Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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giovedì, novembre 21, 2024

Alessandro Zignani: l'Epilogo

Il Preglhof è coperto di rampicanti. Chi lo ha comprato non ama la pietra, e aspetta che la struttura si sgretoli per non doverla abbattere. In Carinzia ristrutturare un rudere costa di più che costruire un nuovo edificio. Prima di rifugiarmi a Mittersill, sono voluto venire qui un'ultima volta. Mio padre vendette questa gigantesca tenuta, sorta di feudo della natura nel tempo terrestre, quando comprese che non mi sarei dedicato alla sua amministrazione. Me ne venne una rendita, da me dilapidata nell'unico bene voluttuario che mi sono mai concesso: tempo per comporre.
Ora che i bombardamenti hanno raggiunto anche casa mia, Maria Enzersdorf, la “Universal” ha smesso di commissionarmi riduzioni pianistiche di artisti protetti dal regime: tutte partiture gigantesche, e scritte con l'idea che l'eternità aleggiasse nell'inchiostro della penna. Un paio di compositori hanno riscritto le loro partiture partendo dai miei arrangiamenti, ma era una trappola: scrivere a regola d'arte non paga.
Ma dicevo di Preglhof. Vi ho passato infanzia e adolescenza, e anche quando la carriera di direttore d'orchestra mi rendeva estraneo a me stesso, ogni singolo suo paesaggio diveniva, in me, un episodio della partitura. Per esempio, una frase rabbiosa dei violoncelli era la cascatella di acqua gelida presso il fiume; un Corale a note lunghe degli ottoni era la Via Crucis con le statue di legno sul sentiero che i Gesuiti hanno lasciato ai margini della tenuta. Mi piaceva pensare, nei tempi grami, che Preglhof vegliasse su di me, così che le orchestre non mi facessero male.
L'ultima stagione che vide mia madre viva, fu al Preglhof. Morì per una crisi ipoglicemica che tutti noi aspettavamo, e che nessuno previde. L'amore di una madre non assomiglia a nessun altro, e non può venire rimpiazzato.
Nel Quartetto n. 2 per archi del mio maestro, Arnold Schönberg, una voce intona versi che mi parvero un oracolo per il mio lutto ingovernabile: 
..Nella tua casa ritorno, Signore
Lungo fu il viaggio, affrante sono le membra
Vuoti gli scrigni, piena la pena
...Debole è il mio respiro che evoca il sogno
..Nel cuore braci ardono ancora
Nel fondo più oscuro ancora veglia un grido
Stermina la brama, chiudi la ferita
Estingui in me l'amore, dammi la pace.
Non ricordo tutti i versi di questa poesia di Stefan George, tratta dalla sua raccolta Il settimo anello: solo quelli dove il poeta parla di me. George aveva raccolto intorno a sé una Comune esoterica cresciuta intorno al culto di Goethe: la sua teoria che la luce, le piante e le rocce siano tutte manifestazioni dell'anima, specchio del dio vivente. So che sul lago di Silvaplana è nata una Comune simile a quella di George. Erwin Reisen, un allievo di Schönberg, vi andò in visita.
Questo Quartetto n. 2 esprime un momento catastrofico nell'esistenza di Schönberg. La moglie lo lasciò per un giovane pittore amico di famiglia, e il Maestro ebbe l'unico crollo creativo della sua vita. Lei, poi, tornò, e il suo amante, per questo, si tolse la vita. Fui io a convincerla, richiamandola ai suoi doveri verso il genio. Schönberg non apparteneva a lei, ma all'umanità, e del suo collasso creativo i posteri le avrebbero chiesto ragione. Quando il ragazzo, il pittore, si uccise, mi sentii responsabile. Questo, e la morte di mia madre, fecero sì a Schönberg mi legassi per la vita, e non potessi più stare senza di lui.
