di questi quarant'anni di attività?
Difficile a dirsi; forse quando nel '57 o '58, a Londra, abbiamo suonato al Festival Hall, che contiene 2400 persone, ed era completamente pieno, incredibile. Allora ho pensato "siamo arrivati".

Avete mai avuto problemi fra di voi?
Certo problemi ne abbiamo affrontati, ma mai questioni personali; niente di serio.

Vi frequentate solo per lavoro o anche per amicizia?
Noi siamo intimi amici, ci invitiamo a vicenda, siamo sempre insieme: è più il tempo che passo con i miei colleghi che con la mia famiglia! Così siamo contenti quando torniamo a casa e non ci si vede per un paio di giorni: bisogna equilibrare, razionalizzare. Ma noi siamo ancora vivamente amici.

Conoscendo il pubblico di tutto il mondo, quale preferite?
Mah, per lo più quello delle grosse città; per esempio il pubblico di Parigi è fantastico, elettrizzante, ma nel resto della Francia... Firenze, poi Colonia, certamente Londra. Ho amato molto il pubblico del Conservatorio di Torino, perché c'erano molti giovani. A Buenos Aires c'è un pubblico assolutamente fantastico. Vienna è interessante per la psicologia del pubblico: la gente non si cura dei concittadini, ma quando uno ha ottenuto successo all'estero e torna famoso, allora viene incredibilmente festeggiato, e ne sono fieri: nemo propheta in patria. Il pubblico è importante, è difficile superare certe barriere di mediocrità; se il pubblico è noioso è tutto più difficile.

Parliamo ancora di questo e quello, mi racconta una deliziosa storiella viennese (due nobilotti si incontrano al Friedhof, a uno è morta la moglie di influenza, l'altro esclama "Grazie a Dio non è stato niente di serio!" e mi confida:
Lo sa che ho un possedimento in Italia? Una casa a Barga, dove allestiscono Opera Barga, vicino a Lucca. Di tutti i posti in cui sono stato nel mondo, amo particolarmente l'Italia, per me è il posto più bello. I barghiani poi sono convinti che Barga sia il più bel posto nel mondo, e lo credo anch'io.
intervista di Luciana Galliano (Musica Viva, Anno XI n.6, giugno 1987)

venerdì, agosto 25, 2006

Mahler a Monaco: "Ottava Sinfonia", 12 settembre 1910

L'attesa di tutta Monaco e di quelli che erano venuti di fuori per assistere a questa première era enorme. Già la prova generale aveva estasiato tutti quanti. Ma all'esecuzione l'entusiasmo superò ogni limite. All'apparire di Mahler sul podio tutto il pubblico si alzò in piedi. Un perfetto silenzio. Fu l'omaggio più commovente che sia mai stato fatto a un artista. Io ero in un palco, sul punto di svenire per l'emozione.
In questa sinfonia Mahler, assurto ad altezze sovrumane, soggioga masse immani e le trasforma in fonti di luce. Indicibile fu l'emozione di tutti coloro che ebbero la fortuna di assistere all'avvenimento. Indicibile anche il successo esteriore. Tutti si precipitarono verso Mahler. Io aspettai dietro le scene, profondamente emozionata, che il delirio si calmasse. Poi ci recammo all'albergo con gli occhi pieni di lacrime. Nell'atrio ci aspettavano i nostri amici: Reinhardt, Roller, i Neisser, Erler, Berliner, i Clemenceau, Paul Stefan.
Dentro, accanto alla porta, stava J. L., un ricco pazzo di New York. «Dopo ... dopo ... dopo ... Brahms non è stato scritto nulla di così grande.» Ansimava e ostacolava il passaggio. Dovemmo ricorrere alla violenza. Passammo, per così dire, sul suo corpo. Mahler non sopportava nessun genere di adulazione. Lodi da parte di persone che non capivano niente di musica lo rendevano duro.
Una grande sala era riservata per gli ospiti di Mahler. Mahler e io volevamo metterci a sedere, quando tutta la sua famiglia ci circondò. Allora mi passò un biglietto su cui aveva scritto che quella non era una festa di famiglia, che mi alzassi e andassi a sedere da qualche altra parte, egli mi avrebbe seguita subito. Lo feci e mi misi a sedere vicino al consigliere segreto Neisser e sua moglie che erano insieme con Erler, Berliner e Klenau. Mi ero appena seduta che arrivò Mahler ridendo. E continuammo così tutta la sera, ci sentivamo liberi e leggeri, e Mahler ricevette da tutti omaggi e rallegramenti.
Meravigliosa fu quella tepida notte che passammo discorrendo, fino all'alba, mentre accanto a noi dormiva la nostra cara bambina.
Il giorno dopo il fisico Berliner, amico di Mahler, mi disse: «Tutti, Almschi, si rallegrano con Mahler, ma tu hai sofferto per l'Ottava. Meriti un premio anche tu. Vieni doniani mattina con Gustav all'Hotel "Vier Jahrcszeiten" nella stanza della signora Neisser, ci sarà una sorpresa per te.»
La mattina dunque, andammo ubbidienti all'albergo e trovammo una grande esposizione di gioielli. Erano tutti disegnati da Fritz Erler; ma non mi piacevano. Erano troppo legati allo stile del tempo. Teste di S. Giovanni in avorio, infilate l'una accanto all'altra a formare una collana! Oppure una testa di Cristo come ciondolo! Da una parte, discoste, c'erano tre perle barocche appese a una catena d'oro e scelsi quelle.
Subito dopo Mahler e io uscimmo di città in automobile per fare un giro in campagna. Ma Mahler era di malumore. Era invidioso di Berliner, che aveva avuto quell'idea e voleva ricomperargli le perle, per potermele regalare lui. Ma io non volli. Il gentile pensiero doveva rimanere di Berliner che l'aveva avuto. Mahler continuava a domandarmi: «Ti piace davvero? Ti fa veramente tanto piacere?» Mi faceva proprio piacere, non c'era niente da fare. Era il primo gioiello che io avessi ricevuto in vita mia.
Mahler non aveva la minima idea di che cosa potesse far piacere a una giovane donna. Quando ci fidanzammo disse: «C'è un uso di cattivo gusto, per queste occasioni, di regalarsi degli anelli, ma tu sei come me, vero? Non lo vuoi?» Dissi subito che quegli usi mi sembravano sciocchi.
Ci sposammo, ma Mahler non sapeva affatto che si deve fare un regalo di nozze alla moglie, e nessuno lo informò. Nacquero le bambine e non fù più questione di cose del genere. Io amministravo le entrate e dovevo star attenta a nsparimare per estinguere i debiti, non si poteva certo pensare a gioielli o a qualsiasi ornamento della vita. Dopo i guadagni americani certo, sarebbe stato possibile ... E ora Berliner!
Alla prima prova d'insieme s'era verificato un penoso incidente. L'organizzatore per desiderio di Mahler si era preso l'incarico di informare l'orchestra che Rosé voleva rendere omaggio a Mahler prendendo parte all'esecuzione dell'Ottava, come violino di spalla. Ma, per vigliaccheria, non aveva fatto questa comunicazione. Mahler credeva che la faccenda fosse regolata e telegrafò a Rosé, che venne subito da Vienna. Andammo con lui alla prova, ignari di tutto. L'orchestra prese la cosa come un affronto verso il suo violino di spalla e quando Rosé si mise a sedere, tutti gli orchestrali si alzarono e abbandonarono i loro posti. Mahler rimase impietrito. Rosé si alzò lentamente, pregò Mahler di non agitarsi, scese dal podio col suo violino e attraversò posatamente tutta la sala per venire a raggiungerci. Era una situazione umiliante e imbarazzante, ma l'atteggiamento dignitoso che seppe conservare mise gli altri dalla parte del torto.
