SIGNORA MELANIA KOX HABET PIACERE INCONTRARE GIORNALISTI ET CRITICI MUSICALI SALONE FESTE HOTEL BRISTOL GIOVEDI' 20 APRILE ORE 18 PER URGENTI DICHIARAZIONI STAMPA STOP PREGASI NON MANCARE STOP FIRMATO PRESS AGENT OSCAR WALLMANN.
Mai un telegramma mi aveva tanto infastidito come questo. Il fastidio mi veniva dal conoscere molto bene Melania Kox, i suoi capricci di primadonna della lirica, le sue stravaganze di personaggio chiacchieratissimo e i suoi irati mugugni nei confronti di chi, come me, aveva per dovere di mestiere la malcapitata avventura di ascoltarla e il piacere di stroncare puntualmente ogni sua recita. Immaginavo che le "urgenti dichiarazioni" altro non sarebbero state che la consueta litania di accuse e di minacce - sia pure con gli angosciati toni di chi si sente perseguitato - alla categoria dei critici musicali. La sceneggiata della conferenza stampa si ripeteva ormai da quindici anni e sempre all'indomani di una première disastrosa. Dapprima sconcertati, quindi divertiti, avevamo poi smesso, io e i miei colleghi, di far da bersaglio in quelle inutili bagarre, convinti di esercitare una professione che raccoglie antipatie molto spesso, adulazioni talvolta, simpatie mai.
Melania Kox era il peggior soprano che da quindici anni calcava le scene dei teatri d'opera di qua e di là dell'Atlantico. Apparteneva a quel genere di cantanti dall'ugola modesta e per di più sgraziata. Possedeva una tecnica di canto disordinata, voce opaca, acuti strazianti da gallinaceo a cui stanno torcendo il collo. Non di rado arrancava sui suoni intonati dopo un vero pellegrinaggio intorno ad essi. Insomma, una voce che offendeva l'intelligenza e le orecchie. E rimanevano un mistero per tutti i suoi quindici anni di carriera.
Tuttavia Melania Kox era ricercata e coccolata dai registi per il solo pregio d'una presenza naturalmente drammatica che sul palcoscenico sapeva bene mettere in risalto. In lei bisognava ammirare il gesto e dimenticare il canto, il quale compiacenti direttori d'orchestra trovavano sempre il modo d'accomodare, tagliando i passi più difficili o abbassando di diversi toni interi brani, sicché mai s'ascoltava un'opera così come il povero compositore l'aveva scritta.
Sulla fortunata carriera di Melania Kox circolavano però molte voci che la primadonna definiva maldicenze. Si diceva, per esempio, che avesse frequentato più talami di sovrintendenti, impresari e registi che palcoscenici. Si mormorava che la signora ricattasse di conseguenza i proprietari di quei talami allo scopo di venir scritturata. Si sussurrava anche di poco trasparenti scritture il compenso delle quali finiva per metà nelle tasche di certi impresari. Si aggiungeva poi che i suoi maneggi arrivassero al punto da imporre compagni di canto ancor più modesti di lei (se non addirittura peggiori) e ciò per risultare, comunque e sempre, la sola vincitrice della serata. Era la verità, ma trovare qualcuno disposto a scucirsi la bocca per spiattellarla apertamente era un'impresa molto difficile, divenuta finanche impossibile ora che la primadonna era convolata a nozze con un danaroso proprietario di network televisivi il cui marchio teneva occupati, rimbecillendoli, i tre quarti della popolazione adulta di mezza Europa.
