Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, aprile 19, 2007

VII Concorso Internazionale per Quartetto d'Archi Premio Paolo Borciani - 2005

E' con molta nostalgia che ritorno ai giorni bellissimi trascorsi a Reggio Emilia in occasione dell'ultima edizione del Premio Paolo Borciani. Ero molto curioso di poter ascoltare giovani quartetti provenienti da tutto il mondo. Mi sembrava l'occasione per capire in quale direzione stia muovendo il quartetto d'archi, se sia o no alla volta di una identità sovranazionale condivisa in tutto il mondo, e misurare di quale entità sia il debito che i giovani hanno, se ancora ne hanno uno, con la propria tradizione e la propria scuola. Non avevo idea di cosa avrei trovato ma - confesso - speravo di sentir pronunciare una parola nuova.
Cercherò di raccontarvi qualcosa; abbiate pazienza, sarà un racconto del tutto soggettivo.
E' la serata finale, il concorso è già finito. Passeggio nella penombra del palcoscenico, solo, in attesa. Di là dal sipario, il bagliore della sala e il rumore del pubblico che prende posto. Di qua, il palcoscenico è uno spazio che nella penombra sembra enorme. La prima volta che ho suonato in pubblico è stato in un teatro come questo; il buio e la dimensione mi spaventavano, e badavo bene a non allontanarmi dalla zona illuminata dei camerini. Il mio maestro aveva avuto il suo daffare ad insegnare a me e ad un'altra bambina come ci si inchina. Abbassate gli occhi, l'inchino è un gesto discreto di ringraziamento.
Per tutta la settimana, i concorrenti hanno abitato solo il palcoscenico. Ora li vedo di persona, scambio qualche parola, cerco di capire se sono diversi dall'idea che mi ero fatto. Un giornalista della radio è allegramente dappertutto col suo microfono; un tecnico dei suono vigila: il concerto è in diretta su RAi Radio3.
Il violoncellista degli Haas ha preso possesso di una sedia in mezzo al palco, spalle ad un pilastro. E' lì solo, dei suoi colleghi non c'è traccia. Mi fa vedere che il suo strumento si è scollato, e mi fa sentire che razza di rumori produca: una vera falegnameria, ma quando suonerà non si sentirà affatto. Mi pare saggio e adulto. Ha vinto, in fondo avrebbe tutto il diritto di darsi qualche aria, invece sorride sereno.
Gli americani del Chiara sono un po' sfuggenti. Si muovono in fretta, coordinati tra loro, quasi si telecomandassero in squadriglia. Lei, il primo violino, è luminosa e un poco stanca: è mamma da poco, mi chiedo se durante il concorso sia stata distratta dal pensiero del bimbo che ha portato fin qui, o se le sia stato d'aiuto. Quando suona quasi non solleva gli occhi, se non per lanciare qualche lampo improvviso, non sai dire se intrepido o titubante. Il violoncellista sembra dipendere da lei, suona voltato dalla sua parte, quasi in uno spasmo. Il violista, un giovane uomo molto signorile, è come se si sentisse in dovere di proteggere entrambi. Il secondo violino, una giovane e minuta donna orientale, mi era parsa una piccola guerriera e ora mi sembra invece assai dolce. In semifinale hanno eseguito una bella "Morte e la Fanciulla".
Le quattro australiane del Tankstream sono tranquille, come fossero lì per caso. Quando suoneranno, faranno fuoco e fiamme. Ma adesso per loro vige il rompete le righe, continui a vederle, ma mai tutte insieme. Per uno strano fenomeno di attrazione si materializzeranno in un quartetto al momento buono. Vedo l'espressione un po' seria dei finalisti che non suoneranno questa sera. Saremo tutti insieme sul palcoscenico, concorrenti e giuria, al momento della premiazione, di fronte al pubblico in festa. Voglio ricordarli: gli americani del Biava, gli unici tra i finalisti ad avere un primo violino uomo, che hanno avuto il quarto premio, offerto a sorpresa da una generosa spettatrice, ad indicare il livello straordinario della competizione - l'avevo incontrata prima della finale: diceva che davvero non avrebbe voluto far parte della giuria, con tanti concorrenti così bravi e la responsabilità di dover scegliere fra loro! -, gli inglesi dell'Elias, un quartetto elegante e solido, di cui ricordo un bel terzo Quartetto di Britten e che mi rammarico sia tornato a casa avendo raccolto poco, e i tedeschi del Faust, tre belle ragazze e un atletico giovanotto, felici di suonare e fiduciosi nella vita, il cui sorriso questa sera è solo un poco corrucciato.