Arrivati a Vienna, la nostra prima preoccupazione fu la gola di Mahler, dopo il nuovo attacco del male. Poiché Mahler era molto sensibile al dolore, il dott. P. non osava togliergli le tonsille, ma si limitò a cauterizzarle come aveva fatto a me, con buon successo l'anno prima. Con ciò credevamo di averlo protetto, e Mahler stesso non desiderava sottoporsi a un intervento più profondo.
Eravamo alloggiati, come sempre, in casa di mia madre. Una sera avevamo invitato di nuovo Schönberg e Zemlinsky. Schönberg mi prese da parte e disse: «Le prometto di non bisticciare mai più con Mahler ... e da oggi in poi può inveire contro di me quanto vuole, non mi offenderò mai più!» più che rallegrarmi, mi spaventai. «Sono fermamente deciso a comportarmi così da oggi in poi, perché gli voglio bene!».
Mi ricordo di una conversazione tra Mahler e Schönberg, in cui Schönberg dimostrava la possibilità di creare una melodia facendo suonare una sola nota da diversi strumenti (creando cioè una scala di vibrazioni), cosa che Mahler negava vivacernente.".
All'inizio del mese di novembre dell'anno 1910 ci incontrammo a Cherbourg sul transatlantico, per quello che sarebbe stato l'ultimo viaggio. Egli proveniva da Brema, io da Parigi. La traversata non costituiva più nulla di straordinario per noi. Si partì il 15 novembre e il 25 novembre si arrivò a New York. Era un gioco da ragazzi. Godemmno di quei dieci giorni come di un periodo di riposo. Erano giorni meravigliosi - ogni volta!
Ho preso due fotografie di Mahler in quel viaggio. Sono le sue ultime. Dall'estate precedente rivolgeva molte cure al suo aspetto esteriore. Panciotti alla moda, bei vestiti, belle scarpe. Il suo viso era tanto bello! Il suo corpo elastico e proporzionato - era facile per lui aver un bell'aspetto.
Ora diceva: "Non occorre sputare sotto la tavola per essere Beethoven!".
Quell'anno in America le tournées dovevano comprendere nuove località. Seattle, Buffalo, Springfield. Dunque: la prima settimana studio, la seconda settimana concerti a New York e Brooklyn, la terza settimana questi piccoli viaggi, il tutto con un solo programma, così bastava studiare pezzi nuovi solo ogni tre settimane. Dunque un maggior sfruttamento del programma studiato. Questo sarebbe stato un agevolamento per molti direttori, ma non per Mahler, perché egli sopportava male i viaggi.
Il 7 dicembre Mahler parti con l'orchestra per Springfield e io il 9 per Buffalo, dove dovevamo incontrarci. Arrivai la mattina presto. Come d'accordo mi aveva mandato incontro alla stazione il suo violino di spalla Spiering. Andai a prendere Mahler all'albergo, dove si fece una breve sosta e partimmo poi con un treno locale per Niagara, e da lì ci recammo alle cascate con una carrozza antidiluviana.
Un freddo sole invernale brillava su tutti i rami rivestiti di ghiaccio e quando fummo arrivati proprio alle cascate e poi, con l'ascensore, sotto le cascate, gli occhi ci facevano male per la fortissima luce verde. Il rombo dell'acqua che precipita sotto la coltre di ghiaccio, tutti gli alberi sulle sponde coperti di ghiaccio per il continuo pulviscolo, l'immensa pianura bianca, erano una bellezza di sogno!
Poi ci riscuotemmo e cercammo un luogo qualsiasi dove mangiare, ma strano, non c'era nulla di confortevole, nulla di attraente. Alla fine entrammo in una piccola trattoria riscaldata da una stufa di ferro e che odorava di soprascarpe e di vestiti bagnati. Tutta la gente si era recata colà e noi ci eravamo semplicemente accodati. Un vecchio cameriere si avvicinò al nostro tavolo, il suo volto si illuminò: "Sono felice, Mr. Mahler, di poterLa servire qui. L'ultima volta fu a Vienna, da Hartmann (un grande ristorante del Ring), ma è passato tanto tempo!". E ora eravamo salvaguardati, perché, nella sua gioia, il vecchio non sapeva più cosa fare per rendere omaggio a Mahler.
Non era facile per un uomo come Mahler, che in Europa era conosciuto e popolare dovunque, vedersi piombato laggiù improvvisamente nell'anonimo. Era dimenticata la giovinezza trascorsa in povertà, per cui ora rimaneva difficile essere una figura senza rilievo nella massa.
Poi di nuovo la carrozzella, di nuovo il treno locale e finalmente Buffalo, con mani e piedi gelati. Mahler si mise subito a letto, perché la sera doveva dirigere. Dopo un riposo di un'ora si alzò perfettamente ristorato. Io avevo sentito già quattro volte il programma di quel concerto e rimasi all'albergo. Inoltre avevo viaggiato tutta la notte ed ero arrivata molto presto la mattina.
Subito dopo il concerto Mahler venne a raggiungermi all'albergo, dove lo attendeva la sua cena frugale; era di ottimo umore. «Senti,» mi disse «oggi ho visto chiaramente che l'arte articolata è più grande della natura inarticolata.» Aveva diretto la Sinfonia Pastorale. La natura gli era sembrata più grande, più elevata nella musica di Beethoven che non in tutte le cascate del Niagara!
Il giorno dopo Mahler doveva dirigere il suo terzo concerto in qualche posto nei dintorni. Perciò la mattina ripartii sola, perché non volevo lasciare troppo a lungo la bambina con la governante. Durante il viaggio rilessi, per suo desiderio, I fratelli Karamazov. Gli telegrafai da New York: «Viaggio con Almioscia stupendo.» Mi rispose subito: «Viaggio con Almjoscia ancora molto più stupendo.»
Mahler aveva l'abitudine di ripetere continuamente per giorni, settimane e anche mesi un'idea che lo aveva particolarmente colpito, di rimeditarla e di farvi continue variazioni. Così ora ripeteva sempre: «Tutte le creature della natura si adornano costantemente a gloria di Dio. Tutti gli uomini hanno dunque un solo dovere, di farsi belli quanto più possono, in tutte le maniere, davanti a Dio e agli uomini. La bruttezza è un'offesa fatta a Dio!».
All'inizio, quando era stato fondato il comitato, avevo messo in guardia Mahler dal lasciare alle signore troppa voce in capitolo nella formazione dei programmi. Ma Mahler aveva riso e aveva detto che a lui andava molto bene se altri facevano il programma per lui, che così avrebbe avuto ancor meno da fare. Ma ebbe a pentirsene amaramente.
A New York, come del resto purtroppo anche a Vienna, Mahler aveva una spia in orchestra. Qui si chiamava Jonas, era malato di polmoni e si era cattivato la fiducia di Mahler con la descrizione dei suoi mali. Ma ben presto le conversazioni ebbero per oggetto solo i membri dell'orchestra e i loro maligni apprezzamenti su Mahler. E ora Mahler tornava a casa tutti i giorni irritato, perché Jonas lo accompagnava sempre e dappertutto come un'ombra. Mahler lo fece ispettore dell'orchestra e il disappunto degli orchestrali, che intuivano i rapporti che correvano tra Mahler e Jonas, si mostrava nel loro comportamento sempre meno amichevole e meno volonteroso verso Mahler. Può essere che Jonas abbia agito per amore, ma allora si è trattato di un amore che rendeva cattivi servizi. Mahler diventò aggressivo verso l'orchestra, irritabile e impaziente. Diversi orchestrali si lamentarono presso il comitato. L'orchestra esigeva, unanime, l'allontanamento di Jonas. Mahler si oppose. Io lo consigliai di acconsentire a qualsiasi costo, ma niente servì. Era il suo unico amico, non voleva perderlo, altrimenti sarebbe rimasto solo e abbandonato. Tutto il resto dell'orchestra lo odiava. A tal punto dunque erano arrivate le cose!
Prima di Natale ci fu una lieve ricaduta dell'angina, la malattia sparì presto e non ci preoccupò, eppure avrebbe dovuto preoccuparci molto.
 
