Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, luglio 23, 2021

Friedrich Gulda: "So cos'è la brutta musica e odio ascoltarla"

Incontriamo Friedrich Gulda alle prove del suo concerto al Teatro Comunale di Bologna per la stagione di "Musica Insieme" dove è solista e direttore dell’Orchestra da Camera di Bologna: in cartellone due proprie opere, "Concert for myself" e Fragments of "Paradise’s Island", quest’ultima in prima esecuzione per l'Italia (13 maggio 1991). Con lui il Coro Giovanile di Salisburgo, il sassofonista Harry Sokal, Mitch Watkins (chitarra), Wayne Darling (basso elettrico) e Michael Honzak (batteria).

Come si trova con l’orchestra?
Mi trovo bene. La prima volta che sono venuto in questo Teatro ricordo che il tendaggio e le poltrone erano di colore rosso. Era molto tempo fa. Sono rimasto molto sorpreso che fosse verde, e gradevolmente sorpreso anche che suonasse così bene. Ho assistito per una decina di minuti alle prove di Riccardo Chailly con l’Orchestra del Teatro Comunale per il concerto dedicato a Giuseppe Martucci: un ottimo risultato. Ho notato subito che c'è una buonissima acustica e un'ottima orchestra. Anche l’Orchestra da Camera è buona, giovane. Sono molto contento, mi intendo molto bene con il "concertino".
E' contento di essere a Bologna?
Sì, soprattutto perché mi è stata data l’opportunità di decidere il programma all'ultimo momento, con musiche il più recenti possibili. Qualche pezzo dei frammenti è recentissimo, e per fortuna ho trovato due cantanti che mi piacciono per i due ruoli. Li ho trovati solo alcune settimane fa: Gail Gilmore la conoscevo solo di nome, e Phil Edwards, il cantante nero, che conosco da molto più tempo. Ho pensato di invitarlo nel contesto di questo progetto e questa è la prima volta. Ma tutto ha preso forma solo nelle ultime settimane. Per questo sono molto grato all’Associazione "Musica Insieme" che mi ha dato la possibilità di portare un raccolto del più recente.
Ha più paura quando c’è la sua musica?
No, al contrario. Certo dipende dai brani. Per esempio l’esecuzione del "Concert for Myself" è ormai senza rischi: l’ho suonato molte volte, con orchestre diverse ed ha avuto sempre un grandissimo successo. La seconda parte del programma, invece, è, per così dire, sperimentale.
Nel disco Amadeo del "Concert for Myself" c’è una libera cadenza che è intitolata "For me", L'eseguirà anche domani?
Nel disco ci sono punti che sono molto personali. Sul disco ci sono buone informazioni che non saranno sul programma. C'è solo scritto "Free cadenza". Bisognerebbe scrivere tutti i titoli dei pezzi in inglese. Li ho omessi, perché sono molto personali. "Of me" è un po’ fuorviante, perché è chiaro, sono tutte cose mie.
E' un errore?
Per il disco è un’informazione in più. D’altra parte questi titoli erano interessanti per me due anni fa, quando ho registrato. Oggi preferisco scrivere "Allegro, Adagio, Finale" e basta e dimenticare quelle storie così intime, ad eccezione del secondo movimento, "Lament for You".
Chi è "You"?
Ursula, una donna. Le altre cose oggi non si possono capire. Fino a "free cadenza" tutto il resto è riferito a cose che mi riguardano intimamente. E' una specie di monologo continuo, una improvvisazione senza prescrizioni.
A cosa sta lavorando adesso?
Ulrike, la mia amica, ha inventato una storia sulla teoria del Paradiso.
E' stata l'ispiratrice?
E' proprio l’autrice del soggetto, ma è molto lenta. Il soggetto di un’isola felice e dei suoi invasori cominciò ad interessarmi un anno fa. Giorno per giorno sta nascendo l’opera. Il conflitto di cui si parla è il conflitto di ogni giorno, la lotta fra una società conservatrice ed una progressista. Nella storia alla fine c’è una soluzione, che è poi l'accordo dei due mondi.
Adesso preferisce parlare della musica classica o del Jazz?
Cerco di non dover scegliere. Riconosco che esiste un conflitto e che cerco di giungere ad una soluzione. Provo anche con quest’opera che è la storia di due personaggi: la donna è a capo della parte conservatrice ed il giovane uomo è il capo degli invasori. I due si odiano, c'è un conflitto, la guerra. Evidentemente però c’è una forza più forte dell’odio che li attrae e che alla fine li fa innamorare.
Questo conflitto è anche il Suo, il conflitto fra la musica classica e...
...e la musica afro-americana negra.
Però il Suo amore per la musica supera questo conflitto, va oltre.
Sì. E poi è tutta una allegoria che lascia sempre spazio a diverse interpretazioni.
Lei però è nato come pianista classico.
Non sono nato: la formazione era di pianista classico. Ho studiato con il Professor Seidlhofer all'Accademia di Vienna, ho subito finalizzato gli studi con lui.
