Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, agosto 21, 2023

Oedipus rex: Robert Craft colloquia con Igor Stravinsky

Robert Craft
: In che misura lei ha collaborato con Cocteau all'Oedipus rex? Quale è stato il suo intento nel tradurre il libretto in latino? Quali erano le sue idee iniziali per la messinscena del lavoro, e sono mai state realizzate? Cosa intende per opera-oratorio?

Igor Stravinsky: Dato gli inizi dell'Oedipus rex al settembre 1925, ma da almeno cinque anni prima avvertivo il desiderio di comporre un lavoro drammatico di ampie dimensioni, dopo aver composto soltanto musica da camera durante la guerra. Tornando in quel periodo da Venezia a Nizza mi fermai a Genova, per rinnovare il ricordo di questa città dove avevo trascorso il mio quinto anniversario di matrimonio, nel 1911. Là vidi su una bancarella una vita di san Francesco d'Assisi, che comprai e lessi la notte stessa. A questo libro devo la formulazione di un'idea che mi si era affacciata fin da quando ero diventato un déracinéL'idea era che un testo per musica poteva essere dotato di un carattere monumentale traducendolo - per così dire a ritroso - da una lingua secolare in una lingua sacra. «Sacro» può significare semplicemente «più antico», come potremmo dire che la lingua della Bibbia di re Giacomo è più sacra della lingua della New English Bible, se non altro per l'età più veneranda. Ma io pensavo che una lingua più antica, anche imperfettamente ricordata, avesse necessariamente un che di incantatorio, sfruttabile in musica. Me ne dava conferma l'esempio dello stesso Francesco d'Assisi, con il suo uso ieratico del provenzale, la lingua poetica del Rinascimento del Rodano, invece dell'italiano o basso latino quotidiano. Prima di quel momento di illuminazione a Genova non avevo saputo risolvere il problema linguistico delle mie future opere vocali. Il russo, la lingua esule del mio cuore, era diventato musicalmente impraticabile, e il francese, il tedesco e l'italiano mi erano estranei. Quando lavoro con le parole in musica i miei succhi creativi sono stimolati dal suono e dal ritmo delle sillabe. «In principio era il verbo» è per me una verità letterale, puntuale. Ma il problema fu risolto, e la ricerca di un «pur langage sans office» terminò con la mia riscoperta del latino ciceroniano.
La decisione di comporre un lavoro sul dramma di Sofocle sopravvenne subito dopo il mio ritorno a Nizza, ma la scelta era prestabilita. Avevo bisogno di una trama universale, o almeno tanto nota da non costringermi a lungaggini nell'esporla. Desideravo lasciar da parte l'azione teatrale, pensando di distillarne l'essenza drammatica e di concentrarmi più liberamente su una drammatizzazione puramente musicale. Vari miti greci mi vennero in mente nel considerare il soggetto, e poi, in automatica successione, pensai alla tragedia che più avevo amato in gioventù. In un ultimo momento di dubbio riesaminai la possibilità di usare una versione in lingua moderna di un mito, ma solo la Phèdre rispondeva al mio concetto di statuario, e quale musicista potrebbe respirare in quel metro?
Invitai Cocteau a collaborare con me all'Oedipus perché ammiravo la sua Antigone. Gli confidai le mie idee e gli spiegai che non volevo un dramma d'azione, ma una «natura morta». Dissi anche che il mio ideale era un libretto convenzionale con arie e recitativi, pur sapendo che il convenzionale non era il suo forte. Sembrò entusiasta del progetto (meno dell'idea che le sue frasi sarebbero state riscritte in latino); ma la prima stesura del suo libretto fu esattamente quello che non volevo: un dramma musicale in prosa fiorita.
«Dramma musicale» e «opera» si sono da un pezzo confusi insieme, ma nella mia testa erano categorie ben distinte, e giungevo a sostenere che l'orchestra ha un ruolo interpretativo più ampio ed esteriore nel «dramma musicale», e simili idee estenuanti. Sostituirei adesso questi termini con «opera in versi» e «opera in prosa», identificando le due categorie rispettivamente con chiari esempi come The Rake's Progress per la prima e Erwartung per la seconda. Divisioni di questo tipo, per quanto artificiose, a me sono necessarie.
Cocteau accettò pazientemente le mie critiche e riscrisse il libretto due volte, sottoponendolo perfino, dopo di ciò, a un'ultima tosatura. (Sono per indole un cultore dell'arte topiaria, e amo molto potare le cose). Che cos'è puramente di Cocteau nel libretto? Non sono più in grado di precisarlo, ma direi meno la sua struttura che la gesticolazione del fraseggio. Non mi riferisco all'uso di ripetere le parole, che mi è abituale. L'idea del narratore o speaker fu di Cocteau, e cosi l'idea che questi vestisse il frac e si atteggiasse a conferenziere (che troppo spesso è sinonimo di cerimoniere). Ma la musica va al di là delle parole, e la musica fu ispirata dalla tragedia di Sofocle.
Visualizzai la messinscena non appena cominciai a comporre la musica, vedendo per prima cosa il coro, seduto in un'unica fila da un capo all'altro del proscenio, sul davanti. Il coro avrebbe letto dei rotoli di pergamena, e soltanto questi e il profilo delle teste incappucciate dei lettori dovevano essere visibili. Il coro, pensai, non doveva avere un volto.
