Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, dicembre 29, 2010

Mozart a Bressanone

»Mozart total - Amadeus superstar«.

Così la stampa d'Oltralpe annuncia l'anno mozartiano a 200 anni dalla morte (5.12.1791) del grande genio musicale salisburghese. Per onorare la memoria di questo "re Mida del pentagramma", un po' dovunque si sta dando l'avvio a manifestazioni celebrative; ogni città in cui Mozart ha dato prova delle sue straordinarie virtù musicali si sente onorata d'esser stata tappa di uno dei tanti viaggi, in cui Amadeus è stato "scarrozzato" sin da bambino. Il suo sarà stato un comportamento contraddittorio - "aggrazziato e di buone maniere" per gli uni; goffo, impacciato e magari inopportuno per gli altri - ma la sua musica è certamente bella, perfetta ed armoniosa, una "musica infinita" al punto che "in paradiso quando gli angeli tengono concerto per il Padreterno suonano Bach, ma quando fanno musica per proprio diporto eseguono Mozart."
Salisburgo, patria di Amadeus, sarà invasa da mezzo milione di visitatori, ai quali la città intende offrire conferenze, pubblicazioni e soprattutto concerti. Le industrie dolciarie "made in Austria" contano di smerciare oltre cento milioni di "Mozartkugeln".
Rovereto si sta organizzando alla grande, perchè proprio lì avvenne il battesimo d'arte in terra italiana del giovane Mozart.
Ma anche a Bressanone è un tantino di casa il grande Amadeus, e non solo perchè ogni coro, da quelli cittadini a quelli dei più piccoli paesi dispersi fra i nostri monti, esegue messe e mottetti di Mozart - notissimo ma sempre affascinante l'Ave Verum - ma anche perché in tutti e tre i viaggi culturali in ltalia Leopold Mozart, l'orgoglioso padre di tanto figlio, scelse la nostra città come prima tappa al di qua delle Alpi. Una scelta a ragion veduta: l'ospitalità nel palazzo vescovile era confortevole, gratuita e condita di tante "coccole" per il piccolo Amadeus. C'era infatti una grande amicizia fra i Mozart e il principe vescovo Leopold von Spaur (1747 1778). I tre viaggi in Italia ebbero luogo fra il 1769 e il 1773.
Il tredicenne Mozart arrivò per la prima volta a Bressanone il 20 dicembre 1769. Aveva già alle sue spalle una serie di trionfi a Vienna, Parigi e Londra. A Bressanone pernottò soltanto una notte. Era arrivato da Steinach, una tappa fuori programma, perché a Innsbruck il padre s'era levato tardi per aver alzato troppo il gomito in casa di amici la sera precedente. Mozart ripassò a Bressanone quindici mesi dopo, esattamente il 24 marzo 1771.
Era ormai ricco di trionfi italiani: a Bologna diventa allievo del celebre padre Martini e, superata la prova prescritta dall'Accademia Filarmonica, ne diventa socio effettivo. A Roma trascrive dalla memoria il "Miserere" per due cori a nove voci di Allegri, per cui il papa Clemente XIV gli conferisce l'insegna dello Speron d'oro.
Anche questa volta la sua presenza a Bressanone ha la durata di una notte.
Pure la successiva tappa in città - 15 agosto 1771 - nel corso del secondo viaggio in Italia, si riduce ad un unico pernottamento. Ritornò a Bressanone pochi mesi dopo, contento dell'ottima accoglienza a Milano del melodramma "Ascanio in Alba" su testo del Parini, ma spaventato dal crollo di un balcone che per poco non aveva centrato suo padre, e con ancora negli occhi la macabra esecuzione capitale di quattro malviventi.
Arrivò in città l'11 dicembre 1771 e quella sera fu musica sovrana: nel teatro del palazzo vescovile offri al principe vescovo Ignaz von Spaur, nipote e poi successore di Leopold, la dimostrazione della propria versatilità musicale. L'evento è raffigurato in una scultura lignea, realizzata molto tempo dopo e conservata gelosamente nella Sala Mozart dell'albergo Aquila Nera in via Portici minori: il quindicenne Amadeus siede al pianoforte mentre il padre suona il violino; lí accanto, tutto preso dalla bravura del ragazzo, il vescovo v. Spaur. Il giorno seguente i Mozart rimasero in città e ripartirono per Salisburgo la mattina del 13 dicembre. Anche il terzo viaggio in Italia è di breve durata: a Bressanone i Mozart pernottarono il 27 ottobre 1772 all'andata ed il 10 marzo 1773 al ritorno. Amadeus quasi diciassettenne, aveva avuto successo a Bolzano, ma in Italia i suoi sogni s'erano infranti. Il tentativo di stabilirsi definitivamente nel "bel paese" svanirono nonostante i numerosi precedenti trionfi. Deluso, non sarebbe più tornato a sud del Brennero; a Salisburgo l'attendeva la rottura con l'arcivescovo Colloredo.
Dunque, aldilà del concerto tenuto nel dicembre 1771 e di qualche occasionale "passatempo musicale" con l'amico canonico Ignaz von Spaur, a Bressanone il grande Mozart non lasciò alcuna traccia particolare del suo genio. Tutt'al più si può supporre che gli sia ronzato per la mente qualche motivetto de "La Betulia liberata", un'azione sacra su testo del Metastasio, composta fra Verona e Salisburgo mentre faceva ritorno in patria dal suo primo viaggio in Italia.