Alma Mahler ("Ricordi elettere", ed. il Saggiatore, 1960)

mercoledì, agosto 23, 2006

Il segreto di Melania Kox, primadonna


SIGNORA MELANIA KOX HABET PIACERE INCONTRARE GIORNALISTI ET CRITICI MUSICALI SALONE FESTE HOTEL BRISTOL GIOVEDI' 20 APRILE ORE 18 PER URGENTI DICHIARAZIONI STAMPA STOP PREGASI NON MANCARE STOP FIRMATO PRESS AGENT OSCAR WALLMANN.

Mai un telegramma mi aveva tanto infastidito come questo. Il fastidio mi veniva dal conoscere molto bene Melania Kox, i suoi capricci di primadonna della lirica, le sue stravaganze di personaggio chiacchieratissimo e i suoi irati mugugni nei confronti di chi, come me, aveva per dovere di mestiere la malcapitata avventura di ascoltarla e il piacere di stroncare puntualmente ogni sua recita. Immaginavo che le "urgenti dichiarazioni" altro non sarebbero state che la consueta litania di accuse e di minacce - sia pure con gli angosciati toni di chi si sente perseguitato - alla categoria dei critici musicali. La sceneggiata della conferenza stampa si ripeteva ormai da quindici anni e sempre all'indomani di una première disastrosa. Dapprima sconcertati, quindi divertiti, avevamo poi smesso, io e i miei colleghi, di far da bersaglio in quelle inutili bagarre, convinti di esercitare una professione che raccoglie antipatie molto spesso, adulazioni talvolta, simpatie mai.
Melania Kox era il peggior soprano che da quindici anni calcava le scene dei teatri d'opera di qua e di là dell'Atlantico. Apparteneva a quel genere di cantanti dall'ugola modesta e per di più sgraziata. Possedeva una tecnica di canto disordinata, voce opaca, acuti strazianti da gallinaceo a cui stanno torcendo il collo. Non di rado arrancava sui suoni intonati dopo un vero pellegrinaggio intorno ad essi. Insomma, una voce che offendeva l'intelligenza e le orecchie. E rimanevano un mistero per tutti i suoi quindici anni di carriera.
Tuttavia Melania Kox era ricercata e coccolata dai registi per il solo pregio d'una presenza naturalmente drammatica che sul palcoscenico sapeva bene mettere in risalto. In lei bisognava ammirare il gesto e dimenticare il canto, il quale compiacenti direttori d'orchestra trovavano sempre il modo d'accomodare, tagliando i passi più difficili o abbassando di diversi toni interi brani, sicché mai s'ascoltava un'opera così come il povero compositore l'aveva scritta.
Sulla fortunata carriera di Melania Kox circolavano però molte voci che la primadonna definiva maldicenze. Si diceva, per esempio, che avesse frequentato più talami di sovrintendenti, impresari e registi che palcoscenici. Si mormorava che la signora ricattasse di conseguenza i proprietari di quei talami allo scopo di venir scritturata. Si sussurrava anche di poco trasparenti scritture il compenso delle quali finiva per metà nelle tasche di certi impresari. Si aggiungeva poi che i suoi maneggi arrivassero al punto da imporre compagni di canto ancor più modesti di lei (se non addirittura peggiori) e ciò per risultare, comunque e sempre, la sola vincitrice della serata. Era la verità, ma trovare qualcuno disposto a scucirsi la bocca per spiattellarla apertamente era un'impresa molto difficile, divenuta finanche impossibile ora che la primadonna era convolata a nozze con un danaroso proprietario di network televisivi il cui marchio teneva occupati, rimbecillendoli, i tre quarti della popolazione adulta di mezza Europa.
Nel salone delle feste dell'Hotel Bristol, alle 18 di quel giovedì 20 aprile, non mancava nessuno. Wallmann aveva convocato telegraficamente tutti i colleghi delle testate sparse ai quattro punti cardinali del paese; aveva chiamato fotografi e cronisti; aveva invitato persino qualche direttore di giornale. C'erano anche, assiepati nelle prime tre file di poltrone, personaggi a me purtroppo noti - per lungo e costante scambio di polemiche - rappresentanti la truppa dei fedelissimi sostenitori della primadonna. La claque, si sa, è costume teatrale di tutti i tempi. Ma non s'eran visti mai prezzolati battitori di mani e urlanti melomani di loggioni, come costoro, suffragare con chissà quali certezze storiche e musicologiche, l'autenticità filologica delle sgraziate esibizioni di Melania Kox, stonature comprese.
Melania Kox ci apparve dopo mezz'ora di attesa con una entrata degna del personaggio. Il corpo affusolato s'intuiva appena sotto la lunga tunica leggera sul cui candore spiccava l'ebano dei capelli sciolti a incorniciare un viso ovale né bello né brutto. Con gesti lenti e solenni da eroina barocca, si avviò al tavolo infiorato in fondo al salone, distribuendo sorrisi ai fotografi, ammiccando con strizzatine d'occhio alle telecamere del consorte, concedendo la mano al bacio di un signore di mezza età che anche in questa occasione non s'era astenuto dall'incarico di capo-claque nel dirigere il battimani degli scalmanati delle prime file.
Finalmente si fece silenzio e Wallmann principiò a parlare. Vi risparmio il dettaglio del suo sproloquio, essendo una ricapitolazione della carriera della signora (la quale annuiva e sorrideva), non tralasciando di lanciare frequenti e velenose punzecchiature al nostro indirizzo, colpevoli di "non aver compreso" l'arte canora della divina. Poi ci comunicò la notizia: Melania Kox, a trentacinque anni, aveva deciso di ritirarsi dalle scene. Smetteva di cantare - aggiunse Wallmann - per dedicarsi completamente al marito.
Tirammo un sospiro di sollievo, e c'è da credere che di lì a poche ore lo avrebbero tirato anche i tanti personaggi in angustie per i continui ricatti, i poveri cantanti maltrattati e tutti gli ascoltatorì di buon orecchio. Il teatro lirico si liberava finalmente, in un sol colpo, da una pessima voce e da una donna intrigante e supponente.
La giustificazione del recente matrimonio poteva bastarmi: nella storia s'erano dati altri casi di simile abnegazione coniugale. Ma il sospetto che qualcosa di più serio avesse spinto la signora al passo della gran rinuncia cominciò a farsi strada con insistenza nella mia testa. Mon mi sbagliavo. Qualche giorno dopo infatti, per le tante vie d'accesso alle fonti delle notizie che nel mio mestiere è necessario aprirsi, venni a conoscenza della verità. Una piorrea, ovvero una improvvisa quanto precocissima (e miracolosa ormai) caduta di tutti i denti, aveva costretto Melania Kox a ritirarsi lasciando cadere ogni tentativo di porvi rimedio. Si leggeva, anche in cotesto rassegnarsi al proprio destino, un gesto di orgoglio, quasi di sfida, come a dire tragicamente: con me finisce il canto lirico.
Per quanto mi riguardava, adesso Melania Fox primadonna significava una cartellina gialla del mio archivio ove erano raccolti i quindici anni della sua carriera, scrupolosamente testimoniati da centinaia di ritagli di giornali. La cartellina riposò in pace per due anni, fino a quando mi capitò sotto gli occhi un foglio in lingua inglese che mi fece trasalire: Melania Kox aveva interpretato Aida in un teatro dell'Australia, strabiliando per il suo "canto impeccabile" - c'era scritto proprio così - pubblico e critica. Non ricordo quante volte lessi e rilessi il trafiletto di giornale. Ricordo solamente che da quel giorno trassi dall'archivio la cartellina gialla e la spolverai: la primadonna ritornava a cantare.
Alcuni mesi più tardi mi recai di malavoglia a Zurigo: lei cantava Lucia di Lammermoor. Finché vivo non dimenticherò quella serata. Miracolosamente, Lucia cantava. I suoni uscivano dalla bocca, morbidi, armoniosi, rotondi, caldi, espressivi, ma soprattutto ineffabilmente intonati. Che cosa era accaduto alla voce di Melania Kox? Un miracolo?
Mi prese l'irresistibile piacere di ascoltarla e mi posi in pellegrinaggio verso tutti i teatri dove lei si esibiva. Il miracolo si ripeteva sempre e dovunque. M'estasiavo all'incanto della sua Norma, della sua Violetta, della sua Manon. Afferravo finalmente quel che Bellini o Verdi, Donizetti o Puccini, avevano inteso nel far vibrare col canto i sentimenti e le passioni, gli affetti e le miserie del cuore umano. Tutto, tutto mi veniva ora svelato dalla voce di Melania Kox. E non c'era altro modo di spiegare una simile metamorfosi se non ricorrendo al miracolo.
La seconda vita artistica dei soprano passò, di successo in successo, su tutti i palcoscenici del mondo. Non di rado, giungeva notizia di lampadari che oscillavano per la ricchezza timbrica dei suoi suoni; oppure di lampadine che scoppiavano sotto l'urto delle vibrazioni di certi suoi acuti perfetti e luminosissimi.
Giorno di terribile sofferenza fu, per me e per il mio amor proprio professionale, quello in cui la primadonna rifiutò di ricevermi per un'intervista, volendo vendicarsi di tutti i maltrattamenti - un tempo giustificatì e sacrosanti - che la mia penna le aveva inflitti. Il mio fu l'unico giornale a inseguire invano la diva e il non essere riuscito a raggiungerla aveva fatto scendere le mie quotazioni al di sotto dello zero nella considerazione del mio direttore.
Ben presto l'inspiegabile fenomeno della voce di Melanica Kox divenne oggetto di interesse scientifico. Con varie argomentazioni si tentava di svelare il segreto di quel mutamento senza mai approdare però a risultati plausibili. Dopo molti anni, a Honolulu si tenne un ulteriore simposio internazionale che concluse con la richiesta di poter studiare "post mortem" l'intero apparato laringeo della primadonna, la quale si dichiarò entusiasta per il progresso della scienza e per l'aumento del suo conto in banca, giacché a suon di milionì mise in vendita i vari "pezzi" della sua gola ormai pregiata.
Il mondo assistette alla più bizzarra e grottesca vendita all'asta dell'apparato fonetico e respiratorio di Melania Kox. Stoccolma si aggiudicò le corde vocali, Montreal il grande corpo dell'osso ioide, New York l'intero stock dei muscoli sottolaringei, Parigi l'epiglottide, Osaka il diaframma, Berlino i polmoni, Leningrado la trachea, Capetown le membrane, le cartilagini e i numerosi ossicini. Venne pure stabilito che i risultati delle ricerche sarebbero confluiti in un unica pubblicazione scientifica e "messi a disposizione dell'umanità". Mi parve a dir poco singolare la circostanza che il famoso Massachussets Institute of Technology di Boston avesse sborsato la pazzesca cifra di dieci milioni di dollari per prenotare la dentiera di Melania Kox.
Cotesta multinazionale della foniatria non dovette attendere molto: un infarto stroncò definitivamente il soprano, una sera d'autunno a Chicago, mentre cantava Turandot. La divina Melania entrava così nella leggenda e, qualche ora dopo, la scienza entrava in possesso di quei "pezzi" da cui sperava finalmente di svelare il segreto di una voce.
Che delusione, quando, alla fine di interminabili quanto minuziose analisi, risultò che nelle "reliquie" vocali della primadonna non c'era proprio nulla che potesse spiegare l'arcano di una voce sgradevole divenuta all'improvviso bella. Fu pubblicata la relazione scientifica da cui conoscemmo peso, volume e descrizione al microscopio delle "reliquie". Ma tutto rientrava nella banalità più noiosa della norma. Si ritornava dunque a parlare di miracolo.
L'intera vicenda mi aveva ormai invecchiato. Eppure non smisi mai di occuparmene, per naturale curiosità di mestiere, ma soprattutto perché mi sentivo ancora bruciare dal lontano rifiuto della primadonna a concedermi un'intervista. Era una partita personale che continuavo a giocare con la defunta, sfidando il continuo brontolio del direttore e sopportando finanche i sorrisi di compatimento dei colleghi per i quali la mia era diventata soltanto una fissazione.
Un pomeriggio d'estate - la Kox era passata a miglior vita già da un paio di anni -, deciso ormai a dare alle fiamme la cartellina gialla, mi balenò un pensiero. 0 meglio cominciò a ossessionarmi una domanda: perché Boston s'era impadronita della dentiera? Poi un'altra: che fine aveva fatto? Poi un'altra ancora: perché la dentiera? Pensai: la primadonna s'era ritirata dieci anni addietro a causa d'una precoce piorrea, è naturale quindi supporre che si fosse sottoposta alla ricostruzione completa dell'apparato dentarico. Ma che relazione poteva esserci tra una protesi e la seconda, gloriosissima, carriera?
Accarezzai il progetto di recarmi in vacanza a Boston. Ne parlai con molta cautela al direttore del giornale il quale mostrò scarso entusiasmo per la ragione semplicissima che ormai Melania Kox non faceva più notizia. Alla fine, impietosito dalle mie insistenze, consentì benevolmente che il giornale sopportasse le spese del mio viaggio a Boston. Partii, tra il sollievo di tutti quei colleghi che giorno dopo giorno avevano vissuto la mia ossessione come un tormento. Nella città degli antichi padri pellegrini, il concatenarsi fortunoso di varie circostanze che solo per pudicizia mi trattengo dal descrivere, mi portò sulle tracce di una signora sessantenne, Marie-Louise Jerlinski, fisico elettronico ancora in servizio all'Istituto Tecnologico del Massachussets. La trovai ben disposta a parlare di quella che lei definiva la "creatura" più cara della sua lunga attività di scienziata e mi invitò l'indomani mattina nel suo laboratorio al Mit.
In preda ad una indescrivibile emozione che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte, l'indomani mattina, 10 agosto, mi recai all'appuntamento con la signora Jerlinski. Mi accolse con un sorriso e con un profondo sospiro. Mi disse poi che ciò che stava per mostrarmi e per dirmi era una sua piccola vendetta nei confronti dell'Istituto che sull'affaire aveva imposto il più rigoroso silenzio, togliendo a lei la possibilità di enormi guadagni. Ma ora era alla vigilia di andare in pensione. Da una piccola cassaforte tirò fuori una scatola sigillata. La aprì e mise sotto i miei occhi una dentiera. La dentiera di Melania Kox. Poi sollevò una pellicola biancastra che ricopriva la parete posteriore di quei denti e vennero alla luce microscopici computers di cui la Jerlinski - in gioventù aveva studiato canto e s'era anche specializzata in fonetica - mi spiegò il funzionamento.
Ciascuno di quei computers, mi disse, era capace di leggere, correggere e amplificare ogni piccola vibrazione delle corde vocali. La cantante doveva emettere suoni debolissimi e andare a tempo; al resto, cioè all'intensità, al colore, al fraseggio e alla corretta intonazione, pensavano loro. Aggiunse inoltre che l'intero sistema - un capolavoro di ingegneria miniaturizzata - era per così dire programmato sulla tessitura della Kox onde evitare la disgraziata ipotesi che dalla gola del soprano potesse uscire l'appassionato "Amami Alfredo" con profonda voce di basso. Mi diede altri ragguagli tecnici che, per la verità, compresi appena. Poi mi consentì di fotografare la "cosa" e con un altro sospiro di sollievo mi consegnò tutto il materiale (in copia) che documentava questa sua miracolosa invenzione.
Ritornai in albergo a scrivere il più cattivo articolo su Melania Kox primadonna: il suo segreto era una dentiera con la quale aveva gabbato tutto il mondo.
Quella notte mi addormentai felice.
 