Nel salone delle feste dell'Hotel Bristol, alle 18 di quel giovedì 20 aprile, non mancava nessuno. Wallmann aveva convocato telegraficamente tutti i colleghi delle testate sparse ai quattro punti cardinali del paese; aveva chiamato fotografi e cronisti; aveva invitato persino qualche direttore di giornale. C'erano anche, assiepati nelle prime tre file di poltrone, personaggi a me purtroppo noti - per lungo e costante scambio di polemiche - rappresentanti la truppa dei fedelissimi sostenitori della primadonna. La claque, si sa, è costume teatrale di tutti i tempi. Ma non s'eran visti mai prezzolati battitori di mani e urlanti melomani di loggioni, come costoro, suffragare con chissà quali certezze storiche e musicologiche, l'autenticità filologica delle sgraziate esibizioni di Melania Kox, stonature comprese.
Melania Kox ci apparve dopo mezz'ora di attesa con una entrata degna del personaggio. Il corpo affusolato s'intuiva appena sotto la lunga tunica leggera sul cui candore spiccava l'ebano dei capelli sciolti a incorniciare un viso ovale né bello né brutto. Con gesti lenti e solenni da eroina barocca, si avviò al tavolo infiorato in fondo al salone, distribuendo sorrisi ai fotografi, ammiccando con strizzatine d'occhio alle telecamere del consorte, concedendo la mano al bacio di un signore di mezza età che anche in questa occasione non s'era astenuto dall'incarico di capo-claque nel dirigere il battimani degli scalmanati delle prime file.
Finalmente si fece silenzio e Wallmann principiò a parlare. Vi risparmio il dettaglio del suo sproloquio, essendo una ricapitolazione della carriera della signora (la quale annuiva e sorrideva), non tralasciando di lanciare frequenti e velenose punzecchiature al nostro indirizzo, colpevoli di "non aver compreso" l'arte canora della divina. Poi ci comunicò la notizia: Melania Kox, a trentacinque anni, aveva deciso di ritirarsi dalle scene. Smetteva di cantare - aggiunse Wallmann - per dedicarsi completamente al marito.
Tirammo un sospiro di sollievo, e c'è da credere che di lì a poche ore lo avrebbero tirato anche i tanti personaggi in angustie per i continui ricatti, i poveri cantanti maltrattati e tutti gli ascoltatorì di buon orecchio. Il teatro lirico si liberava finalmente, in un sol colpo, da una pessima voce e da una donna intrigante e supponente.
La giustificazione del recente matrimonio poteva bastarmi: nella storia s'erano dati altri casi di simile abnegazione coniugale. Ma il sospetto che qualcosa di più serio avesse spinto la signora al passo della gran rinuncia cominciò a farsi strada con insistenza nella mia testa. Mon mi sbagliavo. Qualche giorno dopo infatti, per le tante vie d'accesso alle fonti delle notizie che nel mio mestiere è necessario aprirsi, venni a conoscenza della verità. Una piorrea, ovvero una improvvisa quanto precocissima (e miracolosa ormai) caduta di tutti i denti, aveva costretto Melania Kox a ritirarsi lasciando cadere ogni tentativo di porvi rimedio. Si leggeva, anche in cotesto rassegnarsi al proprio destino, un gesto di orgoglio, quasi di sfida, come a dire tragicamente: con me finisce il canto lirico.
Per quanto mi riguardava, adesso Melania Fox primadonna significava una cartellina gialla del mio archivio ove erano raccolti i quindici anni della sua carriera, scrupolosamente testimoniati da centinaia di ritagli di giornali. La cartellina riposò in pace per due anni, fino a quando mi capitò sotto gli occhi un foglio in lingua inglese che mi fece trasalire: Melania Kox aveva interpretato Aida in un teatro dell'Australia, strabiliando per il suo "canto impeccabile" - c'era scritto proprio così - pubblico e critica. Non ricordo quante volte lessi e rilessi il trafiletto di giornale. Ricordo solamente che da quel giorno trassi dall'archivio la cartellina gialla e la spolverai: la primadonna ritornava a cantare.
Alcuni mesi più tardi mi recai di malavoglia a Zurigo: lei cantava Lucia di Lammermoor. Finché vivo non dimenticherò quella serata. Miracolosamente, Lucia cantava. I suoni uscivano dalla bocca, morbidi, armoniosi, rotondi, caldi, espressivi, ma soprattutto ineffabilmente intonati. Che cosa era accaduto alla voce di Melania Kox? Un miracolo?