Brixen (1991)

venerdì, dicembre 24, 2010

Bruckner: Sinfonie nn.1 e 5

Oggi Anton Bruckner è riconosciuto da molti come il più significativo sinfonista tra Beethoven e Mahler, mentre quando era ancora in vita era uno dei compositori più misconosciuti e incompresi. I pregiudizi nei confronti della sua personalità come anche della sua musica erano innumerevoli. Uno dei pregiudizi più distruttivi era quello della presunta "schematicità" della sua concezione sinfonica. Sembra quasi un'ironia della sorte, ma fu proprio un caldo fautore di Bruckner, il direttore d'orchestra Hermann Levi, a formulare questa espressione erronea. In una lettera a Josef Schalk del 30 settembre 1887, Levi rilevò infatti che nell'Ottava Sinfonia (prima versione) era rimasto particolarmente sconcertato dalla "grande somiglianza con la Settima" dalla sua "forma pressoché schernatica".
Nessuno potrà negare che le nove Sinfonie di Bruckner - quelle da lui considerate "valide" costituiscono una specie di famiglia, tra i cui membri non mancano delle somiglianze. Vi sono alcune Sinfonie che hanno un disegno di base simile, se non addirittura identico. Così i primi temi dei movimenti iniziali sono di ampio respiro ed espansi, e si stagliano per lo più sullo sfondo sonoro creato dal tremolo degli archi. I secondi temi hanno spesso un carattere lirico-cantabile e si presentano anche accompagnati contrappuntisticamente da un'altra linea melodica. I terzi temi iniziano spesso all'unisono per sviluppare quindi sorprendenti energie ritmiche. Inoltre si può parlare di un tipo di Adagio e di un tipo di Scherzo che sono propri di Bruckner, e così via.
Però l'opinione che le Sinfonie di Bruckner siano simili l'una all'altra sì da poter essere confuse, non coglie affatto nel giusto. Anche se in diversi movimenti si può riconoscere il medesimo disegno di base, nei dettagli della disposizione formale le Sinfonie si differenziano in modo notevole. Ognuna di esse presenta una cifra individuale assai pronunciata, ognuna ha una fisionomia propria. Si può provare a confrontare ad esempio la Terza con la Quarta oppure l'Ottava con la Nona, e vi si potranno notare differenze fondamentali già nella struttura di base. Ma le riserve cui si è accennato non sono giustificate anche in considerazione del fatto che il sinfonismo bruckneriano ha conosciuto mutamenti stilistici, e ciò in una misura per cui non è possibile istituire senz'altro dei paralleli, ad esempio con la musica di Brahms.
Nel 1855, dopo aver trascorso molti anni a Sankt Florian, Bruckner fu nominato organista nel Duomo di Linz, un ufficio di grande prestigio. Di questa nuova attività era assai soddisfatto; ma non lo era ancora delle sue cognizioni di teoria musicale. Perciò compì studi scrupolosi in questo campo dapprima con Simon Sechter, un rinomato professore di teoria musicale a Vienna, e a partire dal 1861 con Otto Kitzler, un musicista capace, aperto alle esperienze della musica più moderna, che fu attivo a Linz dapprima come violoncellista e poi come direttore d'orchestra al Teatro comunale.
Gli studi con Kitzler ebbero un'importanza particolare nell'evoluzione creativa di Bruckner. Conobbe in tal modo la partitura del Tannhäuser di Wagner e durante la prima rappresentazione di quest'opera al Teatro di Linz (12 febbraio 1863) ricevette un'impressione così profonda, che non sarebbe esagerato affermare che questa esperienza wagneriana mise in moto in Bruckner il processo creativo: egli scoprì se stesso, cominciò a rinvenire il proprio stile personale.
