Il dischetto che troverete fra le pagine di questa rivista è in realtà un annuncio pubblicitario canoro di cinque minuti e quattordici secondi. Precisiamo subito che non ha fini commerciali ma uno scopo piuttosto insolito: il prodotto che vi viene allegramente reclamizzato non è un prodotto di normale consumo, reperibile nei negozi, ma è uno dei più classici procedimenti creativi della storia del pensiero formale e una delle pratiche più venerande dell'homo musicus. Il procedimento in questione si chiama fuga, e la pratica è la scrittura fugale: essendo nati entrambi un secolo prima che Cristoforo Colombo facesse vela verso occidente, sono quasi coetanei del canone perpetuo, formula creativa più semplice della fuga ma abbastanza simile ad essa, soprattutto agli inizi. Coi suoi giochi di parole e di melodie, il brano inciso sul nostro disco è una fuga che parla della scrittura fugale. Evocando le gioie, le soddisfazioni, i rischi, le seccature e perfino le paure legate da sempre a questa difficile ma affascinante sorta di acrostico contrappuntistico, la mia fuga diventa una conversazione musicale fra quattro cantanti, sostenuti e a volte contraddetti dai commenti di un quartetto d'archi. Come facevano gli annunciatori per presentare i nuovi teleromanzi, questo capitolo comincia con una domanda: «So you want to write a fugue?» («Vuoi proprio scrivere una fuga?»). La domanda viene dapprima formulata dal basso, e la melodia su cui viene cantata costituisce, in termini tecnici, il «soggetto» della fuga.
Via via che le altre voci 'rispondono', e cioè ripetono la melodia in successione ascendente (tenore, contralto e soprano), nasce una discussione sulle qualità richieste da questo tipo di scrittura. Il basso comincia col dire che ci vuole una certa dose di coraggio: «You've got the nerve to write a fugue, so go ahead» («Se hai il fegato di scrivere una fuga, fai pure»). Il tenore pensa all'impiego del prodotto finito: «So go ahead and write a fugue that we can sing» («Fai pure, ma scrivi una fuga che noi possiamo cantare»), mentre il contralto, pur tenendo un'ineccepibile condotta contrappuntistica, caldeggia un metodo audacemente antiaccademico: «Pay no mind to what we've told you, give no heed to what we've told you, just forget all that we've told you and the theory that you've read» («Non badare a quello che ti abbiamo detto, non pensare a quello che ti abbiamo detto, scordati quello che ti abbiamo detto e le teorie che hai letto»). Dello stesso parere è il soprano, pur mantenendosi altrettanto ligio, almeno in questo punto, alle buone norme della fuga. L'incoraggiamento «Pay no mind, give no heed» e via dicendo costituisce il controsoggetto del tema fondamentale, «So you want to write a fugue?», che si ripresenta ora in varie tonalità per sottolineare un altro consiglio: «For the only way to write one is to plunge right in and write one, just ignore the rules and write one, have a try» («L'unico modo di scriverla è saltare il fosso e scrivere: lascia perdere le regole e scrivi, forza, provaci!»). Il tono euforico di un'esortazione così esplicita viene poi timidamente riecheggiato dalla struttura musicale; i cantanti, le cui parti si accavallano sempre più, si addentrano in una pericolosa serie di stretti in imitazione, dove la spietata mano della giustizia accademica finisce col privarli di ogni libertà. Mentre inneggiano al santo patrono della fuga - «The fun of it will get you, and the joy of it will fetch you, you'll decide that John Sebastian must have been a very personable guy» («Ci proverai gusto, ti entusiasmerai e proclamerai che Giovanni Sebastiano era proprio un tipo in gamba») - il basso e il tenore rinunciano ad ogni dignità e autonomia per darsi a vane orge di quinte parallele, sacrilega pratica contrappuntistica condannata da ogni abbecedario musicale. In segno di omaggio (e anche di richiamo alla moderazione) il quartetto d'archi esegue ora un quodlibet costituito da quattro dei più famosi temi bachiani (fra i quali riconoscerete il Secondo concerto brandeburghese), seguendo poi opportunamente il contralto in una breve predica sui pericoli dell'esibizionismo: «But never be clever for the sake of being clever» («Ma bada di evitare ogni sfoggio di bravura»). Questa frase, insieme all'ammonimento che la segue - «For a canon in inversion is a dangerous diversion and a bit of augmentation is a serious temptation» («Perché un canone in inversione è una rischiosa digressione ed un po' d'aumentazione è una grave tentazione») - introduce un materiale tematico del tutto nuovo. A questo punto il quartetto d'archi presenta una citazione solenne (sebbene inflessa in minore) dei Meistersinger - classico esempio di bravura musicale dopo la quale tutti quanti s'immergono in un'esultante ripresa. Il basso e il tenore riprendono il materiale tematico di «So you want to write a fugue?» cui il soprano e il contralto adattano il controsoggetto appena presentato («But never be clever for the sake of being clever»), mentre gli archi proseguono il loro ininterrotto dialogo a base di frammenti baroccheggianti.