Ha deciso da solo di studiare musica?
Quando si è bambini non si decide. Mi ha interessato, sono stati i genitori però a condurmi gentilmente alla musica: hanno capito subito che ero dotato e hanno detto "proviamo!" Pianoforte, teoria, storia della musica, tutto. Anche loro erano musicisti, dilettanti, mio padre violoncellista, mia madre pianista. Decisero che mia sorella ed io andassimo a lezione di musica. Io avevo 8 anni, mia sorella 10. Lei però ha abbandonato gli studi perché si è notato molto presto che tutto il talento dei genitori era concentrato in me. Decisero di fare smettere lei e dare a me una formazione veramente completa. Però la decisione non fu mia perché, ripeto, un bambino non decide.
Studiava volentieri?
Sì, qualche volta meno. Ma non ho avuto difficoltà nello studio.
Fu un bambino prodigio?
Non proprio, nel senso che non ho fatto concerti a sei anni. Ho cominciato la carriera quando ero molto giovane. Ho vinto il Concorso di Ginevra a sedici anni. La prima tournée fu tutta italiana, evidentemente. Ai primi quattro concerti, avevo quasi diciotto anni, ero completamente solo. Una agenzia a Milano si interessò a me perché avevo vinto il Ginevra e mi procurò i primi concerti a Verona, a Torino e in qualche altra città.
Ha un buon ricordo del concorso?
Il ricordo è abbastanza chiaro. Per me fu una sorpresa perché nessuno, me incluso, aveva mai creduto che potessi vincere. Mi hanno preso solo perché si dissero: "perché no?". Ero magrissimo, mangiavo molto poco. Pensarono che un bambino deve mangiare in Svizzera almeno una volta e allora si dissero: prendiamolo, lasciamolo suonare, non si sa mai. Però nessuno, né il Professore o l'Accademia o me stesso, ha avuto mai idea che potessi vincere.
Neanche il Suo maestro?
No. Può darsi che segretamente, naturalmente lo sperasse. Però la chance che mi hanno dato era zero, fu una gran sorpresa. Io sapevo di aver suonato molto bene, però non sapevo che suonare bene bastasse per
battere 77 avversari.
Ascoltò gli altri?
Sì, mi ricordo del secondo premio, era un italiano che si chiama Paolo Spagnolo. Esiste ancora?
Sì, ha fatto una buona carriera.
La giuria non era idiota: Magaloff, Lipatti, Weingarten di Vienna, Ansermet, tutta gente che sa.
Quindi i concorsi vanno bene quando le giurie sono intelligenti?
Sì. Durante la guerra non c'era il concorso internazionale svizzero; l’ultimo concorso internazionale prima della guerra, nel 1939, è stato vinto da Arturo Benedetti Michelangeli.
Dopo questo concorso si è sentito catapultato nel mondo concertistico?
Sì, era molto facile. Ho dovuto solo amplificare molto e rapidamente il repertorio. Io sono veloce con la memoria: mi ricordo che quando avevo 23 anni conoscevo solo otto Sonate di Beethoven e ho deciso, in un colpo di ambizione folle, di apprendere le altre 24, studiando un movimento al giorno. Ci ho messo tre mesi, ho lavorato come un pazzo. Mi sono dato un termine, una data, per avere lo stimolo: sapevo che dovevo fare il primo ciclo completo a Francoforte per il settembre-ottobre di quell'anno. Mi sono messo lì e mi sono immerso in questo enorme studio.
Studiava solo quello?
Sì. Ricordo che questa è l’ultima cosa che ho preparato col mio maestro: non ho avuto il coraggio di suonare un pezzo nuovo sulla scena per il pubblico per molto, molto tempo, senza la benedizione del mio vecchio maestro. E l’ultima cosa che ha fatto per me è stata di darmi questa benedizione e molti consigli preziosi per il ciclo beethoveniano.
Correva l'anno 1953. Fu salutato come un evento dalla critica, fu un successo enorme.
Sì.
La paragonarono subito ai grandi interpreti della tradizione viennese, Schnabel, Backhaus, Kempff. Lei ha conosciuto questi grandi pianisti?
Sì, Backhaus l’ho ascoltato; in quegli anni dissero - correttamente o meno - che ero il suo successore.
Si sentiva in debito con Backhaus?
No, mi sentivo invece in debito, e molto, con la tradizione viennese che era per me personificata nella figura del mio maestro Seidlhofer dell’Accademia di Vienna.
Cosa vuol dire tradizione viennese? In che cosa si esplicita? Nel fraseggio?
E' una tradizione di suonare il piano che ha come centralità lo studio delle opere classiche di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert e Brahms, opposta alla scuola russa o americana, che si dedica a condurre l'allievo a essere capace di suonare Ciaikovskij, Chopin, Liszt, considerati il massimo livello pianistico. Da noi si dice sempre: impara a suonare Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert e quando sai suonare questo saprai suonare anche tutte le altre cose.
E' vero?
