Philip Glass |
La presenza di Philip Glass in Italia non poteva che suscitare scalpore, considerata l'importanza del personaggio, indicato - alla stregua di Terry Riley, Steve Reich e La Monte Young - come uno dei padri indiscussi del minimalismo musicale.
In lui, più che in altri, la scelta di esaurire nella ripetitività la propria ricerca si è affermata con tanta ostinazione. Irriducibile studioso della sfera ipnotica, egli ha individuato la quiete e la sublime bellezza nell'ostinata dimensione reiterativa sonora.
Un'immutata sembianza tra il discinto, lo stravagante e l'irriguardoso accentua quell'alone di sapienza incantatrice che il musicista ha pazientemente deciso di costruire attorno a sé. Eppure si intuisce che anche per Philip Glass siano giunti gli attimi propri di una fama più effimera che duratura: il sopraggiungere nei suoi suoni di inflessioni appartenenti alla musica di consumo lo inducono oggi a prediligere elementi di conversazione che corrono sui binari della commercialità.
La presentazione dal vivo delle musiche del film Koyaimisqatsi ha rappresentato il pretesto per una tournée che ha avuto inizio negli Stati Uniti, dove sono state toccate le città di Los Angeles, New Orleans, Saint Louis, per un totale di una quindicina di date; circa dello stesso numero di esibizioni si compone la serie di apparizioni europee, tra le quali Milano e Torino rappresentano le prime tappe.
Fino a che punto si può parlare di libertà esecutiva in un tale contesto?
L'accompagnamento del sonoro all'immagine cinematografica è utilizzato fin dai tempi del film muto e credo possegga a tutt'oggi un elevato potere emotivo. La musica eseguita dal vivo non consente di intervenire sulla struttura e sulla progressione dello spettacolo, bensì sulla dinamica; risulta quindi più efficace di una colonna sonora inserita in una sequela di immagini precedentemente registrate. E' un intervento attivo ed eccitante.
L'elemento fondamentale è la sincronizzazione, che deve essere molto precisa.
Da sempre le sue composizioni si avvalgono di una serie di simbolismi che trovano una loro sublimazione nel legame con elementi extra-musicali (teatro, danza e cinema); Akhnaten, titolo della sua ultima opera incisa, ne rappresenta la più recente riprova.
Da sempre le sue composizioni si avvalgono di una serie di simbolismi che trovano una loro sublimazione nel legame con elementi extra-musicali (teatro, danza e cinema); Akhnaten, titolo della sua ultima opera incisa, ne rappresenta la più recente riprova.
La musica, secondo me, deve avere inizio dal soggetto: l'opera si apre con il personaggio ed è lui, uomo raffigurante la religione, nel suo rapportarsi con la mia enfasi orchestrale, con la ricerca vocale e con la complessità del testo, a conferire un senso di misticismo al lavoro.
Ho spesso tentato anche di dare vita a composizioni che non dovessero relazionarsi a qualcosa, ma mi sono reso conto che il mio massimo appagamento lo provo nel collaborare con altri artisti (Lucinda Childs, Twyla Tharp ... ) e solo così riesco a conferire un senso reale alla mia musica.
Come ha potuto trovare una connessione tra la musica occidentale classica e le musiche orientali?
In realtà il mio interesse è particolarmente rivolto alla musica indiana meridionale (è grande amico di Ravi Shankar) e conosco bene la musica contemporanea giapponese.
Per quanto mi riguarda l'aspetto più importante che io cerco di trasferire è quello ritmico, perché mi permette di dare corpo alle mie melodie senza che in esse vengano riconosciuti segnali provenienti dalle musiche orientali.
Lei ha dichiarato di aver più volte utilizzato le strutture ritmiche come base, quasi a voler rovesciare le priorità contraddistintive della musica occidentale...
Sì è vero. E questo risulta applicabile in particolar modo a quanto ho composto tra il 1965 e il 1975, ma soprattutto ho cercato di far coincidere un'idea melodica con la struttura ritmica. In prima istanza io lavoro su di una linea ritmica, successivamente su quella armonica ed infine su quella melodica: costruisco così la musica a partire dalla base. In Occidente si fa esattamente l'inverso.
intervista di Giancarto Gabelli (Musica Viva, Anno XII n.2, febbraio 1988)
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