racconto di Egidio Saracino (Musica Viva, Anno X n.8, luglio 1986)

lunedì, agosto 21, 2006

I dischi del Quartetto Italiano

Tornano i dischi del Quartetto Italiano. Io credo che siano ristampe cicliche: a esaurimento, si ripubblicano, in tempi serrati. Mozart, Schubert, Beethoven... I Classici del Disco con Borciani, la Pegreffi, Farulli e Rossi, gioia e orgoglio d'ogni discoteca in cui abbia onore la musica da camera, o semplicemente la musica.
L'orgoglio e la gioia, però, questa volta prendono una tinta tragica e scura: Paolo Borciani, il primo violino, è morto, dopo dolorosa malattia. Malattia nota a lui e ultimamente al mondo musicale, che ha vissuto con commozione l'alta lezione umana delle esecuzioni del Quartetto con Borciani e la moglie, Signora Elisa Pegreffi, uniti a due giovani allievi, per interpretare L'arte della fuga di Bach, quasi che il documento estremo del Maestro nato trecento anni fa e maestro della musica occidentale tutta potesse essere anche per il nostro grande interprete l'ultima testimonianza. Insegnare, suonare... credere nell'arte come se tutto il bene e tutto il male del mondo potessero dipendere dal rispetto di un segno, dall'adesione intellettuale e morale ad una scelta portata fino in fondo.
Si è parlato talmente del Quartetto Italiano, che è difficile adesso richiamare le sue maggiori qualità, fissare in termini sintetici l'impronta del suo contributo. Il Quartetto Italiano non aveva un suono ricco e particolare, non ostentava virtuosismi evidenti, non vantava strumenti preziosi, non voleva porsi né come sontuoso né come fenomenale. Il Quartetto Italiano aveva come novità assolutamente avvertita, anche se mai pronunciata, la coerenza rigorosa e assoluta della concertazione. In un mondo in cui l'editoria continua a stampare le parti separate dei quartettisti senza la partitura del quartetto, come a suggerire ciò che la prassi storica autorizza, cioè che si cominci a provare quanto viene fuori, dall'attacco gli autori e le singole esecuzioni del Quartetto Italiano appaiono determinati all'unità assoluta della lettura, istanti d'un tempo che idealmente è già riunito nella mente dei Quattro, disegno che sta già nella loro concorde fantasia. I rapporti precisi fra le singole parti, i tragitti stilistici, le pazienze su tempi lenti che poco a poco si rivelano emozionante possesso nostro d'una durata smisurata, la rapidità senza compiacimenti di certi allegri dalla spigliatezza scarna e perentoria, ci costringono a sentire subito l'avvenimento poetico che si rivela pieno. La qualità dell'esecuzione diventa, anzi, la misura della nostra comprensione delle pagine eseguite. Ho visto gente esperta sbalordita davanti all'esecuzione che il Quartetto Italiano fa degli ultimi quartetti di Beethoven, come se l'arduo segreto fosse infine posseduto (se posso portare piccola testimonianza, avevo deciso di riservarne la comprensione a un lungo studio successivo, poi di colpo un'esecuzione loro me ne ha dato in una luce nettissima e fulminea la prima rivelazione). Ho visto anche gente che non è intenditrice di musica folgorata come se quelle pagine problematiche fossero misteriose sempre ma rivolte proprio a lei, difficili ma in un linguaggio che si dà compiutamente decifrabile, affascinante...
Borciani aveva allievi che l'amavano, che lo amano ancora, sentendolo guida, sentendolo vivo nella sua arte che la memoria e le registrazioni custodiscono. Era maestro di coerenza anche nella morale professionale. Una volta ci convocarono a studiare il problema delle sovvenzioni statali alle tournées all'estero: lo Stato aiutava tutti coloro che non ce la facevano a tirare le spese, ma il Quartetto Italiano non chiedeva nulla: portava arte, cultura, anziché velleità, ma non veniva riconosciuto; e non voleva chieder la sua parte, voleva riflettessimo sulla faccenda, per riportare serietà. Un'altra volta, un'occasione di principio portò il Quartetto, per solidarietà a un artista, a promettere di non suonare più per una Società pur cara; molti altri lo promisero, anche più vicini politicamente all'artista, ma il Quartetto Italiano non ebbe molti colleghi a mantenere la promessa. La coerenza morale era una cosa semplice per Borciani, ne parlava con quella sua aria sorridente e distratta, con quell'aspetto un po' dimesso e sbrigativo. La vita era da vivere cercando il "tempo giusto": si può sbagliare, non è detto che per tutti sia lo stesso: ma quando uno lo trova, è come se di dentro qualcosa rispondesse, mi spiegava non molto tempo fa.
 
di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno IX n.9, settembre 1985)

sabato, agosto 19, 2006

Glenn Gould: "So You Want to Write a Fugue?"

