Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, giugno 26, 2009

La Passione secondo Nikolaus

Pregi e difetti della più recente rivisitazione della «Passione secondo Matteo» diretta da Nikolaus Harnoncourt. Pur non avvicinandosi in modo 'autentico' alla pratica esecutiva propria di Bach, rimane indubbia l'incantevole esecuzione del Concentus Musicus; non impeccabile nelle parti corali, ma sbalorditiva nella caratterizzazione dei personaggi principali. Il posto d'onore all'intepretazione di Bernarda Fink nelle arie da contralto.

Recentemente ho avuto una serie di stimolanti scambi di opnioni con uno tra gli scrittori più percettivi, Bernard D. Sherman, circa le opere sacre di Bach. Sherman, il quale stava scrivendo un articolo sull'approccio cristiano di Masaaki Suzuki nei confronti di Bach, era interessato a quei problemi dovuti a ciò che egli definisce «nuovi problemi di autenticità». Essi gravitano attorno alla spinosa questione di come l'universalità della musica sacra di Bach possa essere riconciliata con la sua intrinseca filosofia cristiana luterana. Sherman è particolarmente infastidito dal fatto che affermazioni circa «i vantaggi per gli interpreti cristiani di Bach», (come ad esempio Suzuki ed Herreweghe), comportino una situazione di «disagio per molti di noi». Ho sfiorato questi argomenti allorché ho recensito una registrazione della Passione secondo Matteo diretta da Suzuki, forse anche causando involontariamente il disagio di Sherman (e di altri indubbiamente), poichè sostenevo che la cristianità di Suzuki nella sua registrazione è chiaramente formale. Dico inavvertitamente, in quanto sebbene il mio personale approccio alle opere sacre di Bach avvenga attraverso la stessa fede, non potrei affermare la loro esclusività cristiana più di quanto non lo faccia in effetti lo stesso Suzuki. Soprattutto, la Passione secondo Matteo, per quanto molti di noi credano ispirata dal divino, rimane (probabilmente) il monumento trascendente della civiltà occidentale. Dunque dove si colloca la nuova registrazione di Harnoncourt nello schema delle cose? Ad essere sincero, non so se egli affronti Bach dal punto di vista cristiano oppure no. Sospetto di sì, ma la stessa registrazione ci dice qualcosa sulla sua interpretazione, che è meno dichiaratamente «spirituale» e più drammatica di quella di Suzuki, proprio come quelle di Herreweghe. Indubbia è la devozione di Harnoncourt per Bach in generale, ed in particolare per la Passione secondo Matteo. Questa è la sua terza registrazione di quest'opera, dopo le versioni realizzate nel 1971 e nel 1985. Paradossalmente, in termini di «autenticità» musicale, è la registrazione più datata ad avvicinarsi di più alla pratica esecutiva propria di Bach (lasciando da parte per il momento l'acceso dibattito sui cori con una sola voce per sezione) mediante l'impiego di gruppi vocali esclusivamente maschili. A quel tempo essa veniva giustamente acclamata come una luce radicalmente nuova su quest'opera, oggi i limiti inerenti nell'usare fanciulli solisti molto più giovani di quelli voluti da Bach, per non parlare del suono che mostra i segni dell'età, la farebbe probabilmente cancellare dalla maggior parte delle liste di gradimento. Lo stesso si può dire della esecuzione del 1985, una registrazione dal vivo con la Concertgebouw Orchestra di Amsterdam, che soffre di una eterogenea prestazione da parte dei solisti e di un più acceso manierismo di Harnoncourt che solo i più ferventi devoti del direttore troverebbero forse accettabile.