Sì, lo credo. Pero più tardi mi sono interessato alla scuola opposta, quella di Rubinstein e Cortot e anche in parte a Benedetti Michelangeli: erano molto diversi. Io però sono sempre stato fedele alla tradizione viennese, assieme ai colleghi della mia generazione come Brendel, Buchbinder, che è un po’ più giovane oppure ai meno noti Badura Skoda, Demus, o Walter Klien, che è morto di recente.
Lei ascoltava i dischi di Backhaus?
Sì, però molto criticamente. Il mio professore li ha usati principalmente per dire a noi allievi come non si dovesse suonare: "Questo famoso Backhaus fa questo che non è in ordine, più avanti è in ordine...". Si avvicinava ai grandi pianisti - come Backhaus - con uno spirito molto critico, che trasmetteva ai suoi allievi. Diceva sempre: "Prendete ciò che è buono in ognuno dei grandi, ma io vi aiuterò a capire ciò che è buono ciò che non è.
Il Suo maestro era pianista concertista?
Ha suonato, ma non era un concertista famoso. Era un pedagogo dedicato esclusivamente all'insegnamento, ma di prima classe.
Quale fu il rapporto con lui? L’ha mai odiato?
Per me è una figura paterna. Non l’ho mai odiato. Gli sono molto grato, anche se c’è voluto molto tempo per staccarmi da lui, per tagliare il cordone ombelicale.
Quando successe?
Verso i 25 anni, ma non fui io a tagliarlo. Semplicemente finì il rapporto in modo naturale. Avevo bisogno di crescere da solo ormai. E' stato un rapporto molto lungo con lui, ma molto bello.
E' morto?
Sì, circa dieci anni fa.
Adesso Lei insegna?
No. Io odio l'insegnamento, e le dirò anche il perché: perché odio la cattiva musica, e gli allievi fanno tutti cattiva musica. Io sono un anti-pedagogo. So cos'è la brutta musica, e odio ascoltarla. Non ho allievi perché so che farebbero cattiva musica e odierei ascoltarli.
Martha Argerich è stata sua allieva però.
Si, a Vienna, ma lei è un caso particolare. Io ero molto giovane e lei una bambina. Fu un’eccezione.
L'unica?
Quasi. Ce n'erano anche alcuni altri, ma in nessun caso c'era il piacere di ascoltarli. Nel caso della Argerich non si trattava di lezioni come di solito si crede: successe che mi persuasero a tenere una master class al Mozarteum di Salisburgo, ed ancora non so perché accettai. Avevo 12 iscritti, dieci mediocri e due interessanti, Martha Argerich e Claudio Abbado che a quel tempo voleva diventare pianista. Era allievo di Carlo Vidusso. La Argerich entrò in classe e suonò Chopin come un’invasata, mentre Abbado era in crisi, stava entrando in un abisso di disperazione, perché capiva che avrebbe potuto studiare 25 ore al giorno ma non sarebbe diventato mai un buon pianista. Il problema era che voleva diventarlo. Venne da me, ma io ero molto giovane... Fui molto crudele con lui, i giovani sono molto crudeli. Gli dissi che sarebbe diventato un buon direttore. Non ebbi pietà o sensi di commiserazione. Gli dissi: "tu sei un musicista, ma non hai talento pianistico". Lui lo sapeva perfettamente: non aveva una naturale manualità alla tastiera.
Poi Lei ha suonato assieme a lui...
Sì, molte volte, più avanti. E' diventato un grande direttore, soprattutto in Mozart.
Andate d’accordo musicalmente?
Fino a un certo punto sì.
Abbado non ha sconfinato dal repertorio classico come ha fatto Lei.
Per questo negli ultimi anni ci siamo un po’ allontanati.
Con quali altri direttori ha lavorato fra i grandi?
Con quasi tutti, ad eccezione di Karajan con cui ho suonato molti molti fa, ma con cui non si fece un buon lavoro. Conoscevo bene Bohm, Szell, Klemperer, più o meno tutti.
Con Leonard Bernstein ha mai lavorato?
No, però l’ho conosciuto.
Ha fatto musica da camera?
Ho suonato per due anni con Pierre Fournier. Abbiamo registrato insieme l’opera integrale di Beethoven per violoncello e pianoforte. Io ero molto giovane, avevo 26 anni, lui ne aveva 40. Era lui il maestro, nel duo era lui il leader.
Com'era Fournier?
Molto gentile, molto forte, però con una gentilezza rimarchevole, molto gentiluomo, nobile.
Lei suona ancora il repertorio classico?
Sì, anche se non non ho molte più ambizioni ormai. Non sono più giovane, ho più di 60 anni e scelgo molto attentamente ciò che voglio suonare. Penso che il mio ruolo di interprete sia ormai finito, perlomeno come attività principale. Potrei solo ripetermi. Non sono sicuro di poter dire delle cose nuove come interprete alla tastiera, e allora preferisco dirigere o scrivere la mia musica. Se devo proprio suonare musica classica, allora suono Mozart.
Schubert no?
Potrei, ma non lo faccio.
Perché proprio Mozart?
