Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 10, 2018

Bernard Haitink: "La direzione è un abbraccio con l'orchestra..."

Bernhard Haitink (1929)
Fra i direttori d’orchestra veramente grandi di oggi, quelli riconoscibili per l’impronta profonda impressa su ogni partitura diretta, per il sobrio rigore dell’agire, ma anche per il portare su di sé davvero un intero secolo di storia musicale, non può certamente mancare il nome di Bernard Haitink: lo ho incontrato il 18 novembre scorso, in una luminosa mattina, a Lugano, nelle ore fra i due concerti tenuti al LAC con la Chamber Orchestra of Europe, per i quali ha scelto un programma interamente schumanniano. La sera prima, infatti, aveva diretto la Prima e la Quarta Sinfonia, insieme al Concerto per violoncello (solista Gautier Capuçon), mentre più tardi avrebbe alzato la bacchetta sull’Ouverture "Manfred", la Seconda Sinfonia e il Concerto per pianoforte, coadiuvato da un vecchio amico come Murray Perahia, che a 68 anni ha ancora un dominio tecnico assoluto, l'inimitabile colore aristocratico del cantabile e la serena eleganza del porgere; quello che forse gli è mancato e, semmai, proprio quanto ha offerto, dal podio, Haitink, ossia la sorprendente capacità di plasmare il fraseggio con una freschezza, un’elasticità sempre nuova, in un "clima sonoro" che sottolinea i legami fra Schumann, Mendelssohn e Weber. E quindi, nella Seconda, l’epicentro non era il celebre Adagio, la cui cifra esecutiva era invece il riserbo, il pudore espressivo, ma il vorticare dello Scherzo, il cui perpetuum mobile sembrava uscire da una pagina mendelssohniana. D’altronde, nell’intervista, il Maestro mi aveva detto, con squisita modestia, che non spettava a lui giudicare se fosse in grado o meno di trasformare in suono le proprie idee ma, certo, la sua visione di Schumann era proprio quella. Una conversazione, quella con Haitink, lunga e piacevole, che era partita però in maniera faticosa, con un riferimento quasi inevitabile ai recentissimi attentati terroristici di Parigi.
 
In questi giorni nei social network è stata citata molte volte una frase di Leonard Bernstein: "La nostra risposta alla violenza sarà fare musica più intensamente, più devotamente, con più bellezza che mai". Solo belle parole, o davvero l’arte e la musica possono fare qualcosa?
Ma questa è l’unica ragione di essere un musicista: cercare la bellezza, tanto più in momenti così difficili per l’arte. Come fa un giovane talento a svilupparsi e crescere nel giusto modo se è sottoposto ad una pressione così forte da parte dei media, se è "costretto" ad avere successo subito? Che la musica, purtroppo, non possa salvare il mondo lo sappiamo da sempre: quanti brillanti artisti sono morti durante la Grande Guerra? Quanto ne ha sofferto la musica? Eppure è andata avanti...
Il Sao debutto come direttore risale a 61 annifa: cosa è cambiato maggiormente nel rapporto con le orchestre?
ll mutamento è enorme, e sta continuando: c’è molta più varietà, molte più orchestre da camera, gli studi musicologici ci hanno aperto gli occhi sulle diverse prassi esecutive, e per fortuna c’è un pubblico per ogni tipo di proposta. Al contrario, le orchestre tradizionali stanno soffrendo: i valori tradizionali non sono più saldi come un tempo, e tocca a noi, come esecutori ed organizzatori, lavorare sodo. Non mi fraintenda: ci sono ancora eccellenti orchestre e splendidi direttori, ma spesso sono i manager a non essere all’altezza. Ne ho avuti di buoni, ma troppi sono dominati solo dall’avidità: ci vorrebbe una scuola anche per loro.
Crescendo in Olanda, avrà forse avuto la possibilità di ascoltare Mengelberg: è cosi?
Sì, effettivamente, nel 1938: ero molto piccolo, ma mi ricordo ancora che diresse una Patetica di Ciaikovski. Ovviamente non posso dire come la fece, ma ebbi l’impressione di un uomo molto autoritario anche se, come seppi dopo, non era più all’apice delle proprie facoltà mentali: la sua fu una fine tragica perchè, fino al 1940 circa, in Olanda era un eroe nazionale ma poi, durante l’invasione tedesca, disse cose stupide, che secondo me erano legate ad una lucidità non più assoluta. Ma per almeno 50 anni fu una figura enorme: pensi che, all’inizio del suo incarico al Concertgebouw, chiese un periodo di libertà per andare a Düsseldorf per ascoltare una prima di un giovane compositore: era la Terza di Mahler, con il quale poi ebbe un saldo rapporto di amicizia. Mengelberg lo aiutò molto, e c’è l’episodio di un’esecuzione della Quarta ad Amsterdam da lui diretta e con il compositore in platea, salvo invertire i ruoli, dopo un intervallo, per un "bis" da cima a fondo! L’apice della carriera di Mengelberg furono gli anni Venti e infatti ascoltando le poche registrazioni, che sono successive, si ha l’impressione di qualcosa di meno efficace e dal gusto un po' old fashioned.