Sebbene non impeccabile, la nuova versione mi colpisce per il considerevole passo avanti rispetto alle due esecuzioni precedenti. In effetti è una di quelle esecuzioni che mi piacerebbe tenere sul mio scaffale accanto a quelle dirette da Herreweghe e al cofanetto BIS di Suzuki, poiché contiene notevoli risorse ed intuizioni tali da renderle ad esse complementari e supplementari. In modo interessante, come nell'ultima registrazione di Herrewghe, Harnoncourt ha diminuito il tempo totale della esecuzione. Nel 1971 ha impiegato 175 minuti, riducendo ancora i tempi nel 1985 a 166 minuti, mentre nell'ultima registrazione il tempo totale si avvicina a quelli della seconda di Herreweghe (161') e di Suzuki (164'). E' un indice di come ci siamo gradualmente abituati ai tempi più veloci in Bach, il fatto che nessuna delle esecuzioni di Harnoncourt mi sembri esagerata. L'unica lamentela su questo fronte riguarda «Komm susses Kreuz» (No. 57), non tanto perché il tempo è troppo veloce, quanto perché esso sembri troppo lento. Infatti la velocità è quasi identica a quella sostenuta da Suzuki, che però non mi ha infastidito allo stesso modo. L'impressione è senza dubbio dovuta alla pesantezza enfatica e al manierismo della viola da gamba nell'obbligato. Parlando di manierismi: grazie al cielo sono ppochi, a parte la occasionale «ridondanza» di note; la mia unica altra riserva riguarda i ritmi eccessivamente decisi ed enfatici nel coro di apertura, che interrompono lo scorrere del movimento. Diversamente non c'è nulla se non un elogio nei confronti delle ultime riflessioni di Harnoncourt sull'opera, che non solo evincono un approccio enormemente toccante all'architettura di tutta l'opera, frutto di lunga esperienza e familiarità, ma anche molti, molti momenti di rivelazione. Ascoltate, ad esempio, la direzione superbamente tesa e risoluta nell'aria del basso «Gebt mir» (No.42), che mette in risalto le esigenze del testo in un modo non eguagliato dal virtuoso ma irrilevante cantato di Widmer, oppure l'ardente insistenza dell'incitamento prolungato in «Sehet, Jesus hat die Harid» (No. 60), in questo caso sostenuto pienamente da Bernarda Fink. Prima di passare all'aspetto vocale, lasciatemi aggiungere che una delle perle di questa nuova registrazione è l'esecuzione del Concentus Musicus, eccellente sia come ensemble, sia nelle numerose parti di obbligato, le fioriture attribuite agli archi sono indubbiamente dovute almeno in parte all'acustica eccellente della sede della registrazione, la Jesuit Church di Vienna. Sfortunatamente, quelle qualità acustiche non possono fare nulla per risolvere ciò che secondo me rappresenta il più grande difetto di questa registrazione, e cioè la dimensione del coro. Come sapranno gli assidui lettori, mi comporto da agnostico quando si parla di cori che impiegano una voce per sezione, ma qui il coro è semplicemente troppo grande. Oltre a nascondere i dettagli, esso risulta sostanzialmente più imponente dei cori impiegati da Herreweghe (nella seconda edizione) o da Suzuki, entrambi i quali si attengono strettamente al Bach ideale riscontrato nel famoso memorandum di Lipsia. Qui il semplice numero non funziona nella scrittura contrappuntistica di Bach, in cui la difficoltà ad articolare con precisione comporta un suono opaco e una dizione confusa. I corali (interpretati con un buon ritmo scorrevole) sono molto meglio, ma anche le cesure confuse minacciano in qualche modo le parti della turba, rendendo quindi fiacco l'impatto drammatico. Per quello bisogna ascoltare i recitativi della narrazione, eseguiti con una immediatezza e una forte intensità che li mettono al livello di quelli diretti da Herreweghe nella seconda edizione. Come anche in quella registrazione, c'è un cantante lirico di rilievo che sfodera tutta la sua formidabíle abilità eseguendo la parte dell'Evangelista che conduce la narrazione, seguito immediatamente dalla nobile dignità e autorità del Gesù mirabilmente interpretato da Goerne. Per sentire Goerne e Prégardien che insieme racchiudono una splendida esecuzione dall'inizio alla fine, ascoltate il recitativo nella narrazione che comprende il momento conclusivo della vita di Gesù, in cui il grido «Eli, Eli» diventa un momento di tensione seguito da uno sfogo velato di «Lama asabthani» (Perché mi hai abbandonato?) che trasmette la sua amarezza quasi insopportabile. Proprio poche pagine più avanti, il racconto dell'Evangelista delle donne davanti al crocifisso è presentato con tale tenera sensibilità che commuove ancora una volta nel profondo del cuore. Non dimentichiamo inoltre l'impegno attentamente osservato da Henschel