Forse perché penso di non averlo suonato abbastanza: ho suonato solo pochi concerti, l'intero ciclo delle Sonate a Monaco, Parigi, anche alla Scala di Milano. Mi piacerebbe ancora farlo.
Non Le piacerebbe suonare Haydn?
Potrei, ma non trovo una buona ragione per farlo. I miei colleghi, che non hanno avuto né la capacità né la volontà di sortire dal contesto classico, li lascio fare le cose che vogliono fare e che fanno molto bene, ma questo mi da ancora più il diritto e l’obbligo di continuare e finire il mio cammino.
In "Paradise’s Island" c’è una citazione testuale dell’Imperatore di Beethoven.
E' una citazione che ha una certa ragione drammatica nel contesto dell’opera in forma scenica, perché in quel punto compare un’immagine del Re di questa isola immaginaria. Il simbolo dell’Imperatore è l’inizio del Quinto Concerto. Questa è la vera ragione di questa corta citazione.
Corta ma bellissima.
La scena è ambientata nel nostro tempo. Poi c'è l'immagine del mondo conservativo, in questa isola di fantasia, rappresentato dall'imperatore e dalla citazione musicale.
Quando finisce la citazione, subito...
Incomincia l'invasione dell'altro gruppo, cosicché il conflitto è già assolutamente chiaro nei primi minuti. Si ascolta e sul piano teatrale si vede anche.
Lei crede che il pubblico capirà questa citazione, o andrebbe avvertito?
Io penso che capisca, perché è una musica con una forza notevole. Anche quella che viene dopo lo è, c'è un clash, il conflitto è inevitabile.
Però Beethoven non è "il conservatore".
A suo tempo non lo era, oggi lo è.
Parliamo della sua integrale di Beethoven del 1970 che fece scandalo.
Non mi ricordo di uno scandalo.
Lei non volle scandalizzare?
No, non ho voluto, e anche in quell'occasione non l’ho fatto. Può darsi che lei alluda al fatto che già allora avevo smesso di usare il frac, ma questo è un dettaglio esteriore.
Quando suona i classici, per esempio Mozart, avendo il Jazz e tutta l’esperienza della sua musica alle spalle, li suona diversamente da allora? Si sente più libero nel suonare Mozart?
Né uno né l’altro: Credo di capirlo meglio perché improvvisando, suonando la mia propria musica, faccio una cosa simile a quella che lo stesso Mozart ha fatto. Quando sono nel suo stile lo sento più vicino per la semplice ragione che, nel mio lavoro compositivo, faccio il suo stesso lavoro. Io improvviso le mie cadenze Jazz, improvvisando, però nello stile moderno. Allora io credo di essere, per le mie esperienze creative di oggi, più vicino a Mozart di molti altri che si contentano di interpretarlo.
Quindi lei non si fa problemi di testo?
Sì, un poco. Io cerco di leggere le edizioni scientificamente corrette, questo sì.
Che cadenze usa nei concerti di Mozart?
Dipende. Quando c'è l’originale di Mozart faccio quello, come nel caso del concerto in la maggiore. Se non c'è suono le mie, come per esempio il Concerto dell'Incoronazione o il K 503. Unica eccezione a questa regola sono le cadenze del Concerto in re minore fatte da Beethoven, perché la cosa è di per se interessante: il signor Beethoven non si interessa minimamente di restare nello stile mozartiano. Beethoven è l’unico che ha il diritto di ignorare lo stile mozartiano. Tutti gli altri, semplicemente, non ne hanno il diritto. E' molto meglio fare una civile copia in stile come faccio io. Il signor Brahms, il signor Reinecke, il signor Liszt non hanno il diritto di scavalcare Mozart.
Ha senso scriverla o è meglio improvvisarla?
In "Concerto for myself" io improvviso, sempre.
In una cadenza, ad esempio, di Mozart, lei improvvisa o la scrive?
Dipende, la cadenza tradizionale nel tempo primo è scritta, con qualche possibilità di cambiamenti minori. Le cadenze piccoline come nei Rondò, le improvviso come faceva Mozart stesso: sono cose tanto facili che non è necessario scriverle.
Lei conosce le cadenze di Magaloff o di Geza Anda?
No, non voglio conoscerle. Ammetto che può darsi che siano buone; ma sono convinto che nemmeno da lontano si possa comparare il talento di chiunque con quello del signor Mozart: è meglio fare una copia stilistica modesta.
Perché suona il clavicordo?
La prima cosa che mi ha interessato di questo strumento è la sua primitività. C'è solo un tasto che tocca le corde. Non ci sono meccanismi complicati come nel pianoforte. E' una macchina che non mi fa paura, con troppe complicazioni. Mi sono sentito quasi come un violinista o come un chitarrista, cioè molto vicino, - fisicamente - alla corda, al metallo che produce il suono. Ho suonato anche alla maniera chitarristica, senza usare la tastiera, suonando la mano sinistra direttamente sulle corde e la destra sulla tastiera. Una tecnica che esisteva anche quando questo strumento era di moda, trecento anni fa.