La mia seconda idea fu che gli attori calzassero coturni e stessero ritti su piedistalli dietro al coro, ogni personaggio a un`altezza diversa. Ma «attori» non è la parola giusta. Nessuno «agisce». Solo il narratore si muove, e solo per distanziarsi dalle altre figure in scena. L'Oedipus rex sarà o meno un'opera in virtù del contenuto musicale, ma certamente non è operistico nel senso del movimento. I personaggi si rapportano l'un l'altro non con gesti, ma con le parole. Non girano nemmeno la testa per ascoltare i discorsi altrui, rivolgendosi direttamente al pubblico. Pensai che dovessero stare rigidamente diritti. La mia prima concezione era che i personaggi fossero rivelati di volta in volta alzando piccoli sipari individuali, come nell'Histoire du soldat, ma presto mi resi conto che lo stesso effetto si poteva ottenere più facilmente con l'illuminazione. Come il Commendatore, i cantanti dovevano essere illuminati durante le loro arie, poi tornare nell'ombra, come statue galvanizzate vocalmente. Edipo invece rimane bene in vista per tutto il dramma, fino al suo «Lux facta est», dopo di che deve cambiare maschera. (Il cambiamento può avvenire al buio, o voltando le spalle al pubblico). La violenza contro sé stesso è descritta, non rappresentata: Edipo non deve muoversi. I registi che lo fanno sparire di scena e poi riapparire realisticamente barcollante non hanno capito niente della mia idea.
Spesso mi chiedono perché io abbia voluto comporre un'opera da museo delle cere. Rispondo che aborro il verismo; ma una risposta completa sarebbe più positiva e più complessa. Intanto, considero questa rappresentazione statica un modo più efficace di concentrare la tragedia non su Edipo stesso e sugli altri individui, ma sullo sviluppo fatale che, per me, è il significato del dramma. Il pubblico non deve essere indifferente al destino della persona, però assai più deve badare alla persona del destino e al suo delinearsi, che si può esprimere unicamente in musica. Ma nella misura in cui la visualizzazione può essere d'aiuto, le figure in scena sono drammaticamente isolate e impotenti proprio perché sono plasticamente mute, e il ritratto dell'individuo come vittima delle circostanze è reso più nudamente efficace da questa presentazione statica. I crocevia sono impersonali, geometrici. E ciò che mi interessava era la geometria della tragedia, l'inevitabile intersezione delle linee.
Mi hanno chiesto perché non ho fatto un passo in più e non ho usato marionette, come ha fatto una volta il mio amico Robert Edmond Jones per una rappresentazione dell'Oedipus al Metropolitan. L'idea effettivamente mi venne, e avevo molto apprezzato le marionette di Gordon Craig quando me le aveva mostrate a Roma, nel 1917. Ma io amo anche le maschere, e componendo la prima aria di Edipo lo immaginavo con una maschera ogivale, rosea, come quella di un dio del sole cinese.
Le mie idee sceniche non furono realizzate perché a Djagilev mancò il tempo di allestire l'opera per la prima. La sua esistenza gli fu tenuta nascosta fino all'ultimo momento, e io tardai a terminare la partitura. Ma siccome la prima rappresentazione avvenne in forma di concerto, molti hanno supposto, erroneamente, che io preferissi per l'Oedipus questa forma. L'opera fu composta come dono per il diciottesimo anniversario dei Balletti di Djagilev - «Un cadeau très macabre» commentò lui. Djagilev rimase freddo alla prima, ma penso che forse fosse a causa di Cocteau. Per fargli dispetto, Djagilev scelse deliberatamente un bel giovane per la parte del narratore, ben sapendo che Cocteau l'aveva scritta per sé stesso. I cantanti avevano a malapena imparato le note per 1'esecuzioe in anteprima al pianoforte, che avenne in casa della principessa di Polignac pochi giorni avanti quella pubblica. Dalle reazioni degli ospiti capii che probabilmente l'Oedipus non avrebbe avuto successo col pubblico dei balletti. Ma il mio austero concerto vocale, seguito a un balletto «romantico» e colorito come l'Uccello dí fuoco, fu un fiasco peggiore del previsto. Gli applausi del pubblico furono di pura cortesia, e gli Sganarelli della stampa la cortesia la lasciarono nel cassetto: «Celui qui a composé Pétrouchka nous présente avec cette pastíche Haendelienne...  Un tas de gens mal habillés ont mal chante'... La musique de Créon est une marche Meyerbeerienne»... Nel ventennio successivo le rappresentazioni furono scarse, ma poi l'Oedipus è diventato quasi popolare.
Ho partecipato come direttore d'orchestra solo ad alcune rappresentazioni teatrali, e ne ho viste poche altre. (Tra le recenti menzionerei quella dell'Opera di Vienna, in cui l'«e peste» suonava come se i cantanti fossero davvero appestati, e quella dell'Opera di Washington, dove le facce bianche del coro luccicavano come i buchi nel formaggio Emmental). Quella visivamente più gradevole è stata l'edizione di Cocteau al Théâtre des Champs-Elysées, nel maggio 1952. Le sue maschere enormi erano di grande effetto, e così il suo uso della pantomima simbolica, anche se contraddiceva alla mia idea. Fremo nel ricordare le rappresentazioni sceniche alla Kroll Oper di Berlino, sebbene fossero ben preparate da Klemperer. Il narratore portava un costume nero da Pierrot. Lamentai col regista che non vedevo il nesso con la storia di Edipo, ma la sua risposta troncò ogni ulteriore discussione: «Herr Professor Stravinskij, nel nostro paese solo al Kapellmeister è consentito di portare il Frack». Hindemith e Schönberg erano fra il pubblico berlinese, il primo hingerissen [affascinato], il secondo abgekühlt [freddino].