Comincia il concorso. Ma sono leove e mezza del mattino! E gli ascolti, quest'oggi, dureranno fin quasi a mezzanotte, se saremo in orario.
I primi a suonare sono i Jade, cino-coreano-taiwanesi, eleganti nei loro vestiti da sera. Si sono presentati ben 22 quartetti, da tutto il mondo. Di alcuni conservo un ricordo vivo. Matangi, olandesi: suonano in una posizione strana, i violini uno a sinistra e l'altro a destra, verso il pubblico, la viola e il cello interni, col cello a sinistra dalla parte dei primo violino, come i Wiener al concerto di Capodanno. Paizo, danesi: disciplinatissimi, equilibratissimi. Parker, americani: in eliminatoria hanno chiuso gli occhi ed eseguito un ottavo di Shostakovich veramente emozionante. Romantic, russi, che hanno portato con sé la macchina del tempo e hanno suonato un affascinante Debussy di un'altra epoca. E poi gli Amedeo Modigliani: quattro simpaticissimi giovanotti francesi - uno dei rari complessi tutti al maschile -, generosi e fantasiosi. Ariel, da Israele: il quartetto più giovane, i cui violini si scambiano e uno dei due è una intrepida ragazzina. Di Cremona, i concorrenti italiani: un quartetto molto accreditato e molto formato, già con una notevole esperienza internazionale.
Di tutti ricordo la modestia, il desiderio di confrontarsi e di crescere. Con alcuni ho avuto occasione di scambiare due parole, al termine della loro partecipazione. Non posso dimenticare la dignità del Parker, e lo sguardo penetrante, freddo del primo violino del Quartetto Paizo - molto più giovane di come mi era sembrato che mi misura mentre ascolta ciò che ho da dirgli. Distoglie lo sguardo, pensa un po', poi mi dice: "Sono cose che non ci aveva mai detto nessuno, ci penseremo", mentre, dietro di lui, il secondo violino mi sembra respirare. Ma la parola definitiva l'ho avuta dal primo violino dell'Amedeo Modigliani. Eliminato, fuma con gusto una bella sigaretta e mi dice: "Maestro, abbiamo vent'anni, facciamo quartetto da due, cosa vuole che..." e mi fa così con la mano della sigaretta. Una lezione, il futuro è loro.
In questa babele quartettistica non si resiste a non controllare se i francesi suonano da francesi, i russi da russi, gli americani da americani. Era una delle cose di cui ero curioso. Il responso è chiaro: i francesi suonano ancora da francesi, i russi da russi e così via. A me pare un fatto estremamente positivo. Nonostante le scuole strumentali nazionali abbiano perso molta della loro individualità, la relazione con la lingua parlata - e pensata - è sempre riconoscibile nel suono. E' uno degli argomenti di riflessione che più mi intrigano: quanto l'espressione è involontaria, inevitabile, e quanto è prodotta dalla volontà e dall'educazione? Avrei avuto un suono russo se avessi studiato in Russia? Non credo.
Il giornalista mi para un microfono e mi chiede di parlare dei premiati. Era chiaro che me l'avrebbe chiesto, ma mi accorgo di essere impreparato. Più tardi rileggo i miei appunti e mi stupisco di aver scritto del Quartetto Pavel Haas più che degli altri.
Ricordo il loro secondo di Janácek, di una naturalezza e intensità veramente notevoli. Gli Haas lo eseguono in una personale revisione. Le differenze tra manoscritto e prima edizione sono centinaia, mi diceva il cellista suonando il violoncello sventrato, e nessuno si è mai preso la briga di metterle a confronto. Aver saputo affrontare un lavoro simile presuppone una padronanza profonda dei linguaggio e dell'universo poetico dell'autore, e un'affinità elettiva con la sua musica. Quello degli Haas mi pare un significativo contributo all'arte esecutiva del quartetto d'archi, che con la loro esecuzione è ora a disposizione di tutti.
Il programma che hanno scelto per il concorso è stato un programma ambizioso e significativo. Ciò che ha conquistato, poco per volta, è stata la naturale eleganza che essi possiedono, una dote che è un dono. Ma, assieme all'eleganza, gli Haas mostrano forti radici nella storia e nella cultura dei loro popolo. Così sono gli Haas, oggi: eleganti nel suono, nel fraseggio, nell'equilibrio tra le voci, nella velocità, in cui sanno tuffarsi con vertiginosa leggerezza. Il loro sentire è profondo e autentico, ed è restituito con tanta naturalezza e semplicità da non poter non essere condiviso.
La loro prova ha concluso la finale, a sera. L'ultima cosa che hanno suonato è stato il Quartetto op.59 n.3 di Beethoven. Certo, il tempo era veloce, e si potrebbe discutere se sia o no il tempo giusto, ma alla fine tutto il teatro sorrideva.