nei ruoli di Giuda, Pietro, Pontefice I e Pilato: il suo Pontefice contrasta fortemente con un inusualmente simpatico Pila, il quale, quando chiede alla folla se rilasciare Barabba oppure Gesù, non lascia ombra di dubbio su quali siano le proprie preferenze. Nella Passione secondo Matteo eseguita con il Concertgebouw, Harnoncourt preferì voci femminili nelle parti soliste per contralto, una scelta che qui ha confermato, opponendosi dunque a quelle di Herreweghe e Suzuki. Ho già citato la Fink, con le sue arie che vince facilmente il posto d'onore, conseguendo una tra le migliori interpretazioni tra le sue registrazioni. Come verrà ricordato, le arie per contralto nella passione secondo matteo sono, fatta eccezione per «Sehet, Jesus», come ho detto sopra, una espressione profondamente penitenziale. La Fink trasmette a tutte le arie non soltanto la sua abituale intonatone riccamente luminosa, ma una profonda introspezione. Il suo triste «Ebarme dich» (No.39) è solo la punta di uno splendido iceberg. Nessuno degli altri solisti eguaglia la bravura della Fink, ma decisamente non ci sono difetti gravi. Si noterà sin dall'inizio, come Jeffrey Thomas nella sua ultima registrazione per la Koch, come Harnoncourt assegni a ciascuno dei «Cori» di Bach un distinto ruolo di solista. E' particolarmente piacevole elogiare Christine Schäfer nella parte del soprano I, nonostante si tratti di una cantante che non mi aveva mai colpito granchè prima d'ora. La sua voce si amalgama bene in «So ist mein Jesus» con la Fink (No. 27a), interpreta bene il testo, e si impone con grande effetto nell'impegnativo e doloroso «Aus liebe» (No.49), mantenendo un buon controllo della voce e una perfetta intonazione. Il suo omonimo Markus è eccellente nella sua violenta interpretazione di «Geduld!» (No.35), la cadenza sulla parola «stecheri» (spina), tipica di una interpretazione dell'aria che effettivamente mette in risalto il contrasto tra sopportazione e collera. Anche la Röschmann (forse il suo approccio è un po' troppo operistico) e la von Magnus danno un'impressione positiva in quelle piccole parti a loro assegnate, Schade e Widmer un po' meno. Henschel, che cantò tutte le arie del basso nella seconda edizione di Herreweghe, mette meno impegno nelle sue arie di quanto ne abbia profuso nei ruoli appena citati, dimenticando inoltre di lasciare un'impronta di vera autorità in «Mache dich» (No. 65). Comunque egli è eccellente nell'evocazione del pomeriggio del recitativo precedente, in cui l'accompagnamento morbido e ondeggiante degli archi rappresenta un altro esempio dell'incantevole esecuzione del Concentus Musicus. I lettori che hanno collezionato i vecchi cofanetti di LP Teldec contenenti la musica sacra di Bach ricorderanno che una delle loro caratteristiche era l'inclusione nel cofanetto della partitura manoscritta dallo stesso Bach. Bene, la tecnologia è andata avanti, e la casa discografica ha avuto la brillante idea di inserire la partitura nel terzo disco del cofanetto, accessibile dal un PC oppure da un Mac. Io ho provato per qualche minuto, ma dubito che molti riusciranno facilmente a seguire lo spartito da un monitor durante un ascolto, le parole dal mio PC sono indecifrabili. Chi è interessato al manoscritto, può trovare utile stamparne le pagine di interesse per una comoda lettura in un momento di maggiore tranquillità. La confezione è semplice, meno della metà della larghezza del cofanetto di Herreweghe, ma non mi preoccupo di una custodia che inevitabilmente causerà le abrasioni superficiali dei dischi. La mia prima personale scelta per una sola Passione di Matteo rimane la prima edizione di Herreweghe, ma ora non potrei vivere senza la seconda esecuzione di Herreweghe e quella di Suzuki, unite adesso alla versione emozionante e profondamente ponderata di Harnoncourt. La raccomando per i suoi molti aspetti introspettivi, la meravigliosa esecuzione strumentale, la sbalorditiva caratterizzazione dell'Evangelista e di Gesù, e, sicuramente non ultima, l'indimenticabile interpretazione della Fink nelle arie per contralto.