In che senso la musica è religiosa? Non so rispondere, perché questa parola non corrisponde nella mia mente a stati d'animo o a sentimenti, ma a credenze dogmatiche. Posso affermare che la musica fu composta durante il mio periodo di più stretta e fervida ortodossia cristiana. Ai primi di settembre del 1925, con un ascesso in suppurazione al mio indice sinistro, partii da Nizza per eseguire la mia Sonata a Venezia. Avevo pregato in una chiesetta vicino a Nizza, davanti a un'antica e «miracolosa» immagine, ma prevedevo che il concerto sarebbe stato disdetto. Il dito suppurava ancora quando a Venezia entrai in palcoscenico. Mi rivolsi al pubblico, scusandomi in anticipo per un'esecuzione che sarebbe stata inevitabilmente mediocre; poi sedetti alla tastiera, tolsi la piccola fasciatura, sentii che il dolore era ad un tratto cessato, e scoprii che il dito era - miracolosamente, mi parve - guarito. Io credo, s'intende, in un sistema al di là della Natura.
(tratto da "Ricordi e commenti", Igor Stravinsky / Robert Craft
Adelphi, La collana dei casi, n.73, 2008)

sabato, agosto 12, 2023

Joseph Szigeti: Lettera da Budapest

Nell'ottobre dello scorso anno Joseph Szigeti ritornò alla sua nativa 
Budapest, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, in veste di giudice per il Settimo Concorso Internazionale di Musica che si svolgeva in quella città.
Siamo lieti di pubblicare lo scritto del celebre violinista, nel quale egli descrive le impressioni di questo soggiorno.

Dei risultati ottenuti al Concorso Internazionale di Budapest, nello scorso ottobre 1963, dai concorrenti delle tre categorie (Violoncello, Duo di violino e pianoforte e Quartetto d'archi), avrete avuto notizie in questi ultimi mesi, ed ora non c'è motivo che io esprima le mie impressioni quale Presidente Onorario della Giuria.
La caratteristica dominante di questo Concorso fu l'insolito alto livello dei violoncellisti e, per converso, quello piuttosto basso dei concorrenti di Duo e di Quartetto che raramente raggiunsero la coesione e la sottigliezza stilistica propria dei complessi d'assieme (nessun primo premio fu attribuito a queste due categorie).
Vi furono pochi competitori italiani e nessuno di essi fu premiato; tuttavia, durante queste liete settimane musicali, vi furono brillanti partecipazioni italiane degne di rilievo: mi riferisco al notevole successo dei concerti di Carlo Maria Giulini ed alla produzione televisiva del «Volo di notte» di Dallapiccola (prima rappresentazione assoluta in TV) che purtroppo persi a causa di altri miei impegni.
Le interpretazioni di Giulini delle opere di Beethoven e Brahms, dei «Quadri di una esposizione» di Mussorgsky e dei «Quattro pezzi sacri» di Verdi riscossero, da quanto mi fu riferito, acclamazioni unanimi.
Ma ciò che intendo scrivere ora è al di fuori del Concorso.
E' difficile non cadere nel sentimentalismo ritornando al proprio luogo di nascita dopo ben ventiquattro anni. Tutto quanto vi circonda lo favorisce. Ascoltare Kodály ricordare i tempi in cui ero un fanciullo biondo di dieci anni o quando mi udì suonare la semplice Sonatina di Schubert una trentina di anni fa; ascoltare il poeta e filosofo Milan Füst parlare delle lezioni di violino che gli diede mio padre sessant'anni fa; persino il cibo che si mangia e il vino o il succo di amarena che si beve: tutto ciò non può certamente condurre alla stesura di un articolo ad alto livello intellettuale.
Vi parlerò un poco di Kodály, col quale mi trattenni prima a casa sua e poi nella sede degli «Archivi Bartók», oltre ad averlo ascoltato parlare in occasione della conferenza che tenni nella Sala grande della
Accademia di Musica «Franz Liszt» per insegnanti, studenti ed appassionati di musica.
Mi era stato chiesto di fare, in questa conferenza, quattro chiacchiere alla buona per gli studenti di strumenti ad arco ed i loro insegnanti; ma questo cosiddetto «avvenimento familiare» si sviluppò poi in una conversazione di due ore e mezza di fronte ad un uditorio di circa otto-novecento persone. Dopo che ebbi sfiorato vari problemi di carattere tecnico e stilistico, venne suonato il mio disco della «Partita in re minore» di Bach.
Kodály e sua moglie sedevano in prima fila, e quando egli si alzò per ringraziarmi e per ricordarmi alcuni episodi della mia infanzia (egli mi conosceva da quando avevo dieci anni) per un attimo mi balenò davanti agli occhi l'immagine dell'educatore Kodály al lavoro.
Egli si servì di questa occasione per mettere in evidenza che alcune delle anomalie musicali da me condannate avevano la loro origine, e causa, nella mancanza di esercitazioni propedeutiche, fondate sul solfeggio, tra gli strumentisti ad arco. Poi, praticamente scuotendo l'indice verso l'assemblea di insegnanti, disse: «Verrà il giorno in cui persino gli insegnanti di violino torneranno al solfeggio!». E questo fu un chiaro appunto alle generali abitudini della routine pedagogica e musicale che egli sta combattendo in questi ultimi decenni.
L'impressione dominante che Kodály lascia costantemente è quella di una serenità che nasce dalla consapevolezza del lavoro ben compiuto, controbilanciata, però, da una continua e sollecita attività, ben lontana dall'attitudine a «riposare sugli allori».
Egli era appena ritornato con la giovane moglie dalla Conferenza per educatori di musica di Copenhagen e, poche ore dopo il suo ritorno, era già immerso nella sua abituale attività.