Dove?
Dappertutto in Europa, era uno strumento casalingo perché il suono era molto contenuto, non era uno strumento da concerto. Bach lo ha suonato e si sa anche che Mozart ha avuto con sé un piccolo "clavicino" che era un clavicordo, anche perché non pesava molto. 15 chili, come ai nostri giorni le tastiere elettriche portatili, quello era un piccolo "keyboard" che non costava molto. Anche questo mi ha interessato. Poi è stato molto difficile studiarlo perché questo strumento è una principessa molto sensibile, non si deve suonarlo male, il tocco è molto diverso, ci vuole molta sensibilità, una sensibilità molto diversa.
Lo ha suonato in pubblico?
Qualche volta: ho inventato un sistema di amplificazione che non distorce il suono originale, con cui posso suonare il clavicordo anche in una sala da duemila persone. Ma all'inizio è stato duro questo lavoro, il suono del clavicordo è molto particolare e sembrava che non sopportasse alcun tipo di amplificazione. E' un po' come una donna, non voleva essere forzato. Poi ci sono riuscito e l'ho portato qualche volta in concerto.
Nel disco del Concert for myself c'è "Le Rossignol en amour".
Forse Couperin l'ha scritto per il clavicembalo ma io credo che sia più adatto per i clavicordo.
Ha mai composto per il clavicordo?
No, ma ho fatto molte improvvisazioni soprattutto suonandolo direttamente sulle corde come ho detto prima.
Lo strumento è originale o una copia?
E' una copia di Neupert, 30 chili, per chilo 100 marchi, 3.000 marchi per tutto lo strumento.
Suona anche il flauto?
Sì, è il mio hobby. Suono il flauto come il vecchio Fritz, il Re Federico, che suonava da buon dilettante il flauto traverso. Adesso non l’ho dietro. Spesso me lo porto con me e lo suono nelle camere d’albergo...
E' molto esigente nella scelta dei pianoforti?
Quando faccio un recital molto importante pretendo uno strumento di prima classe. Ma se suono con l'orchestra o in una piccola band, posso usare anche uno strumento medio. Ma per un recital voglio avere uno Steinway in ottime condizioni, come del resto tutti i miei grandi colleghi. Non si può fare un buon concerto con un cattivo strumento, è impossibile.
Quindi lei non si adatta allo strumento...
Se mi devo adattare a una qualità inferiore, mi adatto, però poi non ritorno.
Ha mai rifiutato concerti per lo strumento?
No, io non sono Michelangeli. Lui certamente ha ragione, però io credo di avere più rispetto della gente. Penso che sia meglio farlo anche se con un po' di sacrificio. Io soffro, ma suono.
Ha molti concerti in questo periodo?
No, mi sto riposando. Vivo in un piccolo paesino vicino a Salisburgo, vicino ai laghi. Faccio il turista anch'io per tutta l'estate. Vedo che la gente viene da lontano per stare in vacanza nel mio paese, allora ho deciso di starci anch'io ogni anno in vacanza, completamente.
La sua musica è edita?
Non tutta: per esempio "Concert for myself" non lo è, perché è proprio "for myself". Non ho l’ambizione di pubblicarlo, perché nessuno può suonarlo, ed io non ho interesse che qualcuno lo faccia. E' proprietà privata. Non c'è nessuna ragione di pubblicarlo, "vietato l’ingresso".
Uno che lo ascolta, può trascriverlo?
Se vuole io ho una partitura, ne esistono due o tre in più, una per il regista televisivo per esempio, però io solo ne dispongo, io solo decido a chi prestarla.
Perché?
E' "private property".
Pero un compositore compone per gli altri...
Sì, però io oggi non ho nessun interesse a distruggere la partitura. Dopo la mia morte sara a disposizione di tutti, so che verrà fatto, ma finché vivo voglio che rimanga proprietà privata.
Anche l’opera?
No, questa è public. Le altre cose sono molto particolari, sono scritte per un certo interprete e muoiono con lui: il "Concerto for Ursula" ha una persona sola che lo può interpretare, Ursula Anders e nessun altro: chiunque può vedere la partitura, però non serve, senza solista non c'è concerto.
E il concerto per violoncello?
Quello è pubblico, edizioni Papageno, Vienna.
Cosa si aspetta dal pubblico domani sera?
Io credo che sarà un gran successo. 
Lo aspetta solo dal pubblico o anche dalla critica?
Non lo so. Ho dei problemi con la critica perché la nostra concezione su quello che è o che dovrebbe essere la musica di oggi è molto diversa. I critici lo sanno e molti di loro credono che il cammino che io ho intrapreso nel mio lavoro di compositore sia sbagliato. Io credo il contrario perché ogni volta che la critica mi ha stroncato, è sempre stato un grande successo di pubblico.
Lei scrive per il pubblico.
Il pubblico mi da grande soddisfazione perché mi dimostra che piace molto quello che faccio da anni. Le mie composizioni, sono accessibili, comprensibili e alla gente piacciono.