Mi prese l'irresistibile piacere di ascoltarla e mi posi in pellegrinaggio verso tutti i teatri dove lei si esibiva. Il miracolo si ripeteva sempre e dovunque. M'estasiavo all'incanto della sua Norma, della sua Violetta, della sua Manon. Afferravo finalmente quel che Bellini o Verdi, Donizetti o Puccini, avevano inteso nel far vibrare col canto i sentimenti e le passioni, gli affetti e le miserie del cuore umano. Tutto, tutto mi veniva ora svelato dalla voce di Melania Kox. E non c'era altro modo di spiegare una simile metamorfosi se non ricorrendo al miracolo.
La seconda vita artistica dei soprano passò, di successo in successo, su tutti i palcoscenici del mondo. Non di rado, giungeva notizia di lampadari che oscillavano per la ricchezza timbrica dei suoi suoni; oppure di lampadine che scoppiavano sotto l'urto delle vibrazioni di certi suoi acuti perfetti e luminosissimi.
Giorno di terribile sofferenza fu, per me e per il mio amor proprio professionale, quello in cui la primadonna rifiutò di ricevermi per un'intervista, volendo vendicarsi di tutti i maltrattamenti - un tempo giustificatì e sacrosanti - che la mia penna le aveva inflitti. Il mio fu l'unico giornale a inseguire invano la diva e il non essere riuscito a raggiungerla aveva fatto scendere le mie quotazioni al di sotto dello zero nella considerazione del mio direttore.
Ben presto l'inspiegabile fenomeno della voce di Melanica Kox divenne oggetto di interesse scientifico. Con varie argomentazioni si tentava di svelare il segreto di quel mutamento senza mai approdare però a risultati plausibili. Dopo molti anni, a Honolulu si tenne un ulteriore simposio internazionale che concluse con la richiesta di poter studiare "post mortem" l'intero apparato laringeo della primadonna, la quale si dichiarò entusiasta per il progresso della scienza e per l'aumento del suo conto in banca, giacché a suon di milionì mise in vendita i vari "pezzi" della sua gola ormai pregiata.
Il mondo assistette alla più bizzarra e grottesca vendita all'asta dell'apparato fonetico e respiratorio di Melania Kox. Stoccolma si aggiudicò le corde vocali, Montreal il grande corpo dell'osso ioide, New York l'intero stock dei muscoli sottolaringei, Parigi l'epiglottide, Osaka il diaframma, Berlino i polmoni, Leningrado la trachea, Capetown le membrane, le cartilagini e i numerosi ossicini. Venne pure stabilito che i risultati delle ricerche sarebbero confluiti in un unica pubblicazione scientifica e "messi a disposizione dell'umanità". Mi parve a dir poco singolare la circostanza che il famoso Massachussets Institute of Technology di Boston avesse sborsato la pazzesca cifra di dieci milioni di dollari per prenotare la dentiera di Melania Kox.
Cotesta multinazionale della foniatria non dovette attendere molto: un infarto stroncò definitivamente il soprano, una sera d'autunno a Chicago, mentre cantava Turandot. La divina Melania entrava così nella leggenda e, qualche ora dopo, la scienza entrava in possesso di quei "pezzi" da cui sperava finalmente di svelare il segreto di una voce.
Che delusione, quando, alla fine di interminabili quanto minuziose analisi, risultò che nelle "reliquie" vocali della primadonna non c'era proprio nulla che potesse spiegare l'arcano di una voce sgradevole divenuta all'improvviso bella. Fu pubblicata la relazione scientifica da cui conoscemmo peso, volume e descrizione al microscopio delle "reliquie". Ma tutto rientrava nella banalità più noiosa della norma. Si ritornava dunque a parlare di miracolo.