Ascoltò i concerti dei vincitori del Concorso; venne a prendermi a casa della vedova di Bartók, Signora Ditta, informandosi sul suo progetto di lasciare l'appartamento nel quale attualmente vive (piccolo ma confortevole, anche se molto in disordine) per stabilirsi in un condominio di nuova costruzione; quindi, dopo aver pranzato a casa sua, mi mostrò la biografia di Bartók di Pierre Citron, recentemente pubblicata in Francia, traendone spunto per parlarmi della mancanza di senso di avventura di coloro che evitano di immergersi nel libro di Ansermet, sia pur abbastanza impegnativo, sulla filosofia musicale («persino leggerne dei frammenti sarebbe meglio di niente»).
Egli abita ancora nel suo vecchio appartamento situato sul corso alberato che conduce al Museo delle Belle Arti ed al Parco della città e c'è sempre pronta quella sua affascinante moglie a tenere lontano i visitatori inopportuni, rispondendo di solito bruscamente al telefono e permettendogli così di dimenticarsi completamente di questo apparecchio; ed ancora lei, pettine alla mano e incurante della nostra presenza, intervenne sollecita ad acconciargli i suoi ancor lunghi capelli, prima che venisse fotografato con me.
Kodaly, un ottuagenario dalla vista e dall'udito perfetti, e pronto a combattere qualsiasi infrazione al suo programma di educazione musicale, qualsiasi decurtazione di orari nell'Auditorio di Stato.
Ritrovo questa necessità di lavorare in un'età avanzata anche in coloro che si dedicano ad attività meno nobili. Ad esempio nel vecchio ed esperto liutaio che mi disse: «Vedete, ci sono talmente pochi strumenti belli nel mio paese. Io voglio continuare: sono quasi il solo rimasto in questo campo con un'esperienza come la mia».
Molte altre specializzazioni sembrano aver conservato una parte della loro primitiva indipendenza, benché si trovino ovviamente entro il più ampio schema del controllo statale.
Ad esempio, il conto di un abito su misura deve comprendere tutti i dettagli particolareggiati dei vari materiali impiegati nella confezione, escludendo così qualsiasi contrattazione o sovrapprezzo.
Su tutte le pubblicazioni deve essere indicato il numero delle copie stampate, il formato, il peso della carta, il nome delle persone responsabili dell'edizione, della stampa, della tipografia, della produzione e così via. Il che può far dire: «Bene, sai come stanno le cose... in una grande organizzazione come la nostra... » cosa, invece, molto vicina all'impossibilità quando arrivano dei reclami (quello più frequente, nel campo editoriale, si riferisce all'inadeguatezza delle prime edizioni che, spesso, si esauriscono nel giro di poche ore).
Fui piacevolmente sorpreso nel constatare che il «responsabile», il cui nome si trova sul retro della maggior parte delle pubblicazioni musicali ungheresi fatte dallo Stato, fosse Béla Tardos: un abile compositore, le cui opere corali e per quartetto sono molto eseguite.
Non ho mai sentito niente di simile alle orchestre scolastiche ed ai cori di fanciulli e giovani, od al Coro di voci bianche della Radio ungherese. Quale spigliatezza di attacchi e di intonazioni in questi bambini dai pantaloncini corti e dalle bluse alla marinara, quale sicurezza nei passaggi di tono delle complesse opere corali di Bartók e Kodály! Ed essi cantano senza musica!
Ho ascoltato orchestre giovanili suonare composizioni ungheresi contemporanee scritte appositamente per loro - alcune con tempi di 5/8 - eseguendole con grande sensibilità.
Tutto ciò non deve meravigliare, sapendo che a Budapest esistono asili infantili in cui i bambini di tre anni imparano a cantare, fanno giochi con la musica e praticano un solfeggio elementare. Evidentemente si crede nella musica «fatta da sè» piuttosto che in quella «competenza musicale» che consiste, soprattutto in America, nel ricordare le date di nascita e di morte dei compositori, con una musicologia da copertina di disco.
E per tutto questo si deve ringraziare Kodály.
Non potrò mai dimenticare il concerto dato in mio onore dal Ginnasio «Erzsébet Szilágyi» sovvenzionato dall'UNESCO (l'Ungheria è membro dell'UNESCO da 15 anni). Le fanciulle cantavano prese dal magnetismo della direttrice del coro, con gli occhi fissi su di lei, ed uno dei brani fu un Trio corale di Kodály, dallo stretto contrappunto quasi bachiano, che parve un'Invenzione a tre voci eseguita da legni solisti.
L'influenza di Kodály è evidente persino nell'elenco delle organizzazioni musicali ungheresi, di cui fanno parte complessi con nomi quali «Orchestra Sinfonica degli Impiegati d'ufficio», «Coro dei Lavoratori delle Imprese di costruzione», «Coro delle Smalterie di Budafok», «Giovani Amici della Musica»... e si potrebbe continuare. Ad esempio, una delle più attive orchestre dell'Ungheria si chiama «Orchestra Sinfonica delle Ferrovie di Stato». Essa è composta da musicisti professionisti che viaggiano attraverso il Paese, talvolta nelle loro stesse carrozze letto, allo scopo di portare la buona parola - o meglio la letteratura sinfonica - in luoghi dove non era mai giunta. E questa fu l'orchestra che accompagnò due dei tre vincitori del Concorso di violoncello nei Concerti di Dvorák e Sciostakovic (e li accompagnò in modo egregio).
Queste numerose associazioni musicali, cori ed orchestre accolsero tutte ed acclamarono - e fu un momento meraviglioso - persino quei concorrenti che caddero nelle semi-finali. Questa p una delle caratteristiche del Concorso di Budapest, che né il Concorso di Bruxelles ne quello di Ginevra possiedono. Tale caratteristica è unicamente prodotta dalla convinzione, di tutti questi entusiasti di musica pratica, che chiunque, vincitore o no, abbastanza coraggioso da affrontare la prova, è meritevole di essere ascoltato con orecchio ben disposto, applaudito ed accolto con un fraterno abbraccio. E cosi molti di questi concorrenti rimangono, e dimenticano l'amarezza della sconfitta suonando presso queste associazioni nelle serate non ufficiali.