Il violino sparato all'insù, gli occhi spiritati, seduta come sui carboni ardenti, con le gambe che non vogliono stare ferme e la schiena che si inarca e si piega in ogni direzione, il primo violino dei Tankstream ha veramente l'argento vivo addosso. Una nota acuta suonata da lei è come se fosse ancora più in alto.
Le Tankstream sono quattro non so se dire giovani donne o ragazze, che più diverse non potrebbero essere: del primo violino ho detto, del secondo si coglie in ogni gesto l'amore per ciò che fa, la viola ha una fragilità e una ricchezza nello sguardo e come spesso accade sembra il perno intorno a cui ruota l'universo emotivo dell'intero complesso, e il cello, che suona con loro da poco, ha mostrato via via sempre più di quale energia possa disporre, di sapersi caricare da sola tutto il peso della musica che insieme stanno suonando. Hanno suonato la semifinale in stato di grazia, con un suono lucente e pieno di energia. Bellissimo il terzo Quartetto di Schnittke.
A Sad Paven for these Distracted Tymes è il titolo dei pezzo scritto da Sir Peter Maxwell Davies per questa edizione del Premio Borciani. il titolo potrebbe sembrare una riflessione sul presente, invece proviene da una composizione per tastiera scritta da Thomas Tomkins nel 1649.
C'è qualcosa di magico e di misterioso nell'osservare un autore che ascolta un suo pezzo: il senso di una vita che si forma e sfugge al suo creatore. Gli occhi chiari e sorridenti, una gentilezza discreta e disponibile, Maxwell Davies si è unito alla giuria per la prova finale e ha ascoltato la sua Sad Paven ben sei volte. Ho avuto la sensazione che Sir Peter abbia ascoltato qualcosa di diverso da ciò che abbiamo ascoltato tutti noi, ma mi è sembrato inevitabile. Il suo è un pezzo complesso, suggestivo, ricco di occasioni per chi lo suona e chi lo ascolta.
Rifaccio la valigia. Non è un lungo viaggio. Mi rimarrà il ricordo di una settimana intensa, vissuta in un teatro accogliente come una casa, e l'amicizia di persone giovani, affettuose ed entusiaste come Guido Borciani, anima del Premio, Francesca Zini, anima del Premio anch'essa, e di tutte le persone che con passione hanno dato vita al Concorso.
Eccoli, i vincitori. Hanno messo borse e strumenti in un angolo e si prendono qualcosa ai tavoli del buffet. Li vedo un po' abbandonati. In un momento la loro vita è cambiata, hanno ragione di avere qualche pensiero. Ma sono felici, si cercano e ridono, tra loro, come se fossero soli. Buona fortuna.

di Fulvio Luciani

sabato, aprile 14, 2007

Rahmin Bahrami; il suo Bach dell'"Arte della Fuga"

Johann Sebastian Bach: Die Kunst der Fuge (L’Arte della Fuga). Ramin Bahrami, pianoforte (Decca)

E’ l’argomento del giorno nell’ambiente italiano della musica classica inteso in senso lato, cioè includendo nella nozione anche i frequentatori non sistematici delle sale da concerto. Ramin Bahrami è un pianista di trent’anni che a guardarlo sembra ancora più giovane. E’ nato a Teheran; adesso vive con la madre in Germania nei dintorni di Stoccarda e ha alle spalle una storia triste. Il padre, ingegnere all’epoca dello Scià, venne incarcerato e ucciso dagli ayatollah. Ramin racconta che fu lui ad avviarlo allo studio del pianoforte e a raccomandargli di suonare soprattutto Bach: “Studia a fondo Bach” gli disse “e non sarai mai solo”. Madre e figlio riuscirono a fuggire dall’Iran e a riparare in Italia. Qui Ramin ha completato gli studi con Piero Rattalino, Alexis Weissenberg e Andràs Schiff. Parla spesso di loro con stima e affetto, al pari dei mitici virtuosi del passato che lo hanno influenzato – Glenn Gould, Claudio Arrau, Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Sviatoslav Richter – ma più ancora cita un suo incontro con Rosalyn Tureck, la pianista americana studiosa e interprete di Bach. Tuttavia, un dialogo con Ramin desta la sensazione che il suo amore bachiano sia un tantino eccessivo e possa, nel prossimo futuro, danneggiarlo. Dice che, se gli avviene di eseguire per esempio uno Studio di Fryderyk Chopin, gli sembra di tradire il suo idolo; e la stessa cosa gli accade addirittura se suona (“come bis”, precisa) una Variazione che ha composto su un tema
di Elvis Presley, dedicata a un’amica.
