Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, settembre 30, 2005

Giacomo Andreola: …da un pezzo di legno!

Ora che mi sono tirato la zampa sui piedi (un mio conoscente dice davvero così...) non posso più tirarmi indietro, ma lo faccio con piacere sapendo di avere un uditorio interessato.
Allora: per fare un flauto ci vuole un fiore... forse è meglio partire da dove eravamo rimasti.
Legno di bosso, bello, duro, compatto, giallino, non si spacca facilmente ma a volte tende pericolosamente a curvarsi (tra gli scarti ho anche un paio di strumenti più simili a un cornetto che a un flauto). Dalle mie parti lo chiamano martèl. La pianta giovane si usa per le siepi: ha delle foglioline cuoriformi verde scuro. Per raggiungere le dimensioni richieste (10-12 cm. di diametro almeno, dal momento che si usa il quarto per costruire lo strumento) ci vogliono più di 100 anni (da qui si deduce che cresce lentissimamente, con gli anelli ravvicinatissimi, peso specifico di 1). C'è chi lo spreca per fare il manico ai coltellini. Io, con gli avanzi, mi sono ricoperto i tasti di un virginale che mi sono fatto anni fa. Si possono anche fare i pezzi degli scacchi (è stato il mio primo esercizio al tornio).
Lo si trova nei nostri boschi, nei giardini delle ville, da qualche vecchio falegname o restauratore, da qualche contadino che lo ha appena bruciato nel camino. Per vendicarmi gli dico che glielo avrei pagato 20 miloni di lire al metro cubo (è vero: fanno 20.000 lire al Kg che è il suo prezzo). Così quello non dorme per tutta la notte.
Lavorarlo è un piacere: con l'utensile affilato come dio comanda si ottiene una superficie a specchio, come lavorare il metallo. L'odore è buono, la polvere non dà troppo fastidio e non ci si sporca. Dicono che il suono degli strumenti in bosso sia il più gradevole, rotondo, ricco d’armonici, brillante ma non troppo; io credo che ci siano altri fattori che influenzano maggiormente il timbro che non il tipo di legno. Ne parleremo ancora in seguito. Con l'ebano è tutta un'altra storia: anche lui durissimo, anzi ancor più duro del bosso (peso specifico di 1,2). Lui non si storta, si crepa facilmente, invece. Durante la lavorazione basta avvicinarsi men che delicatamente con lo scalpello che quello ti si spacca con grande smacco del sottoscritto che da un'ora lo stava modellando con tanta cura. In più è come lavorare col carbon fossile: una polverina nera sottile ti si infiltra dappertutto che quando ti soffi il naso... va bèh, lasciamo perdere. Con l'ebano si ottengono strumenti certamente più stabili, dal timbro più sonoro e brillante.
Col palissandro (che ha più o meno le caratteristiche dell'ebano) occorrerebbe lavorare con la maschera a gas: la polvere che produce assomiglia al pepe e dà anche allergie. So di costruttori che non lo usano proprio per questo. Il cocobolo è simile al palissandro, ma più rossiccio. La radica di amboina (pianta asiatica) è come un grosso (mezzo metro di diametro) fungo che cresce ai piedi (o sottoterra, non so) della pianta. Io ne taglio qualche fetta che porto a casa con religiosa cura (costa più del San Daniele: 45.000 lire al Kg). Si presenta rosea, tempestata di nodini più scuri. C'è anche la radica di tuja, (più marrone - l'avrete vista in tanti rivestimenti di lusso) ma io l'ho trovata troppo porosa. La radica, non avendo venature, non è soggetta a curvature nel tempo, è leggera e facile da lavorare. Purtroppo non è molto compatta, ma a quest’inconveniente ho trovato una soluzione. Ci sono poi i legni d’alberi da frutto (melo, pero, susino) che, con l'acero, si usano prevalentemente per gli strumenti rinascimentali, che richiedono un timbro più morbido, più adatto per l'ensemble.
Adesso che ci siamo procurati la materia prima, che fare?
Direi, per prima cosa, diventare flautai. Fate così: prendete il figlio di un meccanico tornitore, e dopo la quinta elementare speditelo nella migliore scuola professionale della regione: Istituto Salesiano di Via Copernico 9 a Milano. Fategli fare due anni di lima (tutti i santi pomeriggi, 3 ore di laboratorio con la lima in mano). Esso acquisirà un'ottima manualità (oppure creperà). Dategli poi una cultura umanistica e lasciatelo scorrazzare tra vari hobbies (fotografia, scacchi, hi-fi, computers, montagna, bicicletta) e lasciate che segua la sua passione musicale andando a frequentare corsi di musica antica a Urbino finchè non impara a suonare decentemente il flauto. A questo punto sbattete bene il tutto fino ad ottenere una crema vellutata...
Fu così che otto anni fa (dopo cinque o sei anni di tentativi più o meno riusciti, prove su prove, esperimenti di tutti i tipi) decisi di lasciare l'insegnamento per dedicarmi interamente a questo lavoro. Lavoro meraviglioso, come dice l'amico Riccardo, ma irto di difficoltà. In parole povere, è necessaria una buona cultura musicale e una buona padronanza dello strumento unita ad una certa esperienza di torni, frese, e strumenti di misura. Devo sapere che per la musica francese (Hotteterre, Philidor, ecc.) è più adatto un Bressan, se non addirittura un 392. Che per Telemann, che scherza spesso con gli acuti, va meglio un Denner.
Chiedo scusa: ho fatto nomi senza le presentazioni. Per i violini abbiamo Stradivari, Amati, Guarneri; per il flauto barocco c'è Bressan, Denner, Stanesby, Steenbergen, Terton ecc. Tra i miei primi dischi c'è "Frans Brüggen spielt 17 Blockflöten", Telefunken - Das alte Werk, ora anche in CD. Con questo cofanetto di tre dischi potete vedere e sentire alcuni flauti del settecento tra i meglio conservati. Io sono partito da lì: sono rimasto affascinato dal suono del Bressan. Mi sono procurato i disegni di Morgan (il più famoso costruttore di flauti al mondo). Sono delle tavole in cui potete trovare il disegno e le misure di questi 17 flauti.
Mi ci è voluto più di un mese per decifrare quei geroglifici. Alla fine, per misere 900.000 lire sono riuscito a farmi costruire le punte speciali che avrebbero dovuto eseguire il foro che va da cima a fondo: la cameratura. A differenza dei flauti rinascimentali che sono quasi cilindrici, quelli barocchi hanno una cameratura più o meno conica, con restringimenti improvvisi, rigonfiamenti qua e là e un allargamento verso il fondo. Ma con le misure di Morgan vado sul sicuro, pensavo io. In primo luogo quelle punte non facevano nemmeno solletico al legno: scivolavano che era un piacere. Quando poi, su consiglio di un grande esperto le ho fatte molare, hanno lavorato come si deve, salvo produrre un flauto impossibile da intonare. Il grande esperto si era mangiato interi millimetri con la sua molatura, quando qui è meglio rispettare i centesimi...
Mi direte: ma perchè non sei andato a chiedere a chi i flauti li sa costruire?
Eh già, ma come si fa, andare dagli unici due costruttori italiani e dire "insegnami a rubarti il mestiere". Io non ne sono stato capace. Qualcuno la pensa diversamente, ed infatti ogni tanto mi telefona qualcuno per chiedermi se gli posso insegnare il mestiere... In mezz'ora posso dargli l'esperienza di 10 anni, evitargli milioni di spese inutili e migliaia di ore sprecate. Quanto mi devo far pagare?
Ma torniamo al nostro Bressan. In qualche modo sono riuscito a produrne alcuni, e dopo i primi, assolutamente insuonabili, ne sono venuti altri passabili. Invendibili, però. Voi sapete che per la musica barocca si adotta generalmente il LA a 415 Hz, mezzo tono sotto il LA a 440. Ebbene, questi Bressan avevano il La a 408, calantissimi se suonati con altri a 415. Avevo seguito troppo fedelmente il Bressan originale e quello era il suo diapason (piuttosto usato in Inghilterra). Erano tre, piuttosto belli e con un bel timbro scuro: sono riuscito a venderli a un americano amante dei trii di Boismortier. E' stato il mio primo successo: da allora non ho più fatto flauti a 408 e le cose sono andate meglio. Avrete quindi compreso che il primo problema è la scelta del modello da "copiare". Si va a Parigi, Brussel, Copenaghen, Berlino, Norimberga, L'Aia, Bologna e nei rispettivi musei si chiede di poter misurare gli strumenti che interessano. Nein, nein. Strumenti non toccare, si? Già pronto plan mit tutti misuraziona, si? 30 DM, bitte schön. Danke.
E voi andate a casa con tanti bei progetti che invariabilmente suoneranno col LA a 403, 398, 410, 425, 466... Allora vi mettete a studiare come fare ad alzare il diapason senza modificare il punto in cui l'onda forma i suoi nodi, e dopo qualche tentativo andato a vuoto può anche darsi che qualcosa cominci a funzionare. A questo punto avete in mano un progetto che va: si tratta "solo" di realizzarlo. Alla prossima vi racconto come costringere un pezzo di legno informe a produrre graziose note. Intanto riflettete su ciò: flautari non si diventa, si nasce. La prova? Lo dice la parola stessa: io mi chiamo Giacomino (così è scritto sulla carta d'identità e così si chiamava mio nonno) Andreola. Anagrammatori (o anagrammatisti) d'Italia, al lavoro.
Buona notte ai suonatori.