Sugli «Archivi Bartók» e sulla «Mostra Bartók-Kodály» si potrebbero scrivere molte pagine.
Vi sono settantadue composizioni inedite di Bartók, precedenti la sua Op. I (tra queste, una semplice Sonata per violino e pianoforte del 1895 ed una seconda del 1897 - molto brahmsiana - più un Quartetto con pianoforte ed un Quintetto incompiuto); la sua libreria, comprendente «Ulisse» di Joyce nella prima edizione parigina, «Don Chisciotte» in spagnolo e tedesco, Proust, Shakespeare, Aldous Huxley, Goethe, ecc., e forse tre o quattro dozzine di dizionari (arabo, turco, croato, russo, polacco, cecoslovacco). E rimasi veramente impressionato dall'attività quasi da formiche del gruppo di bibliotecari che curano questi archivi, capeggiati dal Dottor B. Szabolcsi e dal Professor Denys Dille, un ex-prete belga che dedica ora la sua vita a Bartók.
Dappertutto, a Budapest, vi sono leggii: al bar della Radio, presso gli ascensori di qualsiasi palazzo di uffici, in quelle case patrizie che ora sono usate dai Ministeri e dalle organizzazioni di esportazione, nelle biblioteche viaggianti, ovunque.
Una delle poche delusioni che mi capitò di provare nel mio soggiorno, fu provocata dalle anacronistiche forme di cortesia tuttora in pieno vigore: «Degnatevi di comandarmi» e «Alla vostra preziosa salute» (quando il cameriere vi posa davanti un piatto di minestra). Una volta un maitre d'hotel, consigliandomi di assaggiare un dolce delizioso, usò addirittura un'espressione settecentesca alla fine della sua «chiacchierata da imbonitore»: mi disse, infatti, «Vi imploro!» (che, ripensandoci meglio adesso, non è molto dissimile dalla vittoriana «Vi prego, sedete!»). Ma l'abbreviazione del «Bacio la mano» di Johann Strauss, o del periodo del «Cavaliere della Rosa» o della «Vedova Allegra», è ancora più ridicola nell'Ungheria odierna. Tralasciando la parola «mano», essi ora dicono «Bacio...», e lo dicono alla cassiera (talvolta di mezza età) di una libreria o di un qualsiasi altro negozio!
Un'altra delusione mi fu data dalle onnipresenti orchestre tzigane, con le loro serenate di Toselli e le loro imitazioni del cinguettio degli uccelli con armonici e glissandi nelle più acute estensioni del violino.
Sui menus sono segnati due prezzi differenti: uno senza musica, e l'altro (molto più elevato) quando l'orchestra suona. Ho sentito dire che vi sono agitazioni in corso per ridurre il prezzo del pranzo «con orchestra».
Gli istituti di bellezza seguono due turni di orario: dalle 6,30 fino alle 15 e dalle 15 alle 21. Il pensare che le giovani ungheresi che lavorano sacrificano ore di sonno per andare alle 6,30 del mattino in questi istituti, prima di recarsi in fabbrica, a scuola, all'ospedale o in ufficio, dà un senso di tenerezza
Joseph Szigetí
("Rassegna Musicale Curci" anno XVIII n. 3 settembre 1964)

martedì, agosto 01, 2023

Knappertsbusch: Uno Junker nel golfo mistico

Nessun capitolo della storia della 
musica è circonfuso di connotati romanzeschi quanto quello intitolato a Richard Wagner. Creatore e creature tendono a confondersi in un repertorio iconografico dove eventi storici e metastorici si mescolano inestricabilmente. Casa Wahnfried e il Walhalla, Mathilde Wesendonck e Isolde, Bayreuth e Monsalvato si mutano in ingredienti capaci di alimentare nel subconscio del "Perfect Wagnerite" una caleidoscopica vertigine (tanto che esegeti illustri come Nietzsche e G.B.Shaw giungono a proposito per scacciare un sospetto di kitsch).
Tutta la vita di Wagner si svolse all'insegna del romanzesco: dagli amori proibiti con Cosima Liszt Bülow, alla protezione del "re folle" Ludovico II di Baviera, alla scomparsa in una "città morta" per definizione come Venezia. Anni orsono un editore dedicò alla saga dei Wagner un fotolibro (The Wagner Family Album, questo il titolo della versione inglese). Al confronto delle sue immagini persino la saga dei Kennedy o quella della famiglia reale britannica appaiono scipite: in nessuna passa un soffio tanto potente di "teatro della vita". La Storia con l'iniziale maiuscola s'è incaricata di conferire un'ulteriore patina al teatro di Bayreuth. L'era hitleriana ha caricato gli eroi del "Ton und Wort Drama" di simbolismi, rendendo gli eroi della Tetralogia "altro" da ciò ch'essi rappresentavano nelle intenzioni dell'autore. Siegmund e Siegfried si sono metamorfosati in eroi ariani, Wotan bendato in una sorta di veterano con la Croce di Ferro. Ovvietà? Forse. E tuttavia chiunque può constatare quanto il lange Wagner-Nazismo giochi ancor oggi nell'immaginario popolare (ricordate i Predatori dell'arca perduta di Spielberg?). Le tinte forti del teatro wagneriano sembrano aver influenzato persino la morfologia dei suoi interpreti. Una mimesis, un processo di autoidentificazione, che ha condotto più di un divo di Bayreuth ad assomigliare agli eroi impersonati in scena. Pensiamo alla lunga teoria di "Heldentenore", di tenori eroici, sull'arco che congiunge gli anni '30 ad oggi: l'aitante Max Lorenz a Peter Hofmann, bello e biondo come un maestro di sci. Artisti di questa fatta suggeriscono l'impressione che perfino nella vita di tutti i giorni, con indosso gli abiti borghesi, gli interpreti conservino qualcosa del titanismo di un Lohengrin o di un Siegmund. Il Wagner Family Album accoglie un'istantanea dei funerali di Siegfried Wagner, figlio del "genius loci", che nella sua drammaticità è esemplare di quanto stiamo dicendo. Il dolore autentico che gli illustri necrofori (il basso-baritono Friedrich Schorr, i tenori Lauritz Melchior e Gunnar Graarud, ecc.) hanno dipinto in viso, si muta involontariamente in teatro come sotto il tocco di un regista che avesse scelto la chiave dell'Ottocento borghese per il corteo funerario del Götterdämmerung.