L'intera vicenda mi aveva ormai invecchiato. Eppure non smisi mai di occuparmene, per naturale curiosità di mestiere, ma soprattutto perché mi sentivo ancora bruciare dal lontano rifiuto della primadonna a concedermi un'intervista. Era una partita personale che continuavo a giocare con la defunta, sfidando il continuo brontolio del direttore e sopportando finanche i sorrisi di compatimento dei colleghi per i quali la mia era diventata soltanto una fissazione.
Un pomeriggio d'estate - la Kox era passata a miglior vita già da un paio di anni -, deciso ormai a dare alle fiamme la cartellina gialla, mi balenò un pensiero. 0 meglio cominciò a ossessionarmi una domanda: perché Boston s'era impadronita della dentiera? Poi un'altra: che fine aveva fatto? Poi un'altra ancora: perché la dentiera? Pensai: la primadonna s'era ritirata dieci anni addietro a causa d'una precoce piorrea, è naturale quindi supporre che si fosse sottoposta alla ricostruzione completa dell'apparato dentarico. Ma che relazione poteva esserci tra una protesi e la seconda, gloriosissima, carriera?
Accarezzai il progetto di recarmi in vacanza a Boston. Ne parlai con molta cautela al direttore del giornale il quale mostrò scarso entusiasmo per la ragione semplicissima che ormai Melania Kox non faceva più notizia. Alla fine, impietosito dalle mie insistenze, consentì benevolmente che il giornale sopportasse le spese del mio viaggio a Boston. Partii, tra il sollievo di tutti quei colleghi che giorno dopo giorno avevano vissuto la mia ossessione come un tormento. Nella città degli antichi padri pellegrini, il concatenarsi fortunoso di varie circostanze che solo per pudicizia mi trattengo dal descrivere, mi portò sulle tracce di una signora sessantenne, Marie-Louise Jerlinski, fisico elettronico ancora in servizio all'Istituto Tecnologico del Massachussets. La trovai ben disposta a parlare di quella che lei definiva la "creatura" più cara della sua lunga attività di scienziata e mi invitò l'indomani mattina nel suo laboratorio al Mit.
In preda ad una indescrivibile emozione che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte, l'indomani mattina, 10 agosto, mi recai all'appuntamento con la signora Jerlinski. Mi accolse con un sorriso e con un profondo sospiro. Mi disse poi che ciò che stava per mostrarmi e per dirmi era una sua piccola vendetta nei confronti dell'Istituto che sull'affaire aveva imposto il più rigoroso silenzio, togliendo a lei la possibilità di enormi guadagni. Ma ora era alla vigilia di andare in pensione. Da una piccola cassaforte tirò fuori una scatola sigillata. La aprì e mise sotto i miei occhi una dentiera. La dentiera di Melania Kox. Poi sollevò una pellicola biancastra che ricopriva la parete posteriore di quei denti e vennero alla luce microscopici computers di cui la Jerlinski - in gioventù aveva studiato canto e s'era anche specializzata in fonetica - mi spiegò il funzionamento.
Ciascuno di quei computers, mi disse, era capace di leggere, correggere e amplificare ogni piccola vibrazione delle corde vocali. La cantante doveva emettere suoni debolissimi e andare a tempo; al resto, cioè all'intensità, al colore, al fraseggio e alla corretta intonazione, pensavano loro. Aggiunse inoltre che l'intero sistema - un capolavoro di ingegneria miniaturizzata - era per così dire programmato sulla tessitura della Kox onde evitare la disgraziata ipotesi che dalla gola del soprano potesse uscire l'appassionato "Amami Alfredo" con profonda voce di basso. Mi diede altri ragguagli tecnici che, per la verità, compresi appena. Poi mi consentì di fotografare la "cosa" e con un altro sospiro di sollievo mi consegnò tutto il materiale (in copia) che documentava questa sua miracolosa invenzione.