SECONDA PARTE
Voi avete mezzo tronchetto di bosso lungo 60 cm. tra le mani: imparerete presto a non lasciarvelo distrattamente cadere sui piedi. Come ho detto pesa come il piombo. Cerchiamo di indovinare se sotto quel bell'aspetto si nasconda qualche malvagissimo nodo. Non c'è niente di meglio, per rovinarsi una giornata, che lavorare per ore su un pezzo e scoprire alla fine che spunta una càmola. Una volta mi sono trovato, a pezzo quasi ultimato, a tu per tu con un chiodo! L'avevano piantato 70 anni fa (ho contato i cerchi) e altro legno gli era cresciuto sopra.
Come sapete, il flauto è costituito da tre parti che s’incastrano tra loro: la testa (con la parte terminale che si mette in bocca nomata becco), il corpo e il piede (l'equivalente della campana nei clarinetti).
Ognuna richiede diametri diversi (42 mm - 30 mm - 50 mm) per cui piange il cuore utilizzare un unico pezzo di bosso che per forza dovrà avere il diametro maggiore. C'è chi usa pezzi di legno diversi, ma io preferisco farlo tutto d'un pezzo, sia per l'estetica (si vedono le venature che continuano da cima a fondo), sia perchè, se si dovesse curvare, meglio avere un cornetto che un serpentone...
Altro rimedio allo spreco è quello di inserire avorio nei punti di maggior diametro (molti flauti d'epoca sono così). Certo che usare l'avorio (a parte ogni considerazione morale) che costa 600.000 al kg al posto del bosso che ne costa 20.000 è un po' da matti. Io ho fatto un paio di flauti utilizzando per le decorazioni l'avorio delle biglie da biliardo. Ultimamente ne ho fatto uno con avorio di mammut (è di gran moda il mammut: dicono di aver trovato un enorme cimitero di questi pachidermi sulle rive del mar Caspio). Da qualche anno adotto un altro sistema che mi sembra semplicemente perfetto: Becco e anelli in bosso, e il resto in ebano (o palissandro o radica). Il colpo d'occhio non è male ma i vantaggi sono sostanziali: là dove serve un legno che non si pieghi c'è l'ebano, mentre dove l'ebano si spaccherebbe e assorbirebbe poca umidità (nel becco), lì ti ci vado a mettere il bosso che in quei frangenti si comporta molto meglio.
Comunque siamo al primo flauto e quindi non complichiamoci l'esistenza con inserti d'avorio e non che richiedono un mucchio di lavoro extra. Tuttavia un po' d'avorio in casa è meglio tenerlo, se non altro per mettere l'anellino al portavoce, lì dietro, dove va il pollice sinistro che lavora d’unghia per far gli acuti.
Dai, riprendiamo che adesso viene il bello: tagliare un pezzo da 195 mm per la testa, uno da 250 per il corpo e uno da 106 per il piede (più o meno, s'intende! Ogni flauto ha le sue, e guai a sgarrare). Prendiamo il primo e con la pialla (se è elettrica fai prima, ma basta una distrazione che non suoni più per tutta la vita... no, forse una ventina di battute della toccata in DO BWV 564 puoi ancora farli) cerchi di dare al pezzo una parvenza di parallelepipedo a base ottagonale per rendere più spedito il lavoro al tornio.
Lo infili nel mandrino e lo riduci ad un bel cilindro. Prendi la punta del 19, la fissi alla contropunta e fai il tuo bel foro passante. Al contrario del trapano, qui è il legno che gira, mentre la punta sta ferma. Naturalmente, prima di usare questo sistema, ho bruciato un po' di punte col trapano ottenendo in più dei fori che entravano al centro e uscivano di lato. Dove andrà ad infilarsi il corpo occorrerà allargare il foro a 25 mm.
Ora, con la famosa punta speciale (uno svasatore) che segue fedelmente l'andamento dell'interno del flauto originale, correggi il foro fatto, lavorando a 50 giri minuto. C'è chi questo lavoro lo fa a mano ma io preferisco far sudare le macchine.
Avanti col corpo. Con juicio, però. Questo è più sottile e più lungo e con maggiori variazioni di diametro. Si va da 19 a 14 mm. Anche qui si può procedere in diversi modi: se si dispone delle speciali punte dette a cucchiaio si fa un unico foro del 14, al resto pensa la punta che viene guidata del foro pilota. Io, che le punte me le faccio da solo (hai voglia: 1 milione al colpo!) entro con le normali punte in decrescendo ottenendo così una cameratura scalettata. Alla fine passo la mia punta che dà la forma definitiva. Se state usando l'ebano potete gettar via il pezzo appena forato perchè vi accorgete che una paurosa crepa lo percorre da cima a fondo. Cos'è stato? Non avete visto come fumava? Bisognava procedere molto più lentamente, avanti e indietro, raffreddare la punta, usare qualche intruglio (Ho trovato un sito in cui si discute animatamente su questa questione, in inglese troppo tecnico, maledizione!).
Adesso che vi siete fatti la mano, forare il piede sarà una passeggiata: ricordarsi di allargare la sede in cui s’infilerà il corpo. Qui di solito è necessario entrare con la punta sia da nord che da sud perchè quasi tutti i flauti barocchi finiscono, come dire, a clessidra (14 - 12 - 14). Per quello là distratto, ricordo che stiamo parlando dell'interno!
Adesso, ragazzi, uscite fuori a prendervi una bella boccata d'aria, espellete la segatura dai vari orifizi, fate due flessioni perchè adesso viene il bello, uno dei momenti di maggior soddisfazione di tutto il procedimento.
Finora anche un falegname o un meccanico poteva ottenere quello che avete prodotto.
Passiamo dal tornio grosso (è un Alpin 160, 2 metri di lunghezza, 12 quintali di stazza) ad un bel tornietto silenzioso e preciso. Naturalmente vi siete già costruiti i centratori in ottone per tenere il pezzo in posizione.
Leggio ben illuminato col disegno di Morgan scala 2:1, utensili molati a dovere, calibri e matite sottomano, occhiali cappellino e mascherina (così se entra vostra figlia vi prende per un marziano) spegnere il 3° programma radio perchè la musica è finita e stan cominciando le chiacchiere, vai con Bach, concerto per 2 violini, no, l'ho appena sentito. Heinichen, concerti di Dresda, bello, allegro, via!
1500 giri al minuto, segno i punti chiave, poi si comincia. Comincio a dar forma al pezzo in modo grossolano, controllo le misure, sempre più vicino, gli scalpelli sono stati modificati in modo da facilitare l'esecuzione di certi riccioli minuti. Qualche ritocco, di nuovo controllo col calibro, il pezzo che gira sembra perfetto ma da fermo ti accorgi che qua e là va lisciato meglio. Avanti con la carta vetrata: prima con la 180, poi 320, 400, 600, 800, 1000. Adesso con una speciale spugna abrasiva che non lascia la minima riga. Hai il pezzo che ti gira in mano, riscaldato dall'attrito, e coi polpastrelli lo vai accarezzando dove il piede si piega in una dolce, elegantissima curva. La superficie comincia a risplendere e tu indugi su e giù fino a vederlo brillare nelle sue forme perfette.... L'ultimo tocco: olio di mandorle dolci con un po' d’essenza di trementina. Il legno si scurisce e manda bagliori affascinanti inebriandoti di profumo di bosco.... Aaahh!
Sei lì seduto come un cretino a rimirare la tua opera. Un'ora fa era un pezzo di legno, ora è il più bel piede di Bressan che tu abbia mai fatto. Puoi ancora sognare, puoi ancora pensare che questo diventerà il più bel flauto mai costruito, ancora niente è compromesso. Il difficile deve ancora venire, ma intanto questo piede di mirabili proporzioni è lì davanti a te nel suo splendore.