Nei suoi anni al Concertgebouw ha lavorato a lungo con due grandi colleghi come Eduard van Beinum e Eugen Jochum: me ne puo parlare?
Van Beinum era, per così dire, l’opposto di Mengelberg: quest’ultimo era tutto "scuro, fortissimo", il primo invece dolce, mite, argenteo. Fu un esperto di musica francese, ma anche di Bruckner (non Mahler, che diresse sì, ma non benissimo), senza dimenticare delle stupende esecuzioni di Sinfonie di
Haydn che, in tempi ancora lontani dagli studi filologici, ne prefiguravano le indicazioni, solo per un istinto personale, con un suono leggero e luminoso. Le orchestre suonavano benissimo con lui e, quando tornava a dirigerne una dopo un po' di tempo, sapeva ricreare subito il suo suono: il suo segno
distintivo era la trasparenza. Van Beinum morì nel 1959, troppo presto, e dopo di lui arrivò Jochum, che era molto diverso, un vero Kapellmeister tedesco cresciuto nel culto di Furtwängler.
Già, il suono di Van Beinum: ma quindi anche lei cerca di creare il "suo" suono con ogni orchestra che dirige, oppure è un procedimento opposto, ossia cerca di convogliare le caratteristiche di timbro e fraseggio di un complesso per realizzare le sue idee?
Domanda spinosa! Non so davvero come risponderle, posso solo citare i musicisti delle orchestre che dirigo, i quali affermano generalmente che io porto con me il mio suono: non so cosa faccio, né come lo faccio, ma pare che dopo poche prove succeda questo. Va anche detto che ormai sono vecchio, e non mi piace dirigere orchestre che non conosca già molto bene.
Però farà un’eccezione per la Scala, dove debutterà il 31 gennaio con il Requiem tedesco di Brahms!
In effetti non era ancora successo, per un puro caso: ma Pereira ha insistito così tanto che ho dovuto dirgli di sì. Anche la scelta del programma è sua, forse per coinvolgere il coro: sarà un esperimento stimolante.
Torniamo a quello Schumann che sta dirigendo qui a Lugano: lei ha inciso il ciclo completo oltre trent’anni fa, con il Concertgebouw. Cosa è cambiato da allora?
Schumann mi affascina, tanto che amerei affrontarne anche i lavori più ampi, come le Scene dal Faust o il Paradiso e la Peri, ma sono così pieno di partiture da studiare! Quanto a quelle vecchie incisioni, voglio dirle che mi capita di riascoltare i miei dischi, a volte mi piacciono, ma più spesso vorrei rifarli in maniera diversa; Giulini una volta mi fece un’osservazione molto interessante, dicendo che non ascoltava le sue incisioni del passato perché non poteva imparare da esse. Non credo che sia completamente vero, perché si può apprendere anche dalle proprie debolezze, ma mi è chiaro quello che intendeva. Un altro ricordo commovente è legato all’ultimo periodo di Claudio Abbado: diressi la sua Orchestra Mozart, non potevo più vederlo di persona, ma tramite il suo assistente, Gustavo Gimenez, mi fece sapere che teneva le mie incisioni Schumanniane come riferimento assoluto. Ciò mi colpì molto.
Quindi non concorderà, ovviamente, con la vecchia critica all'orchestrazione di queste Sinfonie: niente "versione Mahler"?
Ma per niente, è una cosa che mi fa arrabbiare! Certo, se si lavora con una grande orchestra, è cruciale lavorare duramente sugli equilibri, ma tutto è più facile con un complesso come la Chamber Orchestra of Europe, dove tutti fanno musica da camera, dove tutti si ascoltano e sanno perfettamente cosa devono fare. Lavorare con loro è un puro piacere, questo Schumann ha più chiarezza, trasparenza: si capisce come il compositore fosse amico di Mendelssohn, per non parla re del noto rapporto con Brahms, il quale, a sua volta, scrisse le proprie Sinfonie per l'orchestra di Meiningen, che aveva solo 12 primi violini! Amo Mahler, ma proprio non le sue "correzioni" su Schumann.
Lei ama Mahler, ma ancora di più, forse, Bruckner: cosa l’ha spinta a cambiare la revisione adottata in alcune Sinfonie, passando da Haas a Nowak?
Lo spunto venne da un’esecuzione dell’Ottava che dovevo dirigere con la Tonhalle-Orchester a Zurigo, e pensavo di usare la consueta edizione Haas; però Peter Hagmann, un critico molto serio, mi scrisse chiedendo un incontro per parlare di questa partitura. Ci vedemmo, e mi spinse a considerare la versione Nowak 1890: decisi di provare, visto che con l'orchestra mi sentivo al sicuro, e, procedendo nello studio, ne fui sempre più convinto. E' più breve, con varie differenze nell’Adagio (dove Haas riapre troppi tagli), ma soprattutto contiene solo musica di Bruckner, senza aggiunte del revisore. Per le altre sinfonie, invece, mi regolo di volta in volta: ad esempio, per la Quarta e la Settima le differenze sono minime, dipende anche dall'editore. Tra l'altro, ho conosciuto Nowak proprio a Vienna (dove è morto nel 1991, nda), mentre lavoravo alla Terza sinfonia: un uomo molto mite, tipicamente viennese, che mi propose di considerare alcune versioni alternative di quella partitura, ma senza volermi imporre nulla.