La partitura, oggetto misterioso
Ramin Bahrami tiene concerti già da vari anni e il cd in esame è il terzo che reca la sua firma, dopo le Variazioni Goldberg del 2004 e l’album doppio del 2005 che contiene le sei Partite e l’Overture Francese, entrambi per Decca (il giovane mira in alto scegliendo opere bachiane imperiture). Vogliamo dire che finora non era accaduto nulla di paragonabile al gran parlare che si fa intorno all’Arte della Fuga secondo Bahrami. Cerchiamo di capire perché. Questa volta ci sono iniziative promozionali: citazioni radiofoniche, qualche incontro con l’interprete, concerti a Milano, Torino, Roma, Napoli e Imola, ma niente di trascendentale. Più consistente è l’argomento del fascino della partitura come oggetto misterioso (ci si passi il termine).
Die Kunst der Fuge fu composta da Bach giunto sul passo estremo della vita, è incompiuta perché la morte sopravvenne prima che fossero terminate la scrittura dell’ultima fuga e l’edizione a stampa, ed è priva dell’indicazione dello strumento o degli strumenti cui era destinata. La consuetudine prevalente di usare il pianoforte o il cembalo è frutto soltanto di ipotesi. A ciò si aggiunga che nei cataloghi le edizioni discografiche reperibili sono sempre poche e rare sono le esecuzioni nelle stagioni concertistiche. I solisti, senza dubbio, temono gli abissi espressivi dell’opera più che le difficoltà tecniche, eppure le platee intuiscono l’evento e lo accolgono con emozione. Chi scrive è in grado di ricordare un’interpretazione del pianista Pietro Scarpini nella Sala dei Giganti al Liviano di Padova. Correva l’autunno 1957 e il pubblico non sembrava preparato: eppure fu un trionfo e se ne parlò e discusse per mesi. Bahrami sostiene che Die Kunst der Fuge, a differenza delle Variazioni Goldberg che sono “ancora legate al mondo terreno”, trascende il desiderio di vivere sulla Terra. L’Arte della Fuga “sta fra la Terra e il cielo ed è, come diceva Paul Hindemith, l’accesso di Bach all’eternità”.
Qualunque cosa si pensi di questo concetto, è indubbio che esso influenzi l’interpretazione di Bahrami. I puristi, nell’ascoltarlo sia nel cd sia dal vivo, avanzano riserve rispetto alla loro idea di Bach. Ma il Bach di Bahrami, tecnicamente impeccabile, non è inferiore a quello di altri. E’ soltanto diverso (più “democratico”, afferma lui contraddicendosi un poco) per via del retroterra culturale dell’esecutore. Va detto piuttosto che l’Arte della Fuga di Bahrami non arriva a 78 minuti mentre altri solisti sfiorano i 90. Ciò non è dovuto a galoppate sui tasti, ma a “consigli” della Decca refrattaria a realizzare un doppio cd. E’ difficile essere d’accordo.

da "Il Foglio Democratico" del 23 marzo 2007

domenica, aprile 08, 2007

Leonard Bernstein e Gustav Mahler

Nell'ottobre del 1990 si è spento il direttore d'orchestra, compositore, pianista e acuto-sensibile pensatore musicale Leonard Bernstein. La sua vita è stata così esuberante come il suo modo di far musica. Se si pensa a tutte le sue attività, animate sempre da una grande gioia di vivere, si può dire che Bernstein assomigliasse a una candela dalle energie vulcaniche accesa alle due estremità che irradiava un ottimismo artistico in ogni settore della società moderna. Tutti provavano rispetto per Bernstein, tutti lo amavano: i fautori della musica filosofica di Mahler, gli appassionati di Beethoven, i fan del musical, gli ebrei, i cristiani, i melomani di tutto il mondo, i giovani e i vecchi, i direttori d'orchestra all'inizio della carriera, i vecchi maestri della bacchetta, leali abbastanza da riconoscere in Bernstein il rappresentante di una nuova, altamente creativa generazione, gli strumentisti cui diede la sua assistenza, i cantanti che da lui poterono trarre ispirazione, e i tecnici dei suono che hanno contribuito a conservare nel tempo la sua eredità musicale. Per non dimenticare i milioni di persone cui egli parlò attraverso la televisione nel corso di inconfondibili, poco ortodosse, fantasiose lezioni ad Harvard nel 1973. Quelle trasmissioni divennero l'esempio classico di come l'epoca della videocultura non debba necessariamente formare il tipo del "vidiota", ma che possa almeno parzialmente - contribuire ad impedirlo. Allo stesso tempo, però, Bernstein era consapevole che il suo spirito universale si esprimeva in un mondo carico di aggressività e di stoltezza. La sua magistrale sinfonia "The Age of Anxiety" è la prova che in lui era ben salda la coscienza del pericolo, e al di là del podio, della scrivania, della sala concertistica e del pianoforte, egli si occupò anche dell'individuo ingiustamente perseguitato.