So You Want to Write a Fugue? Articolo abbinato a un dischetto, inserito nel numero di «HiFi/Stereo Review» dell'aprile 1964, che recava incisa la prima edizione di So You Want to Write a Fugue?, composizione dello stesso Gould, della durata di pochi minuti, eseguita dal Quartetto Juilliard e da quattro cantanti sotto la direzione di Vladimir Golschmann.
Il dischetto che troverete fra le pagine di questa rivista è in realtà un annuncio pubblicitario canoro di cinque minuti e quattordici secondi. Precisiamo subito che non ha fini commerciali ma uno scopo piuttosto insolito: il prodotto che vi viene allegramente reclamizzato non è un prodotto di normale consumo, reperibile nei negozi, ma è uno dei più classici procedimenti creativi della storia del pensiero formale e una delle pratiche più venerande dell'homo musicus. Il procedimento in questione si chiama fuga, e la pratica è la scrittura fugale: essendo nati entrambi un secolo prima che Cristoforo Colombo facesse vela verso occidente, sono quasi coetanei del canone perpetuo, formula creativa più semplice della fuga ma abbastanza simile ad essa, soprattutto agli inizi. Coi suoi giochi di parole e di melodie, il brano inciso sul nostro disco è una fuga che parla della scrittura fugale. Evocando le gioie, le soddisfazioni, i rischi, le seccature e perfino le paure legate da sempre a questa difficile ma affascinante sorta di acrostico contrappuntistico, la mia fuga diventa una conversazione musicale fra quattro cantanti, sostenuti e a volte contraddetti dai commenti di un quartetto d'archi. Come facevano gli annunciatori per presentare i nuovi teleromanzi, questo capitolo comincia con una domanda: «So you want to write a fugue?» («Vuoi proprio scrivere una fuga?»). La domanda viene dapprima formulata dal basso, e la melodia su cui viene cantata costituisce, in termini tecnici, il «soggetto» della fuga.
Via via che le altre voci 'rispondono', e cioè ripetono la melodia in successione ascendente (tenore, contralto e soprano), nasce una discussione sulle qualità richieste da questo tipo di scrittura. Il basso comincia col dire che ci vuole una certa dose di coraggio: «You've got the nerve to write a fugue, so go ahead» («Se hai il fegato di scrivere una fuga, fai pure»). Il tenore pensa all'impiego del prodotto finito: «So go ahead and write a fugue that we can sing» («Fai pure, ma scrivi una fuga che noi possiamo cantare»), mentre il contralto, pur tenendo un'ineccepibile condotta contrappuntistica, caldeggia un metodo audacemente antiaccademico: «Pay no mind to what we've told you, give no heed to what we've told you, just forget all that we've told you and the theory that you've read» («Non badare a quello che ti abbiamo detto, non pensare a quello che ti abbiamo detto, scordati quello che ti abbiamo detto e le teorie che hai letto»). Dello stesso parere è il soprano, pur mantenendosi altrettanto ligio, almeno in questo punto, alle buone norme della fuga. L'incoraggiamento «Pay no mind, give no heed» e via dicendo costituisce il controsoggetto del tema fondamentale, «So you want to write a fugue?», che si ripresenta ora in varie tonalità per sottolineare un altro consiglio: «For the only way to write one is to plunge right in and write one, just ignore the rules and write one, have a try» («L'unico modo di scriverla è saltare il fosso e scrivere: lascia perdere le regole e scrivi, forza, provaci!»). Il tono euforico di un'esortazione così esplicita viene poi timidamente riecheggiato dalla struttura musicale; i cantanti, le cui parti si accavallano sempre più, si addentrano in una pericolosa serie di stretti in imitazione, dove la spietata mano della giustizia accademica finisce col privarli di ogni libertà. Mentre inneggiano al santo patrono della fuga - «The fun of it will get you, and the joy of it will fetch you, you'll decide that John Sebastian must have been a very personable guy» («Ci proverai gusto, ti entusiasmerai e proclamerai che Giovanni Sebastiano era proprio un tipo in gamba») - il basso e il tenore rinunciano ad ogni dignità e autonomia per darsi a vane orge di quinte parallele, sacrilega pratica contrappuntistica condannata da ogni abbecedario musicale. In segno di omaggio (e anche di richiamo alla moderazione) il quartetto d'archi esegue ora un quodlibet costituito da quattro dei più famosi temi bachiani (fra i quali riconoscerete il Secondo concerto brandeburghese), seguendo poi opportunamente il contralto in una breve predica sui pericoli dell'esibizionismo: «But never be clever for the sake of being clever» («Ma bada di evitare ogni sfoggio di bravura»). Questa frase, insieme all'ammonimento che la segue - «For a canon in inversion is a dangerous diversion and a bit of augmentation is a serious temptation» («Perché un canone in inversione è una rischiosa digressione ed un po' d'aumentazione è una grave tentazione») - introduce un materiale tematico del tutto nuovo. A questo punto il quartetto d'archi presenta una citazione solenne (sebbene inflessa in minore) dei Meistersinger - classico esempio di bravura musicale dopo la quale tutti quanti s'immergono in un'esultante ripresa. Il basso e il tenore riprendono il materiale tematico di «So you want to write a fugue?» cui il soprano e il contralto adattano il controsoggetto appena presentato («But never be clever for the sake of being clever»), mentre gli archi proseguono il loro ininterrotto dialogo a base di frammenti baroccheggianti.
Prima di esaminare alcuni fra i più importanti aspetti dell'attività fugale dei nostri interpreti, è necessario aprire una parentesi sulla terminologia. In queste pagine uso senza definirli vari termini indispensabili per l'analisi della fuga, come «esposizione», «sviluppo», «ripresa», «soggetto», «risposta» e via dicendo. Non li definisco perché il loro significato è evidente per chiunque s'interessi anche superficialmente di forme musicali. Altri termini, oltre a figurare da tre secoli nei manuali scolastici di contrappunto, sono argomento di voci importanti in tutti i buoni dizionari.
Via via che si addentra nelle selve semantiche del ventesimo secolo, però, la fuga diviene sempre più spesso oggetto di analisi verbali molto più lambiccate di quelle consentite dai termini semplici e comprensibili sopra citati. Sentirete dire, ad esempio, che essa non è una «cosa» ma un «procedimento», e perfino che non è una «forma» ma una «struttura». E se userete a questo proposito parole come «melodia» o «aria», vi attirerete i fulmini del Ministero dei Lavori Fugali. E' vero che questi termini possono prestarsi a equivoci; in casi normali (Yankee Doodle, tanto per fare un esempio), l'aria o la melodia sono cose esplicite, complete e autosufficienti, provviste di un principio, di una metà e di una fine. La fuga, invece, non può e non deve utilizzare melodie del genere, pena il bloccarsi di colpo; deve usare, spesso di soppiatto, frammenti melodici sempre mutevoli, che, come «arie», restano perennemente incompiuti. E che dire, passando a un argomento attuale e ancora più controverso, delle fughe contemporanee, spuntate nello sterminato deserto armonico dove la vecchia tonalità è svanita ma viene ancora vagamente ricordata, persino da chi la sconfessa? In questo caso occorre agire con cautela: ricorreremo quindi a termini più astratti ma più sicuri, come «materiale motivico» invece di «melodie», «elementi lineari» invece di «arie» e anche «tonalità non orientata» invece della nuda e cruda «atonalità» che era in voga fino a dieci anni or sono. Tutte queste precauzioni verbali rischiano anch'esse, se usate senza cautela, di dar luogo a un vero e proprio gergo, a un linguaggio astruso ed ermetico di scarso uso anche per gli specialisti. Ma il clima intellettuale della nostra epoca è tale che dobbiamo correre questo rischio, anche se c'è da giurare che tra un momento ci troveremo fra capo e collo il termine «aleatorio»...
Tornando ai nostri interpreti, notiamo che il risultato finale delle loro fatiche (a parte le irriverenti citazioni da Bach e Wagner) è in sostanza un tipico prodotto della tradizione fugale accademica. Nell'esposizione, nei passaggi modulanti, nell'introduzione del controsoggetto e nella sovrapposizione di tali elementi nell'ambito della ripresa il brano segue sempre scrupolosamente il protocollo della tradizione fugale. A questa tradizione, frutto di molti secoli di normativa contrappuntistica, ci si deve assolutamente attenere se si vuole scrivere una fuga. Anche quando il testo canzonava maliziosamente le regole del contrappunto libresco, la musica si rifugiava sotto il manto della sacramentale procedura accademica, il quale, pur macchiato e logorato dalle banali ingiurie di varie generazioni, è ancora aperto ad abbracciare una straordinaria varietà di pratiche musicali. Le fughe sopravvivono persino in questa nostra epoca strenuamente antiaccademica, suonate a pieni polmoni da orchestrine jazz, improvvisate o imbastite secondo i principi dell'alea, o addirittura sperimentate entro la tonalità non orientata della scrittura seriale. In tutti questi contesti inediti la fuga diventa ovviamente una specie di contraddizione in termini, in quanto il metodo costruttivo che le è peculiare è strettamente legato a quel sistema tonale che sembra ora in via di disgregazione. Il fatto che essa continui a esistere dimostra tuttavia che certi procedimenti tipici della sua struttura - soggetto e risposta, esposizione e svolgimento - sono radicati nella coscienza dell'uomo moderno, sotto l'aspetto acustico come sotto quello psicologico. Sebbene la loro simmetria, la loro gravità e in un certo senso il loro equilibrio siano dovuti a considerazioni tonali, tali procedimenti sono sopravvissuti, come elementi di un valido metodo costruttivo, al definitivo tramonto di queste considerazioni. Forse tale sopravvivenza è dovuta soprattutto al fatto che essi non sono connaturati al sistema tonale. Tutti i princopi della fuga (tranne quello della gravitazione verticale della tonalità e del contrasto fra tonalità) furono formulati all'inizio del Rinascimento, vale a dire prima che venisse articolata la grammatica tonale basata sulla tensione e sul rilassamento; la loro prossimità all'equilibrio e alla serenità dell'armonia centrifuga, le trame avvolgenti della struttura cadenzale sembrano in gran parte dovute a un loro volontario sincronismo.