La morte di mia madre mi faceva sentire responsabile dei mali del mondo. Quando morì, io non c'ero. Ero sul massiccio di Rax, perso nell'aurora nascente, dopo una nottata in alta quota.
Alla prima esecuzione del Quartetto n. 2 di Schönberg, il pubblico fu preso da un accesso di risa. Li divertiva il fatto che il compositore vi avesse introdotto una canzoncina infantile, Du lieber Augustin, dove si parla del “povero Agostino”, che si mette nei guai fino a perdere ogni cosa, anche la speranza.
Quella gente rideva di me, orfano e gettato nel fiume della vita senza più una guida. Il sarcasmo di Schönbergera diventato, per me, il ghigno di un mondo ostile.
Le persone lodano le opere d'arte che li fanno sentire migliori, non quelle che ritraggono la loro sofferenza in chiave grottesca.
Wilhelmine, non ancora mia moglie, mi scrisse il mio amore non può rimpiazzare nel tuo cuore quello che provi per tua madre, ma ti può aiutare a creare una vita di bellezza.
Lei accettò di vivere all'ombra di mia madre, da ispiratrice delle molte opere che avrei dedicato alla sua memoria. Il suo amore era assoluto; il mio, il riflesso di un altro amore.
Quando ottenni la laurea in Musicologia, a Vienna, mia madre ed io facemmo un viaggio. La mia tesi su Heinrich Isaac, un compositore fiammingo del Quattrocento capace di rendere la musica una mappa di rotte astrali, un'immagine sonora del cosmo, era appena stata pubblicata.
Un von Webern poteva fare il musicista solo a patto che fosse laureato. Meritavo un premio. Mia madre mi portò in Engadina. Conoscendo la mia passione per il pittore Giovanni Segantini, che avevo scoperto a Monaco durante un viaggio in Baviera, mi condusse fin sul Ghiacciaio del Forno, a Maloja. nei luoghi cari al sofferto simbolismo dell'artista. Lassù trenta profondi laghetti, detti “marmitte”, incidono la roccia a coltello come uno sfregio del tempo. Mia madre si fermò davanti ad uno di questi. Il suo respiro era affannoso. ma non per la salita. Quel posto, sentivo, era qualcosa che lei sapeva di dover per sempre evitare, non fosse stato per me.
Il cielo era diafano per l'attesa del sole, da ore ricoverato dietro una coltre di nuvole bianche come il silenzio di chi non ha nulla più da attendere: tale era, ora, il silenzio di mia madre. E "questo laghetto" cominciò a dire, "compare nel quadro La Vanità. Tu non puoi averlo visto, perché non è esposto a Monaco. Il quadro rappresenta una ragazza nuda che si contempla nello specchio dell'acqua, e accanto a lei i rododendri fioriscono di rosso. I rododendri sono il simbolo dell'amore ricambiato, il cuore segreto della passione. Un drago sorveglia la figura assorta nella propria bellezza, e pare un angelo che voglia ammonirla e difenderla. La modella del quadro era l'amante del pittore, e dopo la sua morte improvvisa impazzì".
Non sapevo perché, ma quel modo così semplice di raccontare mi riempiva di paura.
Si alzò il vento, spostando le nuvole dal sole. Ora ombre veloci intorbidavano l'acqua, e il laghetto sembrava l'orbita dell'occhio di un ciclope.
«Quella modella. prima che venisse quassù a cercare le radici del suo rododendro. io la conoscevo. Studiava pianoforte al Conservatorio di Vienna, nella stessa mia classe. Disperata, in procinto di andare a Maloja, mi raccontò della forza che la trascinava via dalla propria vita. Mi disse che era una forma di musica, ma una musica senza, sopra, alcun cielo. Aveva avuto una figlia da un'amante occasionale. Si chiamava Annie. Prima di partire, la affidò ad una coppia di musicisti venuti a studiare a Vienna dal Baltico».
Mia madre stese le mani verso di me, vicinissime al mio viso.