La Prima Sinfonia in do minore, composta nel 1865/66 a Linz e là eseguita per la prima volta nel 1868, è così una composizione oltremodo originale. Per le sue audacie, Bruckner stesso definì in età avanzata questo suo lavoro "il monello (Beserl) impudente" - Beserl è un'espressione dialettale dell'Alta Austria. Molti tratti tipici dei grandi sinfonisti si possono ravvisare, e in misura notevole, in quest'opera di Bruckner: i movimenti estremi sono basati su tre temi ben profilati ed adatti ad essere elaborati; gli sviluppi formali sono assai spesso definiti da imponenti intensificazioni che si succedono ad ondate; inconfondibile è poi la tendenza ad una densa scrittura polifonica, e quindi nello Scherzo si dispiegano energie ritmiche elementari. Inoltre non si possono non rilevare anche differenze significative rispetto alle Sinfonie posteriori: i movimenti estremi presentano solo deboli legami fra loro, non vi sono temi con carattere di corale e vi mancano ancora quelle pause generali con chiara funzione di articolazione formale, che a partire dalla Seconda Sinfonia divideranno l'uno dall'altro i vari complessi tematici. .
Audacia e foga espressiva danno un'impronta caratteristica alla Prima Sinfonia. Audace è per esempio nel movimento iniziale, dalla forma concisa, la grandiosa idea dei tromboni (alla lettera C nella partitura della versione di Linz), preceduta da un tema principale sul tipo d'una marcia, da un secondo tema di tono lirico e da una sezione in progressiva intensificazione (alla lettera B nella partitura). Non meno audace è l'idea principale dell'Adagio, la cui tonalità di la bemolle maggiore, dapprima occultata, diviene chiara solo alla battuta 20. Ma una concezione audace contraddistingue anche la struttura del Finale, che presenta tratti quasi improvvisatori ed è anche ricco di elementi drammatici.
Nel 1868 Bruckner lasciò l'ufficio di organista nel Duomo di Linz per una cattedra di armonia, contrappunto e organo al Conservatorio di Vienna. Nei suoi primi anni viennesi si dedicò esclusivamente al genere sinfonico. La sua produzione sorprendentemente feconda nasceva solo da un impulso interiore; dall'esterno non riceveva infatti alcun incoraggiamento. Nel 1872 terminò la Seconda Sinfonia, nel 1873 la Terza e nel 1874 la Quarta, la cosiddetta "Romantica". Nel 1875/76 compose poi la Quinta Sinfonia, spesso denominata "Sinfonia religiosa". Questo titolo diviene comprensibile se si pensa che in essa sono assai numerosi gli elementi che rimandano allo stile del corale, e che il Finale si conclude appunto con un grandioso "Corale", così denominato dallo stesso Bruckner. Inoltre, a confronto con i toni luminosi della Quarta Sinfonia, la Quinta appare più rude. Inizia, unica tra le Sinfonie di Bruckner, con un'introduzione lenta che ricorda modelli di musica sacrale e presenta tre idee contrastanti. Queste ritornano nello sviluppo dell'Adagio successivo e vengono poi elaborate in molteplici modi.
Il secondo movimento - un Adagio in re minore è basato su due temi: il primo, inizialmente intonato dai legni e sorretto in maniera quasi spettrale dai pizzicati all'unisono degli archi, è una "melodia triste". Il secondo tema, pienamente armonizzato, trapassa invece a toni innodici ed estatici. Di grande effetto sono le grandiose intensificazioni cui i due temi sono sottoposti nel corso del movimento.
L'Adagio e lo Scherzo sono strettamente legati l'uno con l'altro non solo dalla tonalità comune (re minore), ma anche tematicamente: la maggior parte dei motivi del primo tema dell'Adagio ritorna nello Scherzo, che introduce a sua volta anche idee musicali nuove. Particolarmente notevole è il secondo tema dello Scherzo, nel quale Bruckner intreccia contrappuntisticamente una melodia sul tipo d'un Ländler con figurazioni melodiche che sembrano quasi intonate da un corno alpino.
Il Finale - come nella Nona di Beethoven - è preceduto da un'introduzione che cita (in una sorta di ricapitolazione) passaggi dei movimenti precedenti. In mezzo a queste citazioni il clarinetto solista presenta il primo tema del Finale, un movimento che costituisce una sintesi assai sapiente di forma-sonata e fuga; due temi sono infatti trattati come in una doppia fuga. Quando Bruckner definì questa Sinfonia il suo "capolavoro contrappuntistico", non esagerava. Un insigne musicologo è andato ancora più in là e ha affermato che la conclusione della Quinta di Bruckner è una delle cose più sublimi che la musica e lo spirito umano abbiano mai creato.

