Diabolico Harnoncourt: ti chiedi che cosa potrà accadere di Mozart nelle mani di questo severo filologo della musica antica e, prima ancora di abbozzare una risposta, ti senti preso nel vortice di una lettura sorprendentemente viva, pungente e perfino entusiasmante, che ti mette l'elettricità addosso. Fin dal principio. L'introduzione lenta della Sinfonia in mi bemolle maggiore K 543 è un enigma, perché sta in bilico tra la convenzionale funzione di preparazione di un discorso e l'inizio di un divenire della forma di cui vengono forniti i motivi e gli spunti tematici principali: con Harnoncourt l'enigma viene sciolto facendo balenare l'idea che esista una terza possibilità, e cioè che qualcosa sia già accaduto prima e che in realtà si parta in medias res, con una storia alle spalle e molte prospettive aperte davanti. Non è solo la storia della Sinfonia ad esserci presentata per così dire preceduta da una corona di sospensione (è azzardato dire che le appoggiature eseguite in levare, e tutte le altre convenzioni dell'epoca, sono in questa luce solo la logica conseguenza di un ritorno alle origini?): è la storia di Mozart ad essere spiegata e riassunta in un fluire del tempo che riempie gli spazi del prima e del dopo conquistando una solida evidenza nelle figure in cui la musica ricreata via via si materializza, nei contrasti e nelle elaborazioni dei ritmi, delle melodie, dei passaggi armonici e delle contrapposizioni fra le famiglie strumentali. Harnoncourt esegue le tre ultime Sinfonie di Mozart come se fossero non un commiato, e nemmeno un saluto benevolo per chi verrà dopo, ma un processo che ci riguarda in prima persona, che viene da lontano ma parla un linguaggio diretto e forte. Sì, forte fino a sembrare anche troppo duro, aggressivo e nervoso: ma solo per metterci nella condizione di drizzare le orecchie, di non concederci pause, neppure per abbandonarci ad ammirare i tesori che vi sono profusi a piene mani.
Qui siamo di fronte a un paradosso. Harnoncourt non ripudia niente delle sue convinzioni filologiche circa il modo di eseguire un autore del tardo Settecento, e chiede alla Chamber Orchestra of Europe, che risponde come solo un complesso abituato alla duttilità dell'intelligenza e alle sfide piú alte dell'interpretazione può rispondere, di modificare il suono, di graduare le sfumature, di frammentare il fraseggio, di intensificare la tensione drammatica. Ciò che ne risulta è portentoso: messo a nudo e spogliato di tutti i rivestimenti che una tradizione esecutiva prima romantica poi neoclassica gli avevano cucito addosso, Mozart risplende con una verità che dal suo tempo (dall'essere insieme nel suo tempo e fuori dal tempo) giunge direttamente al nostro, facendo intuire perfino una vicinanza, una sintonia con il nostro linguaggio contemporaneo. Questo Mozart ti par di toccarlo con mano e di sentirlo circolare là intorno: con un certo sgomento, dato che quando vorresti afferrarlo ti sfugge. L'idea di una presenza viva e concreta unita a quella di una perpetua inafferrabilità oltre la storia: questo Harnoncourt era riuscito a creare, una sensazione di immediatezza e di complicità. Mozart lo si può ammirare, contemplare, amare, venerare e quant'altro, e resterà sempre su un piedistallo di fronte al quale rispettosamente ci inchiniamo senza osare avvicinarci. Questa volta era uno di noi, solo infinitamente piú grande di tutti noi.
Mozart è l'unico autore con cui qualcosa di simile sia possibile (un tentativo molto rischioso, al quale anche Harnoncourt ha pagato qualche scotto in fatto di precisione ed equilibrio: ma era l'originalità dell'idea che contava). Difatti con Mendelssohn, l'altro autore protagonista del piú bel ciclo di concerti che "Ferrara Musica" abbia finora concepito, non ci si provava neppure. Ma anche qui aveva da dire qualcosa di importante: e cioè che il Mendelssohn delle Ouvertures, della Terza e della Quarta Sinfonia, non è un nostalgico della forma, un poeta della mernoría e della bellezza perduta, un illusionista romantico che dipinge consolanti paesaggi dell'anima, ma un inventore di mezzi prodigiosi con cui esprimere in suoni un mondo ideale che non ha ancora tagliato il cordone ombelicale con il reale. Per Mozart ideale e reale erano una cosa sola; per Mendelssohn sono l'uno la proiezione dell'altro. Lo slancio di Harnoncourt tendeva a compiere questo percorso di andata e ritorno con l'esattezza di un moto pendolare e con la flessibilità di chi smentisca a ogni oscillazione le leggi acustiche: niente, nella musica, è isocrono. E ancora una volta la verità di questa idea faceva aggio su tutto il resto; dimostrando con un altro paradosso che l'essenza della musica è in ogni tempo la stessa, perché noi riviviamo sempre le stesse emozioni, e che niente in musica si ripete identicamente, perché ogni volta la nostra emozione si nutre e palpita di nuove vibrazioni. E questo non è affatto un paradosso, ma il significato della musica vista con occhi di artista, anziché di storico.
Sergio Sablich (Musica Viva, Anno XV n.12, dicembre 1991)
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