TERZA PARTE
Ci eravamo lasciati mentre me ne stavo lì imbambolato a contemplare l'opera delle mie mani: un superbo piede di Bressan (per chi si fosse accinto alla lettura solo ora, specifico trattasi di piede di flauto barocco di omonimo costruttore settecentesco e non di ballerina del “Moulin Rouge”).
L'armonia delle proporzioni, la bellezza delle curve e delle ornamentazioni ne fa di per sè un oggetto d'arte, anche se non spiccasse un solo suono.
Do' un'occhiata fuori: mia figlia di 5 anni si dondola sull'altalena appesa al caco cantando a squarciagola "il caffè della Peppina" mentre mia moglie prosegue indisturbata la lettura del suo (e mio) amatissimo Thomas Bernhard. Fosse sempre così... Ma oggi è domenica e un'impagabile vantaggio di questo lavoro è che puoi andar per funghi il martedì per poi chiuderti in laboratorio tutto il dì di festa.
Mi riscuoto: c'è ancora la testa e il corpo da fare.
Quando ero alle prime armi l'operazione di tornitura era piuttosto lunga: per rispettare il modello interrompevo continuamente il lavoro dello scalpello per misurare, attento a non superare la quota stabilita. E ogni volta dovevo attendere che il motore si fermasse. Qualche volta, per risparmiare tempo, misuravo durante la rotazione. Ho smesso da quando il calibro da 200.000 è stato proiettato sulla parete opposta fracassando una finestra.
Adesso, con l'esperienza acquisita, un'ora mi basta per la testa e altrettanto per il piede; per il corpo basta la metà. Se poi lo voglio abbellire con inserzioni in osso o avorio i tempi si raddoppiano.
A questo punto abbiamo in mano lo strumento che par quasi finito: mancano gli 8 fori per le dita e la finestrella (quel buchetto rettangolare 12 x 4 mm che sta all'uscita del canale dell'aria) e il becco è ancora tutto tondo. Invece il più e il peggio (nel senso che ogni intervento d'ora in poi potrebbe rovinare tutto) deve ancora venire.
Ah, già che ci sono preparo anche il blocco (quel cilindretto che si inserisce nel becco e che sarà di vitale importanza per il suono). Alcuni lo fanno in un pezzo solo, lavorando di scalpello o fresa. Altri lo fanno perfettamente cilindrico (tutti quelli commerciali). Io seguo il modello storico che prevede un blocco a forma di tronco di cono con un restringimento di 1 mm su 60 di lunghezza. In questo modo entra sempre alla perfezione e risulta facile estrarlo. Il legno più usato è il cedro rosso della Florida (sì che lo conoscete: quelle palline per profumare gli armadi che ora si trovano in tutti i supermercati!). Lavorarlo è un piacere per la fragranza di bosco che sprigiona. Possiede due caratteristiche che lo rendono perfetto: assorbe senza problemi tutta l'umidità che volete (e il nostro fiato ne produce a catinelle) senza per questo aumentare di volume (altrimenti spaccherebbe il becco in cui è racchiuso. Secondariamente non ammuffisce e resiste bene ai funghi. Non scherzo: c'è gente che mi rimanda lo strumento dopo qualche anno per qualche aggiustamento e lo trovo pressoché nuovo; ci sono altri che dopo i tre mesi di rodaggio me lo restituiscono per la revisione con un canale dell'aria coperto di muschi, muffe e porcherie varie. Immagino che il motivo risieda nella particolare composizione della saliva (enzimi o acidi, che ne so...).
A questo punto, preparate il camper (acqua nei serbatoi, vestiti, vettovaglie, cartine) e fatevi un giretto di tre settimane per le colline della Borgogna o lungo il Reno o a Salisburgo: è giusto il tempo che il flauto deve stare sott'olio. Non scherzo: ho un secchione pieno di olio di mandorle dolci con un 20% di essenza di trementina in cui stanno in ammollo i vari pezzi (blocco escluso!). E' un olio che potreste anche bere o friggervi le patatine (senza trementina, eh!), lo si vende in farmacia e costa un occhio della testa: 50.000 al litro. C'è chi usa l'economico olio di lino ma io non sopporto quell'odore. In entrambi i casi lo scopo è quello di impregnare a dovere il legno in modo da renderlo resistente all'umidità e ancor più compatto nella sua fibra; in più, dopo averlo ben sgocciolato e strofinato con energia, ve lo trovate già bello e finito (al massimo una finitura con cera d'api e cera carnauba), lucido ma non troppo. Questo vale per i legni duri: col melo o col pero basta molto meno, lo dico per esperienza. Avevo costruito un bel soprano, modello Van Eyck, uno strumento col quale potete suonare il repertorio rinascimentale (dalle Canzoni di Frescobaldi ai ricercari di Bassano o Virgiliano) come pure quello del primo '700 (Lavigne, ecc.): gli inglesi lo chiamano "transitional". Ebbene, dopo mesi, prendendolo in mano si aveva la sensazione di stringere una sardina appena tolta dalla scatoletta. Non ho mai potuto venderlo.
Spero che il viaggio vi abbia ritemprati, perché vi aspettano momenti di grande impegno e concentramento. Possiamo finalmente sederci (un tornitore lavora rigorosamente in piedi) per lavorare in un ambiente più raccolto e confortevole. Basta pialle sibilanti e motori rombanti: è il momento del lavoro di fino, lime, limette, raschietti e pialletti, scalpellini e coltellini. Attorno a voi flauti mezzi fatti, tabelle e disegni e l'onnipresente aroma di gemma silvestre che unito a quello del cedro e del bosso crea un mélange irresistibile. Anche l'ascolto può dirigersi su brani più tranquilli e meditativi (i tempi lenti delle sonate per violino e cembalo in cui si alternano Goebel e Gould, i Responsoria di Gesualdo o la Missa "Et ecce terrae motus" di Brumel, vedete voi).
Prendete in mano la testa (non la vostra, quella del flauto!) e segnate a matita la forma della finestrella e del labium, o ugnatura (quella rampa che termina sottile verso la finestrella e che ha il compito di mettere in vibrazione il flusso d'aria che voi gli spedite dall'altra parte del canale). Calma e sangue freddo perché adesso avete in mano uno scalpello che non perdona. E' un lavoro da fare in apnea: da un lato bisogna pur far forza per rimuovere del legno, ma dall'altra occorre frenare l'impeto per non finire con la lama che non perdona là dove un minimo segno vi costringerebbe a buttar via tutto, irrimediabilmente.
Come dio vuole il labium è fatto: Se notate bene ha una certa curvatura (quelli commerciali vanno via dritti) che corrisponderà a quella dell'uscita del canale dell'aria. In più deve essere leggermente concavo. Anche nella parte inferiore occorre asportare materiale formando le cosiddette fiamme.
Qui ci vuole un caffè! State per affrontare la lavorazione più critica e difficile di tutto lo strumento: il canale dell'aria, the windway!
Qui risiede anche la vera differenza tra il flauto dolce e il traverso e in generale rispetto a quasi tutti gli altri strumenti: differenza che ne ha anche segnato il destino. Mi spiego: mentre sul traverso (non parliamo sul violino!) il suono viene prodotto direttamente dal suonatore atteggiando le labbra in un certo modo, qui è il costruttore che lo determina quasi al 100% costringendo il fiato entro un canale che avrà la forma da lui stabilita. Naturalmente un buon esecutore riuscirà a trovare lo spazio per un suono personale ricco di sfumature, ma saranno niente rispetto a quelle che si possono ottenere da un traverso (non parliamo del violino!) E' stata quindi inevitabile la sua decadenza in un momento in cui si andavano sempre più ricercando gli "affetti" e le sfumature che, specie nella società francese, erano considerate essenziali. Aggiungete l'impossibilità di variazioni dinamiche (anche se con tecniche raffinate di digitazione si può ottenere il piano e il forte) e il suono relativamente debole che doveva cominciare a misurarsi con ambienti ed ensembles sempre più grandi e capirete perché dopo la metà del '700 non se ne sente più parlare. La riscoperta, come tutti sanno, si deve a Dolmetsch, all'inizio di questo secolo.
Torniamo al windway: questo canale (sempre che non lo si faccia dritto come nei flauti commerciali) è pressoché impossibile realizzarlo con una macchina (benché vari costruttori si siano industriati per rendere questa lavorazione così critica il più controllabile possibile) perché ha un’andamento molto variabile.
Alla partenza (da dove si soffia) è largo 13,6 mm ed ha una curvatura con raggio di 40 mm, all'uscita è 11,8 mm con raggio di curvatura di 25 mm. Non continuo ad aggiungere "circa" ma siamo d'accordo che sono misure indicative. In più, il tetto del canale non è piatto, ma presenta una concavità di qualche decimo. Vedremo poi che anche il blocco avrà la sua concavità in modo da formare un canale che longitudinalmente si presenterà con una forma simile al profilo di un'ala d’aereo. (Certo che se si potesse fare un disegnino...).
Ogni più piccolo intervento sulla forma del tetto del canale si rifletterà positivamente o negativamente sul suono. Lo stesso vale per il pavimento del canale, costituito dal blocco. Si tratta inoltre di decidere che pendenza dare a tutto il windway rispetto al labium: ci sono flauti storici con canali in salita, altri con canali in discesa, altri perfettamente in linea. Il guaio è che tutti i fattori che concorrono a formare il "voicing", l'apparato fonogeneratore, non hanno mai un valore assoluto, ma dipendono strettamente l'uno dall'altro.
C'è un magnifico volume, edito da Moeck (che è il più importante costruttore di flauti industriali), dedicato interamente ai flauti a becco olandesi del XVIII secolo. Ogni strumento è descritto, fotografato, radiografato, disegnato, misurato al centesimo di millimetro. Per dirvi il lavoro certosino che è stato compiuto: della cameratura sono riportati, a passi di 3 millimetri, i diametri sia verticali che orizzontali (questo perché col tempo qualunque tubo di legno diventa ovale); per ogni foro vengono date 4 misure, e via di questo passo. Non manca la tabella del "tuning", l'intonazione, e qui prendete un colpo, perché non ce n'è uno passabilmente intonato. Bene, ho confrontato tutte le misure dei voicing di tutti gli strumenti e morire se ce n'è qualcuna che ricorre con qualche frequenza. Neanche tra due strumenti dello stesso costruttore.
Capite quindi come in questo delicato frangente siate abbandonati a voi stessi.
Ma, direte, dopo un po' di prove verrà pure un voicing ben fatto (cioè un flauto ben sonante); lo misuro per benino e tengo quello per modello. Eh no, carini, troppo bello! Su quel dannato canale dell'aria non c'è modo di prendere tutte le misure che si vorrebbe: si lavora a mano libera e duo o tre colpi di carta vetrata in più o in meno fanno la differenza. Lì non c'è calibro digitale che tenga: occhio e orecchio sono gli unici strumenti utilizzabili. Da cui si evince che non c'è uno strumento uguale all'altro e tutti avranno una loro personalità con pregi e difetti, tanto che dopo un po' che ve lo rigirate tra le mani cominciate a sentir nascere dentro di voi un sentimento quasi paterno, e l'idea di poterlo vendere vi appare un tremendo sacrilegio.