«Tu sei capace di amore come nessun altro. La passione per gli esseri viventi invade la tua anima, e ti fa seguire le vie dei canti. Eppure, comprendi? Oggi i rododendri sono pieni di veleno, pura vanità. L'amore, nei giorni futuri, porterà la follia, e ciò che accadde a quella modella, è il destino che si prepara all'intera nazione germanica. Tutti, negli anni, hanno tentato il cielo, senza sapere quale forza andavano evocando. L'idealismo romantico sta per partorire mostri. Tu, non essere complice. Dissecca la tua vena come pietra pomice, e contempla da saggio le macerie della storia. Non avrai, per questo, l'amore degli uomini, ma neppure la responsabilità della loro rovina».
Si fece presso il laghetto, ne raccolse tra le mani a coppa un po' d'acqua e tornata da me la versò sulla mia testa. In quel momento, i mondi di cieli lontani mi apparvero in strutture di suono.
Sopra la musica c'era un cielo dalla purezza inattingibile: un cielo dove fuggire per sempre dal tempo.
Alessandro Zignani
(tratto da "Il cielo sopra la musica", Florestano Edizioni, 2018)

martedì, ottobre 01, 2024

"Das Lied von der Erde": il mondo in un granello di sabbia

La musica usa il tempo per dilatare le frontiere del visibile. Alterandone la curvatura, costringe la 
memoria a collegamenti che il principio di realtà le inibisce. Nel romanzo, una stessa strategia viene ottenuta utilizzando il narratore “onnisciente”. Il lettore, avendo accesso alla sua memoria quasi fosse un museo vivente, riassume le vicende di un'intera vita in libero gioco di simboli. In musica, questi simboli sono i temi: le loro modificazioni, metamorfosi, ricombinazioni, non sono stati d'animo, ma portali, statue enigmatiche, labirinti e abissi nascosti. La musica é un giardino segreto. La sua interpretazione è una mappa, il vissuto del compositore. Esistono tre tipi di simboli, in musica: strutturale, allegorico e anagogico. I primi servono a costruire strutture complesse, sono gli architravi della Forma. I secondi esprimono contenuti astratti: eternità, silenzio, morte, rinascita... Gli ultimi, sollevano fuori dalla rete dei significati. Riportano l'anima alla fusione con il Nous universale, la mente che stava prima di ogni intelligenza. Il Canto della terra è, in se stesso, un simbolo anagogico. È un museo della memoria le cui sale sono altrettanti paesaggi del vissuto. Il gioco dei simboli, in musica, richiede che i suoi tre diversi livelli agiscano in funzione oppositiva. Quando l'anagogico è sostanza stessa del comporre, lo strutturale si riduce a materiali elastici, schegge di materia primordiale. Il Canto della terra e tenuto insieme dalla scala pentatonica esposta per intero dall'oboe in “Der Einsame in Herbst"e dall'intervallo di “quarta” ascendente e discendente con cui i corni aprono  “Das Trinklied vom Jammer der Erde”. Il disseccamento progressivo di simili linee elastiche sotto le monumentali orografie sinfoniche mahleriane potrebbe venire osservato con scrupolo da geologo. Ne troviamo premonizioni nel Quarto Movimento della Sinfonia n. 3, il Lied nietzschiano; nella fanfara iniziale che annuncia, stessa partitura, il risveglio del dio Pan; in un passaggio del Rondò-Finale della Settima; nell'assolo di ottavino e poi clarinetto che, nell'Ottava, “plana” verso il “Chorus Mystichus”. In tutti quei episodi il ricorso a relitti sonori, tracce di memoria, serve a risolvere l'interrotta continuità della vicenda autobiografica; nel Canto della terra, invece, tutto si cristallizza in un emiciclo di figure sacre come gli oracoli antichi. Il tempo è trasceso, dunque la specularità tra