L'antica esperienza degli antecedenti lineari, anteriore al tonalismo, ha quindi reso possibile la sopravvivenza della fuga nel confuso panorama del nostro presente post-tonale; ed è stata appunto l'analogia fra questi procedimenti fugali e alcune situazioni che non sono legate alla tonalità (nel senso postrinascimentale) a determinare lo straordinario rapporto della fuga con l'evoluzione cronologica del tonalismo. Perché è un fatto che la costruzione della fuga è riuscita in larga parte a resistere alle preoccupazioni armoniche delle varie generazioni, e soprattutto di quelle non contraddistinte da tenaci orientamenti contrappuntistici. Le fughe composte nei periodi in cui l'interesse per l'integrità della struttura lineare era considerato fuori moda respingevano spesso ogni facile conferma armonica che rivelasse una loro chiara dipendenza dalle convenzioni dell'epoca. Ciò spiega in parte perché basta un lievissimo cedimento del giudizio analitico per attribuire una fuga di Mozart a Brahms, una fuga di Mendelssohn a Mjaskovskij o anche, come insinuava malignamente Joseph de Marliave, una fuga di Beethoven al diavolo. Perfino nel mio piccolo lavoro l'aderenza armonica attinge a una vastissima riserva di rimandi stilistici. L'effetto armonico complessivo (vale a dire il rapporto predominante fra dissonanza e consonanza) è decisamente mendelssohniano: il pezzo manifesta anzi quel genere di cromatismo risonante ma squisito che, derivato da Mendelssohn, sarebbe penetrato nel teatro lirico con Humperdinck e Saint-Saens, nelle tribune del coro, con Sir John Stainer e Sir Arthur Sullivan e nelle sale da concerto con Anton Rubinstein, diventando così per un certo periodo il bagaglio di componenti armoniche più diffuso di tutto l'Ottocento. Se si potesse però applicare a questa fuga l'equivalente musicale del rallentatore, vi si noterebbero parecchi altri momenti densi di significative allusioni stilistiche: l'esposizione iniziale, ad esempio, è decisamente bachiana con le sue propulsive dissonanze a cavallo della barra e la sua concentrazione di disegni in imitazione nei punti in cui le principali idee tematiche sono decadute a transizioni o a divertimenti. Nelle ultime battute prima della coda, invece, tutti i cantanti si lanciano in un febbrile contrasto tematico che sottolinea l'irritazione del soprano e il suo grido: «Write us a fugue that we can sing, come along now!» («Scriveteci una fuga che noi possiamo cantare, avanti, forza!»). Se non fosse per il testo, assai poco hofmannsthaliano, queste frenetiche battute sembrerebbero prese di peso da una pagina discretamente flamboyante di Richard Strauss.
Per individuare una delle cause che rendono più difficile l'analisi dell'ambiente armonico della fuga basta paragonare quest'ultima con una creatura di tutt'altra specie: la sinfonia classica. Nella fuga il problema della forma assume aspetti molto più soggettivi che nella sinfonia, e la disposizione delle piattaforme armoniche modulanti non dipende in genere da criteri o norme di sviluppo ben definiti. E' vero che nella fuga il materiale del soggetto può, e anzi deve, comparire in sequenze dove i fulcri armonici sono in netto contrasto: tali regioni armoniche sono però raramente governate da regole categoriche come quelle della contrapposizione tonica-dominante o maschile-femminile della sinfonia classica, contrapposizioni che si prestano assai bene a condensare i problemi strutturali di tale forma entro le principali considerazioni armoniche del tardo Settecento o del primo Ottocento. Si può notare che il formalismo predominante della sinfonia classica è improntato sempre più spesso a tattiche che potremmo definire dilatorie e all'aspirazione a creare ampi passaggi colleganti isole di contrasto e temperamento, isole che rivelano una autosufficienza quasi completa. La scrittura della fuga, invece, tende a concentrarsi su aree di sviluppo musicale relativamente circoscritte e ad approfondire in modo estremamente soggettivo il problema del momento, cercando di ingigantirlo e di infonderlo quanto prima in ogni fibra dell'opera. Notiamo così che la fuga non si interessa troppo di quelle vaste conflittualità drammatiche o di quei complessi spostamenti di trama o di dinamica che rendono tanto esplicita la struttura della sinfonia classica; suo scopo è invece agire su un certo numero di disegni lineari semiautonomi con l'intento di mantenerli a una densità più o meno costante. In questi disegni la varietà della trama musicale è creata da un senso di pausa pregnante ora in questa ora in quella voce, e non, come nella sinfonia classica, da svolte del tutto imprevedibili, da interruzioni brusche e teatrali o dall'ossessiva presenza di un residuo tematico irrisolto.
L'idea cui più palesemente obbedisce la fuga è quella del movimento incessante: è questa concezione non statica a fare della struttura fugale il veicolo ideale dell'ardito e soggettivo percorso armonico dell'arte barocca. Tale idea, perdurando in epoche successive, contribuisce a spiegarci la straordinaria continuità storica della pratica fugale. Ciò che determina in realtà la forma della fuga è appunto la fusione del principio del movimento incessante con l'idea della densità costante, cui ho già fatto cenno. Nell'ambito di questo moto in avanti e di questa densità costante, infatti, ogni espressione e ogni frase musicale manifesterà un suo particolare problema e un suo personale motivo di ansia, che ammetteranno ciascuno un ventaglio di soluzioni più o meno efficaci e saranno logicamente collegabili alle principali proposte tematiche del brano. Gli episodi derivanti da tali soluzioni riveleranno necessariamente la presenza di una certa tecnica di sviluppo; ma anche qui noteremo che lo sviluppo della fuga è diverso da quello delle grandi forme cicliche, in quanto evita i forti contrasti tra l'accumularsi della tensione (evocato dalla modulazione) e il suo smorzarsi (espresso dalle transizioni) che s'incontrano, ad esempio, nella sonata beethoveniana. Nella fuga, invece, gli episodi dovranno dare un proprio contributo all'idea tematica che è alla base della struttura fugale e dovranno inoltre intrecciare il materiale del soggetto originale con disegni tematici secondari, intessendo trame musicali che, se la fuga è costruita a regola d'arte, non si ripresenteranno più in un rapporto identico. L'ideale della fuga è, in altre parole, creare un effetto di variazione costante, ma di un tipo particolarmente errabondo, e tale da dare l'impressione che gli spunti tematici che si incontrano nella fuga appartengano a un repertorio di idee musicali caratteristico di tale genere, e possano implicare, obbedendo a certe loro modalità matematiche spietatamente egocentriche, una grande varietà di scelte contrappuntistiche.
In So You Want to Write a Fugue? tanto il soggetto iniziale quanto la maggior parte del materiale secondario («But never be clever for the sake of being clever») sono stati concepiti come linee tematiche relativamente semplici. Se vengono analizzati separatamente non richiedono alcuna serie di progressioni armoniche, e anzi, non cedendo a disdicevoli tentazioni cromatiche, riescono a superare insieme una quantità di cambiamenti metrici e di trasposizioni (naturalmente relative alla distanza fondamentale che li separa). Per comporre questo pezzo ero partito dall'idea che i punti chiave della sua struttura dovevano collimare coi momenti in cui avrei potuto variare per la prima volta in modo apprezzabile la disposizione di tali temi. La struttura della fuga risponde quasi sempre a considerazioni soggettive di questo genere: nel Clavicembalo ben temperato, ad esempio, numerosissime fughe scelgono come momento di massima tensione quello in cui il soggetto principale compare per la prima volta in forma inversa in una delle voci. Il presupposto del contrappunto, più evidente in Bach che in qualunque altro compositore, è la capacità di concepire a priori idee melodiche che, anche se trasposte, invertite, retrogradate o trasformate sul piano ritmico, presentano sempre, in unione col materiale tematico originale, un profilo del tutto nuovo ma perfettamente armonioso.
E' questa passione per la sperimentazione tematica ad unire tutti i professionisti della fuga in una confraternita spirituale autentica anche se non organizzata. Fra i suoi membri vi sono gli spiriti scettici che si sentono a disagio senza l'appoggio di una disciplina in qualche misura suscettibile di prova. Molti sono compositori che non amano troppo l'immagine dell'artista con gli occhi rivolti alle stelle, in attesa che una rapinosa ispirazione s'impadronisca di lui e gli detti la forma e il contenuto di una nuova opera. Se vivono in epoche in cui questa immagine romantica viene esaltata come elemento essenziale della personalità artistica (cosa senz'altro assai frequente alla fine del secolo scorso), questi poveri e innocui disadattati (fra cui si possono annoverare compositori come Reger o Mjaskovskij) trovano nella fuga un provvido riparo dalle imperiosità della moda. In questa forma essi si sottomettono a una disciplina dove ogni decisione esige quell'analisi puntigliosa che esclude ogni e qualsiasi altra preoccupazione. Alla nostra confraternita appartengono poi coloro che, pur vivendo in un'epoca ostile ai dogmi del contrappunto, ritornano alla fuga per vie tutte personali (il caso più tipico è forse quello di Beethoven) saldando intimamente i suoi principi ai criteri strutturali di altre forme. Di essa fanno parte, infine, quei fortunati che sono nati per la fuga, i cui ragionamenti musicali hanno sempre inizio come dialogo contrappuntistico: costoro, grazie a una perenne dedizione alla ricerca soggettiva della forma riescono, come accadde a Bach, a sfidare vittoriosamente la tirannia di una cronologia storicamente ostile.
Ora che il sistema tonale e i suoi principi informatori sono caduti vittime di un ideale che non contempla orientamenti armonici, è divenuto assai difficile ipotizzare le future metamorfosi della fuga, o la sua stessa sopravvivenza. Sebbene compositori del calibro di Paul Hindemith abbiano dedicato la vita a coltivare gli antichi valori lineari entro prospettive tonali arditamente modificate, non è facile dire se ciò rappresenti qualcosa di più di un semplice aspetto del rigoglioso revival barocco dei nostri giorni. La persistenza della fuga attraverso i secoli ci induce tuttavia a pensare che i suoi fondamenti non siano meno durevoli di tutti gli altri principi propri dell'ancor giovane arte della musica. Pensiamo al profondo fascino di questa forma che racchiude una mistica dei numeri ricca di allettanti segreti. Pensiamo all'enorme soddisfazione, per il compositore, di lavorare su una forma musicale in cui la forma stessa diventa ancella di un'idea personalissima delle relazioni tematiche. Al di là di queste considerazioni, poi, vi è forse il fatto che la fuga suscita l'ancestrale curiosità di scoprire nel rapporto tra esposizione e risposta, tra sfida e reazione, tra richiamo ed eco, il segreto di quegli spazi silenziosi e deserti che contengono la chiave del destino umano ma che preesistono ad ogni ricordo della sua fantasia creatrice.