Se è vero - come è vero - che per interpretare i ruoli wagneriani occorre un physique da rôle - e che in generale il teatro di Wagner è cosi intimamente connesso alla cultura tedesca che solo i musicisti della Mitteleuropa ne riescono interpreti "idiomatici" - il caso di Hans Knappertsbusch è paradigmatico. Interprete Wagneriano visionario non meno di un Karl Muck o di un Wilhelm Furtwängler, Knappertsbusch fu intimamente legato al mondo musicale del genio di Bayreuth perfino in termini di genealogia artistica. Il suo maestro, Hans Richter, fu braccio destro di Wagner durante le stagioni inaugurali della manifestazione bavarese. Germanico Knappertsbusch lo era anche nell'aspetto e ad un grado tale da parere caricaturale. Nei ritratti degli ultimi anni la sua espressione ricorda quella di un Hunding. Il volto marziale squadrato con l'accetta, gli occhi glauchi chiusi fra palpebre strette come fessure, le labbra in attitudine di perenne impassibilità, ne fanno l'archetipo dello "Junker", l'aristocratico prussiano, il latifondista di origini feudali. Caratteristico era anche il suo taglio di capelli, ondulati e con tanto di ciuffo ribelle in fronte ma rasati dal collo fino al vertice della nuca (coiffure degna dell'Erich von Stroheim di La grande illusion). Cßè un film sonoro girato a Berlino negli anni Trenta che mostra Knappertsbusch intento a dirigere l'epilogo della "Corale" beethoveniana. Il lungo spezzone si risolve in un'inquadratura fissa del direttore - un mezzo primo piano frontale - che colpisce per il contrasto stridente fra la veemenza musicale dell'Ode e l'imperturbabilità del viso di Knappertsbusch. La divergenza fra l'espressività dell'evento musicale e l'inespressività mimica dell'interprete fa pensare a Buster Keaton. Il tocco "retrò" nel look del personaggio era arricchito da certi voluminosi papillon di seta che persino nelle foto in bianco e nero paiono chiassosi e di pessimo gusto. Quest'aspetto dell'uomo era tuttavia in aperto contrasto con il suo carattere. Il quale di teutonicamente autoritario aveva poco o punto. In un'epoca di autocrati Knappertsbusch, chiamato familiarmente Kna dagli ammiratori per ragioni di brevità, rifuggì sempre dalle intemperanze dei dittatori della bacchetta (alla Bernardino Molinari o alla Toscanini per intenderci). Succedendo nel 1922 a Bruno Walter alla testa dell'Opera di Stato Bavarese, ne ereditò lo stile discreto e suadente nel trattare collaboratori, compagnia di canto e orchestra. Nato ad Elberfeld il 12 marzo 1888, Kna seguì un regolare corso di studi umanistici. Dopo il liceo s'iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Bonn. Gli studi musicali in un contesto accademico vennero da lui iniziati tardi. Ragazzino aveva provato a dirigere orchestrine scolastiche ma aveva compiuto 21 anni quando nel 1909 s'iscrisse al Conservatorio di Colonia, seguendo per tre anni i corsi di Otto Lohse e del celebre direttore d'orchestra Fritz Steinbach. Dal 1906 al 1911 il giovanotto fece pratica a Bayreuth, come già detto, con Hans Richter, di cui fu allievo e assistente. Kna entrò in carriera nel 1910 lavorando per un oscuro teatro di provincia, a Mühlheim. I primi autentici elogi se li guadagnò in Olanda dove, come allievo di Richter, venne invitato a dirigere un ciclo di opere Wagneriane. Lasciata Mühlheim, nel 1913, dopo un breve periodo di lavoro a Bochurn fece ritorno nella città natale e per cinque anni vi servì come direttore musicale.