Bernstein è sempre stato un antesignano. In un'epoca di rigido schematismo intellettuale, con la semplice frase che non esiste una musica "leggera o seria", ma solo musica "buona o cattiva", egli infranse tutte quelle categorie grossolane fissate dagli ideologi culturali. Quando pochi parlavano di Mahler e ancora meno lo eseguivano, Bernstein scoprì i valori essenziali di questa figura bifronte di fine secolo e nel 1967 presentò al pubblico il suo saggio: "Gustav Mahler - il suo tempo è arrivato". In esso Bernstein scrisse di una "figura colossale a cavallo della magica data '1900'. Egli è là, con il piede sinistro (più vicino al cuore!) saldamente radicato nel ricco, amato diciannovesimo secolo, il destro, un po' meno stabile, che cerca un appoggio sicuro nel ventesimo secolo. Alcuni sono dell'opinione che egli non abbia mai trovato questo appoggio; altri (e io sono d'accordo con loro) continuano a dire che la musica del ventesimo secolo non sarebbe mai diventata come noi la conosciamo se questo piede destro non avesse toccato il terreno con un tonfo imperioso". E dopo un confronto fra Mahler, Strauss, Sibelius e Schönberg, Bernstein arriva alla conclusione: "Soltanto Mahler rimase teso fra i secoli; il suo destino fu di riassumere, di imballare e di accompagnare nell'uttimo viaggio quel fantastico tesoro che era la musica tedesco-austriaca da Bach a Wagner." Bernstein non si limitò a riflessioni cronologiche. Come mente acutamente analitica tesa all'essenza delle cose (senza perdersi mai in un arido intellettualismo), egli vide la psiche dell'uomo Mahler come fonte dalla quale tutto aveva origine: in fondo tutta la musica di Mahler tratta di Mahler - il che significa semplicemente che tratta di conflitti. Pensate: Mahler il creatore contro Mahler l'esecutore; l'ebreo contro il cristiano; il credente contro lo scettico; l'ingenuo contro il sofisticato; il boemo provinciale contro l'homme du monde viennese; il filosofo faustiano contro il mistico orientale; il sinfonista operistico che non scrisse mai un melodramma. Ma la battaglia infuria soprattutto fra l'uomo occidentale a cavallo fra i secoli e la vita dello spirito. Da questa contrapposizione nasce l'infinita lista delle antitesi - l'intero elenco Yan e Yin - che vive nella musica di Mahler". E' partendo da questa cognizione che Bernstein tratteggia il "suo" Mahler sul podio - basta già ascoltare come Bernstein interpreta il folle, addirittura grottesco mutamento di atmosfera nella marcia funebre della Prima Sinfonia!
Non si può negare che Bernstein e Mahler presentino molti punti in comune ma anche altrettante diversità. Mahler e Bernstein tesero ad armonizzare i contrasti, e proprio attraverso questa ricerca venne alla luce per entrambi quella verità artistica che deriva dal mettere a nudo i propri conflitti interiori; d'altra parte non si può ignorare che Bernstein sia riuscito a far tesoro del dono di appartenere a una generazione successiva, e di aver lasciato agire nella sua opera creativa e ri-creativa quel distacco partecipe che possiamo definire come "controllo dell'impulso creativo". Quell'esitazione che Mahler, alla fine di un'epoca, non può non aver provato, Bernstein non l'ha mai conosciuta. Mahler era il morboso, veemente, intellettuale arrangiatore delle sue visioni tonati; Bernstein il non meno furioso, altamente intelligente, sano polimusico di un'epoca nella quale non si dibatte di meno, ma in cui si agisce anche in modo più regolatore. Ed è questa la ragione per cui nelle opere di Bernstein le categorie non sono - per citare 'Leonce e Lena" di Georg Büchner «nella più miserevole confusione". La focosità di Leonard Bernstein si è realizzata in maniera monolitica, non dualistica.