Ritornai in albergo a scrivere il più cattivo articolo su Melania Kox primadonna: il suo segreto era una dentiera con la quale aveva gabbato tutto il mondo.
Quella notte mi addormentai felice.
racconto di Egidio Saracino (Musica Viva, Anno X n.8, luglio 1986)
Mai un telegramma mi aveva tanto infastidito come questo. Il fastidio mi veniva dal conoscere molto bene Melania Kox, i suoi capricci di primadonna della lirica, le sue stravaganze di personaggio chiacchieratissimo e i suoi irati mugugni nei confronti di chi, come me, aveva per dovere di mestiere la malcapitata avventura di ascoltarla e il piacere di stroncare puntualmente ogni sua recita. Immaginavo che le "urgenti dichiarazioni" altro non sarebbero state che la consueta litania di accuse e di minacce - sia pure con gli angosciati toni di chi si sente perseguitato - alla categoria dei critici musicali. La sceneggiata della conferenza stampa si ripeteva ormai da quindici anni e sempre all'indomani di una première disastrosa. Dapprima sconcertati, quindi divertiti, avevamo poi smesso, io e i miei colleghi, di far da bersaglio in quelle inutili bagarre, convinti di esercitare una professione che raccoglie antipatie molto spesso, adulazioni talvolta, simpatie mai.
Melania Kox era il peggior soprano che da quindici anni calcava le scene dei teatri d'opera di qua e di là dell'Atlantico. Apparteneva a quel genere di cantanti dall'ugola modesta e per di più sgraziata. Possedeva una tecnica di canto disordinata, voce opaca, acuti strazianti da gallinaceo a cui stanno torcendo il collo. Non di rado arrancava sui suoni intonati dopo un vero pellegrinaggio intorno ad essi. Insomma, una voce che offendeva l'intelligenza e le orecchie. E rimanevano un mistero per tutti i suoi quindici anni di carriera.
Tuttavia Melania Kox era ricercata e coccolata dai registi per il solo pregio d'una presenza naturalmente drammatica che sul palcoscenico sapeva bene mettere in risalto. In lei bisognava ammirare il gesto e dimenticare il canto, il quale compiacenti direttori d'orchestra trovavano sempre il modo d'accomodare, tagliando i passi più difficili o abbassando di diversi toni interi brani, sicché mai s'ascoltava un'opera così come il povero compositore l'aveva scritta.
Sulla fortunata carriera di Melania Kox circolavano però molte voci che la primadonna definiva maldicenze. Si diceva, per esempio, che avesse frequentato più talami di sovrintendenti, impresari e registi che palcoscenici. Si mormorava che la signora ricattasse di conseguenza i proprietari di quei talami allo scopo di venir scritturata. Si sussurrava anche di poco trasparenti scritture il compenso delle quali finiva per metà nelle tasche di certi impresari. Si aggiungeva poi che i suoi maneggi arrivassero al punto da imporre compagni di canto ancor più modesti di lei (se non addirittura peggiori) e ciò per risultare, comunque e sempre, la sola vincitrice della serata. Era la verità, ma trovare qualcuno disposto a scucirsi la bocca per spiattellarla apertamente era un'impresa molto difficile, divenuta finanche impossibile ora che la primadonna era convolata a nozze con un danaroso proprietario di network televisivi il cui marchio teneva occupati, rimbecillendoli, i tre quarti della popolazione adulta di mezza Europa.
Nel salone delle feste dell'Hotel Bristol, alle 18 di quel giovedì 20 aprile, non mancava nessuno. Wallmann aveva convocato telegraficamente tutti i colleghi delle testate sparse ai quattro punti cardinali del paese; aveva chiamato fotografi e cronisti; aveva invitato persino qualche direttore di giornale. C'erano anche, assiepati nelle prime tre file di poltrone, personaggi a me purtroppo noti - per lungo e costante scambio di polemiche - rappresentanti la truppa dei fedelissimi sostenitori della primadonna. La claque, si sa, è costume teatrale di tutti i tempi. Ma non s'eran visti mai prezzolati battitori di mani e urlanti melomani di loggioni, come costoro, suffragare con chissà quali certezze storiche e musicologiche, l'autenticità filologica delle sgraziate esibizioni di Melania Kox, stonature comprese.