QUARTA ED ULTIMA PARTE
Riassunto delle puntate precedenti:
- come costruire un flauto dolce barocco in Fa;
- procurarsi un tronchetto di bosso stagionatissimo senza nodi nè crepe;
- tornirlo fino ad ottenere un cilindro 50 x 5 cm.;
- sezionarlo in tre parti (testa, corpo, piede);
- forare ciascuna parte e dare a questo foro la forma della cameratura del modello;
- lavorare al tornio l'esterno;
- mettere tutto sott'olio;
- preparare il blocco;
- scavare il labium;
- scavare il canale dall'aria.
Ora io mi domando e dico, che bisogno c'era di sproloquiare per oltre 4500 parole quando con 70 si potevano dire le stesse cose... Non pensavo d’essere anche un grafomane.
A che punto eravamo arrivati l'ho appena scritto, perciò lasciamo il windway sbozzato e rivolgiamo tutte le nostre cure al blocco.
Siccome l'avevamo preparato in precedenza più lungo del necessario, infiliamolo nel becco e vediamo quanto ce ne serve. Già che ci siamo, sarebbe ora di dare al becco la sua forma di becco, segando via quello che non serve. Limiamolo in qualche maniera, tanto la rifinitura la faremo col blocco ultimato e inserito nella sua posizione definitiva.
Io sono tra quelli che preferiscono realizzare il blocco in due parti, con la piastrina che fa da pavimento al canale dell'aria incollata sopra il tondino a forma di tronco di cono.
Naturalmente occorre spianare il tondino fino a far collimare la sua superficie piatta con le pareti del canale dell'aria. (Chi ha un flauto tra le mani mi capirà al volo, gli altri ...se ne procurino subito uno).
Ora prepariamo la piastrina che deve avere la forma del canale dell'aria, in pratica un legnetto di 2 mm di spessore a forma di trapezio (60 x 14 x 12 mm). Anche qui bisogna aver pazienza: è un continuo togliere e mettere. Limare un pochino, infilarla di nuovo nella sua sede, togliere ancora un po', riprovare, buttarla via e rifarne un'altra perchè avete tolto troppo, ecc. Alla fine incollate e rimandate tutto a domani. Qui consiglierei le Musikalische Exequien di Schütz, o la Passione secondo San Marco di Keiser o se volete la Trauerkantate di Telemann, insomma un brano che non vi induca alla frettolosità, che vi dia il giusto tranquillo ritmo che occorre. Oltre tutto è l'ultima volta che potete beneficiare della musica: le prossime operazioni richiedono il silenzio.
Mentre la colla a due componenti fa presa, potete praticare i fori per le dita sul corpo e sul piede. Spero che ormai, dopo aver sacrificato una decina di corpi, non ci siano più dubbi su dove forare. Attenzione che conta anche il mezzo millimetro. Per il portavoce occorre anche preparare la sede per l'anellino d'avorio, ricordate?
Per montare lo strumento occorre rivestire le parti terminali del corpo o con del sughero o con del filo di seta incerato. Non cotone perchè con l'umidità si ritira e può anche spaccarvi il legno.
E' giunto il momento di rivolgere un'accorata preghiera al santo protettore dei liutai, perchè con quel che state per fare, potete rovinare tutto.
Cominciamo a vedere se già esce qualche suono strozzato. Si, perchè, se il blocco l'avete già portato quasi a misura, qualcosa dovrebbe pur uscire da sto’ strumento. Sìììì…, suona! Male, ma suona. Ora avete di che trastullarvi per tutta la giornata, ben che vada. Prima di tentare un suono occorre praticare due smussature (chamfer), là dove esce l'aria alla fine del canale: un po' come le nostre labbra. Sul blocco si smussa verso il basso e sul tetto verso l'alto. L'angolazione e le dimensioni di queste smussature sono fondamentali e sgarrare qui vuol dire buttar via il blocco e la testa di conserva. Anche qui serve a poco vedere come facevano i nostri antichi: chi usa un'angolazione di 45 gradi su blocco e 30 sul tetto, chi 40 e 50, chi 52 e 65, insomma, ci sono tante possibilità, ma ogni prova andata male vi costa giornate di lavoro.
Fatte le smussature, ora si tratta di levigare il blocco pochissimo alla volta, e ogni volta reinserirlo, suonare quattro note, toglierlo, levigare, rimettere, suonare, togliere, levigare, rimettere, suonare, toglier, levigare.... vi siete già stufati? Non è mestiere per voi. Questa solfa va avanti per tre o quattro giorni, intervallata da altre operazioni su altri strumenti in modo da lasciare riposare il flauto perchè suonandolo si bagna, il blocco s’inzuppa e cambia dimensioni.
Quando comincia ad avere un suono decente è ora di intonarlo come si deve. I fori praticati col trapano ci restituivano una scala calante e piuttosto stonata: ora con limette a coda di topo e con fresette da dentista dovete raschiare l'interno del foro, in modo da dare al buco una forma di tronco di cono, che si restringe verso l'esterno. Naturalmente ogni foro sarà, più o meno, scavato fino a raggiungere l'altezza voluta. Le complicazioni sono enormi: questo tubo di legno non è una canna d'organo che deve produrre una nota sola, questo deve coprire più di due ottave, e il guaio è che lo stesso foro influenza più di una nota. Che fare se il re cresce e il do# cala e il foro su cui agire è lo stesso? E' chiaro che se aggiusto il re, il do# soffrirà ancor di più, e viceversa. Allora qui bisogna intervenire sulla cameratura, allargandola in certi punti. Questo sistema funziona abbastanza bene quando sono fuori posto le ottave. Un'ottava larga o stretta si corregge piuttosto facilmente perchè intervenendo nel punto giusto la nota acuta cala e quella grave cresce (o viceversa).
Tutto questo lavoro è facilitato dall'uso di un tuner elettronico (io ne ho uno bello che riporta anche una decina di temperamenti antichi). Qui non ci sono i battimenti che nell'accordatura di un cembalo rendono del tutto superfluo lo strumento elettronico. I flauti barocchi generalmente li intono secondo il temperamento equabile, mentre quelli rinascimentali ci guadagnano col mesotonico.
Anche questa è un'operazione da compiere a più riprese: da quando avete iniziato (dal fa basso su, su, fino al sol dell'ottava superiore) lo strumento si è gradualmente riscaldato, il che si traduce in un innalzamento del diapason, cosicché alla fine le ultime note risulteranno calanti rispetto alle prime che avete intonato a freddo.
Ragazzi, quasi ci siamo! Ancora qualche aggiustamento al voicing, un'altro al tuning, ora possiamo smettere di far solo note lunghe: proviamo qualche passaggio di agilità sugli acuti (punctum dolens), ritocchiamo il blocco, proviamo l'omogeneità in tutti i settori, verifichiamo quanto resistono le note basse alla pressione, la velocità della risposta, la facilità nel prendere le note stratosferiche...
Come test in genere faccio qualche duetto con mia moglie (è una prova dell'intonazione dal vivo), poi mi suono la partita di Bach per flauto solo BWV 1013 (per traverso è in la minore, per il dritto in do minore.) Nell'Allemanda iniziale c'è di tutto: salti, acuti, note basse piene di accidenti e per finire arpeggio sull'accordo che termina sul do6 ).
Se tutto va liscio (solitamente accade il contrario per cui avanti coi ritocchi), possiamo passare alle rifiniture: diamo una bella forma al becco e passiamo la cera (una mistura di cera d'api, cera carnauba e candelilla) e diamogli un bell'aspetto setoso, lucido ma non troppo.
Vi concedo ancora qualche minuto per rigirarvi in mano la vostra opera per accarezzarla e annusarla (non ci crederete, ma uno dei fascini principali di un flauto è il suo profumo: mi sovvengono le scenette quotidiane di quando molti anni fa ad Urbino in tre amici eravamo venuti in possesso dei nostri primi flauti d'autore, dei Monin. All'inizio della lezione tiravamo fuori i flauti dalle custodie: - Mmmm, senti che roba! E senti il mio, allora! - e mi sbatteva il flauto sotto il naso. Aspira, aspira! ahhh! - Roba da cocainomani....
A questo punto, se vi chiamate Morgan, non vi resta che spedirlo al primo della lista di attesa (si favoleggia di un'attesa di sette anni!), se invece, più modestamente vi chiamate Andreola, vi dovete dar da fare. Il che significa partecipare a mostre specializzate, contattare scuole e conservatori, insegnanti e concertisti che vi possano dare buoni consigli su come migliorare i vostri strumenti.
In attesa della celebrità potete sbizzarrirvi nei più diversi progetti: flauti rinascimentali di tutte le taglie, Ganassi in do e in sol, flauti di voce, soprani e contralti barocchi a 440 e 415 e se vi siete fatti incantare dal suono degli chalumeaux nel concerto in re minore di Telemann (Archiv - Wind Concertos - Musica Antiqua Köln), potete anche provare a ricostruirne uno.
Ora che vi siete fatti un'idea di cosa sta dietro ad un flauto, capirete perché mi scoccio un po' quando dopo aver detto all'interlocutore che costruisco flauti dolci mi sento ribattere: - Ah si, i pifferi.