Al di là di tutto questo, non va dimenticato che Bernstein era anche un pianista di grande valore, che nelle sue esperienze in questo campo non si lasciava corrompere. Quando si sedeva al pianoforte, lo faceva per far musica e non per presentare un ego. Il suo Concerto in sol maggiore di Ravel e il suo Secondo Concerto di Sciostakovic, ad esempio, rivelano la musica in un modo obiettivo che merita rispetto ancora oggi, dopo circa tre decenni. Anche al pianoforte Bernstein non era uno specialista, ma un artista attento alla totalità del fatto musicale. Egli non fece lo stesso errore di almeno due musicisti ancora oggi viventi della generazione di mezzo, quello cioè di voler essere pianista e direttore con le stesse aspettative: non c'è riuscito in questo senso neanche un Bülow (anche se allora non si notava tanto). Il pianoforte era per Bernstein il mezzo con cui poter dimostrare in modo qualificato e in dimensioni più contenute quanto egli voleva dimostrare. Quando era a Harvard e parlava di fonetica e sintassi musicale, di semantica musicale, delle croci e delizie del doppio senso (musicale), della crisi del XX secolo e della poesia della terra - se era necessario, allora andava al pianoforte e illustrava quello per cui la parola non bastava. Ed era perfetto ogni passaggio, ogni successione armonica, ogni dimostrazione di un fatto dinamico.
Ma c'erano anche altre occasioni nelle quali Bernstein si sedeva al pianoforte: l'accompagnamento del Lied, una parte importante della sua attività musicale. In questo il direttore Bernstein ha seguito le orme dei grandi, più vecchi colleghi Bruno Walter e Wilhelm Furtwängler. E si è avventurato su un terreno che "a rigore" non potrebbe funzionare al pianoforte, e cioè i Lieder di Gustav Mahler.
Bernstein accompagnatore non era un sismografo, non tentava di trarre da 88 tasti quello che soltanto 88 archi e fiati potrebbero produrre. Bernstein non era un folle che voleva cavare da uno strumento a tastiera quell'inconfondibile colore che deriva da un impasto sonoro. Egli sapeva che il compito di un pianista che accompagna i Lieder mahleriani non consiste tanto in una riproduzione ermeneutica quanto in una guida vigile della voce umana, alla quale si richiede la rappresentazione significativa dell'espressione. Qui, più che etere sonoro è necessaria intelligenza spirituale - e questa Bernstein la possedeva oltremisura. E ciò rientra in quei presupposti che costituiscono la differenza fra i Lieder di Mahler e quelli del coetaneo Hugo Wolf.
Il Lied mahleriano non è concepito mirando all'equilibrio fra voce e strumento. Esso continua quella linea, forse poco nota all'ascoltatore moderno, di Robert Franz (1815-1892) e Theodor Kirchner (1823-1903). Quello che tuttavia distingue Mahler dai due compositori tedeschi è il messaggio dei testi scelti, i quali in Mahler, non di rado sotto l'apparenza della semplice melodia popolare, diventano valori psicologici universali. Diversamente in Hugo Wolf. nei suoi Lieder la voce canora e lo strumento a tastiera sono legati l'una all'altro come i denti di un ingranaggio. I problemi pianistici sono più complessi; Wolf ha seguito in questo la linea di Schubert, Schumann e Liszt.
I Lieder di Mahler hanno però anche un'altra caratteristica: sono da considerare come le cellule germinali delle sue opere sinfoniche. Non a caso egli ne ha approntate molte in due versioni (con accompagnamento pianistico e orchestrale). E al pianoforte che spesso si svilupparono per Mahler le idee melodiche (non armoniche) fondamentali che dovevano determinare successivamente le sue sinfonie, Nei Lieder di Mahler viene a svilupparsi cioè, se si considera l'opera totale del compositore, una combinazione tanto rara quanto interessante: la melodia del Lied quale germe della sinfonia, cioè la miniatura quale pietra da costruzione di strutture gigantesche. L'elemento liederistico definisce in Mahler l'opera orchestrale, è stato da questa per così dire inglobato senza in essa scomparire, Nella scelta dei testi - quando non ne scrisse di propri, come nel caso dei "Lieder eines fahrenden Gesellen" (Canti di un viandante) Mahler attinse all'anonima poesia popolare romantica. Essa si manifesta nel ciclo di Lieder "Des Knaben Wunderhorn" (Il corno magico del fanciullo). In questa raccolta di poesie, che riflette nella maniera più lineare le condizioni esistenziali elementari, Mahler ritrovò alcuni dei propri desideri più ingenui. In essa egli vide anticipato ciò che doveva segnare le sue sinfonie: la contraddizione fra felicità e anelito, paura e amore per la natura, struggimento e visioni.