Constantin Floros (Traduzione: Gabriel Cervone, note al CD DGG 415 985-2)

giovedì, dicembre 16, 2010

Bach: Massimo Mila versus Piero Buscaroli

Che in occasione del tricentenario della nascita di Bach siano uscite in Italia due monumentali biografie, quella di Alberto Basso e ora quella di Piero Buscaroli (Mondadori, 1180 pagine, 65.000 lire), entrambe scrupolosamente aggiornate sui risultati sconvolgenti (per lo meno in fatto di cronologia) della neue Bach-Forschung, conferma lo straordinario progresso della cultura musicale del nostro Paese, progresso che ormai può venir messo in dubbio soltanto da quelli che Buscaroli definisce, con un termine che gli è caro, critici piagnoni.

Biografia, anzi "solo biografia", secondo un aforisma di Nietzsche. Far rivivere lo hic et nunc dell'autore. Non analisi delle opere, su cui Buscaroli si lascia andare talvolta ad incaute ironie. Dichiarata abdicazione (fortunatamente non sempre mantenuta) all'esercizio della critica. "Un libro come questo non può gareggiare coi manuali, che dedicano centinaia di pagine di analisi ai singoli generi". (E pour cause, verrebbe fatto di commentare, quando si legge che l'autore "due intervalli discendenti di terza minore" configurano la successione delle note: do - la bemolle - fa naturale).

Invece, biografia über alles. Giustissimo. Tutti sanno che per la comprensione di Bach è imprescindibile la conoscenza della biografia: con la successione dei posti di lavoro occupati, essa è organicamente integrata negli sviluppi della sua arte. Biografia così appassionata da riuscir quasi romanzata. Non che Buscaroli s'inventi fatti o metta discorsetti in bocca a Bach e a chi gli stava intorno. Ma, se non romanzata, biografia interiore. Sforzo di essere dentro la testa di Bach. Smania di mettere a nudo "la macchina della riflessione creativa". Sapere che cosa succedeva nel suo spirito. Cogliere "il preciso calcolo di...", o "l'indizio di un'intenzione".

Donde, sebbene Buscaroli sia severissimo contro "le fantasie dei biografi" e i "frutti dell'immaginazione" di altri critici, un festival delle supposizioni, delle ipotesi e delle congetture. I "forse", i "probabilmente", i "si può pensare che", si sprecano. Quasi mai un verbo si presenta nudo e crudo al passato remoto, come è proprio della narrazione storica, ma per lo più al futuro anteriore (avrà fatto, avrà detto, avrà pensato, ecc.), oppure coniugato con l'ausiliare ipotetico "dovere": dovette credere, dovette pensare, dovette preferire, ecc.. Ne viene, a chi legge, un certo disagio, come se si camminasse sulle uova, molto simile al mal di mare.

Sa benissimo, il Buscaroli, che "ogni ipotesi ci ricaccerebbe nel regno delle invenzioni da cui siamo usciti per sempre", e giustamente si fa beffe di quella ricerca che "arranca tra le ipotesi". Ma deve ammettere lealmente: "Ci restano le deduzioni, le congetture", e giù con i "si può credere", "è evidente che", ecc..

Manca infatti al Buscaroli un chiaro concetto dell'arte: quello che il Riezler, biografo di Beethoven da lui citato, chiamava "un'idea generale dell'arte". L'estetica di Buscaroli si fonda sul concetto, così fasullo, di "genio", di "uomo eccezionale". Nel suo culto di superuomo egli è affascinato dal "mistero della grandezza". Donde la frenesia biografica interiorizzata. "Riesce difficile resistere alla tentazione di valorizzare ogni increspatura, ogni saliente di questi anni". Eppure il Buscaroli c'insegna che "quanto a ipotesi sballate la critica bachiana ne ha conosciute, davvero, di tutti i generi".