Melania Kox ci apparve dopo mezz'ora di attesa con una entrata degna del personaggio. Il corpo affusolato s'intuiva appena sotto la lunga tunica leggera sul cui candore spiccava l'ebano dei capelli sciolti a incorniciare un viso ovale né bello né brutto. Con gesti lenti e solenni da eroina barocca, si avviò al tavolo infiorato in fondo al salone, distribuendo sorrisi ai fotografi, ammiccando con strizzatine d'occhio alle telecamere del consorte, concedendo la mano al bacio di un signore di mezza età che anche in questa occasione non s'era astenuto dall'incarico di capo-claque nel dirigere il battimani degli scalmanati delle prime file.
Finalmente si fece silenzio e Wallmann principiò a parlare. Vi risparmio il dettaglio del suo sproloquio, essendo una ricapitolazione della carriera della signora (la quale annuiva e sorrideva), non tralasciando di lanciare frequenti e velenose punzecchiature al nostro indirizzo, colpevoli di "non aver compreso" l'arte canora della divina. Poi ci comunicò la notizia: Melania Kox, a trentacinque anni, aveva deciso di ritirarsi dalle scene. Smetteva di cantare - aggiunse Wallmann - per dedicarsi completamente al marito.
Tirammo un sospiro di sollievo, e c'è da credere che di lì a poche ore lo avrebbero tirato anche i tanti personaggi in angustie per i continui ricatti, i poveri cantanti maltrattati e tutti gli ascoltatorì di buon orecchio. Il teatro lirico si liberava finalmente, in un sol colpo, da una pessima voce e da una donna intrigante e supponente.
La giustificazione del recente matrimonio poteva bastarmi: nella storia s'erano dati altri casi di simile abnegazione coniugale. Ma il sospetto che qualcosa di più serio avesse spinto la signora al passo della gran rinuncia cominciò a farsi strada con insistenza nella mia testa. Mon mi sbagliavo. Qualche giorno dopo infatti, per le tante vie d'accesso alle fonti delle notizie che nel mio mestiere è necessario aprirsi, venni a conoscenza della verità. Una piorrea, ovvero una improvvisa quanto precocissima (e miracolosa ormai) caduta di tutti i denti, aveva costretto Melania Kox a ritirarsi lasciando cadere ogni tentativo di porvi rimedio. Si leggeva, anche in cotesto rassegnarsi al proprio destino, un gesto di orgoglio, quasi di sfida, come a dire tragicamente: con me finisce il canto lirico.
Per quanto mi riguardava, adesso Melania Fox primadonna significava una cartellina gialla del mio archivio ove erano raccolti i quindici anni della sua carriera, scrupolosamente testimoniati da centinaia di ritagli di giornali. La cartellina riposò in pace per due anni, fino a quando mi capitò sotto gli occhi un foglio in lingua inglese che mi fece trasalire: Melania Kox aveva interpretato Aida in un teatro dell'Australia, strabiliando per il suo "canto impeccabile" - c'era scritto proprio così - pubblico e critica. Non ricordo quante volte lessi e rilessi il trafiletto di giornale. Ricordo solamente che da quel giorno trassi dall'archivio la cartellina gialla e la spolverai: la primadonna ritornava a cantare.
Alcuni mesi più tardi mi recai di malavoglia a Zurigo: lei cantava Lucia di Lammermoor. Finché vivo non dimenticherò quella serata. Miracolosamente, Lucia cantava. I suoni uscivano dalla bocca, morbidi, armoniosi, rotondi, caldi, espressivi, ma soprattutto ineffabilmente intonati. Che cosa era accaduto alla voce di Melania Kox? Un miracolo?