di Brian Robbins ("Orfeo", n.90, aprile 2005)

venerdì, giugno 19, 2009

I raccomandati di J.S.Bach

Recentemente Andreas Gloeckkner, musicologo dell'Archivio di Bach di Lipsia che ha svolto ricerche musicali presso la chiesa St. Pauli dell'Università di Lipsia, nello stesso archivio universitario ha rinvenuto tre autografi inediti di Bach. Si tratta di documenti risalenti agli anni 1743, 1745 e 1748 che aggiungono preziosi tasselli alla biografia di Bach. L'importanza di questi autografi è da sottolineare soprattutto perché essi ci permettono di circostanziare con maggiore attendibilità la data di morte di Bach, sino ad ora incerta. Abbiamo chiesto a Gloeckner i dettagli di questa scoperta.

Ci può dire cosa l'ha portata sulle tracce di questi autografi?
«Nel 2007 mi fu chiesto di scrivere un saggio su "Bach e l'Università di Leipzig" in occasione dei seicento anni dell'Università che ricorreranno nel 2009. Poiché nelle letteratura bachiana già esistente questo aspetto non è evidenziato, nella primavera del 2008 iniziai una ricerca sistematica degli atti presenti nell'archivio dell'università. Ad un certo punto trovai tracce che mi condussero direttamente a due di questi autografi di Bach. In un protocollo del concilio universitario del 1753 avevo letto che il successore di Bach, Gottlob Harrer aveva scritto una "lettera di raccomandazione" per il primo prefetto di allora Johann Adam per una borsa di studio da assegnargli in quanto allievo meritevole. Ciò mi fece pensare che anche Bach avesse potuto scrivere tali lettere. In effetti alcuni giorni seguenti trovai un fascicolo contenente le lettere di raccomandazione scritte per mano di Bach. Tali fascicoli non erano più stati consultati dalla seconda metà del XVIII secolo, pertanto non erano stati ancora catalogati».
Mi è parso di capire che questi autografi sono delle lettere di raccomandazione, vero?
«Esattamente, si tratta di cosiddetti certificati, ossia lettere di raccomandazione che Bach ha scritto di suo pugno per tre dei suoi prefetti negli anni 1743, 1745 e 1748. Questi si candidavano per una borsa di studio che il medico Mathern Hammer dell'Università di Leipzig aveva istituito dal 1591 per alunni molto dotati e bisognosi della Scuola lipsiense di S. Torrimaso».
Che funzione avevano a quei tempi tali lettere di raccomandazione?
«Per una assunzione o per ottenere una borsa di studio tali lettere erano indispensabili, perciò molti alunni si rivolgevano a Bach al fine di ottenerle. Che Bach avesse scritto tali certificati per delle assunzioni ci era già noto, ma che ne avesse scritti per l'ottenimento di borse di studio è una novità, così come ci era finora sconosciuta l'esistenza di una borsa di studio per alunni bisognosi della Scuola di S. Tommaso».
Tra gli atti dell'Università si trova inoltre un protocollo contenente elementi utili a stabilire l'anno di morte di Bach. Cosa ci dice al riguardo?
«Da un protocollo del 21 giugno 1753 si evince che il prefetto Johann Adam Franck aveva sostituito dal 1750 J.S. Bach, cantore ormai malato di S. Tommaso. Come prefetto della prima cantoria Franck aveva probabilmente curato anche la parte musicale del funerale di Bach il 30 o il 31 Luglio 1750 e, per incarico della vedova Anna Magdalena si occupò dei suoi affari fino alla nomina del suo successore».
Quale importanza hanno i nuovi autografi per la ricerca bachiana?
«Per quanto riguarda l'anno di morte di Bach (1750) il protocollo già citato fornisce una importante informazione. Al più presto il sabato santo (28 marzo) o il lunedì dell'Angelo (30 marzo) del 1750 il cantore di S. Tommaso si sottopose ad una operazione agli occhi, in seguito alla quale mori quattro mesi dopo. Secondo affermazioni di Carl Philipp Emanuel Bach, suo padre aveva ancora una vivace "forza d'animo e fisica". Tuttavia la sua vista era fortemente danneggiata, pertanto al più tardi il venerdì santo del 1750 fu sostituito nei suoi compiti. Bach subì poi una seconda operazione il 4 e l'8 Aprile 1750 a cui però seguì una infezione che lo portò alla morte. Secondo i documenti in nostro possesso Bach sicuramente alla Pentecoste del 1750
non era in grado di espletare le sue funzioni di cantore di S. Tommaso, pertanto Johann Adam Franck quella domenica dovette non solo partecipare alla celebrazione religiosa nella chiesa universitaria St. Pauli, ma anche a quelle delle chiese di S. Nicola e S. Tommaso per sostituire il cantore malato. Anche dopo la morte di Bach, Franck si occupò della musica a S. Tommaso, certamente fino al 29 Settembre 1750, quando Gottlob Harrer fu nominato successore cantore».

di Valeria Andriani ("il giornale della musica", Anno XXV, n.257, marzo 2009)

venerdì, giugno 12, 2009

Schönberg: note di regia a "La mano felice"

Il testo seguente è stralciato dalla lettera del 14 aprile 1930 indirizzata a Ernst Legal, soprintendente della Kroll-Oper di Berlino. Si trova in J. Rufer, Das Werk A. Schönbergs, Kassel-Basel-London-New York 1959, p. 15 sg..