paesaggio ed eterno partorisce sempre nuove varianti. Ai simboli sonori corrispondono, lungo la partitura, altrettanti “idoli”, archetipi visuali: la scimmia sulle tombe. la piccola lampada, il padiglione che si specchia nello stagno, il bellissimo giovane a cavallo che irrompe come un'onda di forza e luce... Sono questi, a dare coerenza strutturale all'opera. La loro progressione fino agli orizzonti che eternamente s'illuminano, lontano, d'azzurro, produce anche il passaggio dei motivi derivati dalle due idee tematiche di base - la “quarta” e la scala pentatonica - attraverso i riflessi ciclici di un mondo tanto più gigantesco perché, paradossalmente, rinchiuso in una sfera di cristallo, un ecosistema biologico. Gli esiti saranno potenti. Dopo Il canto della terra, non è più il lavorio astratto della Forma a creare il significato; piuttosto, la gloriosa tecnica dello Sviluppo e della Variazione diventa, da ora in poi, l'espressione emozionale, il “gesto” drammatico di ciò che la musica racconta per immagini. Siamo alle soglie del movimento fiorito intorno alla rivista “Der blaue Reiter”, “Il cavaliere azzurro”. I suoni come colori, e i colori come linee musicali che si ricombinano in sempre nuove varianti dello stesso sogno. Il cristallo non scalfibile, testimonianza di pogrom elevati a simbolo di ogni umana alienazione. è quel Naturlaut dell'oboe che apre “Der Abschied". Conosciamo già un simile “gruppetto” con la sua relativa risoluzione: è quel versetto musicale della Törah che apre “Wenn mein Schatz Hoehzeit macht”, stele di ogni esclusione, oracolo che parla con le foglie degli alberi e il volo degli uccelli, e richiama i devoti a quello stesso cammino dal quale credevano di essersi allontanati.
“Das Trinklied vom Iammer der Erde". “Il brindisi del dolore della terra”, fissa da subito una dismorfia percettiva che rende questa “sinfonia di Lieder” quasi una ritrattazione dei Wunderhorn. L'esultanza nasce dalla concitazione con cui gli invitati al festino erigono schermi al metodico lavoro di erosione del tempo che i “mordenti” dei legni, l'assolo ossessivo del Fiddler e il richiamo del corno sotto un cielo di piombo perpetrano con sinistro cigolio. Non c'è festa, ma la macabra illusione che fa scambiare per vitalità l'energia dissolutiva, indifferenziata, dell'agire umano. Questo Lied ha una radice metafisica, e paga il suo riposare sul logos, la falsa sicurezza della civiltà umana, con l'impossibile sottrarsi alla discesa di ogni cosa verso il nulla. Alla fine, le urla della scimmia, tra le tombe, divengono immagine di un'umana presunzione di senso che non osa andare alla radice della propria follia. Lo scivolamento tra loro dei due piani percettivi - la sfavillante sala dei banchetti, con il suo frenetico slancio in avanti, e il plumbeo, stigio mormorio dei legni dal malevolo sarcasmo, come anime guardiane contro chi valica il limite - porta alla curiosa sensazione di sentirsi osservati da creature nel buio, che ci conoscono, ma noi non sappiamo chi siano. Nessun abbraccio panico, nessun respiro nella natura liberata. Il Lied è bipolare, e non può muoversi fuori dalle sue due prospettive entrambe irridenti. Il ritorno del verso “Dunkel ist das Leben, ist der Tod!”, “Oscura è la vita, c la morte!”, refrain nella forma del Wiegenlied, da Mahler prediletta, esprime questa natura satanica dell'esistere. Vuotare i bicchieri, suonare il liuto. è un rituale di fantasmi cui basterebbe indicare la scimmia, là fuori, sotto la luna, per veder andare in pezzi il loro salone delle feste. Questa illusione di vita, è la nostra natura di uomini.