Una seconda fonte per i suoi testi Mahler la trovò nel poeta tedesco Friedrich Rückert (1788-1866), il quale - cosa che oggi viene quasi sempre dimenticata - era di professione professore di lingue orientali e traduttore di poesie indiane, arabe e persiane. Il realismo psicologico di Rückert stimolò Mahler soltanto nel periodo tardo della sua vita, quando il compositore era già più avanti sulla strada dell'autocoscienza e dell'esperienza esistenziale.
I Lieder di Mahler furono creati fra il 1880 circa e il 1904, quindi in un periodo di soli due decenni e mezzo circa. Essi sboccano nel ciclo, dall'impianto sinfonico, di sei canti per orchestra "Das Lied von der Erde" (Il canto della terra). Anche qui viene ad evidenziarsi quale trasformazione abbia subito in Mahler il genere del Lied. Lo studio intenso del Lied e il suo inserimento nelle sinfonie è significativo anche per la riflessione programmatica che è alla base delle partiture mahleriane, le quali proprio per questo non possono essere considerate musica assoluta. Il fatto che gli appunti dello stesso Mahler sul tema confermino una tale osservazione è senz'altro l'argomento decisivo.
Se si scindono i Lieder di Mahler dal loro contesto spesso ingannevolmente ingenuo e si interpreta il loro contenuto così come Mahler lo ha concepito, essi diventano attraverso la specificità della loro forma musicale dei precursori della musica moderna, o, come s i è espresso Leonard Bemstein: la musica di Mahler "nella predizione ha riversato su questo mondo scrosci di bellezza che non hanno mai più avuto eguali."
Nei testi dei Lieder di Mahler si rispecchiano in gran parte quelle gioie e paure umane che nessun altro musicista dei nostri tempi ha saputo formulare in modo altrettanto esplicito quanto Leonard Bernstein. Sì, perché l'artista che accompagna in questa registrazione Dietrich Fischer-Dieskau, Christa Ludwig e Walter Berry ha messo a frutto la sua autorità e competenza per trasmetterci un messaggio non soltanto della musica, ma anche della parola parlata e scritta, un messaggio politico il cui significato ammonitore è derivato non da ultimo anche dal suo impegno con le opere di Gustav Mahler.
di Knut Franke (Traduzione: Mirella Noack-Rofena) - Sony (c) 1991

domenica, aprile 01, 2007

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (III)

GLI ULTIMI QUARTETTI
"Il vostro genio ha superato i secoli, e non vi sono forse ascoltatori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri a renderle omaggio e a benedire la vostra memoria". Queste parole profetiche, pronunciate dal principe Nikolaj Borisovic Golicyn, il committente dei primi tre dei cinque lavori che concludono l'esperienza beethoveniana nel campo del quartetto, possono venire collocate come epigrafe in testa ad una delle avventure più visionarie mai compiute da un genio musicale pervenuto alla sua massima definizione. La composizione degli ultimi cinque Quartetti tenne impegnato Beethoven dal maggio 1822 al novembre 1826, quando il Maestro scriverà il nuovo Finale per l'op. 130.
Il primo Quartetto del gruppo, in Mi bemolle maggiore op. 127, viene ultimato nel febbraio 1825. Di tutti i fratelli, è quello che presenta un'ispirazione più uniforme, immerso com'è in una diffusa luce lirica che annulla in sé ogni contrasto troppo spiccato. In esso si manifesta in sommo grado quella "mozartiana" assolutezza, quella trasumanata serenità non aliena da tratti giocosi (l'amabile Finale, che riecheggia reminiscenze di settecentesche serenate viennesi) che avanza fin dal primo tempo "teneramente" sui passi di un Laendler idealizzato. Ma l'op. 127 comprende anche un Adagio con cinque variazioni che contendono forse vittoriosamente il primato all'altro grande esempio di variazione beethoveniana di questi ultimi anni, quello che è parte dell'op. 131.
Segue, in ordine cronologico, il Quartetto in la minore op. 132, ultimato nel luglio 1825. Nel primo tempo, un chiaro bitematismo (costituito da un nucleo iniziale affidato alle febbrili impennate del primo violino e agl'incisi di risposta della viola e dei violoncello, e da un secondo episodio d'una tenera cantabilità assolutamente schubertiana) sviluppa un discorso nel quale il principio sonatistico del contrasto dialettico viene sostituito da una contemplativa e circolare giustapposizione d'immagini diverse. Il successivo Allegro ma non tanto è un vero Scherzo lievissimo e intessuto di freschi motivi di danza, con un Trio di cornamuse. La celebrata "Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico" è sempre stata giustamente considerata tra le espressioni più "individuali" e più visionarie di tutta la musica beethoveniana, anche se essa deve paradossalmente quel suo carattere così intimamente soggettivo a una sorta di sublimazione del materiale musicale, divenuto ancora più "neutro" e "anonimo" in virtù del suo sconfinamento nei domini della modalità antica e di tecniche compositive arcaiche come il cantus firmus attorno al quale, come nei preludi corali bachiani, si sviluppa l'efflorescenza delle altre voci. Una "Marcia" e un Allegro appassionato riportano quindi l'itinerario spirituale dalla trascendenza a una dimensione più drammaticamente umana.