Tre divieti reggono la struttura biografica, sviluppata senza economia di spazio e con sbalorditiva ricchezza di documentazione: che Bach sia un musicista eminentemente serio, che Bach sia stato un vinto, uno sconfitto dalla storia; che Bach sia da considerare un "artigiano" della musica.

La disputa sul sacro e il profano in Bach è sempre esistita. C'è chi "tiene" per i Concerti brandeburghesi e chi "tiene" per le Passioni. Chi vede il momento grande di Bach nel brillante servizio mondano alle corti di Weimar e di Cöthen, e chi il vero Bach lo trova nell'organista di chiesa e nel Cantor della Thomasschule.

Niente di male: è grande in entrambi i campi, e la dialettica sacro-profano non fa che rinfocolare lo zelo degli studiosi. Ma sostenere che è "esigua" (sì, dice proprio esigua) "la quantità della musica di chiesa da lui composta se si paragona con la produzione di un gran numero di maestri", questo è proprio un po' forte. In calce al volume c'è un eccellente catalogo delle opere di Bach. Ne risulta che l'esigua produzione da chiesa consta di: circa 200 cantate sacre, 5 Messe, 5 Sanctus, 1 Credo, 2 Magnificat, 5 tra Passioni e Oratori, 5 Mottetti, per non parlare dei Corali, trascritti e elaborati.

Nemico intransigente della Riforma luterana, in cui vede la causa di tutti imali e le colpe della Germania (ammesse a denti stretti, le colpe), il Buscaroli vuole soprattutto dissociare da Bach l'immagine del luterano tutto d'un pezzo, sostenuta dagli "ottusi ignoranti giullari del Bach tutto-chiesa", e a questo scopo s'impegna in una tendenziosa svalutazione, anzi demolizione del famoso progetto di una "reguloirte Kirchenmusik" con cui Bach si licenziò dal servizio nella chiesa pietista di Mühlhausen. Tira talmente la corda che finisce quasi per trasferire Bach nel campo opposto ("Si comporta in tutto e per tutto come un pietista") e lo fa apparire come uno spudorato mentitore, che avrebbe architettato la storia della ben regolata musica di chiesa semplicemente per passare a un impiego migliore nella corte di Weimar, dove sapeva benissimo che di Kirchenmusik, bene o mal regolata, non avrebbe avuto da occuparsi. "Equivoci non sono leciti. Più c'inoltriamo in questa linea vitale, e più ci convinciamo che la 'regulierte Kirchenmusik in nome di Dio' altro non fosse che un sospiro ornamentale, messo a coprire, col suo accorato rimpianto, la giovanile gioia di un posto migliore, con doppio guadagno".

Mai dimostrata l'"intransigenza luterana" di Bach? Sarà, ma in queste diatribe sul sacro e il profano si assiste a una ridda di farneticazioni biografiche alle quali si possono opporre altre farneticazioni di segno contrario, altrettanto plausibili ed altrettanto campate in aria. Non sarà mica una "fabbrica di fantasticherie" come quelle così aspramente rimproverate al vecchio Spitta?

Bach vittorioso. C'è nell'autore una mentalità militarista simpaticamente infantile, da lettore di Salgari e di Nembo Kid, che non ammette possa essere il suo eroe, uno sconfitto, un vinto. Via la "nuffita oleografia" disegnata dagli "specialisti del pignisteo bachiano", del "Cantor misconosciuto e vessato da grette autorità cittadine ed ecclesiastiche" della bigotta Lipsia! Perciò gran peso attribuito ai postumi della questione Scheibe e alle retoriche difese di Bach redatte dal professor Birnbaum, unica vittoria (ma lenta e tardiva, ai punti) riportata da Bach nell'ultima fase della sua vita. L'entusiasmo per il vittorioso si estende fino alla "sessualità indomita" dell'"ardente vedovo", che generò ancora un figlio a 57 anni. Be', che c'è di straordinario?

"Nè vinto, nè isolato", dunque, salvo che sul fronte della scuola. E' qui che Buscaroli estrae dai documenti una selva di prove per dimostrare la totale erosione dei suoi doveri scolastici e municipali che Bach effettuò nei ventisette anni d'insabbiamento a Lipsia, comportandosi come un perfetto lavativo.