Prima di esaminare alcuni fra i più importanti aspetti dell'attività fugale dei nostri interpreti, è necessario aprire una parentesi sulla terminologia. In queste pagine uso senza definirli vari termini indispensabili per l'analisi della fuga, come «esposizione», «sviluppo», «ripresa», «soggetto», «risposta» e via dicendo. Non li definisco perché il loro significato è evidente per chiunque s'interessi anche superficialmente di forme musicali. Altri termini, oltre a figurare da tre secoli nei manuali scolastici di contrappunto, sono argomento di voci importanti in tutti i buoni dizionari.
Via via che si addentra nelle selve semantiche del ventesimo secolo, però, la fuga diviene sempre più spesso oggetto di analisi verbali molto più lambiccate di quelle consentite dai termini semplici e comprensibili sopra citati. Sentirete dire, ad esempio, che essa non è una «cosa» ma un «procedimento», e perfino che non è una «forma» ma una «struttura». E se userete a questo proposito parole come «melodia» o «aria», vi attirerete i fulmini del Ministero dei Lavori Fugali. E' vero che questi termini possono prestarsi a equivoci; in casi normali (Yankee Doodle, tanto per fare un esempio), l'aria o la melodia sono cose esplicite, complete e autosufficienti, provviste di un principio, di una metà e di una fine. La fuga, invece, non può e non deve utilizzare melodie del genere, pena il bloccarsi di colpo; deve usare, spesso di soppiatto, frammenti melodici sempre mutevoli, che, come «arie», restano perennemente incompiuti. E che dire, passando a un argomento attuale e ancora più controverso, delle fughe contemporanee, spuntate nello sterminato deserto armonico dove la vecchia tonalità è svanita ma viene ancora vagamente ricordata, persino da chi la sconfessa? In questo caso occorre agire con cautela: ricorreremo quindi a termini più astratti ma più sicuri, come «materiale motivico» invece di «melodie», «elementi lineari» invece di «arie» e anche «tonalità non orientata» invece della nuda e cruda «atonalità» che era in voga fino a dieci anni or sono. Tutte queste precauzioni verbali rischiano anch'esse, se usate senza cautela, di dar luogo a un vero e proprio gergo, a un linguaggio astruso ed ermetico di scarso uso anche per gli specialisti. Ma il clima intellettuale della nostra epoca è tale che dobbiamo correre questo rischio, anche se c'è da giurare che tra un momento ci troveremo fra capo e collo il termine «aleatorio»...
Tornando ai nostri interpreti, notiamo che il risultato finale delle loro fatiche (a parte le irriverenti citazioni da Bach e Wagner) è in sostanza un tipico prodotto della tradizione fugale accademica. Nell'esposizione, nei passaggi modulanti, nell'introduzione del controsoggetto e nella sovrapposizione di tali elementi nell'ambito della ripresa il brano segue sempre scrupolosamente il protocollo della tradizione fugale. A questa tradizione, frutto di molti secoli di normativa contrappuntistica, ci si deve assolutamente attenere se si vuole scrivere una fuga. Anche quando il testo canzonava maliziosamente le regole del contrappunto libresco, la musica si rifugiava sotto il manto della sacramentale procedura accademica, il quale, pur macchiato e logorato dalle banali ingiurie di varie generazioni, è ancora aperto ad abbracciare una straordinaria varietà di pratiche musicali. Le fughe sopravvivono persino in questa nostra epoca strenuamente antiaccademica, suonate a pieni polmoni da orchestrine jazz, improvvisate o imbastite secondo i principi dell'alea, o addirittura sperimentate entro la tonalità non orientata della scrittura seriale. In tutti questi contesti inediti la fuga diventa ovviamente una specie di contraddizione in termini, in quanto il metodo costruttivo che le è peculiare è strettamente legato a quel sistema tonale che sembra ora in via di disgregazione. Il fatto che essa continui a esistere dimostra tuttavia che certi procedimenti tipici della sua struttura - soggetto e risposta, esposizione e svolgimento - sono radicati nella coscienza dell'uomo moderno, sotto l'aspetto acustico come sotto quello psicologico. Sebbene la loro simmetria, la loro gravità e in un certo senso il loro equilibrio siano dovuti a considerazioni tonali, tali procedimenti sono sopravvissuti, come elementi di un valido metodo costruttivo, al definitivo tramonto di queste considerazioni. Forse tale sopravvivenza è dovuta soprattutto al fatto che essi non sono connaturati al sistema tonale. Tutti i princopi della fuga (tranne quello della gravitazione verticale della tonalità e del contrasto fra tonalità) furono formulati all'inizio del Rinascimento, vale a dire prima che venisse articolata la grammatica tonale basata sulla tensione e sul rilassamento; la loro prossimità all'equilibrio e alla serenità dell'armonia centrifuga, le trame avvolgenti della struttura cadenzale sembrano in gran parte dovute a un loro volontario sincronismo.