Per La mano felice bisogna tener conto soprattutto di quanto segue:
  • Per il gioco luce-colori. Sono necessarie fonti luminose molto intense e colori buoni: le scene devono essere dipinte in modo da assorbire i colori!
  • Per mille motivi l'allestimento scenico deve seguire per filo e per segno le mie indicazioni, perché altrimenti non funzionerà nulla. A suo tempo preparai alcuni bozzetti che ora dovrei andare a cercare. Ad ogni modo, dovrei ricevere gli schizzi per tempo onde prenderne visione.
  • Ho fissato esattamente anche le posizioni degli attori e i loro movimenti sulla scena. Sono convinto che sia necessario attenervisi scrupolosamente perché tutto proceda bene.
  • E' molto dífficile illuminare i dodici volti nel primo e nel quarto quadro, farli sparire e poi riapparire (e di colpo!) e quindi bisognerà discuterne.
  • Il mostro favoloso deve essere molto grande. Il tentativo, compiuto a Vienna e a Breslavia, di farlo rappresentare da un uomo non si è rivelato fino ad ora in alcun modo soddisfacente. Soprattutto alla fine del terzo quadro, quando il macigno comincia a brillare e piomba sull'Uomo, rivelandosi infine come il mostro stesso. Soprattutto, nessun attore è riuscito a compiere un salto così lungo, da due metri e mezzo a tre metri circa. D'altra parte, un salto non somiglia a una caduta. Qui la cosa migliore sarebbe rifarsi alla mia descrizione.
  • Alla fine del primo quadro il sipario deve squarciarsi, il che finora non è mai riuscito, neppure vagamente. Mia moglie ritiene che si possa ricorrere a una proiezione. Credo che un abile tappezziere dovrebbe riuscirvi, intrecciando insieme le cordicelle delle gelosie.
  • Parimenti, alla fine del primo quadro «veli neri» discendono sull'Uomo. Anche questo problema è finora irrisolto.
  • Non è facile neppure fare il «sole» nel secondo quadro. Deve stare molto in basso!
Credo di aver segnalato le cose che fino ad ora ci hanno procurato le maggiori difficoltà.
Non ho particolare simpatia per le cosiddette scene «stilizzate» (quale stile?) e nella scena amo vedere la mano ben esercitata di un pittore che tira retta una linea retta e non prende esempio dai disegni infantili o dall'arte dei popoli primitivi. Nelle mie opere luoghi e cose recitano anch'essi, e perciò bisogna poterli distinguere chiaramente, al pari delle altezze dei suoni. Se uno spettatore di fronte a una scena enigmatica («Dov'è il cacciatore?») è costretto a chiedersi cosa significhi, non sentirà parte della musica. Può darsi che egli lo gradisca, ma, per me, è un effetto indesiderato.

da "Schönberg /Kandinsky - Musica e pittura", SE, 2002

sabato, giugno 06, 2009

Stockhausen: La cavalcata degli Helicopter