Ma sarà poi proprio vero che "Bach non si sentiva nè umiliato, nè maltrattato"? Un centinaio di pagine più in là, in uno dei tentativi di crepida penetrazione nell'animo del Grande, Buscaroli suggerisce: "Non avrà mancato di sentirsi superato e abbandonato, di gemere sulla sua sorte". Il che s'accorderebbe con le "periodiche crisi di depressione e di sterilità" che lo scrittore gli attribuisce, con l'"ansia", l'"insoddisfazione e forse anche una fragilità" riconoscibile nell'esordiente Bach. Aggiungendo che la parodia, cioè il "continuo lavoro di riscrittura" che è il modus operandi di Bach, è, sì, sempre miglioramento, perfezionamento e inveramento, ma anche "discende da un vizio psicologico ed estetico".

E' quanto all'artigianato musicale, va bene, ammettiamo pure che Bach fosse un romantico. D'un artista così grande si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Ma a proposito dell'Arte della fuga leggiamo che "anche il vecchio Bach ha bisogno, per finire un'opera, del pungolo esterno, la commissione, la data fissata per l'utilizzazione". E se non è artigianato questo, che cos'è?

Nonostante il maltusianesimo critico professato dall'autore, analisi musicali non ne mancano, spesso ottime, ma saltuarie, quasi a titolo di campionature sul versante preferito. Non Cantate sacre, ma profane. Sulla Messa e sulla Passione secondo San Matteo solo aride diatribe di cronologia. Invece una splendida rilettura del Clavicembalo ben temperato, parte prima, e un felice inquadramento storico dell'Offerta musicale, che attraverso Federico II e il barone Van Swieten congiunge materialmente Bach a Mozart. Meno approfondito l'esame dell'Arte della fuga, che pure è il vertice di quella "musica assoluta" proposta come terreno d'incontro e risoluzione della contraddizione tra sacro e profano, la cui tensione conturba drammaticamente il poderoso volume.

La cui lettura è aggravata, oltre che dall'orgia di supposizioni, anche dalla rissosa volgarità delle contumelie versate sui colleghi presenti e passati della ricerca bachiana. C'è nel Buscaroli una sindrome di fascismo intellettuale per cui chiunque si permetta di avere un'opinione diversa dalla sua è un nemico. "Tipica sensibilità fascista", per dirla con parole di Isotta a proposito di Barilli, "nel senso delle categorie mentali, non degli schieramenti nella prassi politica quotidiana".

E' quell'arroganza ghibellina, quella "standardizzata altezzosità nei confronti della massa" che in realtà "è un comportamento tipicamente massificato" secondo la luminosa diagnosi di Claudio Magris, poichè "chi parla della pochezza intellettuale generale dovrebbe sapere di non esserne immune, deve assumerla su di sè come rischio e destino comune degli uomini".

Da questo genere di penitenza il Buscaroli è proprio alieno e così, con una preparazione straordinaria, invece d'un libro di storia, ci ha dato un violentissimo pamphlet. Ma i pamphlets, per essere buoni, devono essere brevi. Questo, invece, è di 1200 pagine.

Massimo Mila ("La Stampa", 19/10/1985)