L'antica esperienza degli antecedenti lineari, anteriore al tonalismo, ha quindi reso possibile la sopravvivenza della fuga nel confuso panorama del nostro presente post-tonale; ed è stata appunto l'analogia fra questi procedimenti fugali e alcune situazioni che non sono legate alla tonalità (nel senso postrinascimentale) a determinare lo straordinario rapporto della fuga con l'evoluzione cronologica del tonalismo. Perché è un fatto che la costruzione della fuga è riuscita in larga parte a resistere alle preoccupazioni armoniche delle varie generazioni, e soprattutto di quelle non contraddistinte da tenaci orientamenti contrappuntistici. Le fughe composte nei periodi in cui l'interesse per l'integrità della struttura lineare era considerato fuori moda respingevano spesso ogni facile conferma armonica che rivelasse una loro chiara dipendenza dalle convenzioni dell'epoca. Ciò spiega in parte perché basta un lievissimo cedimento del giudizio analitico per attribuire una fuga di Mozart a Brahms, una fuga di Mendelssohn a Mjaskovskij o anche, come insinuava malignamente Joseph de Marliave, una fuga di Beethoven al diavolo. Perfino nel mio piccolo lavoro l'aderenza armonica attinge a una vastissima riserva di rimandi stilistici. L'effetto armonico complessivo (vale a dire il rapporto predominante fra dissonanza e consonanza) è decisamente mendelssohniano: il pezzo manifesta anzi quel genere di cromatismo risonante ma squisito che, derivato da Mendelssohn, sarebbe penetrato nel teatro lirico con Humperdinck e Saint-Saens, nelle tribune del coro, con Sir John Stainer e Sir Arthur Sullivan e nelle sale da concerto con Anton Rubinstein, diventando così per un certo periodo il bagaglio di componenti armoniche più diffuso di tutto l'Ottocento. Se si potesse però applicare a questa fuga l'equivalente musicale del rallentatore, vi si noterebbero parecchi altri momenti densi di significative allusioni stilistiche: l'esposizione iniziale, ad esempio, è decisamente bachiana con le sue propulsive dissonanze a cavallo della barra e la sua concentrazione di disegni in imitazione nei punti in cui le principali idee tematiche sono decadute a transizioni o a divertimenti. Nelle ultime battute prima della coda, invece, tutti i cantanti si lanciano in un febbrile contrasto tematico che sottolinea l'irritazione del soprano e il suo grido: «Write us a fugue that we can sing, come along now!» («Scriveteci una fuga che noi possiamo cantare, avanti, forza!»). Se non fosse per il testo, assai poco hofmannsthaliano, queste frenetiche battute sembrerebbero prese di peso da una pagina discretamente flamboyante di Richard Strauss.
Per individuare una delle cause che rendono più difficile l'analisi dell'ambiente armonico della fuga basta paragonare quest'ultima con una creatura di tutt'altra specie: la sinfonia classica. Nella fuga il problema della forma assume aspetti molto più soggettivi che nella sinfonia, e la disposizione delle piattaforme armoniche modulanti non dipende in genere da criteri o norme di sviluppo ben definiti. E' vero che nella fuga il materiale del soggetto può, e anzi deve, comparire in sequenze dove i fulcri armonici sono in netto contrasto: tali regioni armoniche sono però raramente governate da regole categoriche come quelle della contrapposizione tonica-dominante o maschile-femminile della sinfonia classica, contrapposizioni che si prestano assai bene a condensare i problemi strutturali di tale forma entro le principali considerazioni armoniche del tardo Settecento o del primo Ottocento. Si può notare che il formalismo predominante della sinfonia classica è improntato sempre più spesso a tattiche che potremmo definire dilatorie e all'aspirazione a creare ampi passaggi colleganti isole di contrasto e temperamento, isole che rivelano una autosufficienza quasi completa. La scrittura della fuga, invece, tende a concentrarsi su aree di sviluppo musicale relativamente circoscritte e ad approfondire in modo estremamente soggettivo il problema del momento, cercando di ingigantirlo e di infonderlo quanto prima in ogni fibra dell'opera. Notiamo così che la fuga non si interessa troppo di quelle vaste conflittualità drammatiche o di quei complessi spostamenti di trama o di dinamica che rendono tanto esplicita la struttura della sinfonia classica; suo scopo è invece agire su un certo numero di disegni lineari semiautonomi con l'intento di mantenerli a una densità più o meno costante. In questi disegni la varietà della trama musicale è creata da un senso di pausa pregnante ora in questa ora in quella voce, e non, come nella sinfonia classica, da svolte del tutto imprevedibili, da interruzioni brusche e teatrali o dall'ossessiva presenza di un residuo tematico irrisolto.