La materia musicale del secondo Lied, “Der Einsame im Herbst”, “Il solitario in autunno”, è il tempo stesso. Sul movimento regolare di crome fiorisce un tema pastorale dell'oboe che il rintocco accordale dei corni in “sfp” fa sembrare scandito da un naobo, uno strumento a percussione cinese dal rintocco lento e lungamente risonante. La figura delle crome si sposta su una zona mediana del cielo, a suggerire la bruma, mentre Mahler ricorre nei bassi ad un lento movimento di “terzine”, evocazione di una figura che prima camminava davanti a noi, e poi si è dissolta. Questa campitura pittorica del testo musicale gioca sul senso di indefinito, di instabile, che attraversa l'intero brano, rinchiuso dentro un falso movimento dove pochi passi danno la sensazione di distanze oceaniche. Infine, su “Sonne der Liebe”, “sole dell'amore”, la luce sfolgora abbattendo le grisaglie nebbiose. E scopriamo che quell'irradiarsi era sempre stato lì, a noi ignoto solo perché guardavamo in basso. Dopo l'estasi ottenuta per ultimo guizzo del morente spirito vitale, la solita scala pentatonica tra archi divisi e, per moto contrario, legni, riporta il tempo al tapis roulant di crome in ossessivo moto dell'incipit. Ogni orizzonte aperto ai riflessi del mondo era un breve spiraglio dentro questo minuscolo ticchettio di automi.
“Von der Jugend”, “Della giovinezza", è un trattato sugli specchi. È Lao-Tze che sogna di essere una farfalla, mentre la farfalla sogna di essere Lao-Tze. Le stille d'acqua che trattengono per sempre, come riflesso, la serena festa degli affetti, confidenza nel corpo che sboccia alla vita, sono imperiture proprio perché impossibili da fissare. Il tema di danza, ispirato ad una semplice aria di corteggiamento, a un certo punto scivola in una zona oscura dove tutto si rivela il riflesso di qualcosa ormai scomparso. Nelle mani del tempo, la consunzione di corpi e ricchezze appare come un reticolo di rughe scavate profondamente nella carne; invisibili, finché dura il sole. La forma “ad arco” del Lied crea una strategia di dissolvenza, quasi fosse metafora dei due mondi che si riflettono l'uno nell'altro. senza che si possa definire in quale di essi si nasconda il principio di realtà. "Come una mezzaluna appare il ponte, l'arco è rovesciato": la scena conviviale tra amici trattenuti per sempre nella serena intimità quotidiana genera quell'attimo sospeso, quel tempo ciclico che rende la musica un presentimento di mortalità. I veri protagonisti del Lied sono non già quei giovani ben vestiti che  bevono, chiacchierano, “alcuni scrivono versi”, ma le loro larve riflesse nell'altrove del “piccolo stagno”, cosi prossimo, familiare, e per questo soglia segreta di universi paralleli. Nel Canto della Terra Mahler sperimenta l'arte del “minimo passaggio”, la visione di scorcio che irradia di luce ultraterrena le piccole cose, rendendole un'epica del vissuto. Nietzsche è, ormai, lontanissimo, e al suo posto si profila - ospite segreto in tutta l'opera di Mahler, e da noi già più volte evocato - il Freud di Das Unheimliche, “Il perturbante”, dove si teorizza un'arte capace di far emergere “ciò che doveva rimanere nascosto”, portare alla luce l'inquietante mistero dei confini tra i mondi di psiche e epos. I silenzi, i frammenti di scale, le cineserie da padiglione di EXPO del Canto della Terra sono un'intenzionale riduzione al “grado zero” dell'invenzione. Ridurre la complessità, se si vuole renderne “perturbante” il fantasma. E tra due anni Mahler chiederà a Freud salvezza, nella sua dissociativa relazione con Alma.