Roma, Sala Sinopoli: domenica 18 gennaio, alle ore 11, in collaborazione con l'Istituzione Universitaria dei Concerti.

Che cosa hanno in comune un quartetto d'archi e un quartetto di elicotteri? Chi vuole conoscere la risposta oitrà partecipare a quello che si propone come l'evento più spettacolare della stagione di musica contemporanea dell'Auditorium di Roma: l'esecuzione da parte del Quartetto Arditti di Helicopter Quartet, uno dei lavori forse più provocatori e visionari di Karlheinz Stockhausen.
"Visionario" è proprio la parola giusta, visto il compositore tedesco, scomparso nel dicembre del 2007, ha spiegato che l'origine di questo quartetto sta in un sogno fatto nel 1991. Stockhausen aveva ricevuto ripetutamente la richiesta di comporre un quartetto per archi da Irvine Arditti, fondatore dell'omonimo ensemble londinese, che desiderava avere una composizione dedicata da portare nelle sale da concerto di tutto il mondo. Ma il rifiuto del maestro era stato chiaro: Stockhausen non aveva mai creato una composizione che rispondesse ad una forma classica, quartetto, sinfonia o concerto e non vedeva proprio il motivo per farlo, dal momento che nella sua musica forma, contenuto e performance erano elementi che si combinavano molto strettamente e che erano nuovi e specifici per ogni composizione. Irvine Arditti non si era arreso così facilmente e nel novembre del 1990 aveva chiesto al Salzburg Festival di commissionare un quartetto a Stockhausen, riservando all'Arditti la prima esecuzione, che sarebbe avvenuta nel 1994. La richiesta era stata accolta e l'opera era stata commissionata all'inizio del 1991. E a questo punto, probabilmente nei giorni in cui rifletteva se accettare o no la proposta, Stockhausen aveva avuto un sogno: quattro elicotteri si alzavano in volo, ciascuno con uno strumentista che suonava, mentre della gente guardava e ascoltava lo spettacolo in una sala, attraverso quattro torri dotate di altoparlanti e televisori. Limpressione del sogno e in particolare di come il suono degli archi si amalgamava con i rotori degli elicotteri, fu talmente forte che Stockhausen decise di realizzare il singolare quartetto e ne fece la terza scena dell'opera che andava componendo dal 1977 A Wednesday from light. L'HeIicopter String Quartet venne coraggiosamente accettato dal festival di Salisburgo ma l'opposizione del partito politico dei verdi e il costo esorbitante dell'operazione non resero possibile la prima, programmata per il 1994. Solo l'anno seguente, grazie all'interesse per il progetto dell'Holland Festival e del suo direttore Jan van Vlijmen, la composizione fu messa in scena ad Amsterdam per un totale di tre repliche consecutive, il 26 giugno.