Una volta mi ha detto che i compositori moderni non fanno buona musica, si sono allontanati dal pubblico: è questa la causa per cui non le piacciono?
Non solo. Non sopporto questa ipocrisia, l’arroganza di questa gente che crede si possa fare una musica contro la maggioranza della gente.
Ha composto anche per pianoforte solo?
Ho scritto "Piano play", un ciclo di dieci pezzi che sono stati suonati più volte. Poi è diventato molto noto Preludio e fuga, che ha suonato anche Keith Emerson, degli Emerson-Lake & Palmer, mio carissimo amico.
Se Michelangeli suonasse la Sua musica, le piacerebbe ascoltarlo?
Se un mostro come Michelangeli lo facesse sarebbe per lo meno interessante. Semplicemente non trovo ragione di ascoltare un’interpretazione mediocre.
Alberto Spano
("Symphonia", n.12, 1991)

lunedì, luglio 12, 2021

Milan Kundera: Schönberg e Stravinskij...


"Se Skacel si è chiuso per trecento anni nel
la casa della tristezza, l’ha fatto perché vedeva il suo paese inghiottito per sempre dall’impero dell’Est. Sbagliava. Tutti sbagliano quando si tratta del futuro. L’uomo può essere certo solo dell’attimo presente. Ma sara poi vero? Può davvero conoscerlo, il presente? Può davvero giudicarlo? Certo che no. E come potrebbe capire il senso del presente chi non conosce il futuro? Se non sappiamo verso quale futuro ci sta conducendo il presente, come possiamo dire se questo presente è buono o cattivo, se merita la nostra adesione, la nostra diffidenza o il nostro odio?
Nel 1921, Arnold Schönberg proclama che, grazie a lui, la musica tedesca resterà per i prossimi cento anni padrona del mondo. Dodici anni più tardi, deve lasciare la Germania per sempre. Dopo la guerra, ormai in America e coperto di onori, non ha perso la certezza che la gloria accompagnerà per sempre la sua opera. Rimprovera a Stravinskij di pensare troppo ai contemporanei e di trascurare il giudizio del futuro. Considera la posterità il suo alleato più sicuro. In una lettera sferzante a Thomas Mann fa appello all’epoca, "di lì a due o trecento anni", in cui sarà finalmente chiaro chi dei due è il più grande, lui o Mann! Schönberg è morto nel 1951. Nei due decenni successivi, la sua opera è stata acclamata come la più grande del secolo, venerata dai più brillanti fra i giovani compositori, che si dichiarano suoi discepoli; ma in seguito scompare dalle sale da concerto così come dalla memoria. Chi la suona adesso, sul finire del secolo? Chi fa riferimento a lui? No, non voglio prendermi stupidamente gioco della sua presunzione e sostenere che si sopravvalutava. Mille volte no! Schönberg non si sopravvalutava. Sopravvalutava il futuro.
Ha commesso un errore di valutazione? No, era nel giusto, ma viveva in sfere troppo elevate. Discuteva con i più grandi tedeschi, con Bach, con Goethe, con Brahms, con Mahler, ma le discussioni che hanno luogo nelle alte sfere dello spirito, per quanto intelligenti, peccano sempre di miopia nei confronti di ciò che, senza ragione né logica, accade in basso: due grandi eserciti combattono all’ultimo sangue per una causa sacra; ma è il minuscolo batterio della peste che li annienterà entrambi.
Che il batterio esistesse, Schönberg lo sapeva bene. Già nel 1930 scriveva: "La radio è un nemico, un nemico implacabile che avanza irresistibilmente e contro il quale ogni resistenza è vana"; essa "ci ingozza di musica ... senza chiedersi se abbiamo voglia di ascoltarla, se abbiamo la possibilità di percepirla", cosicché la musica diventa un semplice rumore, un rumore fra altri rumori.
La radio fu il piccolo ruscello dal quale tutto ebbe inizio. Vennero in seguito altri mezzi tecnici per riprodurre, moltiplicare, aumentare il suono, e il ruscello si trasformò in un immenso fiume. Se un tempo ascoltavamo la musica per amore della musica, oggi essa urla ovunque e sempre, "senza chiedersi se abbiamo voglia di ascoltarla", urla negli altoparlanti, nelle auto, nei ristoranti, negli ascensori, nelle strade, nelle sale d’attesa, nelle palestre, nelle orecchie tappate dai walkman, musica riscritta, ristrumentata, scorciata, dilaniata, frammenti di rock, di jazz, di opera, flusso in cui tutto si mescola, al punto che non sappiamo chi sia il compositore (la musica diventata rumore è anonima), che non distinguiamo l’inizio dalla fine (la musica diventata rumore non ha forma): l’acqua sporca della musica dove la musica muore.
Schönberg conosceva il batterio, era consapevole del pericolo, ma dentro di sé non gli attribuiva troppa importanza. Viveva, come ho già detto, nelle più alte sfere dello spirito, e l’orgoglio gli impediva di prendere sul serio un nemico così minuscolo, così volgare, così ripugnante, così spregevole. L’unico grande avversario degno di lui, il rivale sublime che egli combatteva con brio e severità, era Igor' Stravinskij. Era con la sua musica che duellava per conquistare il favore del futuro.
