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domenica, aprile 01, 2007

I Quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (III)

GLI ULTIMI QUARTETTI
"Il vostro genio ha superato i secoli, e non vi sono forse ascoltatori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri a renderle omaggio e a benedire la vostra memoria". Queste parole profetiche, pronunciate dal principe Nikolaj Borisovic Golicyn, il committente dei primi tre dei cinque lavori che concludono l'esperienza beethoveniana nel campo del quartetto, possono venire collocate come epigrafe in testa ad una delle avventure più visionarie mai compiute da un genio musicale pervenuto alla sua massima definizione. La composizione degli ultimi cinque Quartetti tenne impegnato Beethoven dal maggio 1822 al novembre 1826, quando il Maestro scriverà il nuovo Finale per l'op. 130.
Il primo Quartetto del gruppo, in Mi bemolle maggiore op. 127, viene ultimato nel febbraio 1825. Di tutti i fratelli, è quello che presenta un'ispirazione più uniforme, immerso com'è in una diffusa luce lirica che annulla in sé ogni contrasto troppo spiccato. In esso si manifesta in sommo grado quella "mozartiana" assolutezza, quella trasumanata serenità non aliena da tratti giocosi (l'amabile Finale, che riecheggia reminiscenze di settecentesche serenate viennesi) che avanza fin dal primo tempo "teneramente" sui passi di un Laendler idealizzato. Ma l'op. 127 comprende anche un Adagio con cinque variazioni che contendono forse vittoriosamente il primato all'altro grande esempio di variazione beethoveniana di questi ultimi anni, quello che è parte dell'op. 131.
Segue, in ordine cronologico, il Quartetto in la minore op. 132, ultimato nel luglio 1825. Nel primo tempo, un chiaro bitematismo (costituito da un nucleo iniziale affidato alle febbrili impennate del primo violino e agl'incisi di risposta della viola e dei violoncello, e da un secondo episodio d'una tenera cantabilità assolutamente schubertiana) sviluppa un discorso nel quale il principio sonatistico del contrasto dialettico viene sostituito da una contemplativa e circolare giustapposizione d'immagini diverse. Il successivo Allegro ma non tanto è un vero Scherzo lievissimo e intessuto di freschi motivi di danza, con un Trio di cornamuse. La celebrata "Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico" è sempre stata giustamente considerata tra le espressioni più "individuali" e più visionarie di tutta la musica beethoveniana, anche se essa deve paradossalmente quel suo carattere così intimamente soggettivo a una sorta di sublimazione del materiale musicale, divenuto ancora più "neutro" e "anonimo" in virtù del suo sconfinamento nei domini della modalità antica e di tecniche compositive arcaiche come il cantus firmus attorno al quale, come nei preludi corali bachiani, si sviluppa l'efflorescenza delle altre voci. Una "Marcia" e un Allegro appassionato riportano quindi l'itinerario spirituale dalla trascendenza a una dimensione più drammaticamente umana.
Ultimato nel novembre 1825, il Quartetto in Si bemolle maggiore op. 130 è articolato in sei movimenti che corrispondono a quelli del divertimento settecentesco, con due tempi lenti differentemente caratterizzati e due intermezzi in ritmo ternario. E invero, tra gli ultimi Quartetti, l'op. 130 è quello che realizza nella forma più alta quell'aspirazione allo schilleriano Sublime inteso come "Senso di letizia", suprema libertà dello spirito che "col suo braccio forte ci porta al di là del profondo abisso". Così la leggerezza dei movimenti rapidi e il terso lirismo di quelli lenti (come la purissima "Cavatina") o il tono ambiguamente scherzoso di brani come l'Andante con moto ma non troppo, e ancora gli echi agresti trasfigurati nella "Danza tedesca" costituiscono gl'ingredienti espressivi di un "divertimento" spirituale nella più squisita accezione etimologica del termine. Significativo il fatto che Beethoven abbia consapevolmente sostituito la Grande Fuga, che in origine concludeva il Quartetto, con un altro finale la cui gaia amabilità, traboccante dal suo tema all'ungherese, avrebbe mirabilmente ristabilito un equilibrio compromesso.
Pubblicata a parte come op. 133, la Grande Fuga sarà per molto tempo la pietra dello scandalo dei commentatori scolastici, incapaci di piegarla alle loro analisi formalistiche e di giustificare la ciclopica asperità del suo linguaggio strumentale, che trova un corrispettivo soltanto nelle tremende architetture dell'altro monstrum polifonico beethoveniano, posto a conclusione della Sonata op. 106. La Grande Fuga si configura in realtà come un tentativo di sintesi tra gli elementi sonatistici (ravvisabili, tra l'altro, nei tre movimenti senza soluzione di continuità in cui è distribuito il discorso) e quelli del contrappunto, tenuti insieme da una rigorosa unità tematica che garantisce la fondamentale unità dell'intero brano: in breve, tre aspetti diversificati di un'unitaria concezione polifonica.
Gli ultimi due Quartetti nasceranno indipendentemente dalla committenza di Golicyn, quasi come il seguito di un incontenibile fiotto d'ispirazione. Il Quartetto in do diesis minore op. 131 viene ultimato nel luglio 1826. Si tratta del più monumentale tra tutti i Quartetti di Beethoven; in esso anche le ultime tracce della forma-sonata si dissolvono e i vari movimenti, saliti a sette, si susseguono per la prima volta ininterrottamente, come seguendo il filo di un lunghissimo soliloquio dell'anima attraverso i più disparati stati di coscienza. Il susseguirsi ininterrotto di tali eventi interiori si concreta in forme le quali più che mai trovano la propria logica in se medesime di là di ogni riconoscibile tracciato tradizionalistico, pur sussistente - fugati, scherzi, variazioni e simili - come lontana idea platonica di un archetipo.
Lo stesso si può dire del Quartetto in Fa maggiore op. 135, composto contemporaneamente al precedente, ma portato a termine nell'ottobre del 1826. Qui Beethoven, ripercorrendo il cammino fatto con l'Ottava Sinfonia, torna alle ridotte proporzioni settecentesche, a quattro tempi che hanno tutta l'apparenza di movimenti tradizionali e persino a una maggiore evidenza, all'interno di essi, di quelle che potrebbero essere interpretate come tradizionali strutture sonatistiche. Eppure la vanificazione di tali strutture attraverso il congelamento di tutte le pulsioni dinamiche che ne costituivano l'essenza, qui si fa ancor più capillare e integrale. Tra l'inquietante ambiguità del primo tempo e i trasalimenti avveniristici di segno quasi bartókiano dello Scherzo, il mistero s'infittisce - dopo la breve parentesi lirica del "Dolce canto di riposo e di pace" - nel Finale, costruito sul tema del canone scherzoso "Es muß sein, es muß sein, ja, ja" composto nell'aprile precedente. Introdotto e poi interrotto dallo scuotimento tellurico di un Grave che sembra mettere a nudo le più riposte fibre del suono, l'Allegro si chiude con un "pizzicato" in pianissimo: sottovoce e ammiccando con sublime umorismo, Beethoven si congedava così dalla musica e dalla vita.
di Giovanni Carlo Ballola (Philips, (p) 1989)

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