In “Von der Schönheit”, “Della Bellezza”, l'incipit imita l'accordare lentamente un liuto. Per il compositore di questo strano Lied che risuona, inizialmente, come uno strumento meccanico, la bellezza è la funzione di un tempo sospeso, fatto di attimi che possono venire sfilati l'uno dall'altro. La gioia, invece, ricordate? era il tempo ciclico, “ad arco”, di "Von der Jugend". mentre il tempo come dannazione alle consequenziali derive dell'essere pervade “Das Trinklied vom Jammer der Erde”. Il Canto della Terra è un portolano per i viaggiatori nel tempo. La dissociazione tra i tempi della narrazione e quelli della musica rendono “Von der Schönheit" un Lied straniante. La voce si appoggia prima ai legni, poi agli archi, richiamandoli ad un ascolto che colora di effimero la rivelazione estetica di cui si vuol fare latrice. Al passaggio “Ruhiger”, “Più calmo", iviolini primi iniziano un “moto perpetuo” che sa di ghironda a manovella. Il canto non modifica la propria curvatura, evocando il sole e il tranquillo perdersi di ogni splendore nei suoi riflessi radianti. La catastrofe avviene con l'arrivo dei solari ragazzi che irrompono in questo tempo divenuto spazio della bellezza sovraumana, l'unica capace di non incutere terrore. I cavalli che incitano si fanno divinità olimpie, simboli della fecondità. Il lungo sguardo della più bella “delle vergini" accompagna l'allontanarsi del magnifico cavaliere sul suo destriero dalle froge fumanti. L'orchestra sfuma il “moto perpetuo” riducendolo a un inciso ripetuto, come la ghironda avesse il disco che si inceppa. La profanazione della bellezza solare avviene nel segno dell'umana debolezza. Lo sguardo di rammarico della ragazza verso colui che ne ha svegliato i sensi solo per poi, subito, andarsene, fa svanire l'incantesimo di quell'“orologio a rote", movimento del tempo al di fuori delle passioni, che attraversa la prima parte del Lied. Mahler parla di illusioni che sono l'unica verità, quella resa gioco di tensioni ed equilibri perennemente ricostruiti nella sua tecnica operativa di compositore.
“Der Trunkene im Frühling”, “L'ubriaco in primavera”, gioca su una variante sghemba dell'incipit del primo Lied. Il canto entra nella scena sonora assecondandone, per non cadere, la curvatura deforme. Questo ubriaco in primavera è il Fahrende Geselle tornato dai suoi pellegrinaggi solo per scoprire che i Naturlauten erano voci interiori, emanazioni del suo Io. Le torsioni continue del tempo, il cadenzare quando la frase non si è ancora sviluppata, l'estensione della linea vocale per salti e continui passaggi: tutto contrasta con la piacevole ingenuità di un tema, che, se lo “stendessimo in bella copia”, farebbe invidia ad Hans und Grethe. L'interludio dell'uccello canoro, al centro del Lied, risale allo Schumann delle Waldszenen op. 82: “Vogel als Prophet”, “L'uccello profeta”. Nel Sigfrido, Wagner elabora il “Mormorio della foresta” su di una variante dello stesso inciso. Non si tratta di citazioni. ma di voci fantasma. Gli uccelli, nelle leggende del Taoismo, sono le anime dei morti che tornano a guidare i passi dei loro cari nei momenti di pericolo. Il Fiddler, rendendo languido richiamo d'amore ciò che prima era voce dai deserti interiori, ci lascia intendere che nell'uccello parli l'anima di una donna amatissima e precocemente scomparsa, il cui culto e reso rituale dall'alcolismo denegatorio la realtà cui soggiace il protagonista. Ecco perché, dopo l'idillio rivissuto in un teatrino mentale, il ritorno alla primavera sfolgorante dà vita, nel Finale, ad un impeto di rabbia e di rancore. La caotica scrittura di figure irregolari, fino a undici note portate a cozzare contro dieci, all'ascolto lascia sorpresi per la sua quadratura ritmica. È uno dei misteri di Mahler. In molti casi, più l'esecuzione è scrupolosa al dettaglio, meno l'effetto, durante l'esecuzione, coincide con l'immagine sonora che si è avuta della musica alla lettura. È il simbolo dei simboli, la chiave segreta: così ci appare il mondo, per illusione d'ordine, se nessuna creatura dalla soglia giunga a svelarcene l'impostura.