Nel 1918, al termine della Grande Guerra, la sua carriera mise le ali: per un anno fu primo direttore dell'Opera di Lipsia e dal 1919 al 1922 capitanò l'Opera di Dessau. Nel 1922 il grande evento, con la già citata sostituzione di Bruno Walter alla testa dell'Opera di Monaco. Nella capitale bavarese il giovanotto d'aspetto marziale, coccolato come accade ad ogni enfant du pays, divenne un idolo. In particolare il cartellone estivo (le tradizionali Festwochen), ricco di prestigiosi ospiti nella compagnia di  canto, lo vide brillare fin dalla prima metà degli anni '20. Il fatto d'essere più giovane d'oltre una decina d'anni di Bruno Walter giovò al suo prestigio. Le sue esecuzioni di opere di Mozart, Wagner e Richard Strauss furono giudicate autorevoli anche nel contesto della ricca tradizione bavarese e allo stesso tempo piene di personalità. Lo stile derivava direttamente da quello di Richter e di Steinbach (ammirato come interprete brahmsiano, quest'ultimo, persino dal giovane Toscanini): grandioso, incline a ondate sonore piazzate in passaggi raggiunti senza fretta, con un passo ritmico battuto inesorabilmente. Quando i nazisti andarono al potere, lo Junker di Elberfeld entrò subito in conflitto col regime. Quel cavaliere dell'ordine teutonico non aveva niente a che spartire con i gerarchi di Berlino, borghesucci a dispetto degli stivaloni lucidi e delle divise grondanti decorazioni: era fatale che prima o poi, nonostante la popolarità presso il pubblico di Monaco, nascesse qualche conflitto. ll 20 ottobre 1934, allorché Kna diresse la prima assoluta di Lucedia, opera dell'italo-americano Vittorio Giannini, le alte gerarchie del partito lo redarguirono per aver favorito uno straniero a danno dei compositori indigeni. L'interessato replicò sostenendo che un grande teatro poteva mantenere la propria autorevolezza solo allestendo cartelloni internazionali. Da quel momento in avanti i nazisti cercarono in tutti i modi di allontanarlo e fu solo il perdurante successo presso il pubblico dell'H"Haupstadt" a impedir loro il siluramento. Sir Thomas Beecham lo invitò a Londra a dirigere al Covent Garden ma le autorità del Reich negarono il visto d'espatrio. Alla fine, avendo Kna rifiutato di prendere la tessera del NSDAP, nel febbraio 1936 venne rimosso dall'Opera di Monaco per ordine dello stesso Hitler. Il musicista fece le valigie e andò a lavorare a Vienna. Durante l'estate del 1937 poté finalmente recarsi a Londra per dirigere Salome. Nel 1938, oltre ad esser nominato direttore della Wiener Staatsoper, divenne uno dei direttori favoriti dei Philharmoniker per la stagione in abbonamento.
Quando con l"'Anschluss" l'Austria venne annessa al Reich e ribattezzata "Ostmark" (marca orientale), Kna fu ancora una volta costretto alle dimissioni. Finita la guerra, il quasi sessantenne direttore poté tornare ad essere un idolo di Monaco e di Bayreuth. I fratelli Wagner, Wieland e Wolfgang, lo chiamarono a scendere nel "golfo mistico" di Bayreuth fin dalla stagione inaugurale. Il Parsifal del 1951 (affiancato dal Ring e dai "Meistersinger") fu un evento di portata storica e inaugurò una serie di apparizioni entrate oggi nella leggenda: 1952 Parsifal e Meistersinger, 1954 Parsifal, 1955 Fliegende Hollãnder e Parsifal, 1956 Ring e Parsifal, 1957 Ring e Parsifal. Qui, oltre che in teatro, fu stella del repertorio sinfonico. Gli statistici hanno calcolato che dal 1922 al 1957 Kna abbia diretto nella capitale bavarese 163 concerti, di cui 141 con la Bayerischen Staatsorchester e 22 con i Münchener Philharmonikern. Sempre secondo gli statistici va sfatato il pregiudizio che vuole Kna ancorato ad un repertorio veterogermanico: nei soli programmi bavaresi (dunque escludendo quelli non meno numerosi con i Wiener Philharmonikem) compaiono oltre 200 lavori di 64 compositori diversi, distribuiti su di un arco che va da Haendel fino alla triade Bartok, Hindemith e Stravinski. Nel '54 Kna riassunse la direzione dell'Opera di Monaco ma poco dopo si ritirò per oltre un anno in segno di protesta per il ritardo nella ricostruzione del teatro. Nel febbraio 1959 si presento al Teatro alla Scala di Milano per dirigere cinque recite dell'Olandese con Hotter e la Nilsson. Negli anni '60 si limitò a sporadiche apparizioni in sala d'incisione. Tanto che quando si spense nella sua casa di Monaco il 25 ottobre 1965 era ormai un venerabile sopravvissuto, testimone di una Germania musicale irrimediabilmente scomparsa. Agli occhi dei giovani melomani incarnò l'erede delle tradizioni (tradizioni non solo di scuola musicale ma anche di stile di vita) della vecchia generazione. Viaggiò poco, tanto per cominciare, confinando le sue apparizioni al quadrilatero Monaco-Bayreuth-Vienna-Salisburgo (il che rese la sua fama sostanzialmente locale). Fattore ancor più importante, eredita da Richter uno stile interpretativo frutto di un'integrità morale e di una dedizione alla musica pressoché totale. L'andatura solenne che caratterizza le sue interpretazioni è caratteristica di un far musica inteso come rito, come liturgia dell'arte. Kna godette della stima universale dei colleghi. L'indiano Zubin Mehta, che come allievo di Hans Swarowski a Vienna poté assistere agli ultimi concerti di Kna, ne parla ancor oggi con ammirazione. Quanto alle orchestre, semplicemente lo adoravano. Infiniti aneddoti stanno a provarlo. Il primo cello dei Wiener Philharmonikern, Emanuel Brabec, ad esempio, dopo aver debuttato con lui come solista nel Don Chisciotte di Strauss, gli chiese un autografo. "Per carità, son cose da ragazzini", si schermi Kna. Poi, passati alcuni giorni, dovette ripensarci visto che a Brabec la portineria del Musikverein recapitò una sua foto con dedica. La maggioranza degli aneddoti verte tuttavia sull'antipatia di Kna per le prove. Quando si trovava sul leggio uno spartito arcinoto, sbuffava di sconforto e poi proponeva agli orchestrali: "Amici miei, voi conoscete questo lavoro quanto me. Allora perché mettersi a provarlo?" (Secondo Alexander Witeschnik questa frase avrebbe chiuso sul nascere anche un'improvvisata prova del Tiefland di D'Albert, cui Adolf Hitler aveva chiesto di poter assistere alla Staatsoper di Vienna).