L'idea cui più palesemente obbedisce la fuga è quella del movimento incessante: è questa concezione non statica a fare della struttura fugale il veicolo ideale dell'ardito e soggettivo percorso armonico dell'arte barocca. Tale idea, perdurando in epoche successive, contribuisce a spiegarci la straordinaria continuità storica della pratica fugale. Ciò che determina in realtà la forma della fuga è appunto la fusione del principio del movimento incessante con l'idea della densità costante, cui ho già fatto cenno. Nell'ambito di questo moto in avanti e di questa densità costante, infatti, ogni espressione e ogni frase musicale manifesterà un suo particolare problema e un suo personale motivo di ansia, che ammetteranno ciascuno un ventaglio di soluzioni più o meno efficaci e saranno logicamente collegabili alle principali proposte tematiche del brano. Gli episodi derivanti da tali soluzioni riveleranno necessariamente la presenza di una certa tecnica di sviluppo; ma anche qui noteremo che lo sviluppo della fuga è diverso da quello delle grandi forme cicliche, in quanto evita i forti contrasti tra l'accumularsi della tensione (evocato dalla modulazione) e il suo smorzarsi (espresso dalle transizioni) che s'incontrano, ad esempio, nella sonata beethoveniana. Nella fuga, invece, gli episodi dovranno dare un proprio contributo all'idea tematica che è alla base della struttura fugale e dovranno inoltre intrecciare il materiale del soggetto originale con disegni tematici secondari, intessendo trame musicali che, se la fuga è costruita a regola d'arte, non si ripresenteranno più in un rapporto identico. L'ideale della fuga è, in altre parole, creare un effetto di variazione costante, ma di un tipo particolarmente errabondo, e tale da dare l'impressione che gli spunti tematici che si incontrano nella fuga appartengano a un repertorio di idee musicali caratteristico di tale genere, e possano implicare, obbedendo a certe loro modalità matematiche spietatamente egocentriche, una grande varietà di scelte contrappuntistiche.
In So You Want to Write a Fugue? tanto il soggetto iniziale quanto la maggior parte del materiale secondario («But never be clever for the sake of being clever») sono stati concepiti come linee tematiche relativamente semplici. Se vengono analizzati separatamente non richiedono alcuna serie di progressioni armoniche, e anzi, non cedendo a disdicevoli tentazioni cromatiche, riescono a superare insieme una quantità di cambiamenti metrici e di trasposizioni (naturalmente relative alla distanza fondamentale che li separa). Per comporre questo pezzo ero partito dall'idea che i punti chiave della sua struttura dovevano collimare coi momenti in cui avrei potuto variare per la prima volta in modo apprezzabile la disposizione di tali temi. La struttura della fuga risponde quasi sempre a considerazioni soggettive di questo genere: nel Clavicembalo ben temperato, ad esempio, numerosissime fughe scelgono come momento di massima tensione quello in cui il soggetto principale compare per la prima volta in forma inversa in una delle voci. Il presupposto del contrappunto, più evidente in Bach che in qualunque altro compositore, è la capacità di concepire a priori idee melodiche che, anche se trasposte, invertite, retrogradate o trasformate sul piano ritmico, presentano sempre, in unione col materiale tematico originale, un profilo del tutto nuovo ma perfettamente armonioso.
E' questa passione per la sperimentazione tematica ad unire tutti i professionisti della fuga in una confraternita spirituale autentica anche se non organizzata. Fra i suoi membri vi sono gli spiriti scettici che si sentono a disagio senza l'appoggio di una disciplina in qualche misura suscettibile di prova. Molti sono compositori che non amano troppo l'immagine dell'artista con gli occhi rivolti alle stelle, in attesa che una rapinosa ispirazione s'impadronisca di lui e gli detti la forma e il contenuto di una nuova opera. Se vivono in epoche in cui questa immagine romantica viene esaltata come elemento essenziale della personalità artistica (cosa senz'altro assai frequente alla fine del secolo scorso), questi poveri e innocui disadattati (fra cui si possono annoverare compositori come Reger o Mjaskovskij) trovano nella fuga un provvido riparo dalle imperiosità della moda. In questa forma essi si sottomettono a una disciplina dove ogni decisione esige quell'analisi puntigliosa che esclude ogni e qualsiasi altra preoccupazione. Alla nostra confraternita appartengono poi coloro che, pur vivendo in un'epoca ostile ai dogmi del contrappunto, ritornano alla fuga per vie tutte personali (il caso più tipico è forse quello di Beethoven) saldando intimamente i suoi principi ai criteri strutturali di altre forme. Di essa fanno parte, infine, quei fortunati che sono nati per la fuga, i cui ragionamenti musicali hanno sempre inizio come dialogo contrappuntistico: costoro, grazie a una perenne dedizione alla ricerca soggettiva della forma riescono, come accadde a Bach, a sfidare vittoriosamente la tirannia di una cronologia storicamente ostile.
Ora che il sistema tonale e i suoi principi informatori sono caduti vittime di un ideale che non contempla orientamenti armonici, è divenuto assai difficile ipotizzare le future metamorfosi della fuga, o la sua stessa sopravvivenza. Sebbene compositori del calibro di Paul Hindemith abbiano dedicato la vita a coltivare gli antichi valori lineari entro prospettive tonali arditamente modificate, non è facile dire se ciò rappresenti qualcosa di più di un semplice aspetto del rigoglioso revival barocco dei nostri giorni. La persistenza della fuga attraverso i secoli ci induce tuttavia a pensare che i suoi fondamenti non siano meno durevoli di tutti gli altri principi propri dell'ancor giovane arte della musica. Pensiamo al profondo fascino di questa forma che racchiude una mistica dei numeri ricca di allettanti segreti. Pensiamo all'enorme soddisfazione, per il compositore, di lavorare su una forma musicale in cui la forma stessa diventa ancella di un'idea personalissima delle relazioni tematiche. Al di là di queste considerazioni, poi, vi è forse il fatto che la fuga suscita l'ancestrale curiosità di scoprire nel rapporto tra esposizione e risposta, tra sfida e reazione, tra richiamo ed eco, il segreto di quegli spazi silenziosi e deserti che contengono la chiave del destino umano ma che preesistono ad ogni ricordo della sua fantasia creatrice.