Giacomo Andreola, recorder maker & player (racconto scritto in forma di post nel 1998 per il newsgroup IAMC (ItArtiMusicaClassica)

Soluzione dell’anagramma
GIACOMINO ANDREOLA = A' LEGNO CI DO' ARMONIA
oppure
DICO A LEGNO: ARMONIA !
O DIO LEGNO, C'ARMONIA !
RAGIONA CON MELODIA
GODRAI AL MIO CANONE

giovedì, settembre 29, 2005

La favola della bella Melusina

Mendelssohn fu sempre attratto dal mondo fiabesco e da quello paesaggistico. Dichiarò anche spesso di non amare la musica descrittiva e di non credere, secondo le indicazioni di Goethe e di Schlegel, nella possibilità di commentare dettagliatamente un percorso poetico, uno scorcio pittorico, un contenuto programmatico. La tensione romantica verso l'unità delle arti gli fu estranea. Non per niente disprezzava Berlioz mentre Wagner, dal canto suo, lo stimò ben poco, entusiasmandosi solo per gli aspetti pittorici, quelli, ad esempio, dell'ouverture Le Ebridi, che sembravano per l'appunto smentire le affermazioni di Mendelssohn.
In effetti, anche Le Ebridi, come le Sinfonie Scozzese e Italiana o La favola della bella Melusina, pur ispirandosi talvolta a situazioni che possono in qualche modo essere rievocate dalla musica, seguono un percorso strutturale assolutamente autonomo. Le allusioni a immagini o eventi sono semplici spunti che sollecitano la fantasia di Mendelssohn ma non ne dettano le regole del gioco e non ne condizionano la scrittura. La genialità di Mendelssohn come orchestratore dà vita ad atmosfere estremamente caratterizzate, avvolte in un alone assolutamente originale, tanto che alcune sensazioni affettive o paesaggistiche non "imitano" nulla di preciso ma anzi suggeriscono in noi un'idea di quel luogo o di quel sentimento mai espressa prima. La musica, per Mendelssohn, non ha alcun oggetto, né costituisce essa stessa un oggetto, reale o logico, bensì appartiene, secondo la filosofia romantica dell'epoca, alla sfera dell'Ideale, dove è padrona incondizionata dei suoi mezzi.
L'opera di Mendelssohn percorre e ripercorre tragitti narrativi. Sono le situazioni archetipiche, i personaggi o gli spazi canonici della fiaba, del sogno, del racconto, a trovare espressione sonora. Le incantevoli pennellate timbriche ne sono la naturale conseguenza. Il Paradiso perduto dell'infanzia e della prima giovinezza, protetto da affetti, sicurezza economica, gratificazioni culturali, è perennemente vagheggiato da Mendelssohn. In tal senso si spiega anche la maggiore sperimentazione formale e timbrica della musica strumentale rispetto ai più rigorosi e "antichi" modelli della musica sacra. Sacro e profano precedono e seguono la vita dell'individuo e della storia; in questo sta la tanto sottolineata "felicità" di Mendelssohn, quella per cui Schumann disse che non poteva esserci nome di battesimo più indicato alla personalità di chi lo portava. Mendelssohm, in realtà, non fu poi così incondizionatamente felice; fu piuttosto moralmente convinto di doverlo essere, da buon protestante di origine ebrea che conosceva i suoi privilegi e riteneva doveroso ricambiarne i vantaggi con l'impegno assoluto, sociale ed esistenziale.
Il mondo di fiaba dell'ouverture La favola della bella Melusina "attraversa" la realtà senza sconfinare nell'indistinto, nella fantasia allucinatoria, ecco perché ci coinvolge e si collega al nostro universo di sogno. E la realtà, sul piano musicale, è data dall'uso cosciente di forme e di connessioni melodico-armoniche che la storia ci ha consegnato e che Mendelssohn sa modificare e forzare quel tanto che basta per suscitare sorpresa. Questo equilibrio delicato ed efficace tra forme conosciute (percorsi noti che costituiscono oggetti stabili e rassicuranti) e "aperture" verso il frammento e la sconnessione dei sogno, delimita una fascia creativa pulsante, sensibilissima, ricettiva, con una forte carica di attrazione verso i profili e le dinamiche degli accadimenti psichici.
Anche nella Favola della bella Melusina, come in altri lavori strumentali, Mendelssohn insinua impercettibili slittamenti all'interno del classico movimento di sonata, in fa mìnore, introdotto e chiuso da due episodi in fa maggiore. L'elemento dialettico, bitematico, si dilata per la presenza di una successione-giustapposizione di temi, ognuno dei quali funge quasi da leitmotiv, definendosi non tanto rispetto ad un'immagine esterna ma nel rapporto di consequenzialità fraseologica con gli altri.
La magia dell'orchestrazione gioca, come sempre in Mendelssohn, sui colori dell'armonia.
Il fa maggiore che prepara l'ambiente acquatico, con quel moto dolce e ondiforme che si espande gradualmente e che Schumann chiamò la "figura magica delle onde" verrà ripreso, in tutt'altro contesto armonico e concettuale, da Wagner, all'ìnizio dell'Oro del Reno.
Subito, però, il fa minore che segue introduce un tema inquieto su un accompagnamento marcato in suoni ribattuti. Il contrasto fra i caratteri rende la discorsività musicale estremamente dialettica, teatrale.
Mendelssohn sottopose l'ouverture La favola della bella Melusina al solito lavoro di revisione, correzione, ripensamento. Nel 1834 Moscheles eseguì a Londra la seconda versione, ma Mendelssohn volle intervenire ancora sulla partitura, l'anno successivo, prima della pubblicazione, chiedendo addirittura all'amico Klingemann di bruciare la stesura precedente perché la riteneva inattendibile e incompleta.

Lidia Bramani (Ferrara Musica, 1991)

mercoledì, settembre 28, 2005

Weber e Mahler: un caso di identificazione

L'accostamento di due musicisti come Weber e Mahler non può lasciare indifferenti: non si tratta di un incontro per una occasione di spettacolo di un giovane musicista agli inizi della sua carriera di direttore d'orchestra e di compositore, ma della rivelazione di una profonda affinità spirituale e ideologica che, nel segno di Mozart, riportava alle origini della tormentata esperienza romantica della quale Mahler doveva essere, ed era già, l'ultimo grande rappresentante. La «scoperta» dei Pinto ebbe certamente per Mahler un duplice significato. L'inconscia «identificazione», nel ricupero e nell'attualizzazione di un linguaggio che egli sentiva alle origini della propria urgenza espressiva, era il ritrovamento di quegli innere Erlebnisse che nella «reminiscenza» e nella «ripetizione» già Mahler stava profondamente vivendo come compositore.
Das klagende Lied era stato iniziato da Mahler nel 1878 e concepito come una fiaba musicale in tre parti: Waldmärchen, Der Spielmann e Hochzeitstück, terminato quindi come cantata nel 1880 e inviato al Concorso «Premio Beethoven» di Vienna, nella cui commissione si trovavano anche Brahms e Hanslick che naturalmente la fecero respingere. Nello stesso periodo Mahler era anche venuto in possesso delle vecchie poesie popolari raccolte da Arnim e Brentano, Des Knabenwunderhorn e proprio di una copia del libro che era appartenuta alla famiglia Weber; e ne aveva già musicata una. Come ha osservato Ugo Duse, «Das Klagende Lied, specie dopo la revisione del 1888, mette in evidenza con quanta filologica perizia e profondità Mahler stava allora cogliendo gli elementi anticipatori del wagnerismo in Weber e con quale attenzione percepisce i caratteri piú nuovi del «minore» Marschner».
Ora, quando nel 1887 Mahler pone mano alla ricostruzione dei Pinto, la sua personalità è ormai definita e le radici weberiane appaiono sempre più evidenti nelle sue composizioni. Ha già scritto molti Lieder per canto e pianoforte, i Lieder eines fahrenden Gesellen (1884-85) su testi propri per voce e orchestra e sta portando a termine la Prima Sinfonia Titan (1884-88) ispirata da Jean Paul.
Il secondo significato che ebbe la scoperta dei Pinto fu forse per Mahler il coronamento di una esperienza operistica che da anni perseguiva tra dubbi e pentimenti. Sin dal 1878, appena uscito dal Conservatorio, aveva iniziato la composizione di un'opera, Herzog Ernst von Schwaben su testo di Joseph Steiner (da Uffiand); poi nel 1880 aveva tracciato il piano per Die Argonauten (da Grillparzcr) e due anni dopo scriveva egli stesso il libretto di una nuova opera sulla favola popolare dei gigante Rübezahl e ne iniziava la composizione di gran parte della partitura, che piú tardi doveva distruggere: fatto significativo, anche Weber nel 1804 aveva iniziato la composizione di un Rübezahl su testo di Rhode, opera in due atti, per complessive ventisette scene (quindici per il primo e dodici per il secondo atto), undici personaggi principali e un nutrito coro di spiriti, gnomi, geni e ninfe, della quale non ci sono pervenuti che tre frammenti.
L'incontro con Weber fu dunque un momento decisivo (e il solo) per l'esperienza operistica di Mahler e l'«identificazione» fu così piena e penetrante dal rendere difficile, se non impossibile all'audizione, distinguere la mano di Mahler da quella di Weber, come vedremo nell'esame della partitura.
Dopo, Mahler rinuncerà definitivamente ad ogni progetto operistico e trasferirà nell'inneres Programm delle proprie tormentate sinfonie il «teatro», come Spiegel der Zeit, del «crepuscolo di un mondo».
Nel 1887 Mahler è assalito da sfibrante lavoro in teatro. Ammalatosi Nikisch, deve, come sostituto, portare avanti da solo tutta la stagione dello Stadt-Theater, affrontando un ciclo di opere mozartiane e l'intera Tetralogia wagneriana, mentre continua la composizione della sua Prima Sinfonia, compie la strumentazione dei Pinto in due settimane e progetta anche la Seconda Sinfonia in DO minore per soprano, contralto, coro misto e orchestra.
Cosí, nella ricostruzione mahleriana, Die drei Pintos vanno in scena il 20 gennaio 1888, sotto la direzione dello stesso Mahler e con la regia di Stägemann, ottenendo un vivo successo, talché vengono subito ripresi ad Amburgo e Dresda e, nel 1889, portati a Vienna; in seguito anche in Boemia.
Dopo il successo dei Pinto, Nikisch e Stägemann hanno dure divergenze con Mahler che, nel maggio dello stesso 1888, rompe col teatro e abbandona definitivamente Lipsia.

da "Die drei Pintos" a cura di Luigi Rognoni (Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1975)

martedì, settembre 27, 2005

Robert Schneider: Le voci del mondo

...omissis...
Intanto Goller era salito con Elias sulla cantoria. Qui gli mostrò di gran carriera le funzioni dei vari registri, aprí il libro alla pagina del corale stabilito e gli accennò appena la melodia. Quando nel duomo fu tornato il silenzio, Elias continuava a ripetersi, ormai conquistato dal testo e dalla melodia, le parole del Lied:

VIENI, MORTE, SORELLA DEL SONNO,
VIENI E PORTAMI VIA.
SCIOGLI I REMI DELLA MIA NAVICELLA,
GUIDAMI AL PORTO SICURO!
TI TEMA PUR CHI LO VUOLE,
BEN SO CHE PUOI DARMI LA GIOIA
TU SOLA PUOI PORTARMI
AL DOLCE CUORE DI GESU'

Prima di seguire Elias nel suo concerto sovrumano non vorremmo dimenticarci di Peter, seduto sotto la sporgenza della cantoria, nella parte piú soffocante della chiesa. Tiene le mani intrecciate sul grembo e sembra quasi trattenere il fiato, guardando fisso davanti a sé. E' diventato, di colpo, una figura di radiosa bellezza. 0 ci ingannano le ombre guizzanti delle candele?
I due tipi addetti al mantice si scambiavano smorfie di compassione all'indirizzo di Elias quando una raffica di note si levò fragorosa dalla parte bassa della tastiera, e con un rombo cosí perentorio che l'organo sembrò sul punto di spaccarsi in due. La raffica si interruppe, Elias prese fiato e attaccò poi un fortissimo ancora piú fragoroso, accompagnato questa volta da una linea tempestosa del pedale di basso. Dopo aver preso fiato una terza volta, ripropose ancora la figura ornamentale del basso ma su un ritmo raddoppiato, e imperversando dunque sul pedale con una rapidità disumana. La corsa sfociò su una armonizzazione straziante delle due prime battute del corale, poi la musica si interruppe di colpo e senza motivo, come se le mani gli fossero cadute dalla tastiera. Elias assaporò la tensione estrema della cesura, poi riprese la tastiera a sette voci, suonò il corale fino alla terza battuta, si interruppe, prese fiato, armonizzò in dissonanze irrisolte fino alla quarta battuta, si interruppe, prese fiato, collegò la figura di base con l'armonizzazione del corale, si interruppe, prese fiato, si interruppe di nuovo, e tutto questo per la durata di oltre cinque minuti.
Il suo intento era di mostrare che cosa significhi ribellarsi alla morte, al destino, o meglio ancora a Dio. La morte come improvviso tacere, come insopportabile pausa. Era mostrare come l'uomo umiliato ritorni a gridare le sue preghiere senza senso. Per poi lacerarsi la camicia, strapparsi i capelli e bestemmiare impazzito, ma venir pur sempre gettato a terra. Perché ogni rivolta è vana. Dio è un fanciullo malvagio senza ombelico.
I due tipi del mantice si davano un gran da fare per garantire un'alimentazione uniforme. E il sudore che gli imperlava le gote rosse come gamberi era, crediamo, un sudore di paura. Nella navata, immersa in un silenzio di tomba, accadde l'incredibile. Goller muso-di-carpa era lí con la bocca spalancata, i quattro professori, pallidi come lenzuoli, non credevano alle loro orecchie, e molti presenti, con la bocca ancora piena di pane, fissavano impietriti il prospetto delle canne in piena luce, dimenticandosi di inghiottire.
Dopo questo folle inizio, queste cascate lancinanti, la musica sembrò spegnersi, tra soprassalti di furia isolata e il fiammeggiare qua e là di armonie bizzarre, inaudite. Elias staccò una dopo l'altra le varie combinazioni di registri, i suoni si affievolirono, finché la musica parve sprofondare in una sinistra tonalità minore, a lungo ricercata e quasi irriconoscibile. Era il momento della rassegnazione senza ritorno: l'eroe giace abbattuto, la speranza è morta, la terra si fa fredda vicino a lui.
A poco a poco il pubblico stordito incominciava a capire il messaggio dell'organista. No, quello lassú non stava suonando, stava predicando. E il contenuto della predica era di una chiarezza fredda, adamantina. Per qualche istante il contadino di Eschberg era riuscito a fondere il suo pubblico in una sola anima. Regnava infatti, nel Duomo, un'atmosfera speciale e inquietante, come se tutti, giovani e vecchi, intuissero all'unisono: la morte è fra queste mura, e il sonno, il suo compagno, ti ricoprirà. Sui loro volti si leggeva a un tratto l'impronta della verità: cadute le maschere, gli sguardi irradiavano una pace numinosa, e dai loro tratti si poteva comprendere in che modo ciascuno avrebbe reagito alla voce della morte. Spettacolo disarmante!
Suonava già da piú di mezz'ora e non se ne vedeva la fine. Ma da quel caos oscuro e senza fondo emersero a poco a poco voci piú concilianti. Le melodie si susseguivano l'una all'altra, ora infine morbide e profumate come l'erba mossa dal vento di aprile. E a queste melodie ne seguirono altre, quelle di Elsbeth. E alle melodie di Elsbeth seguí la melodia del corale. Ma il corale era la morte. Ne nacque allora una danza, un effimero andirivieni di sempre nuove idee musicali. La musica cambiò in un ritmo dispari, ritornò al punto di partenza e cambiò ancora. E la leggerezza di queste voci incalzanti lasciava intendere che Elias non parlava piú di questo mondo. L'uomo era risorto dal caos, il peso della terra non lo trascinava più verso il basso.
Sebbene Goller gli avesse appena accennato le funzioni dei vari registri, Elias era già in grado di mescolarli da vero virtuoso. E come un pittore si meraviglia della ricchezza delle sfumature cromatiche offerte dalla sua tavolozza, cosí Elias si meravigliava delle possibilità di quell'organo. Se fino ad allora era rimasto come rattrappito sullo strumento, gli occhi incollati alla tastiera e al pedale, ora il suo sguardo si spianò, le membra si distesero, la schiena ritrovò la posizione naturale. L'organo sembrava suonare da solo. Aveva imparato a conoscerne i trucchi e ora poteva liberamente dispiegare le sue forze. Chiuse le palpebre, sollevò la testa e tornò in sogno a Eschberg, mentre l'organo continuava a diffondere nella navata immagini zampillanti di visionaria bellezza sonora.
La natura diventava musica. Quelle misteriose giornate di novembre, quando la nebbia andava su e giú tra la Valle del Reno e la borgata dov'era la sua casa. Nei boschi la nebbia ghiacciava, stillava aghi gelati dai rami e copriva di brina la corteccia degli abeti. Luna e sole stavano una di fronte all'altro: la luna un'ostia spezzata, il sole la guancia della madre...
I bagliori del Primo Incendio si fecero musica. I colori delle finestre della chiesa, il modo in cui presero a lampeggiare sul lato est del coro. I corpi di quelli che si spingevano fuori urlando e calpestandosi. Il podere di Nulf Alder distrutto dal fuoco. E la bambina nella stanza invasa dal fumo, nascosta sotto il letto con gli occhi spalancati e la bocca affondata nella bambola di pezza. Gli animali del bosco nella neve di gennaio. E lui a richiamarli con i suoi gorgheggi e i suoi squittii impercettibili per l'orecchio umano: ma non c'era piú nessuno fra i tronchi carbonizzati dall'incendio. E la risata atroce di Roman Lamparter, il Perlopiù...
E divenne musica anche l'evento notturno, quando si era sdraiato nell'erba nera del pascolo ancora giovane, le braccia e le gambe allargate, e le dita affondate nell'erba come per aggrapparsi a quel vasto, armonico mondo di bellezza. E ricordò le parole di quella notte, il loro ritornello «Chi ama, non dorme! chi ama, non dorme!»...
Ed Elsbeth divenne musica. Elsbeth! Il colore e l'odore dei suoi capelli biondoscuri, quel suo leggero difetto nel camminare, il timbro scuro della sua risata, gli occhi rotondi e così vivaci, il nasino a patata, la veste azzurra con il grande disegno a losanghe. La cautela con cui passava nell'erba per non calpestare le margherite. E il suo modo di accarezzare il muso di una mucca e di rivolgersi a lei, o di gettare alle scrofe le bucce di mela senza farsi vedere...
Mentre Elias trasponeva questi pensieri nella musica piú toccante che mai si fosse udita, tornò a percepire, di colpo, il battito del cuore di Elsbeth. Temette che il ritmo potesse svanire, ma il ritmo non svaní e si fuse anzi con il battito del suo cuore. E accadde che Elias amava di nuovo.
Dopo aver detto tutto quel che poteva raccontare della sua vita, fece risuonare a lungo un delicato accordo di settima. Era ora di passare alla fuga, all'apoteosi celeste, al sogno di un mondo riconciliato.
Il pubblico era sotto ipnosi. Sedeva immobile nei banchi, le palpebre senza un tremito. Il ritmo del respiro si era fatto piú lento, e il cuore batteva sulla frequenza del cuore di Elias. In seguito, nessuno seppe dire per quanto tempo Elias avesse realmente suonato. Neppure Peter: anche le sue palpebre non ebbero un tremito e un'ombra di pace accarezzò la sua mente contorta.
Il prodursi di questo singolare stato ipnotico si può spiegare soltanto con la natura della musica di Elias. Anche prima di lui c'erano stati, è ovvio, maestri in grado di amplificare con puri mezzi musicali determinati stati d'animo, ma la loro arte consisteva perlopiú nell'evocare quelle emozioni, coinvolgendo l'ascoltatore in un gioco per cosí dire di autoesaltazione consapevole.
Ora, nella lingua della musica esiste un fenomeno a tutt'oggi poco studiato: tra gli infiniti accordi possibili si danno alcune costellazioni particolari, il cui suono scatena nell'ascoltatore qualcosa che in sostanza non ha píú nulla a che fare con la musica. Già nei suoi anni giovanili Elias aveva scoperto alcune di queste combinazioni e sequenze di accordi, verificandone poi l'efficacia su se stesso e sui contadini di Eschberg. Si pensi, ad esempio, a quella domenica di Pasqua in cui era riuscito a infondere per qualche istante nei loro animi una generosità che si era espressa in una gara di cortesie reciproche. Quando Elias suonava, riusciva a scuotere l'animo umano fino alle sue corde piú abissali. Gli bastava poi trasporre quelle certe armonie in scenari musicali piú ampi e strutturati per indurre nell'ascoltatore un effetto irresistibile: si metteva a piangere senzo volerlo, e sempre senza volerlo si lasciava condurre attraverso l'angoscia di morte, la gioia infantile o i turbamenti dell'eros. Aver realizzato tutto ciò con mezzi musicali fu il merito di Johannes Elias Alder. E? vero che la sua musica attingeva al repertorio armonico tradizionale, e che la sua unica scuola erano stati i goffi corali dello zio. Ma con il passare degli anni e il progressivo sbandamento della sua anima, finí per foggiarsi un linguaggio tonale dalla forza unica, senza precedenti e mai piú eguagliato dopo di lui. Che proprio quest'uomo non abbia trascritto una sola delle sue composizioni è da annoverare tra le piú deplorevoli fatalità occorse alla musica d'Occidente.
Quando ebbe presentato il tema della fuga con l'intera serie dei principali, il terzo dei quattro professori, pallido come un cencio, saltò su gridando: - E' impossibile!! non è possibile!! - E poiché continuava a strillare fu necessario farlo sedere con la forza. Il tema della fuga era infatti di una lunghezza e di una complessità cosí enormi che il concerto sembrava assumere, là sulla cantoria, dimensioni e significati soprannaturali. Il tema riprendeva la nota principale del corale iniziale, ma con una tale sottigliezza di figurazioni e un'indole cosí sognante che una giovane donna, seduta dalla parte del Vangelo, esclamò non a torto: - Vedo il Cielo! - E il tema sembrava non voler finire, passava da una sequenza all'altra, sempre piú in alto e sempre piú impalpabile, fino a riportarsi sulla dominante dove la seconda voce lo avrebbe ripreso da capo.
Quel poco di contrappunto che Elias aveva carpito al suoi colleghi si inseriva ora senza fatica nella sua concezione musicale. Aveva imparato che il tema riaffiora in forma ciclica, e sempre a una distanza esatta dalla sua comparsa precedente. Alla serietà pedantesca dei giovani rivali egli contrapponeva una sfrenata libertà di figurazioni. Voleva disegnare un'apoteosi celeste e una scala angelica che salendo senza fine introducesse ai giardini del paradiso, là dove la luce terrena si affievolisce e lo splendore della perfezione si fa sempre piú diffuso e accecante. La fuga di Elias Alder assomigliava a un grandioso corso d'acqua che proceda sempre piú rapido e píú ampio fino a sfociare nell'eterno sconfinato mare.
Goller, che a nessun costo voleva lasciarsi ipnotizzare da quella musica (e che a tale scopo continuava a darsi pizzicotti sull'avambraccio), contò l'ottava ricomparsa del tema in un quadro contrappuntistico di ben sette voci liberamente intrecciate. E Goller maledisse il suo vecchio maestro, l'insigne cantor Rheinberger, dal quale aveva appreso un tempo che una fuga non può esporre piú di cinque voci, a meno di non confondere le singole linee vocali in un caos armonico indecifrabile. «Non eravate che un povero imbecille, maestro Rheinberger!», brontolò dentro di sé, strappandosi un pelo dai baffi arricciati.
Quando la musica raggiunse un grado di complessità estremo e la sonorità del Fortissimo ebbe toccato il parossismo, la fuga sembrò avviarsi alla fine. Ma Elias non poteva concludere. E poiché un Fortissimo ultrasonoro perde con il tempo il suo effetto monumentale, cercò di accrescere quella sensazione di radiosa sonorità trasponendo la frase in tonalità sempre piú acute e inventando accordi e combinazioni di accordi dove anche il Piano risuonava inspiegabilmente come un Forte. Giunto alle soglie dell'impossibile, lasciò crollare di colpo l'intero edificio sonoro come aveva fatto all'inizio della sua esibizione: ne risultò una cesura impressionante, come una buia voragine senza fondo destinata a inghiottire ogni cosa.
L'accordo interrotto non aveva ancora finito di risuonare che il corale "Vieni, morte, sorella del sonno" fece la sua ricomparsa. Elias, che lavorando sul pedale e sulla tastiera non era piú in grado di inserire un'ottava voce, si mise perciò a cantare. Gonfiando i polmoni quanto poteva imitò una canna d'organo da otto piedi, intrecciò la melodia, molto lenta, al gioco delle altre voci, mentre i piedi eseguivano il corale canonico in valori abbreviati e le mani ripetevano il tema della fuga con indicibile sapienza, e per ordine sia diretto che inverso.