Mi prese l'irresistibile piacere di ascoltarla e mi posi in pellegrinaggio verso tutti i teatri dove lei si esibiva. Il miracolo si ripeteva sempre e dovunque. M'estasiavo all'incanto della sua Norma, della sua Violetta, della sua Manon. Afferravo finalmente quel che Bellini o Verdi, Donizetti o Puccini, avevano inteso nel far vibrare col canto i sentimenti e le passioni, gli affetti e le miserie del cuore umano. Tutto, tutto mi veniva ora svelato dalla voce di Melania Kox. E non c'era altro modo di spiegare una simile metamorfosi se non ricorrendo al miracolo.
La seconda vita artistica dei soprano passò, di successo in successo, su tutti i palcoscenici del mondo. Non di rado, giungeva notizia di lampadari che oscillavano per la ricchezza timbrica dei suoi suoni; oppure di lampadine che scoppiavano sotto l'urto delle vibrazioni di certi suoi acuti perfetti e luminosissimi.
Giorno di terribile sofferenza fu, per me e per il mio amor proprio professionale, quello in cui la primadonna rifiutò di ricevermi per un'intervista, volendo vendicarsi di tutti i maltrattamenti - un tempo giustificatì e sacrosanti - che la mia penna le aveva inflitti. Il mio fu l'unico giornale a inseguire invano la diva e il non essere riuscito a raggiungerla aveva fatto scendere le mie quotazioni al di sotto dello zero nella considerazione del mio direttore.
Ben presto l'inspiegabile fenomeno della voce di Melanica Kox divenne oggetto di interesse scientifico. Con varie argomentazioni si tentava di svelare il segreto di quel mutamento senza mai approdare però a risultati plausibili. Dopo molti anni, a Honolulu si tenne un ulteriore simposio internazionale che concluse con la richiesta di poter studiare "post mortem" l'intero apparato laringeo della primadonna, la quale si dichiarò entusiasta per il progresso della scienza e per l'aumento del suo conto in banca, giacché a suon di milionì mise in vendita i vari "pezzi" della sua gola ormai pregiata.
Il mondo assistette alla più bizzarra e grottesca vendita all'asta dell'apparato fonetico e respiratorio di Melania Kox. Stoccolma si aggiudicò le corde vocali, Montreal il grande corpo dell'osso ioide, New York l'intero stock dei muscoli sottolaringei, Parigi l'epiglottide, Osaka il diaframma, Berlino i polmoni, Leningrado la trachea, Capetown le membrane, le cartilagini e i numerosi ossicini. Venne pure stabilito che i risultati delle ricerche sarebbero confluiti in un unica pubblicazione scientifica e "messi a disposizione dell'umanità". Mi parve a dir poco singolare la circostanza che il famoso Massachussets Institute of Technology di Boston avesse sborsato la pazzesca cifra di dieci milioni di dollari per prenotare la dentiera di Melania Kox.
Cotesta multinazionale della foniatria non dovette attendere molto: un infarto stroncò definitivamente il soprano, una sera d'autunno a Chicago, mentre cantava Turandot. La divina Melania entrava così nella leggenda e, qualche ora dopo, la scienza entrava in possesso di quei "pezzi" da cui sperava finalmente di svelare il segreto di una voce.
Che delusione, quando, alla fine di interminabili quanto minuziose analisi, risultò che nelle "reliquie" vocali della primadonna non c'era proprio nulla che potesse spiegare l'arcano di una voce sgradevole divenuta all'improvviso bella. Fu pubblicata la relazione scientifica da cui conoscemmo peso, volume e descrizione al microscopio delle "reliquie". Ma tutto rientrava nella banalità più noiosa della norma. Si ritornava dunque a parlare di miracolo.