Via via che le altre voci 'rispondono', e cioè ripetono la melodia in successione ascendente (tenore, contralto e soprano), nasce una discussione sulle qualità richieste da questo tipo di scrittura. Il basso comincia col dire che ci vuole una certa dose di coraggio: «You've got the nerve to write a fugue, so go ahead» («Se hai il fegato di scrivere una fuga, fai pure»). Il tenore pensa all'impiego del prodotto finito: «So go ahead and write a fugue that we can sing» («Fai pure, ma scrivi una fuga che noi possiamo cantare»), mentre il contralto, pur tenendo un'ineccepibile condotta contrappuntistica, caldeggia un metodo audacemente antiaccademico: «Pay no mind to what we've told you, give no heed to what we've told you, just forget all that we've told you and the theory that you've read» («Non badare a quello che ti abbiamo detto, non pensare a quello che ti abbiamo detto, scordati quello che ti abbiamo detto e le teorie che hai letto»). Dello stesso parere è il soprano, pur mantenendosi altrettanto ligio, almeno in questo punto, alle buone norme della fuga. L'incoraggiamento «Pay no mind, give no heed» e via dicendo costituisce il controsoggetto del tema fondamentale, «So you want to write a fugue?», che si ripresenta ora in varie tonalità per sottolineare un altro consiglio: «For the only way to write one is to plunge right in and write one, just ignore the rules and write one, have a try» («L'unico modo di scriverla è saltare il fosso e scrivere: lascia perdere le regole e scrivi, forza, provaci!»). Il tono euforico di un'esortazione così esplicita viene poi timidamente riecheggiato dalla struttura musicale; i cantanti, le cui parti si accavallano sempre più, si addentrano in una pericolosa serie di stretti in imitazione, dove la spietata mano della giustizia accademica finisce col privarli di ogni libertà. Mentre inneggiano al santo patrono della fuga - «The fun of it will get you, and the joy of it will fetch you, you'll decide that John Sebastian must have been a very personable guy» («Ci proverai gusto, ti entusiasmerai e proclamerai che Giovanni Sebastiano era proprio un tipo in gamba») - il basso e il tenore rinunciano ad ogni dignità e autonomia per darsi a vane orge di quinte parallele, sacrilega pratica contrappuntistica condannata da ogni abbecedario musicale. In segno di omaggio (e anche di richiamo alla moderazione) il quartetto d'archi esegue ora un quodlibet costituito da quattro dei più famosi temi bachiani (fra i quali riconoscerete il Secondo concerto brandeburghese), seguendo poi opportunamente il contralto in una breve predica sui pericoli dell'esibizionismo: «But never be clever for the sake of being clever» («Ma bada di evitare ogni sfoggio di bravura»). Questa frase, insieme all'ammonimento che la segue - «For a canon in inversion is a dangerous diversion and a bit of augmentation is a serious temptation» («Perché un canone in inversione è una rischiosa digressione ed un po' d'aumentazione è una grave tentazione») - introduce un materiale tematico del tutto nuovo. A questo punto il quartetto d'archi presenta una citazione solenne (sebbene inflessa in minore) dei Meistersinger - classico esempio di bravura musicale dopo la quale tutti quanti s'immergono in un'esultante ripresa. Il basso e il tenore riprendono il materiale tematico di «So you want to write a fugue?» cui il soprano e il contralto adattano il controsoggetto appena presentato («But never be clever for the sake of being clever»), mentre gli archi proseguono il loro ininterrotto dialogo a base di frammenti baroccheggianti.
Prima di esaminare alcuni fra i più importanti aspetti dell'attività fugale dei nostri interpreti, è necessario aprire una parentesi sulla terminologia. In queste pagine uso senza definirli vari termini indispensabili per l'analisi della fuga, come «esposizione», «sviluppo», «ripresa», «soggetto», «risposta» e via dicendo. Non li definisco perché il loro significato è evidente per chiunque s'interessi anche superficialmente di forme musicali. Altri termini, oltre a figurare da tre secoli nei manuali scolastici di contrappunto, sono argomento di voci importanti in tutti i buoni dizionari.