“Der Abschied”, “L'addio”, interrompe il carattere “autoriale” delle poesie. Infine, in questo congedo esteso sulla struttura fino a farla implodere, Mahler prende la versione tedesca di due diverse poesie, di Mong-Kao-Jen e Wang-Wei, che Betghe nella sua antologia ha strutturato come un'epica del commiato virile tra guerrieri, e su questa base lavora per trasposizioni, omissioni eaggiunte, certune tratte da sue poesie di ventenne. Da “Still ist mein Herz, und harret seine Stunde”, “muto silenzio è il mio cuore, e aspetta la sua ora”, tutto il testo è di Mahler. Sua anche la frase “Ich wandle nach der Heimat, meiner Statte”, “vago incontro alla patria, il posto che ò mio”. Dopo “Der Trunkene im Frühling" nessuno avrà più dubbi su quale. questa Heimat - parola connotata, in Tedesco, da risonanze di accoglimento parentale e conforto di anime - possa maiessere. Eppure. una lettura in chiave autobiografica sarebbe sviante. Il compositore racconta, qui, il meriggio di una vita compiuta, quella vita dalla quale, secondo Nietzsche, bisognerebbe uscire benedicendola. La luce crepuscolare vibra di raggi a frequenza bassa, irradiata dal passaggio dentro un intero arco di umane esperienze. Mahler non vuole affatto morire; anzi, si augura di giungere al momento dell'“Abschied” così carico di vissuti da vederne le tracce nel cielo che i  suoi occhi crepuscolari attraverseranno. Betghe e il compositore lavorano sulla sapienza orientale seguendo l'esempio di Schopenhauer, che ne fa una religione laica dell'infinito, affratellato dalla “compassione”, la “Einfühlung”, parola tedesca che connota il “sentire dentro”, percepire coi sensi del pianeta vivente. Nel Taoismo non esiste una drammaturgia dell'Io. ma solo delle cose minime che l'Io sfiora: petali. foglie del te, pantofole di seta lavorate da mani minuscole.... Nel culmine della crisi coniugale con Alma, quando Mahler lascerà vicino al letto della sua amata i biglietti degli amorosi mantra, accanto a proclami infuocati troviamo un “respiro della mia vita, ho baciato mille volte le tue pantofoline” che sarebbe feticistico, non piovesse diritto dalla mistica del Taoismo. Il rilievo è importante. L'estate del 1908, lavorando al Canto della Terra, Mahlersi impone la rinuncia all'amore di Alma. È il congedo dal mondo di prima. Al momento della crisi, poi, avrà un tracollo catastrofico proprio per l'intensità della libido ingorgata per puro intelletto nelle regioni del simbolismo più etereo. Il Canto della terra è un breviario per la trascendenza dai sentimenti, come dimostra la scrittura dissipativa, tentacolare, della sua orchestra, cosi facile da distruggere con un minimo accentuare un attacco, dare enfasi ad un climax.