Ultimato nel novembre 1825, il Quartetto in Si bemolle maggiore op. 130 è articolato in sei movimenti che corrispondono a quelli del divertimento settecentesco, con due tempi lenti differentemente caratterizzati e due intermezzi in ritmo ternario. E invero, tra gli ultimi Quartetti, l'op. 130 è quello che realizza nella forma più alta quell'aspirazione allo schilleriano Sublime inteso come "Senso di letizia", suprema libertà dello spirito che "col suo braccio forte ci porta al di là del profondo abisso". Così la leggerezza dei movimenti rapidi e il terso lirismo di quelli lenti (come la purissima "Cavatina") o il tono ambiguamente scherzoso di brani come l'Andante con moto ma non troppo, e ancora gli echi agresti trasfigurati nella "Danza tedesca" costituiscono gl'ingredienti espressivi di un "divertimento" spirituale nella più squisita accezione etimologica del termine. Significativo il fatto che Beethoven abbia consapevolmente sostituito la Grande Fuga, che in origine concludeva il Quartetto, con un altro finale la cui gaia amabilità, traboccante dal suo tema all'ungherese, avrebbe mirabilmente ristabilito un equilibrio compromesso.
Pubblicata a parte come op. 133, la Grande Fuga sarà per molto tempo la pietra dello scandalo dei commentatori scolastici, incapaci di piegarla alle loro analisi formalistiche e di giustificare la ciclopica asperità del suo linguaggio strumentale, che trova un corrispettivo soltanto nelle tremende architetture dell'altro monstrum polifonico beethoveniano, posto a conclusione della Sonata op. 106. La Grande Fuga si configura in realtà come un tentativo di sintesi tra gli elementi sonatistici (ravvisabili, tra l'altro, nei tre movimenti senza soluzione di continuità in cui è distribuito il discorso) e quelli del contrappunto, tenuti insieme da una rigorosa unità tematica che garantisce la fondamentale unità dell'intero brano: in breve, tre aspetti diversificati di un'unitaria concezione polifonica.
Gli ultimi due Quartetti nasceranno indipendentemente dalla committenza di Golicyn, quasi come il seguito di un incontenibile fiotto d'ispirazione. Il Quartetto in do diesis minore op. 131 viene ultimato nel luglio 1826. Si tratta del più monumentale tra tutti i Quartetti di Beethoven; in esso anche le ultime tracce della forma-sonata si dissolvono e i vari movimenti, saliti a sette, si susseguono per la prima volta ininterrottamente, come seguendo il filo di un lunghissimo soliloquio dell'anima attraverso i più disparati stati di coscienza. Il susseguirsi ininterrotto di tali eventi interiori si concreta in forme le quali più che mai trovano la propria logica in se medesime di là di ogni riconoscibile tracciato tradizionalistico, pur sussistente - fugati, scherzi, variazioni e simili - come lontana idea platonica di un archetipo.
Lo stesso si può dire del Quartetto in Fa maggiore op. 135, composto contemporaneamente al precedente, ma portato a termine nell'ottobre del 1826. Qui Beethoven, ripercorrendo il cammino fatto con l'Ottava Sinfonia, torna alle ridotte proporzioni settecentesche, a quattro tempi che hanno tutta l'apparenza di movimenti tradizionali e persino a una maggiore evidenza, all'interno di essi, di quelle che potrebbero essere interpretate come tradizionali strutture sonatistiche. Eppure la vanificazione di tali strutture attraverso il congelamento di tutte le pulsioni dinamiche che ne costituivano l'essenza, qui si fa ancor più capillare e integrale. Tra l'inquietante ambiguità del primo tempo e i trasalimenti avveniristici di segno quasi bartókiano dello Scherzo, il mistero s'infittisce - dopo la breve parentesi lirica del "Dolce canto di riposo e di pace" - nel Finale, costruito sul tema del canone scherzoso "Es muß sein, es muß sein, ja, ja" composto nell'aprile precedente. Introdotto e poi interrotto dallo scuotimento tellurico di un Grave che sembra mettere a nudo le più riposte fibre del suono, l'Allegro si chiude con un "pizzicato" in pianissimo: sottovoce e ammiccando con sublime umorismo, Beethoven si congedava così dalla musica e dalla vita.
di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)