venerdì, dicembre 10, 2010

Bruckner: Sinfonia n.8 in do minore

L'idea che arte e religione abbiano radici comuni, e che anzi possano fondersi in un'unica entità in cui trovino espressione al tempo stesso umano e divino, anelito struggente e rivelazione, fu un tema centrale dell'Ottocento. Esso ricorre in aspetti diversi, e nell'opera di Anton Bruckner ebbe un'impronta particolare: la musica vista come ricerca del senso ultimo delle cose e come una confessione di fede del tutto personale. In nessuna delle sue composizioni strumentali quest'idea traspare in modo più chiaro che nell'VIII Sinfonia. Qui non si tratta solo di "forme sonore in movimento" secondo la famosa definizione di Eduard Hanslick sull'essenza della musica, bensì - come disse un altro critico - della "consapevolezza dell'omogeneità sostanziale dell'animo umano con la natura cosmica, del desiderio struggente di sprofondare in essa e di perdersi nell'infinito". Malgrado tutti i pro e i contro estetici e ideologici che una tale concezione musicale può suscitare ancora oggi, l'ascoltatore deve farsi consapevole, per dirla con Ernst Bloch, del "magico" e "serafico" di questa musica, del "sostrato di una fede, qui ancora realmente genuina, in una sovranità celestiale, a cui si riferiscono i maestosi accordi bruckneriani". Senza questo aspetto si perderebbe una dimensione essenziale della sua musica.
Bruckner lavorò alla sua VIII Sinfonia a più riprese, fra il 1884 e il 1890. In questo periodo gli sbalzi fra una euforica creatività e una profonda sfiducia nelle proprie capacità indicano eloquentemente quale fosse il suo stato d'animo. All'inizio, grazie al successo riportato dalle esecuzioni della sua Settima Sinfonia, si sentì spronato nel suo nuovo lavoro; ma in seguito, quando anche alcuni suoi amici musicisti (Hermann Levi, Joseph Schalk e altri) gli mossero delle critiche, Bruckner fu preso da dubbi e decise - sempre pronto ad accettare consigli altrui - di apportarvi trasformazioni radicali. Colto da una vera febbre di rielaborazione, sottopose non solo questa Sinfonia, ma anche altre che l'avevano preceduta a una profonda revisione. (La registrazione presente segue la versione dell'"Edizione critica completa" curata da Robert Haas, dove, nonostante tutte le difficoltà filologiche, si cerca di tenere fede alle intenzioni di Bruckner: essa si basa infatti sull'autografo della versione definitiva, come sulla bozza per la prima edizione a stampa, e inoltre il testo è stato emendato da aggiunte estranee).
L'Ottava Sinfonia fu eseguita per la prima volta il 18 dicembre 1892 a Vienna, sotto la direzione di Hans Richter. Alcune indicazioni di Bruckner riguardo a questa partitura possono valere come riferimenti programmatici, ma la maggior parte di esse è da intendersi come un chiarimento delle implicazioni descrittive di singoli passi. Si consideri ad esempio il primo movimento (è l'unico movimento iniziale di una Sinfonia bruckneriana che non si conclude in un'atmosfera raggiante, bensì si spegne in pianissimo!): al punto culminante di esso dovevano trovarsi le parole "Annuncio di morte", mentre le sue ultime misure, scandite sottovoce in una lugubre pulsazione, rappresenterebbero 'L'orologio dei morti". Altre espressioni quali "Il Michel tedesco" (come era stato intitolato lo Scherzo) o "Incontro dei tre imperatori" (quale motto per il Finale) dicono ben poco e danno tutt'al più un'indicazione sommaria sul carattere globale di questi movimenti.
Il fatto che Bruckner modifichi la successione tradizionale dei movimenti e faccia risuonare lo Scherzo prima dell'Adagio è dovuto certamente al proposito di far seguire ad un movimento più 'ponderoso' uno più 'leggero'. Ma in ciò si può scorgere anche un richiamo alla Nona di Beethoven, che sotto molti aspetti ne fu il modello: così, per esempio, nell'ultima parte del Finale risuonano ancora una volta i temi principali di tutti i movimenti precedenti, riassunti in una grandiosa sintesi contrappuntistica.
Un elemento essenziale del linguaggio musicale di Bruckner è la successione di singoli blocchi a sé stanti, spesso con cambiamenti improvvisi di timbro (si passa ad esempio dai fiati del registro acuto agli archi di quello grave) o con effetti d'eco indistinta, e spesso anche con un nuovo avvio di un monumentale crescendo, che quasi trascina l'ascoltatore nel vortice di un movimento ondoso sempre più imponente. E vi sono sempre connessi improvvisi mutamenti di carattere, ad esempio da momenti di solennità trionfale si trapassa a squarci di delicato lirismo. Se si considera poi l'impianto formale complessivo dell'Adagio, se ne potrebbe facilmente immaginare un'integrazione scenica: una processione celestiale, dapprima sommessa, ma che col suo tono innodico sfocia in un crescendo d'intensità drammatica, al cui culmine si spalanca un cielo radioso. Ma questo processo non si compie in maniera continua, bensì prende l'avvio ogni volta da un'ottica diversa e analogamente alla tecnica cinematografica viene interrotto da "tagli" e "dissolvenze". Cambiamenti di atmosfera caratterizzano anche l'armonia, come quando dal maggiore si passa improvvisamente al minore (inizio dell'Adagio) o tutt'a un tratto risuonano regioni armoniche lontane - e ciò va detto sia in senso emozionale che in termini di analisi teorica. (In questo contesto è già significativo che la Sinfonia non comincia nella tonalità fondamentale di do minore, ma in un tessuto armonico ancora nebuloso).
Esattamente come per l'impianto formale complessivo, anche i vari motivi musicali risultano composti dalla somma di singole cellule ricorrenti; colpisce la tipica figurazione ritmica basata sulla successione di tempi binari e ternari (nella misura di 414 si hanno cioè due semiminime e una terzina di semiminime), che spesso si integrano reciprocamente dando luogo a figurazioni metriche complementari (attrito di valori binari e ternari sul tipo della hemiolia).
Nella strumentazione si rivela chiaramente la formazione organistica di Bruckner, quando contrappone ad esempio tra loro i singoli gruppi orchestrali come singoli registri d'organo, o combina determinati strumenti amalgamandoli.
Ma ciò che colpisce, oltre alla scrittura orchestrale compatta e Massiccia, sono anche quei momenti di levità pressoché eterea, in cui sembra che aleggi un assolo desolato dei legni o che si libri il suono di un'arpa. La plasticità di simili procedimenti musicali è innegabile; essa fa parte di quella grande, fantasiosa visione che la musica di Bruckner comunica all'ascoltatore.
 