Via via che si addentra nelle selve semantiche del ventesimo secolo, però, la fuga diviene sempre più spesso oggetto di analisi verbali molto più lambiccate di quelle consentite dai termini semplici e comprensibili sopra citati. Sentirete dire, ad esempio, che essa non è una «cosa» ma un «procedimento», e perfino che non è una «forma» ma una «struttura». E se userete a questo proposito parole come «melodia» o «aria», vi attirerete i fulmini del Ministero dei Lavori Fugali. E' vero che questi termini possono prestarsi a equivoci; in casi normali (Yankee Doodle, tanto per fare un esempio), l'aria o la melodia sono cose esplicite, complete e autosufficienti, provviste di un principio, di una metà e di una fine. La fuga, invece, non può e non deve utilizzare melodie del genere, pena il bloccarsi di colpo; deve usare, spesso di soppiatto, frammenti melodici sempre mutevoli, che, come «arie», restano perennemente incompiuti. E che dire, passando a un argomento attuale e ancora più controverso, delle fughe contemporanee, spuntate nello sterminato deserto armonico dove la vecchia tonalità è svanita ma viene ancora vagamente ricordata, persino da chi la sconfessa? In questo caso occorre agire con cautela: ricorreremo quindi a termini più astratti ma più sicuri, come «materiale motivico» invece di «melodie», «elementi lineari» invece di «arie» e anche «tonalità non orientata» invece della nuda e cruda «atonalità» che era in voga fino a dieci anni or sono. Tutte queste precauzioni verbali rischiano anch'esse, se usate senza cautela, di dar luogo a un vero e proprio gergo, a un linguaggio astruso ed ermetico di scarso uso anche per gli specialisti. Ma il clima intellettuale della nostra epoca è tale che dobbiamo correre questo rischio, anche se c'è da giurare che tra un momento ci troveremo fra capo e collo il termine «aleatorio»...
Tornando ai nostri interpreti, notiamo che il risultato finale delle loro fatiche (a parte le irriverenti citazioni da Bach e Wagner) è in sostanza un tipico prodotto della tradizione fugale accademica. Nell'esposizione, nei passaggi modulanti, nell'introduzione del controsoggetto e nella sovrapposizione di tali elementi nell'ambito della ripresa il brano segue sempre scrupolosamente il protocollo della tradizione fugale. A questa tradizione, frutto di molti secoli di normativa contrappuntistica, ci si deve assolutamente attenere se si vuole scrivere una fuga. Anche quando il testo canzonava maliziosamente le regole del contrappunto libresco, la musica si rifugiava sotto il manto della sacramentale procedura accademica, il quale, pur macchiato e logorato dalle banali ingiurie di varie generazioni, è ancora aperto ad abbracciare una straordinaria varietà di pratiche musicali. Le fughe sopravvivono persino in questa nostra epoca strenuamente antiaccademica, suonate a pieni polmoni da orchestrine jazz, improvvisate o imbastite secondo i principi dell'alea, o addirittura sperimentate entro la tonalità non orientata della scrittura seriale. In tutti questi contesti inediti la fuga diventa ovviamente una specie di contraddizione in termini, in quanto il metodo costruttivo che le è peculiare è strettamente legato a quel sistema tonale che sembra ora in via di disgregazione. Il fatto che essa continui a esistere dimostra tuttavia che certi procedimenti tipici della sua struttura - soggetto e risposta, esposizione e svolgimento - sono radicati nella coscienza dell'uomo moderno, sotto l'aspetto acustico come sotto quello psicologico. Sebbene la loro simmetria, la loro gravità e in un certo senso il loro equilibrio siano dovuti a considerazioni tonali, tali procedimenti sono sopravvissuti, come elementi di un valido metodo costruttivo, al definitivo tramonto di queste considerazioni. Forse tale sopravvivenza è dovuta soprattutto al fatto che essi non sono connaturati al sistema tonale. Tutti i princopi della fuga (tranne quello della gravitazione verticale della tonalità e del contrasto fra tonalità) furono formulati all'inizio del Rinascimento, vale a dire prima che venisse articolata la grammatica tonale basata sulla tensione e sul rilassamento; la loro prossimità all'equilibrio e alla serenità dell'armonia centrifuga, le trame avvolgenti della struttura cadenzale sembrano in gran parte dovute a un loro volontario sincronismo.