Ma il futuro fu il fiume, il diluvio di note in cui i cadaveri dei compositori galleggiavano tra le foglie morte e i rami spezzati. Un giorno il corpo senza vita di Schönberg, sballottato dalla furia delle onde, urtò quello di Stravinskij ed entrambi, in una riconciliazione tardiva e colpevole, proseguirono il loro viaggio verso il nulla (verso quel nulla della musica che è il frastuono assoluto)."
Milan Kundera
("L'ignoranza", capitolo 39, Adelphi, 2001)

venerdì, luglio 02, 2021

Ferruccio Busoni: Opere per due pianoforti


Ferruccio Busoni (1866–1924)
Busoni iniziò a usare l’op. 1 per le sue prime composizioni in una piccola Canzone in do maggiore per pianoforte del 1873. Ma pochi anni dopo, nel 1877, troviamo anche un’Ave Maria, op. 1, che ci fa constatare il primo rifiuto del giovanissimo Ferruccio nei riguardi di quanto scritto in precedenza. Molti di questi lavori giovanili non li rigettò del tutto, dato che esistono tuttora pubblicati col loro bravo numero d’opera. Per quanto riguarda la musica pianistica, Busoni non utilizzò più alcuna numerazione dalle Elegie (1908) in poi, mentre troviamo numeri d’opera distribuiti in modo bizzarro nel resto della sua produzione vocale e strumentale, fino allo Zigeunerlied (su testo di Goethe), op. 55 n. 2, composto un anno prima della morte, nel 1923. Il catalogo delle sue opere è pieno, nel primo periodo, di lavori per ora rimasti in manoscritto, anche se ogni tanto spunta qualche rarità. I pezzi per due pianoforti più antichi, in questo disco, sono del 1878 e 1879; Busoni ha appena tredici anni, ma dal ‘73 ha fatto molti progressi. Sono evidenti i suoi modelli musicali: Bach in primis, per l’amore della polifonia e delle forme classiche: preludio e fuga, capriccio. La fuga resterà per tutta la sua non lunga esistenza una delle forme predilette. Il Preludio e fuga in do minore op. 32, col suo tema che parte dal basso su intervalli di quinta e di seconda, è chiaramente reminiscente della Fantasia su B.A.C.H. di Liszt (tema della fuga): tema che è esposto in modo severo, alla breve, in ottave, nel preludio, e curiosamente si mantiene inalterato, con valori più piccoli, nella fuga. Qui il cromatismo, specie nei passi più mossi di semicrome, è più evidente; ma è tutta la struttura di questa fuga che lascia sorpresi, pensando all'età del giovane compositore. Ancor più interessante è il Capriccio in sol minore, dove il modello bachiano resta forse nel gioco polifonico dell’Allegro vivace, ma proprio in questa festa di semicrome veloci si scorge il Mendelssohn del Sommernachtstraum. Il brano è più elaborato del precedente: la lenta introduzione in accordi conduce genialmente, accelerando il movimento, al Capriccio, che è una specie di moto perpetuo in cui i due pianoforti si rimpallano il motivo iniziale attraverso varie tonalità. Ritorna l’Introduzione cui segue una cadenza, prima della ripresa, e il brano si conclude con una coda assai brillante.
Del 1888 è invece la trascrizione per due pianoforti dell’Introduzione e Allegro, op. 134 di Schumann, che Busoni fece per l’editore Breitkopf. In realtà, più che di una trascrizione si tratta della riduzione pianistica della parte orchestrale, come di norma si presentano le opere per pianoforte e orchestra dalla fine dell’Ottocento in poi; la parte solistica ovviamente resta nella veste originale. A parte qualche effetto “orchestrale”, il lavoro di Busoni non si differenzia sostanzialmente dalle altre versioni per due pianoforti di questo pezzo. Schumann lo scrisse nel 1853 per la moglie Clara (dedicandolo però poi a Brahms); è tra le ultime cose sue, prima del tentato suicidio e dell’internamento nella clinica di Endenich. Si tratta praticamente di un primo tempo di concerto, con introduzione e cadenza finale, scritto pensando alle doti di virtuosismo di Clara, a giudicare dalla difficoltà del tecnicismo dispiegato qui, difficoltà accentuata anche dal fatto che la scrittura schumanniana diventa negli anni sempre più antipianistica. Questo è uno dei motivi per cui, a differenza del Konzertstück op. 92, questo lavoro si ascolta molto di rado. Clara lo eseguì nell'ultima tournée che fece assieme al marito, in Olanda, e dopo la sua morte si rifiutò di suonarlo.