TU SOLA PUOI PORTARMI
AL DOLCE CUORE DI GESU'

Johannes Elias Alder era come in estasi, e non altro che puro giubilo fu il luminoso, interminabile accordo maggiore con cui pose fine all'inconcepibile, inaudita improvvisazione.
Poi fu silenzio. Si udiva chiaramente solo il respiro affannoso dei due tiramantici, stremati dalla fatica. - Tutta quest'aria, - esclamò piú tardi uno di loro, - Goller non la consuma in un anno intero!
Elias restò seduto, immobile, sul suo sgabello. Poi, con la manica della camicia, si deterse il sudore dalla fronte, si lisciò i radi capelli all'indietro e levò lo sguardo verso l'abside, dove, sopra la balaustrata, c'era il pesante gruppo scultoreo delle Donne al Sepolcro. Solo allora si poté vedere fino a che punto quell'improvvisazione di oltre due ore avesse consumato la sua sostanza fisica: il viso di per sé già magro si era fatto grigio come cenere, le guance scavate, gli zigomi sporgenti, le labbra riarse. Aveva perso peso.
Fu allora che una voce maschile ruppe il silenzio spettrale del Duomo: - Vivat Alder!! - gridò la voce, e poi ancora, - Vivat Alder, vivat!!
Il grido era partito dal fondo della chiesa, press'a poco dalla parte in cui era seduto Peter. E in ogni caso il grido ebbe un tale effetto liberatorio che di colpo scoppiò un vero tumulto. Il pubblico, riscuotendosi dall'ipnosi, incominciò a rumoreggiare tra ovazioni e grida di trionfo. Tutti si alzavano, un banco dopo l'altro, volgendo gli sguardi alla cantoria per osannare il musicista-prodigio ancora invisibile. Per l'aria volavano berretti, cestini, fazzoletti variopinti, e, cosí almeno ci sembra, si videro perfino le fasce di un neonato.
- Vivat Alder!! Vivat Alder!! - gridavano gli spettatori in preda a un entusiasmo incontenibile.
Il vicario generale saltò su dal suo scranno istoriato, arrancò ancora stordito sull'ambone, levò le braccia sul popolo giubilante e cercò di riportare il silenzio.
- Onorevole pubblico - gridò senza che nessuno lo udisse - in nome di Dio! Questo è un luogo sacro!
Ma il tumulto non fece che rinforzare perché tutti con l'eccezione di Peter Paul Battlog e della sua congrega - uscivano dai propri banchi in preda a un entusiasmo incontenibile. Con voce allarmata il vicario ordinò di spalancare tutte le porte del duomo per far fronte a un'eventuale ressa, ma nessuno voleva uscire dal duomo prima di aver visto con i propri occhi l'uomo-prodigio.
- Vivat Alder!! Vivat, Vivat!! - scandiva ora la folla, tutta rivolta alla cantoria.
E infine l'organista si affacciò, e la luce che illuminava la balconata dal basso fece apparire il suo volto ancora piú spettrale. Si levò un grido corale punteggiato di «Ah!» e di «Oh!» e si sentirono piangere donne e bambini. Poi le ovazioni ripresero, travolgenti, e i volti di tutti risplendevano nella stessa radiosa tonalità maggiore su cui Elias aveva terminato il suo brano. Si teneva al cornicione della balconata, e nessuno si accorse che stava piangendo, dalla gioia e dallo sfinimento. 0 piangeva invece per la decisione incredibile che aveva preso mentre suonava?
Scese in mezzo alla folla che lo scortò in due ali osannanti. Una dama d'alto rango gli fece scivolare una manciata di fragole nello spacco della camicia madida di sudore, altri gli infilavano monetine nelle tasche del vestito, gli davano di nascosto delle banconote. Quando fu passato, inchinandosi come i suoi predecessori, davanti alla giuria dei quattro professori pallidi come cenci, il tumulto a poco a poco si placò.
Il vicario generale stava per rimettere sul dorso il libro dei corali e iniziare cosí la cerimonia per l'ultimo allievo, ma il pubblicò gridò con una sola voce:
- Il vincitore è lui!!! La Lira a Elias Alder!!!
E scandiva il suo nome in modo cosí perentorio che il vicario generale scese rassegnato dall'ambone e si ritirò in sacrestia con Goller e i professori per un consulto. Ma il consulto fu breve. Goller ce la mise tutta a convincere i signori che quell'Alder aveva improvvisato troppo a lungo, che il suo pezzo non era l'elaborazione di un corale e nemmeno un preludio, e tantomeno, per Santa Cecilia!, una fuga alla maniera antica, e che insomma l'organista aveva messo insieme una debordante sinfonia senza alcun rispetto per le forme canoniche: per quanto Goller insistesse sulla mostruosità dell'esibizione di Elias, gli sguardi raggianti ed entusiasti dei quattro professori avevano già pronunciato la sentenza.