L'antica esperienza degli antecedenti lineari, anteriore al tonalismo, ha quindi reso possibile la sopravvivenza della fuga nel confuso panorama del nostro presente post-tonale; ed è stata appunto l'analogia fra questi procedimenti fugali e alcune situazioni che non sono legate alla tonalità (nel senso postrinascimentale) a determinare lo straordinario rapporto della fuga con l'evoluzione cronologica del tonalismo. Perché è un fatto che la costruzione della fuga è riuscita in larga parte a resistere alle preoccupazioni armoniche delle varie generazioni, e soprattutto di quelle non contraddistinte da tenaci orientamenti contrappuntistici. Le fughe composte nei periodi in cui l'interesse per l'integrità della struttura lineare era considerato fuori moda respingevano spesso ogni facile conferma armonica che rivelasse una loro chiara dipendenza dalle convenzioni dell'epoca. Ciò spiega in parte perché basta un lievissimo cedimento del giudizio analitico per attribuire una fuga di Mozart a Brahms, una fuga di Mendelssohn a Mjaskovskij o anche, come insinuava malignamente Joseph de Marliave, una fuga di Beethoven al diavolo. Perfino nel mio piccolo lavoro l'aderenza armonica attinge a una vastissima riserva di rimandi stilistici. L'effetto armonico complessivo (vale a dire il rapporto predominante fra dissonanza e consonanza) è decisamente mendelssohniano: il pezzo manifesta anzi quel genere di cromatismo risonante ma squisito che, derivato da Mendelssohn, sarebbe penetrato nel teatro lirico con Humperdinck e Saint-Saens, nelle tribune del coro, con Sir John Stainer e Sir Arthur Sullivan e nelle sale da concerto con Anton Rubinstein, diventando così per un certo periodo il bagaglio di componenti armoniche più diffuso di tutto l'Ottocento. Se si potesse però applicare a questa fuga l'equivalente musicale del rallentatore, vi si noterebbero parecchi altri momenti densi di significative allusioni stilistiche: l'esposizione iniziale, ad esempio, è decisamente bachiana con le sue propulsive dissonanze a cavallo della barra e la sua concentrazione di disegni in imitazione nei punti in cui le principali idee tematiche sono decadute a transizioni o a divertimenti. Nelle ultime battute prima della coda, invece, tutti i cantanti si lanciano in un febbrile contrasto tematico che sottolinea l'irritazione del soprano e il suo grido: «Write us a fugue that we can sing, come along now!» («Scriveteci una fuga che noi possiamo cantare, avanti, forza!»). Se non fosse per il testo, assai poco hofmannsthaliano, queste frenetiche battute sembrerebbero prese di peso da una pagina discretamente flamboyante di Richard Strauss.
Per individuare una delle cause che rendono più difficile l'analisi dell'ambiente armonico della fuga basta paragonare quest'ultima con una creatura di tutt'altra specie: la sinfonia classica. Nella fuga il problema della forma assume aspetti molto più soggettivi che nella sinfonia, e la disposizione delle piattaforme armoniche modulanti non dipende in genere da criteri o norme di sviluppo ben definiti. E' vero che nella fuga il materiale del soggetto può, e anzi deve, comparire in sequenze dove i fulcri armonici sono in netto contrasto: tali regioni armoniche sono però raramente governate da regole categoriche come quelle della contrapposizione tonica-dominante o maschile-femminile della sinfonia classica, contrapposizioni che si prestano assai bene a condensare i problemi strutturali di tale forma entro le principali considerazioni armoniche del tardo Settecento o del primo Ottocento. Si può notare che il formalismo predominante della sinfonia classica è improntato sempre più spesso a tattiche che potremmo definire dilatorie e all'aspirazione a creare ampi passaggi colleganti isole di contrasto e temperamento, isole che rivelano una autosufficienza quasi completa. La scrittura della fuga, invece, tende a concentrarsi su aree di sviluppo musicale relativamente circoscritte e ad approfondire in modo estremamente soggettivo il problema del momento, cercando di ingigantirlo e di infonderlo quanto prima in ogni fibra dell'opera. Notiamo così che la fuga non si interessa troppo di quelle vaste conflittualità drammatiche o di quei complessi spostamenti di trama o di dinamica che rendono tanto esplicita la struttura della sinfonia classica; suo scopo è invece agire su un certo numero di disegni lineari semiautonomi con l'intento di mantenerli a una densità più o meno costante. In questi disegni la varietà della trama musicale è creata da un senso di pausa pregnante ora in questa ora in quella voce, e non, come nella sinfonia classica, da svolte del tutto imprevedibili, da interruzioni brusche e teatrali o dall'ossessiva presenza di un residuo tematico irrisolto.
L'idea cui più palesemente obbedisce la fuga è quella del movimento incessante: è questa concezione non statica a fare della struttura fugale il veicolo ideale dell'ardito e soggettivo percorso armonico dell'arte barocca. Tale idea, perdurando in epoche successive, contribuisce a spiegarci la straordinaria continuità storica della pratica fugale. Ciò che determina in realtà la forma della fuga è appunto la fusione del principio del movimento incessante con l'idea della densità costante, cui ho già fatto cenno. Nell'ambito di questo moto in avanti e di questa densità costante, infatti, ogni espressione e ogni frase musicale manifesterà un suo particolare problema e un suo personale motivo di ansia, che ammetteranno ciascuno un ventaglio di soluzioni più o meno efficaci e saranno logicamente collegabili alle principali proposte tematiche del brano. Gli episodi derivanti da tali soluzioni riveleranno necessariamente la presenza di una certa tecnica di sviluppo; ma anche qui noteremo che lo sviluppo della fuga è diverso da quello delle grandi forme cicliche, in quanto evita i forti contrasti tra l'accumularsi della tensione (evocato dalla modulazione) e il suo smorzarsi (espresso dalle transizioni) che s'incontrano, ad esempio, nella sonata beethoveniana. Nella fuga, invece, gli episodi dovranno dare un proprio contributo all'idea tematica che è alla base della struttura fugale e dovranno inoltre intrecciare il materiale del soggetto originale con disegni tematici secondari, intessendo trame musicali che, se la fuga è costruita a regola d'arte, non si ripresenteranno più in un rapporto identico. L'ideale della fuga è, in altre parole, creare un effetto di variazione costante, ma di un tipo particolarmente errabondo, e tale da dare l'impressione che gli spunti tematici che si incontrano nella fuga appartengano a un repertorio di idee musicali caratteristico di tale genere, e possano implicare, obbedendo a certe loro modalità matematiche spietatamente egocentriche, una grande varietà di scelte contrappuntistiche.