Maestro Arditti, Lei ha lavorato con Karlheinz Stockhausen ed ha avuto una parte importante nell'avvio della composizione di questa suggestiva opera. Come ricorda il maestro e come lo descriverebbe, come uomo e come artista?
«Stockhausen era un uomo incredibile e la sua personalità, così imprevedibile e vitale, è stata importantissima nella formazione del mio interesse per la musica contemporanea. Ha dedicato la sua vita alla composizione con estrema dedizione ed era sempre intimamente coinvolto in quello che scriveva; pensi che alla prima prova dell'Helicopter String Quartet, quella in sala senza elicotteri, mi resi conto che conosceva perfettamente la partitura che aveva scritto circa un anno e mezzo prima».
La storia del sogno da cui sarebbe derivata l'idea di questa composizione, è una leggenda o ha avuto modo di parlarne con il maestro?
«Penso proprio che sia vera, perché me l'ha raccontata lui stesso con grande gusto. Avevo chiesto più di una volta al maestro di comporre un quartetto per il nostro ensemble, sin dagli anni Ottanta; ma la risposta era sempre stata no. Stockhausen non si riconosceva in forme 'antiche' come il quartetto, la sinfonia e il concerto».
Secondo Lei, qual è il messaggio estetico che questo lavoro vuole comunicare? Superare i limiti di una performance concertistica? Mostrare il legame tra la musica e il cielo/cosmo?
«Secondo Stockhausen questo è un altro dei suoi lavori legati alla rappresentazione del movimento della musica nello spazio, me lo spiegò lui stesso. Mi disse anche che era uno fra i primi compositori dopo centinaia di anni ad interessarsi di questo aspetto della musica e che lo aveva fatto sin dalle sue prime composizioni. Non sono d'accordo con lui: infatti anche se noi ci muoviamo nello spazio, il pubblico non sente realmente quel movimento nella sala da concerto. Lavori come Gruppen sono un altro discorso. Credo che il messaggio fondamentale sia: non chiedete a Stockhausen di scrivere un quartetto d'archi normale... E' ovvio che Stockhausen ha creato un pezzo di anti-musica da camera: non esiste un altro pezzo al mondo in cui i musicisti suonano senza potersi ascoltare l'uno con l'altro. Questo non è nuovo nella sua musica: è lui (ora ovviamente il regista del suono) a controllare davvero il risultato finale, dalla consolle dove i segnali dei vari microfoni arrivano».
Cosa prova suonando su un elicottero e non in una sala da concerto? Quali sono le principali sfide che questa composizione pone all'esecutore?
«Ovviamente è una cosa totalmente diversa dal suonare in una sala da concerto. Richiede un'enorme quantità di concentrazione suonare nello spazio ristretto di un elicottero rumoroso, leggendo da una partitura che deve riuscire a rimanere ferma per tutto il tempo, senza avere la possibilità di ascoltare gli altri tre colleghi. Sì, direi che le difficoltà principali sono proprio queste: la concentrazione in un luogo difficile e la sincronia con gli altri».
Come ha reagito il pubblico nelle precedenti, rappresentazioni di questo quartetto?
«Penso proprio di poter dire che il pubblico sia rimasto totalmente sconcertato».

di Daniela Gangale ("il giornale della musica", Anno XXV, n.255, gennaio 2009)