Nella struttura di “Der Abschied” è evidente un bitematismo di Forma-Sonata innestato su una  Forma strofica. La vicenda temporale, prima che musicale, viene inscritta dentro una narrazione in prima persona svolta nelle convenzioni dello Sprechgesang, la versione tedesca del “recitar cantando” monteverdiano. I mondi dell'esperienza e dell'evocazione onirica non potrebbero venire permeati in modo più sottile. Il reale che, con le forbici di Atropo, spezza il filo della vita, e il lunghissimo perdurare, nella mente che immagina scenari di fuga, dei pochi istanti residui, intera epica di immortalità, permettono a Mahler un Contrappunto ancora diverso da quello  delle sinfonie centrali. Qui, il Contrappunto è il tempo sospeso, l'estinzione di ogni continuità risolutiva. Come il Wagner del Parsifal, Mahler crea un epilogo alla sinfonia di Lieder dall'estensione sbilanciata, inappropriata, per evitare ogni consequenzialità drammaturgica. Questo  Contrappunto fa si che nessuna prospettiva suggerisca l'idea del viaggio. L'itinerarium mentis in  Deum avviene quando il protagonista è già morto. L`amico in visita di saluto è un altro di quegli uccelli che, nel mondo dei vivi, ospitano l'anima dei trapassati. La musica è regressiva, parla di  cose che sono avvenute eoni fa, e che ora racconta il vento, protagonista del movimento interno, insieme al ruscello. Il tema del vento si sviluppa in quello degli orizzonti lontani, il tema del  ruscello nell'esplosione della Sensucht, l'impossibile compimento dell'agognata meta. Al centro di questo globo che, se aperto, rivela due paesaggi terreni avvolti in una nebula stagnante, sorta  di cippo funerario inciso a caratteri runici dove si narra la vicenda del Geselle ora diventato una farfalla, c'è un episodio strumentale tutto giocato sulla sincope ritmica iniziale del primo Lied. È la sezione di Sviluppo della Forma-Sonata raggricciata sulla pietra come un reperto fossile, ma è anche l'immagine del Demiurgo, il suo occhio circolare che tutto osserva, il suo respiro mortifero, perché pulsa in extra-sistole. È il terzo strato del globo, la sua polpa profonda e corrotta. Nelle  ultime composizioni, Mahler utilizza lo Sviluppo per liberarsi della logica strutturale mediante la sua esasperazione. Alla fine di questo ritratto musicale della “forza operosa che tutto affatica”, la narrazione epica riprende in un clima di attesa senza tempo. Dallo Sprechgesang si passa ad un  Recitativo “accompagnato” modellato sulle Passioni di Bach, la Johannes in particolare. Il momento più geniale, una svolta che renderà la musica, da allora, qualcosa di assai diverso,  avviene sulla Ripresa, a “Sehr mäßig”, “Molto moderato”. L'intuizione è sconcertante: Mahler  recupera il gioco di “terzine” su cui Beethoven ha costruito la “Marcia funebre” dell'“Eroica” invertendolo di segno; laddove, nella Terza beethoveniana, era il tempo della Storia, qui, nelle sue asimmetriche valenze, indica l'estinzione progressiva di ogni pulsazione ritmica. L'episodio  inizia con la redenzione della extra-sistole demiurgica, e procede con quella esattezza di scrittura che, lo abbiamo visto, serve a Mahler per far implodere dall'interno ogni ordine. Il climax, sulle parole “Die liebe Erde allüberall blüht”, “la cara terra ovunque fiorisce”, è raggiunto inserendo in questo mostruoso meccanismo della sublimità apocalittica il salto di “quarta” del primo Lied, qui  sviluppato non più in quanto immagine di una forza oscura esterna. ma di un'energia salvifica che traiamo dal male. Perché yin e yang sono le due metà di ogni creatura, e nella loro polarità si estingue ogni etica. Il finale di “Der Abschied” libera per sempre la musica dal concetto romantico di bene in quanto bello. Ora, essa resta un luogo dove gli eventi ramificano figure che possono essere magnifiche, per quanto sono mostruose, o aeree, ireniche, perchè sfuggite al logos dei loro autistici creatori. Stravinskij assiste al concerto che Mahler diresse a Pietroburgo nell'ottobre del 1907. Fu molto colpito non tanto dal direttore, ma dalla sua personalità artistica. Se c'è una partitura che, per un gioco di paradossali straniamenti, giochi estetici di specchi in un linguaggio già redento dall'ansia di coinvolgere, non è pensabile senza il Canto della terra, quella è Petruška.
Alessandro Zignani
(note al programma di sala: Sabbioneta, 21 settembre 2024)