Con questo stile di lavoro, come racconta nelle memorie John Culshaw, direttore artistico della Decca, "quando le cose andavano per il verso giusto (il che accadeva più spesso di quanto si verificasse il contrario), il risultato era magnifico; quando ciò non si verificava, era né più né meno che una catastrofe". Il rifiuto di provare e l'abitudine al lavoro "a soggetto" tipici di Kna risultavano esiziali in studio di registrazione. "Una volta che stavamo incidendo un Valzer di Johann Strauss, al solito senza prove, ci fu un momento alla ripresa della melodia in cui metà de1l'orchestra andò da una parte e metà dall'altra" racconta Culshaw in "Ring Resounding". "Il caos durò per quattro battute, poi l'esecuzione tornò in carreggiata. Finita la registrazione Knappertsbusch mi venne a parlare:  utilizzabile il pezzo, vero? Mi dica che non dobbiamo stare a rifarlo". Mi toccò dirgli quel ch'era accaduto. Mugugnò: "Scheisse": davvero pensa che qualcuno se ne accorgerà?"
Fu Culshaw con le sue registrazioni (fra cui il celebre "Parsifal" della riapertura di Bayreuth) a rendere famoso il Wagner di Knappertsbusch oltre i confini del mondo di lingua tedesca. "Nel 1951" ricorda nell'autobiografia (Putting the Record Straight) "avevo già sentito il Ring per intero non meno di sei volte, oltre a numerose esecuzioni separate delle singole giornate, ma nulla poteva approssimarsi alla maestosità di concezione che Knappertsbusch ci fece udire". Maestosità è termine perfetto per definire la dimensione monumentale, tellurica addirittura, che l”'epos" wagneriano assume sotto la sua bacchetta. Riascoltate oggi, a trent'anni dalla morte, le sue interpretazioni wagneriane sicuramente richiedono un ascolto critico: nei tre decenni trascorsi gli interpreti hanno infatti lavorato su ipotesi di lettura del Ring totalmente differenti. Pensiamo alla versione varata da Karajan nei primi anni del Festival di Pasqua di Salisburgo, versione che nella veste discografica esplicita chiaramente un approccio cameristico al testo. Oppure si faccia mente al "Ring dello scandalo", la produzione "made in France" di Patrice Chéreau e di Pierre Boulez che festeggiava il Centenario di fondazione del Festival di Bayreuth. Nella prospettiva Chéreau-Boulez la Tetralogia evoca una saga tutta centrata su un'insistita umanizzazione dei protagonisti. Nella visione di Knappertsbusch, invece, il mondo wagneriano mantiene tutta la propria ipostatizzazione, irriducibile al contesto quotidiano (tornano in mente gli illustri necrofori intorno alla bara di Siegfried).
Uomini e Déi appartengono ad una sfera mitica che, al modo delle ombre della nota similitudine platonica, riprende sentimenti e moventi dell'agire umano proiettati in una sfera rarefatta che li essenzializza. Lance ed elmi perdono ogni alone di "déjà vu". L'implausibile, il ridicolo, non esistono per Kna. Il suo approccio al mondo wagneriano non è di secondo livello, non assomiglia a quello dell'esegeta che, affrontando un monumento del passato, si sente chiamato a filtrarlo per poterlo riproporre ai contemporanei. Il drago con cui combatte Siegfried non è un "coup de thêatre" dietro cui s'intravede la patetica natura di un biscione di cartapesta: il drago è figura del Male, eterno avversario che legioni di San Giorgio affrescati, miniati o scolpiti hanno combattuto lancia in resta. Mai "naif", Kna aderisce senza riserve all'universo wagneriano. Il suo è il racconto di un artista nato nel 1888, che affonda le radici nell'humus medesimo del compositore. Fino alla morte, incrollabile come Sarastro, Kna rimase fermo sulle proprie posizioni. Indifferente ai cambiamenti di gusto e alle critiche che gli venivano per talune sue opzioni interpretative (ad esempio quella di servirsi delle inaccettabili revisioni Schalk e Loewe nelle incisioni Decca e Westminster delle Sinfonie di Bruckner), diresse Wagner e Brahms con un pendolarismo che fa sospettare che la querelle Brahms-Wagner potesse ancora risultare di qualche attualità ai suoi occhi.
Il mondo della musica cambiava, gli allestimenti wagneriani erano sempre più figli dei registi d'avanguardia e sempre meno dei Kapellmeister, ma, difeso dal proprio umorismo, Kna si guardò dal seguire le mode. A Monaco di Baviera la gratitudine per questo custode della musica è grandissima ancor oggi. Nella città su1l'Isar opera una Knappertsbusch Gesellschaft di cui per un certo periodo chi scrive è stato membro. Nel Nationaltheater ricostruito mille cose evocano colui che tale ricostruzione alfierianamente volle. Chi entra dall'ingresso laterale del teatro sulla Maximilianstrasse, ad esempio, s'imbatte in un busto bronzeo di Kna. La fattura è piuttosto rude - come rude era il modello - e probabilmente per gli ignari turisti quella fisionomia dagli zigomi alti e dagli occhi stretti ha qualcosa di pauroso. Ma i vecchi bavaresi, quando passano davanti al busto, hanno un sorrisetto sulle labbra. Se non siete troppo di fretta, se la levata del sipario non è incombente, fateci caso.
Michele Salvini
("Symphonia" N°51 Anno VI, Giugno 1995)