...omissis...

da "Le voci del mondo" di Robert Schneider (Einaudi, 1994)

lunedì, settembre 26, 2005

Novalis: La Musica

Ogni malattia è un problema musicale, la guarigione una soluzione musicale. Quanto più breve, e tuttavia più perfetta la soluzione, tanto maggiore è l'ingegno musicale del medico.
Le malattie permettono svariati scioglimenti. La scelta dei più adatti al fine, determina l'ingegno del medico.
La speculazione intorno al mondo comincia nell'infinito assoluto soprano, nel centro, e scende giù la scala: la speculazione sul nostro io comincia con il basso infinito assoluto, con la periferia, e sale su la scala. L'assoluta riunione del basso e del soprano dà la diastole e la sistole della vita divina.
Ogni frase generale indeterminata ha qualcosa di musicale. Essa suscita fantasie filosofiche, senza esprimere alcun preciso corso di pensieri filosofici, alcuna idea filosofica intellettuale.
La musica ha molta somiglianza con l'algebra.
 
da "Frammenti" di Friedrich von Hardenberg (Novalis)

Le Cantate: l'opera centrale di Bach

Nikolaus Harnoncourt
In Bach non è possibile distinguere fra «composizioni di circostanza» o «lavori su commissione» e quelle che gli stavano a cuore. Da questo punto di vista, le sue cantate eguagliano le sue composizioni più celebri- la Passione secondo Matteo, per restare nell'ambito della musica vocale religiosa. Ancora non ho avuto l'impressione che Bach abbia mai lavorato in modo meccanico, che si sia ripetuto nelle sue opere. E quando, come noi, si ha l'occasione di eseguire o registrare, nel corso degli anni, le cantate le une dopo le altre, lascia sbalorditi - anche dopo aver registrato più di un centinaio di cantate - che un solo uomo possa aver lasciato testimonianza di una tale profusione dì ricchezza nell'originalità delle sue composizioni e nella sua ispirazione. Non posso che ripetere: ogni nuova cantata, ogni nuova aria è per noi un'avventura, una scoperta appassionante là dove potrebbe esserci solo routine o ripetizione. Non conosco altri compositori oltre a Bach che siano andati sempre fino al limite delle possibilità, dal contrappunto più rigoroso fino al più espressivo romanticismo. E' per questo che mi sembra assurdo andare a smuovere composizioni di seconda categoria, scritte da compositori di seconda categoria, finché non esistono interpretazioni anche solo appena adeguate di questo immenso compositore.
Ci sembra quindi venuto il momento di proporre una nuova interpretazione delle cantate di Bach, dal momento che costituiscono la sua produzione centrale, che sia coerente e che utilizzi i mezzi migliori di cui disponiamo. Bisognerebbe tener conto delle acquisizioni più recentì nel campo della pratica esecutiva, ma anche, e soprattutto, mettere in opera i mezzi sonori corretti e usarli correttamente. Nessun altro compositore richiede uno strumentario di tale ricchezza e complessità, nessun compositore attribuisce tanto valore al più sottile simbolismo sonoro come Johann Sebastian Bach. Ben conosciamo le difficoltà che incontrò costantemente per formare la propria orchestra; se continuò a esigere le combinazioni meno usuali, possiamo immaginare l'importanza che lui stesso attribuiva a questioni apparentemente secondarie di strumentazione. Resta un gran numero di problemi che ancor oggi non trovano soluzione; non conosciamo neppure tutti gli strumenti che utilizza Bach nelle sue cantate. Ma le soluzioni si troveranno, di cui magari questa o quella avranno inizialmente solo un carattere ipotetico per diventare risultati definitivi solo per i nostri successori.
La nostra resa delle cantate di Bach deve essere un tentativo di interpretarle in un modo che abbia senso per l'epoca attuale. L'orchestra sinfonica, quale che ne sia la formazione, non ha assolutamente nulla a che vedere con la colorata orchestra di Bach, e le moderne corali, per virtuose che siano, non potrebbero mai avere la trasparenza dei cori di ragazzi e voci bianche necessari per le cantate di Bach. Non consideriamo affatto questa nuova interpretazione come un tornare indietro, ma, al contrario, come un tentativo di liberare questa grande musica antica dalla sua soggezione alla sonorità sinfonica classica e di trovare, attraverso la trasparenza e i caratteri propri degli strumenti antichi, un'interpretazione autenticamente moderna.

da "Il discorso musicale" di Nikolaus Harnoncourt (ed. Jaca Book - 1985)

Die Kunst der Fuge: dalla concezione alla percezione

L'insieme consiste in una serie di variazioni contrappuntistiche elaborate a partire da un soggetto principale in re minore, molto semplice ma concepito per prestarsi ad un grande numero di cambiamenti di forma.
Se ci si attiene all'ordinamento numerico di Wolfgang Schmieder (Bach Werke Verzeichnis, BWV), la composizione inizia con un primo gruppo di fughe semplici (2, 4, 1, 3) a quattro voci, in cui la 3a e la 4a fuga espongono il soggetto (o tema) con moto contrario (con gli intervalli in senso inverso). Un secondo gruppo presenta 3 contro-fughe (5, 6, 7) il cui complesso ordinamento rivela una prodigiosa varietà di combinazioni ritmiche. Le fughe 8, 9, 10 e 11 costituiscono un 3° gruppo nel quale il soggetto iniziale di base si combina con nuovi soggetti. Subentra una sorta di pausa con la curiosa apparizione di 4 canoni a 2 voci (14, 15, 16, 17) le cui linee melodiche scaturiscono da variazioni sul tema principale quasi sempre trasformato nel ritmo e talvolta rovesciato (canoni 15 e 16). Tre coppie di fughe dette "a specchio" perché la seconda (inversus) riflette esattamente, in completa inversione, gli intervalli della prima (rectus), costituiscono un 5° gruppo per 2 clavicembali: contrappunti 12a e 12b, 13a e 13b, 18a e 18b.
Una grande fuga incompiuta (19) che sviluppa 3 soggetti diversi dal soggetto principale del ciclo e di cui il 3° (misura 193) utilizza il nome B-A.C.H. (si bemolle, la, do, si, nella notazione tedesca), è in genere considerata parte integrante dell'Arte della fuga. Secondo Gustav Leonhardt, invece, essa non avrebbe niente "a che vedere con questa composizione" da considerarsi come un tutto perfettamente compiuto.
Bach non precisò a quale strumento fosse destinata la sua partitura. Alcuni ritengono si tratti di un'opera concepita soprattutto per la lettura; altri, fra cui Gustav Leonhardt, ritengono di poter asserire che l'avesse destinata al clavicembalo. Alberto Basso, dal canto suo, ritiene che l'opera presenti due volti: la sua realizzazione polifonica può essere verificata sperimentalmente sulla tastiera, ma la sua trama complessa richiede anche uno studio "sul piano speculativo senza curarsi dell'effettiva corrispondenza sonora".
L'Arte della fuga fu composta fra il 1745 e il 1750 e pubblicata per la prima volta nel 1750 o nel 1751 (la 2a edizione è dei 1752). La sua prima esecuzione pubblica, in un'orchestrazione curata da W.Graeser, ebbe luogo a Lipsia il 26 luglio 1927.

da "I capolavori della musica strumentale" di Lelong e Soleil

sabato, settembre 24, 2005

Sezione Aurea in musica

La visione ontologica del numero e l’attribuzione di un valore estetico alle proporzioni nella tradizione pitagorico-platonica sono la base storica della probabile introduzione della sezione aurea nella musica dal sec. XIV al XVI, ma un filone dell'analisi musicale moderna ne ha cercato la presenza nella musica di ogni compositore di cui sia noto un interesse anche vago per gli aspetti numerologici. La sezione aurea è stata così riscontrata in particolare nelle proporzioni temporali, nonché nei rapporti fra gli intervalli, della musica di Machaut, Dufay (di cui è ben noto il caso del mottetto Nuper rosarum flores), Obrecht (messa Maria Zart, Josquin Desprès (messa Ad Fugam), come pure in Fux e in Bach, e altresi in Mozart, Beethoven, Schubert Chopin, Debussy. Il repertorio del Novecento indagato più sistematicamente in questa direzione è quello di Bartok, in cui, secondo le osservazioni di E. Lendvai, i fattori temporali sono strettamente correlati a quelli armonici secondo il comune criterio della sezione aurea. L'indagine sulla sezione aurea costituisce una branca fortemente sperimentale dell'analisi, nella maggior parte dei casi posta quasi esclusivamente in relazione alla sfera formale della musica (ad es., segmenti di diversa estensione tra i quali ricorrono le medesime proporzioni). Tuttavia, al di là degli aspetti numerologici e formali, l'interesse precipuo della sezione aurea risiede nella sua capacità di generare segmenti diseguali, e quindi di presentarsi come un principio di regolazione degli “efetti strutturali dell’asimmetria” (Ayrey). In tal senso gli studi sulla sezione aurea possono portare a ipotizzare come operanti nella percezione musicale, a fianco o in luogo di modelli strutturali ispirati a criteri di simmetria, anche strutture basate su un principio di diseguaglianza e di dissimmetria, governate (rese, per così dire, accettabili) da un modello tendente alla proporzione aurea. Gli analisti della sezione aurea sembrano essere concordi su un certo grado di tolleranza circa l'”esattezza” delle strutture numeriche rilevabili nella musica, il che sposta il significato di tali strutture dal terreno astratto dell'assiomatica numerica a quello delle funzioni antropologiche fondamentali. In altre parole, il modello della sezione aurea sembra tanto più verosimile quanto più una struttura non simmetrica sia il requisito di un'economia mnemonica dello scorrimento del tempo musicale. E per quanto la percezione intuitiva di schemi proporzionali resti un problema psicologico aperto, esso ammette comunque anche l'ipotesi della loro possibile formulazione inconscia da parte di un compositore; un'ipotesi, questa, che porta a estendere il problema anche ai di là del caso di riferimento espliciti alla sezione aurea, corna si riscontra in vari compositori contemporanei, da Krenek (autore di un FibonacciMobile) a Xenakis e Stockhausen.

da “Enciclopedia della Musica” – Garzanti, IX ed. 11/1996.