Busoni, dietro l’esempio di Liszt, fu un convinto assertore della trascrizione pianistica. Colse, ancor più di Liszt, la portata universale e l’essenza atemporale della musica di Bach, e di Bach ci lasciò varie trascrizioni di lavori organistici e violinistici (la celebre Ciaccona), oltre che varie “revisioni” e rielaborazioni di opere per clavicembalo. Non fu altrettanto versato, almeno come trascrittore, nei riguardi di altri autori. Nel caso di Mozart, per i cui concerti scrisse nove cadenze, redasse però alcune trascrizioni che ebbero un certo successo, malgrado considerasse “errori grossolani” i tentativi di trascrizione delle opere di Mozart e di Haydn, che “non possono essere adattate in alcun modo al nostro stile pianistico: al loro contenuto ideale basta e corrisponde soltanto la scrittura originale”. Non possiamo dargli torto, se per “stile pianistico” intendeva quello che veniva squadernato nelle trascrizioni bachiane. Difatti i due lavori che qui troviamo non si distaccano dalla brillantezza del pianismo mozartiano. Furono scritti negli ultimi anni della sua vita, quando un rinato interesse per la musica di Mozart lo portò a eseguirne vari Concerti. Il Duettino concertante fu composto a Londra il 25 ottobre del 1919, quando scrive nelle lettere alla moglie aveva bisogno di “trovarsi un’occupazione”. Lavoro di getto, quindi, di cui è fiero: il finale del Concerto in fa maggiore (K. 459), che esegue a Londra in quei giorni, è “pieno di passi non lavorati, evidentemente scritto in gran fretta, innocuo ma brillante. E penso che adesso ha acquistato più splendore”. Il lavoro è talmente geniale che, pur essendo una trascrizione, viene annoverato tra le opere originali di Busoni, per la sua libertà strutturale, per la “rilettura” del pianismo mozartiano, per la inventiva della cadenza, che Busoni sostituisce a quella di Mozart. La stessa brillantezza pianistica, qui accentuata dal tema in note ribattute, lo stesso gioco polifonico dei passaggi fra un pianoforte e l’altro, li ritroviamo nell’Ouverture del Flauto magico, scritta nel 1923.
Si è già detto come fin dai primi anni Busoni subisse il fascino di Bach, e come giungesse progressivamente, attraverso la forma della fuga, ma non solo, a comprendere il senso profondo della polifonia e dell’espressività bachiana: basta vedere in quale maniera egli “registri” sul pianoforte il corale organistico di Bach. Al culmine di questo processo di comprensione e di immedesimazione nei riguardi della poetica bachiana giunge la Fantasia contrappuntistica, sintesi perfetta di un lavoro che nasce dai modelli del passato ma si realizza in una forma di assoluta modernità. L’apparente predominio dell’ordine architettonico, strutturale, non mette in piano subalterno le arditezze e le preziosità armoniche della musica pur così “incasellata”: atmosfere raffinate e trascoloranti, timbri metafisici e siderali, che passano dalla luce più cristallina alle tenebre più ‘notturnali’ e inquietanti. La Fantasia contrappuntistica nasce dal progetto di completare l’ultima fuga dell’Arte della fuga, lasciata incompiuta da Bach. È una fuga tripla, costruita su tre temi, ma all'inizio del terzo tema il manoscritto si interrompe, e nello svolgimento si intravede la presenza di un quarto tema, che Busoni identifica nel motivo di base di tutto il ciclo bachiano. Dopo lo sviluppo dei primi tre, e del quarto aggiunto, non soddisfatto egli crea un quinto tema, che serve da conclusione (“così la mia nave solcò le acque perigliose con cinque vele tese”). Progetto impegnativo e veramente “periglioso”, ma lui confessa che, avendo sempre praticato elementi contrappuntistici, si sente pronto per questo assunto, lavorando “nello spirito di Bach”. Si noti poi che Busoni non si limita a queste cinque fughe, ma ingigantisce il suo lavoro con l’aggiunta di altri movimenti, sì da raggiungere, com'egli riconosce, la forma di una grande “fantasia” (“qualcosa fra César Franck e l’Hammerklavier, con una sfumatura personale”. Che naturalmente è molto più di una sfumatura!). Non è qui il caso di dettagliare le varie versioni che dalla prima idea del 1910 portano alla versione definitiva per due pianoforti, quella di questo disco (1921): una serie di amplificazioni e trasformazioni del materiale bachiano (oltre alla tripla fuga incompiuta, il corale Ehre sei Gott in der Höhe). La forma di questo lavoro gigantesco viene riassunta da Busoni con un disegno architettonico all'inizio dello spartito dell’edizione Breitkopf, che si può così illustrare a parole: una Introduzione sul corale bachiano (Maestoso deciso, Allegro, Andantino) porta alle prime tre fughe, sui tre temi bachiani. Segue un Intermezzo, che porta a tre Variazioni sulle stesse fughe; poi una cadenza conduce alla quarta fuga. Prima della Stretta conclusiva compare di nuovo il Corale, “dolcissimo” negli accordi in zona acuta della tastiera. Il pezzo si chiude con magniloquenza e grandiosità.
Riccardo Risaliti
(note al CD Naxos 8.574086 - (p) & (c) 2020)