Glenn Gould (tratto da "L'ala del turbine intelligente", gli Adelphi)

giovedì, agosto 17, 2006

Trio Beaux Arts: noi tre, felici di farvi felici

Arrivano cortesi tutt'e tre, e io non so resistere alla tentazione e dico a Peter Wiley, il violoncellista giovane dalla figura sportiva: "lo la odio". Ornella Farioli, che accudisce gli artisti per la Philips, ritraduce in buon inglese: "Il maestro Arruga osserva che dev'essere difficile per un giovane artista sostituire un musicista del prestigio di Bernard Greenhouse, legato al Trio da trent'anni e l'anno scorso ritiratosi". Ma l'interrompo: "No, ho detto proprio che ti odio, violoncellista per bravo che tu sia: perché dopo un viaggio lungo il passo del San Bernardino, con il Trio in Mi bemolle di Schubert, il suono di Greenhouse è entrato nella mia memoria, il suo respiro, il colore della voce del suo Stradivari..." A me lo dice?, replica ridendo Peter Wiley, a me che son suo allievo? Per un anno ho lavorato al posto suo, cento concerti, cento debutti. Per fortuna, la musica da sola viene in soccorso a noi che la serviamo. L'avventura del Trio Beaux Arts continua: i due colleghi mi hanno accolto con generosità meravigliosa, al punto che ho capito che ho da offrire anch'io qualche cosa di nuovo. Io mi giovo della loro esperienza. E a modo loro anche loro si giovano della mia inesperienza.
I due colleghi e tutelari sorridono autorevolmente approvando. E' un sodalizio saldo, un gruppo di persone che fa concordemente cose in cui crede, credendo gli uni negli altri. "D'altraparte, odio un po' tutti voi", continuo; e sento un sopito singhiozzo dalla parte di Ornella. "Voi m'avete dato una visione stravolta della storia della musica. Ho ascoltato i Trii di Schubert e ho capito che le cose più importanti scritte da Schubert sono i trii. Ho ascoltato i Trii di Haydn e ora penso che nulla della musica di Haydn sia bello come i trii. Adesso che vi apprestate a darci un'edizione completa dei Trii di Mozart, studierò attentamente Don Giovanni, Il flauto magico, i Concerti per pianoforte e orchestra, per non cascarci più".
Ridono. Ma saggiamente Menahem Pressler mi previene:
- Grazie. No: in Mozart i trii sono tutti inimitabili, densi di bellissima musica, trasparente, unica. Ma in lui è troppo grande l'opera. Il Don Giovanni... (dice e lascia una pausa, come per aspettare l'onda che il suono di quella parola genera nella nostra coscienza). Il flauto magico... (pausa, il silenzio di tutti è perfettamente sintonizzato)... I concerti per pianoforte... ah, il K 271, ah, il K 488...

Se non fossimo seduti così ben compìtamente su seggioloni attorno a un ampio tavolo nella saletta dell'Hotel Manin, e così amabilmente concentrati, somiglieremmo alla famosa barzelletta dei pazzi che si raccontano le barzellette che ciascuno già conosce e riconosce dal numero (e tutti ridono, finché un altro pazzo dice a sua volta i numeri e nessuno ride più. Perché? chiede stupito un sano. "Cosa vuole", gli spiegano, "c'è modo e modo di raccontarle"). Qui, siamo carichi di effetti musicali e di civiltà che si fonda sulla memoria, come se Mozart l'avessimo ascoltato sempre tutti insieme. Ma Isidore Cohen, il violinista, interviene un istante prima che la pausa dovuta a 488 si sia consumata:
- E i quartetti? I quintetti! Dico soltanto: sol minore...
- Lui ha molta esperienza di quartetti e quintetti, spiega il pianista, che a sua volta, richiesto, confessa d'aver eseguito molte volte ed anche inciso da solista i concerti mozartiani più importanti.
"Aq uesto punto devo confessare d'essermi espresso un po' male" intervengo allora io: "vi ho fatto torto. Non è tanto che fossi spinto a compilare classifiche tra le varie composizioni d'un autore. Ma ogni volta con voi avevo l'impressione di trovarmi davanti all'arte dell'autore, come fossi alla sua presenza, e come se nulla fosse così naturale come sentire che si esprimeva così. E con una pienezza e una freschezza come non m'accadeva mai".
- Siamo adulati che la pensi così, replica calmo e pensoso il Violino. Noi abbiamo appreso molte cose sullo stile. Ma crediamo che ci sia molta importanza nell'intuizione. Noi desideriamo esprimere il più intimamente possibile ciò che il compositore ha inteso dirci.
- Noi suoniamo quello che sentiamo e capiamo, s'inserisce il Pianoforte. Vorrei dire: indipendentemente dal pubblico. Non cediamo di nulla sulle attese del pubblico. Noi crediamo che il pubblico possa capire tanto più quanto noi siamo convinti di capire.
- Noi, continua il Violino, siamo tre: tre voci, tre persone. Ognuno cerca, ognuno pensa, sviluppiamo insieme. Ci ascoltiamo suonare. A volte ci sembra di incorrere, o che qualcuno incorra, in un'incertezza, una strada sbagliata d'uno che va via per la sua scelta. Sono tutti momenti preziosi. Ci fermiamo, ripetiamo, cambiamo se non c'è concordia. Adesso abbiamo un nuovo musicista con idee differenti, e continuiamo ad ascoltarci, a cercare.
- E vero, conferma il Violoncello. E non esiste gerarchia, non esiste età. Stiamo tesi nell'idea che cerchiamo, che troviamo.
"Pensate molto a tavolino, prima di suonare?".
- Mai!, assicura il Pianoforte. Cominciamo subito a suonare. Con Peter, come prima con Bernard. Certo, a tavolino ognuno ha pensato e studiato per conto suo. E poi esiste una vita in comune, dove le idee sono abituate a confrontarsi, si prende un certo modo d'intendersi, una libertà comune. Ma è suonando che ci confrontiamo a fondo. E suonando che cerchiamo.
Il Violino chiarisce:
- E per esempio io sono nel Trio da diciassette anni, e in tutto questo tempo nessuno di noi ha mai pensato d'essere "arrivato" a un'interpretazione.
E' già passato un po' di tempo, e solo adesso m'accorgo di non aver avuto la curiosa sensazione abituale all'ascolto delle voci dei musicisti, che così spesso sono diversissime da quanto ci si era immaginati vedendoli ed ascoltandoli suonare. Qui ciascuno ha invece la sua voce giusta, ed il suo tono. Sportiva, nitida, con ritmi brevi ed intervalli irregolari, quella di Peter Wiley, che non è proprio un ragazzo se nel 1976 era già prediletto da Schippers, che lo fece suonare Schumann con la Cincinnati Symphony, ma ne impersona il tipo. Voce da attore cinematografico, posata, fonda, convincente, spiccata, quella di Isidore Cohen, mentre Menahem Pressler svaria su un pentagramma un po' più acuto, col fraseggio di chi spiega, e l'andamento a ritmi continuamente proporzionati al concetto.
- Ecco, conclude il Violino, quando le nostre sei orecchie si accorgono che c'è qualcosa da chiarire, si comincia a parlare. E ognuno sa che non esiste un'interpretazione definitiva, eppure ognuno vorrebbe convincere gli altri due che il modo giusto è il suo.