L'intera vicenda mi aveva ormai invecchiato. Eppure non smisi mai di occuparmene, per naturale curiosità di mestiere, ma soprattutto perché mi sentivo ancora bruciare dal lontano rifiuto della primadonna a concedermi un'intervista. Era una partita personale che continuavo a giocare con la defunta, sfidando il continuo brontolio del direttore e sopportando finanche i sorrisi di compatimento dei colleghi per i quali la mia era diventata soltanto una fissazione.
Un pomeriggio d'estate - la Kox era passata a miglior vita già da un paio di anni -, deciso ormai a dare alle fiamme la cartellina gialla, mi balenò un pensiero. 0 meglio cominciò a ossessionarmi una domanda: perché Boston s'era impadronita della dentiera? Poi un'altra: che fine aveva fatto? Poi un'altra ancora: perché la dentiera? Pensai: la primadonna s'era ritirata dieci anni addietro a causa d'una precoce piorrea, è naturale quindi supporre che si fosse sottoposta alla ricostruzione completa dell'apparato dentarico. Ma che relazione poteva esserci tra una protesi e la seconda, gloriosissima, carriera?
Accarezzai il progetto di recarmi in vacanza a Boston. Ne parlai con molta cautela al direttore del giornale il quale mostrò scarso entusiasmo per la ragione semplicissima che ormai Melania Kox non faceva più notizia. Alla fine, impietosito dalle mie insistenze, consentì benevolmente che il giornale sopportasse le spese del mio viaggio a Boston. Partii, tra il sollievo di tutti quei colleghi che giorno dopo giorno avevano vissuto la mia ossessione come un tormento. Nella città degli antichi padri pellegrini, il concatenarsi fortunoso di varie circostanze che solo per pudicizia mi trattengo dal descrivere, mi portò sulle tracce di una signora sessantenne, Marie-Louise Jerlinski, fisico elettronico ancora in servizio all'Istituto Tecnologico del Massachussets. La trovai ben disposta a parlare di quella che lei definiva la "creatura" più cara della sua lunga attività di scienziata e mi invitò l'indomani mattina nel suo laboratorio al Mit.
In preda ad una indescrivibile emozione che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte, l'indomani mattina, 10 agosto, mi recai all'appuntamento con la signora Jerlinski. Mi accolse con un sorriso e con un profondo sospiro. Mi disse poi che ciò che stava per mostrarmi e per dirmi era una sua piccola vendetta nei confronti dell'Istituto che sull'affaire aveva imposto il più rigoroso silenzio, togliendo a lei la possibilità di enormi guadagni. Ma ora era alla vigilia di andare in pensione. Da una piccola cassaforte tirò fuori una scatola sigillata. La aprì e mise sotto i miei occhi una dentiera. La dentiera di Melania Kox. Poi sollevò una pellicola biancastra che ricopriva la parete posteriore di quei denti e vennero alla luce microscopici computers di cui la Jerlinski - in gioventù aveva studiato canto e s'era anche specializzata in fonetica - mi spiegò il funzionamento.
Ciascuno di quei computers, mi disse, era capace di leggere, correggere e amplificare ogni piccola vibrazione delle corde vocali. La cantante doveva emettere suoni debolissimi e andare a tempo; al resto, cioè all'intensità, al colore, al fraseggio e alla corretta intonazione, pensavano loro. Aggiunse inoltre che l'intero sistema - un capolavoro di ingegneria miniaturizzata - era per così dire programmato sulla tessitura della Kox onde evitare la disgraziata ipotesi che dalla gola del soprano potesse uscire l'appassionato "Amami Alfredo" con profonda voce di basso. Mi diede altri ragguagli tecnici che, per la verità, compresi appena. Poi mi consentì di fotografare la "cosa" e con un altro sospiro di sollievo mi consegnò tutto il materiale (in copia) che documentava questa sua miracolosa invenzione.
Ritornai in albergo a scrivere il più cattivo articolo su Melania Kox primadonna: il suo segreto era una dentiera con la quale aveva gabbato tutto il mondo.
Quella notte mi addormentai felice.
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