In So You Want to Write a Fugue? tanto il soggetto iniziale quanto la maggior parte del materiale secondario («But never be clever for the sake of being clever») sono stati concepiti come linee tematiche relativamente semplici. Se vengono analizzati separatamente non richiedono alcuna serie di progressioni armoniche, e anzi, non cedendo a disdicevoli tentazioni cromatiche, riescono a superare insieme una quantità di cambiamenti metrici e di trasposizioni (naturalmente relative alla distanza fondamentale che li separa). Per comporre questo pezzo ero partito dall'idea che i punti chiave della sua struttura dovevano collimare coi momenti in cui avrei potuto variare per la prima volta in modo apprezzabile la disposizione di tali temi. La struttura della fuga risponde quasi sempre a considerazioni soggettive di questo genere: nel Clavicembalo ben temperato, ad esempio, numerosissime fughe scelgono come momento di massima tensione quello in cui il soggetto principale compare per la prima volta in forma inversa in una delle voci. Il presupposto del contrappunto, più evidente in Bach che in qualunque altro compositore, è la capacità di concepire a priori idee melodiche che, anche se trasposte, invertite, retrogradate o trasformate sul piano ritmico, presentano sempre, in unione col materiale tematico originale, un profilo del tutto nuovo ma perfettamente armonioso.
E' questa passione per la sperimentazione tematica ad unire tutti i professionisti della fuga in una confraternita spirituale autentica anche se non organizzata. Fra i suoi membri vi sono gli spiriti scettici che si sentono a disagio senza l'appoggio di una disciplina in qualche misura suscettibile di prova. Molti sono compositori che non amano troppo l'immagine dell'artista con gli occhi rivolti alle stelle, in attesa che una rapinosa ispirazione s'impadronisca di lui e gli detti la forma e il contenuto di una nuova opera. Se vivono in epoche in cui questa immagine romantica viene esaltata come elemento essenziale della personalità artistica (cosa senz'altro assai frequente alla fine del secolo scorso), questi poveri e innocui disadattati (fra cui si possono annoverare compositori come Reger o Mjaskovskij) trovano nella fuga un provvido riparo dalle imperiosità della moda. In questa forma essi si sottomettono a una disciplina dove ogni decisione esige quell'analisi puntigliosa che esclude ogni e qualsiasi altra preoccupazione. Alla nostra confraternita appartengono poi coloro che, pur vivendo in un'epoca ostile ai dogmi del contrappunto, ritornano alla fuga per vie tutte personali (il caso più tipico è forse quello di Beethoven) saldando intimamente i suoi principi ai criteri strutturali di altre forme. Di essa fanno parte, infine, quei fortunati che sono nati per la fuga, i cui ragionamenti musicali hanno sempre inizio come dialogo contrappuntistico: costoro, grazie a una perenne dedizione alla ricerca soggettiva della forma riescono, come accadde a Bach, a sfidare vittoriosamente la tirannia di una cronologia storicamente ostile.
Ora che il sistema tonale e i suoi principi informatori sono caduti vittime di un ideale che non contempla orientamenti armonici, è divenuto assai difficile ipotizzare le future metamorfosi della fuga, o la sua stessa sopravvivenza. Sebbene compositori del calibro di Paul Hindemith abbiano dedicato la vita a coltivare gli antichi valori lineari entro prospettive tonali arditamente modificate, non è facile dire se ciò rappresenti qualcosa di più di un semplice aspetto del rigoglioso revival barocco dei nostri giorni. La persistenza della fuga attraverso i secoli ci induce tuttavia a pensare che i suoi fondamenti non siano meno durevoli di tutti gli altri principi propri dell'ancor giovane arte della musica. Pensiamo al profondo fascino di questa forma che racchiude una mistica dei numeri ricca di allettanti segreti. Pensiamo all'enorme soddisfazione, per il compositore, di lavorare su una forma musicale in cui la forma stessa diventa ancella di un'idea personalissima delle relazioni tematiche. Al di là di queste considerazioni, poi, vi è forse il fatto che la fuga suscita l'ancestrale curiosità di scoprire nel rapporto tra esposizione e risposta, tra sfida e reazione, tra richiamo ed eco, il segreto di quegli spazi silenziosi e deserti che contengono la chiave del destino umano ma che preesistono ad ogni ricordo della sua fantasia creatrice.
Glenn Gould (tratto da "L'ala del turbine intelligente", gli Adelphi)
1 commento:
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http://benedettasaglietti.com/2013/10/22/glenn-gould-fugue-escape-radiodramas/
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