Volker Schlerliess (traduzione: Alessandra Castriota, note al CD DGG 419 196-2)

venerdì, dicembre 03, 2010

Luis de Pablo

Di sé ha detto. «Ciò che importa soprattutto è essere golosi. Ammetto di essere più un edonista che un analista»: questo è Luis de Pablo, uno dei compositori più importanti della nostra epoca, da ieri a Bologna per presentare e assistere alla prima esecuzione assoluta dell’opera che l’Accademia Filarmonica, sostenuta da Fondazione Carisbo e Regione, gli ha commissionato un anno fa. En tono menor sarà eseguita alle 20 al Manzoni dall’Orchestra Mozart. Il programma si completa con un’altra sua prima assoluta, A la memoria de… e con due pagine di Stravinskij, il Concerto in Mi bemolle Dumbarton Oaks e le Danses concertantes. Sul podio il francese Pascal Rophé. Ieri il compositore catalano ha incontrato il pubblico e la stampa nella Sala Mozart di via Guerrazzi e la sua “golosità” si è intuita nelle parole pronunciate dal presidente dell’Accademia Filarmonica, Loris Azzaroni, e nelle osservazioni del musicologo Paolo Petazzi. Entrambi hanno ricordato la capacità di quest’uomo, che arriva a Bologna sulla soglia degli ottant’anni, di sperimentare. Lui per primo decise di conciliare ispanicità e contemporaneità. Non fu facile: da Albeniz a De Falla, tutti i compositori spagnoli sembrano non poter fare a meno di una vena folclorica, che spesso è Andalusa. Lui, invece, voleva conoscere la musica del suo tempo, che in quel momento gli era preclusa. Il luogo giusto era Darmstadt, dove conosce Boulez: «Un bell’incontro - dice, sempre generoso nel parlare della sua vita e della sua opera - in cui ho capito che non ero fatto per aderire a un sistema». Forse si è creato il suo, in cui ha grande attenzione alla suggestione dei testi, alla qualità del materiale sonoro, ai linguaggi musicali non europei, con particolare predilezione per Cambogia e Corea. Tutto questo ne fa una personalità unica e originale tra i compositori contemporanei e perciò l’Accademia ha deciso di aggregarlo con socio d’onore. In conferenza il discorso scivola anche sui brani in programma. Il primo presenta cinque pezzi diversi che danno vita a un forte gioco di contrasti. Dice il compositore: «è come passare in una galleria da un quadro all’altro. A la memoria de… è invece un brano intimo e malinconico. De Pablo svela la dedica: alla sua amatissima gatta siamese. Dove sarà andata, si chiede la musica, e ricordando quella compagna «gentile e bella» si pensa alle persone amate. Un punto interrogativo conclude il pezzo. Questa è, alla fine, la capacità di De Pablo: sapersi interrogare e cambiare rotta. Lui che ha cominciato a mettere le mani sul pianoforte piccolissimo, nelle scuole delle suore, vissuto al confine tra Spagna e Francia, avviato alla carriera d’avvocato, a un certo punto ha scelto di cambiare rotta, dedicandosi alla musica in modo totale ed entusiasta, ma sempre aperto.

Chiara Sirk ("L'Informazione", 14 novembre 2010)