Io giurerei che cercano di farlo fino all'ultimo, ancora nel momento in cui suonano. Ad esempio, Menahem Pressler suona il pianoforte mezzo voltato verso gli altri, come si fa nella musica leggera, ed in certi momenti oltre al colore, all'estro delle frasi musicali, la sua mimica, con le braccia che sembrano gesticolare una conversazione, pur con le mani bene appoggiate alla tastiera, e quella faccia un po' suadente e ironica sembra proprio inviti a portarsi sulla sua linea. Anche chi ascolta, avesse uno strumento e lo sapesse suonare, in quel momento, gli risponderebbe. E qui sta il gioco. Il momento della musica in concerto, spiegano i Tre, è il momento dei cento accordi maturati lentamente, e il momento dell'improvvisazione in un comune sentimento.
E il pubblico? Davvero non condiziona, non lo stile, ma almeno un certo modo di essere, di porsi?
- Oh, il pubblico sì, certo, ma come presenza, come condizione storica, come caratteri specifici nazionali e di costume. La strana sensazione che si prova, dice il Violino, che in Italia, in Germania la musica suoni differente: c'è un differente soundfra i due Paesi, lo si avverte come arriva alle orecchie. Sì: i Tedeschi BachlMozart, gli Italiani Scarlatti/Puccini, ragiona il Pianoforte sull'eredità storica ed etnica, accresciuti, arricchiti, qualche volta prigionieri... Più liberi, o forse solo più disponibili, gli americani. E poi, sorprese: in Giappone la musica occidentale accettata, capita, eseguita magnificamente. E l'Europa, negli ultimi anni, sempre più unita, bellissimo vedere il suo cammino.
Annoto in sintesi, per cenni, le loro riflessioni. I tre conversano con una competenza e una circospezione d'eloquio che farebbe invidia ai letterati.
- Da giovani, si crede (comincia quieto da lontano il Pianoforte, e pare una parabola), si crede che ciò che si vuole sia la perfezione. Ma per il pubblico ascoltare la perfezione nella musica è come guardare una partita di tennis. La perfezione può essere una cosa superficiale. L'anima va cercata, per dare l'emozione dell'arte. L'anima è come la cipolla. Uno, due, tre veli, via, bisogna togliere diversi strati, finché si comincia a sentire le emozioni più profonde. La perfezione va cercata, perché è il nostro modo di disegnare giusta la faccia dell'autore, la faccia della musica. Ma bisogna anche avere la pazienza di accettare qualche errore, qualche cattiva riuscita. Uno ha un bellissimo viso, e magari gli spuntano dei brufolini. E si guarda allo specchio, e non è più così bello, ma non cambia la faccia, che rimane la sua.
Ora è il Violino che espone il suo pensiero, e pare uno di quei docenti che talvolta ci arrivano sui teleschermi come autorità di Berkeley o di Yale, autorevoli, pacati, fascinosi e pragmatici, e vorremmo tanto incontrarli anche nelle università di casa nostra.
- Una volta, il pubblico dei concerti da camera era una sorta di élite. Si cercava l'essenza della musica. Non virtuosismi, non meraviglie tecniche. Ci si sentiva anche privilegiati, nella cerchia di coloro che capivano la musica da camera. Ma gli esecutori erano musicisti vincolati a quel tipo di musica. Nessuno di loro avrebbe potuto fare il solista. Adesso noi pensiamo (sì, sì, si agita il Pianoforte: solo, solo così; certo, certo, approva il Violoncello: of course) che solo gli strumentisti liberi e capaci di suonare come solisti possano fare buona musica da camera, messi insieme. Ma il virtuosismo va superato, non fatto sentire, bisogna stare concentrati sul senso della composizione, sul contenuto emozionale.
Il finale del Trio numero 1 di Beethoven fa prendere un desiderio di velocità, ma non è un... non è un... che salti sui rami, tuc, tuc, tuc...
Cercava una parola in italiano, che aveva in mente. I compagni lo aiutano. Peter accenna a unire i pollici, agitando le altre dita aperte, Menahem alza le braccia piegate all'altezza delle spalle, agita gli avambracci e, con scioltezza di polso, anche le mani. Alla fine vien fuori la parola: "colibrì". Il Violino conclude. - Ci sono frasi in Schubert che richiedono grandi mezzi tecnici. Noi lo sappiamo. Oguno di noi minimizza la difficoltà superata, e aspetta che anche l'altro faccia così; la sfida del virtuosismo può venire anche più forte in questo modo, ma non è questo a cui cerchiamo di pensare. Noi cerchiamo che il discorso di Schubert si compia.
Più spiccio il Violoncello.
- Il pubblico che sta oggi maturando, un pubblico assai vasto, interessante, molto ricco di giovani generazioni, si aspetta proprio questo, io penso, che tutti vorremmo riuscire a fare: identificarsi con la fisionomia musicale. E' come se ognuno
si unisse in una buona conversazione. E' il piacere di conversare fra noi e col
pubblico. Di questa conversazione musicale fa parte, proprio come linguaggio, anche il virtuosismo, quello che si vede e quello che non si vede. Ma come un carattere somatico della faccia del compositore.
Guardo le facce dei tre musicisti, che parlano immacolati della Musica, come se la vita avesse un volto senza brufolini. E penso a questi giorni di tensione internazionale, Israele e gli Stati Uniti al centro d'un lacerante rapporto, e la repressione in Palestina. Di loro, due sono ebrei americani, e nella loro vita professionale, all'incontro col pubblico, vorrei sapere che cosa si sente nell'offrire musica in un momento così problematico, tragico, inquieto. Lo chiedo apertamente.
- Il problema della musica e della politica nei loro intrecci, spiega calmo il Violino. La cultura della gente che comprende i significati politici e morali della musica. Quando si parla di politica, è un problema. Prendiamo il Trio di Shostakovic, che eseguiamo in questi giorni. (è il Trio del 1944, testimonianza della guerra, del controverso sforzo dell'autore per farsi cantore della storia, in epoca pienamente stalinista). Ha un programma politico preciso, anzi un programma musicale dettato da una ragione storica e politica. In Europa si sente, suonando, che gli ascoltatori ripercorrono in qualche modo quegli anni, quelle ragioni. Negli Stati Uniti, i giovani americani è più naturale che sentano la bellezza musicale soltanto; anche la forza angosciante; ma è più facile che dicano semplicemente "fantastic".
- Questo programma preciso, riassume il Pianoforte, si riferisce ad uno dei momenti tragici della storia, momento che è finito. Usa significati musicali per dare significati al di là della musica. E possono essere riportati semplicemente da chi ascolta pure idee musicali.
- Ma anche molti americani giovani, di origine e formazione europea, oggi, hanno voglia di capire e ripercorrere lu storia al di là delle ragioni musicali, aggiunge il Violoncello.
- C'è stato un tempo in cui non conoscevo il "programma", interpretavo quella musica soltanto per quello che musicalmente dava. Quando lo conobbi, coincideva però esattamente con le sensazioni musicali. E il Violino, che è intervenuto; e mi guarda bene negli occhi, come mi volesse trasfondere sicurezze di pace interiore: ero colpito da quest'ultimo tempo che suonava come una conversazione spirituale, una preghiera.
- Ero sorpreso, gli fa eco il Pianoforte, di quell'ultimo tempo che suonava come una danza chassidica.
"Ma adesso", insisto io, "con quello che sta succedendo in Israele e nel mondo, v'è capitato di sentire il pubblico mutato verso di voi? Vi siete posti il problema di una vostra parte in tutta questa grande vicenda?

- Mi rammento, dice il Violino, d'una volta che suonammo in una piccola città del Messico. Noi sentivamo che in quei giorno c'era una forte tensione antiamericana. Suonammo Brahms, Ravel. Li suonammo concentrandoci su Brahms e su Ravel. Noi volevamo che sentissero che cercavamo di farli felici, ma non avevamo altro mezzo che farli felici attraverso Brahms e Ravel. Perché Brahms e Ravel rendono felici, per quel che possono. All'inizio noi eravamo concentrati, loro ostili, ma poco a poco anche loro erano concentrati, e alla fine siamo stati felici tutti.
- Il mio nome è Menahem, dice il Pianoforte, e il suo cognome Cohen: non ci sono misteri o dubbi. Ed è possibile che ci siano tensioni, in questo mondo sempre teso; può esserci nel pubblico anche dell'antisemitismo nascosto. Ma le nostre vite esistono musicalmente; e ci apprezzano come artisti, così ci ascoltano, cercando di trarre il meglio.
- Io credo proprio, dice il Violoncello, che la musica aiuti la gente ad unirsi.
Bravissimi. Ma così non riesco a togliere l'ultimo velo della cipolla della loro anima, come accade invece quando suonano. "Ma voi che cosa fate quando non suonate?"
Violoncello: Sono capitano, a Marlboro, d'una squadra di baseball.
Violino: Ho comperato quattro anni fa una casa, sto mettendola in piedi, mi occupo molto del giardino.
Pianoforte: Leggo giornali, guardo la televisione nei pochi spazi liberi in tournée. A casa, tengo il tempo libero per parlare con mia moglie. Anzi, per l'85% per ascoltarla parlare.
Perfetti. Il velo di cipolla in cui si sono avvolti è adesso luminoso e trasparente. "Ma insomma", dico a voce un po' più alta del previsto, "non avete mai momenti di stanchezza? Momenti in cui del mestiere di musicista, del lavoro, di più, proprio della musica, di musica non ne potete più?".
Mi guardano, gentili, sorridenti. Un filo d'ironia, ma la voce confidenziale. - Oh, sì, ammette il Violino. Accade prima del concerto, a volte anche sul palcoscenico. Tutta la vita è come fosse assorbita da quel momento temuto e inaspettato di debolezza. I nervi stan cedendo. Ma si inizia a suonare, e la stanchezza stessa è assorbita dalla musica.
- Oh, sì, esclama deciso il Violoncello. Io sì mi stanco per davvero. Nell'ultima tournée, alla fine d'un mese con più di venti concerti, sono tornato a casa e mi son detto: beh, non sono nemmeno tanto stanco. Mi son messo sul letto ed ho dormito per tre giorni.
Il Pianoforte lo guarda, atteggia la bocca a comprensione, e mi confida a mezza voce, quasi per scusarlo:
- C'è una ragione, se si stanca. E' giovane.

intervista di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XII n.5, maggio 1988)