La convincono i completamenti di partiture come la Nona di Bruckner o la Decima di Mahler?
Li odio: mi fanno infuriare. Anche se ci sono schizzi, persino ricchi, non è accettabile partire da quelli per "terminare" qualcosa che il compositore non ha potuto, o voluto fare.
Nella sua carriera ha compiuto diverse imprese piuttosto singolare: il primo non inglese ad avere affrontato tutte le Sinfonie di Vaughan-Williams ma, soprattutto, il primo occidentale ad avere diretto (e inciso) quelle di Shostakovich. Da cosa nacque questo interesse per il compositore russo? Lo conobbe mai?
Lo incontrai solo una volta, durante una tournée del Concertgebouw a Mosca: c’era in programma proprio la Nona di Bruckner e mi disse - tramite l’interprete - che era la prima volta che sentiva quella partitura! Era probabilmente l’anno in cui morì (1975, nda): fu per me una grande emozione conoscerlo. Per quanto riguarda il mio impegno con la sua musica, accadde per caso, come tante cose nella mia vita: durante un incontro di programmazione con la London Philharmonic Orchestra, qualcuno mi propose di dirigere una Sinfonia di Shostakovich. Non le conoscevo bene, ero scettico, ma poi mi spinsero a studiare la Decima, e tutto cominciò: subito dopo la Decca volle che io incidessi tutto il ciclo, e lo feci, proprio partendo dalla Decima, per proseguire con la Seconda e la Terza (al termine di queste sessioni, dissi all’orchestra: "Signori, grazie. Non le suoneremo più"), quindi la Quarta, un enorme affresco che mi incantò e ancora mi affascina. Oggi forse considero soprattutto l’Ottava come una Sinfonia di enorme importanza, forse sottovalutata.
Anche l’opera è stata un capitolo importante della Sua carriera, fra Glyndebourne e il Covent Garden, e Wagner ha occupato molte Sue energie: ma è stato mai invitato a Bayreuth?
Solo come spettatore. Ricordo una piacevole chiacchierata con Wolfgang Wagner, durante un intervallo, in cui mi disse:" ma che peccato che Lei non abbia tempo per noi, essendo occupato a Glyndebourne". Ero troppo timido ed orgoglioso per rispondere: "beh, magari il tempo riuscirei anche a trovarlo"!
Per quanto riguarda l’opera italiana, ha diretto molto Verdi, persino il Mefistofele di Boito, ma mai Puccini: una precisa scelta?
No, anzi, amo Puccini, ma ci sono così tanti direttori che lo fanno meglio di me! Non sta scritto da nessuna parte che si debba dirigere tutto, o che si debba eseguire una partitura solo perché ci piace. Mi fa piacere che citi il Mefistofele: fu durante il periodo della chiusura della Royal Opera House, in cui dovevamo trovare sedi alternative per esecuzioni semisceniche. Un’opera strana, ma persino divertente!
Stasera suona con Perahia, un suo vecchio amico: è importante la consuetudine personale nella scelta dei solisti?
Preferisco un equilibrio: fra poche settimane sarò a Berlino per un Concerto mozartiano con Till Fellner, con cui ho già lavorato molte volte e che ha molto talento. Amo suonare - per fare qualche nome - con la Pires, Zimmermann, Isabelle Faust, ma anche con giovani talenti. Certo è che con Perahia c’è un’amicizia speciale.
E per quanto riguarda gli altri direttori?
Sono un grande sostenitore di David Afkham, che mi ha fatto da assistente a Chicago, ad Amsterdam e altrove: ricordo che mi sostituì brillantemente alla generale di un concerto, che non potei sostenere per un serio problema alla schiena. E' ora e un direttore affermato, richiesto ovunque, che sarà il direttore musicale dell’Orchestra Nazionale di Spagna. Per me è un grande amico.
Ma quale qualità non può mancare a un direttore?
Sono tante, ci deve essere un po’ di tutto: vede, io non sono un buon maestro, ma tengo delle masterclass al Festival di Lucerna. Un impegno che talvolta mi spaventa, perché ci sono tantissimi candidati, l’anno scorso erano 350, 50 dei quali sono arrivati alla fase a cui ho preso parte: ma non so mai se ho fatto la scelta giusta, è così difficile giudicare, molto più che con un pianista o un cantante. Come insegnante non sono per nulla accademico, non spiego come si deve battere il tempo, ma voglio che gli aspiranti direttori capiscano come si fa musica insieme e quanto è importante la comunicazione: non bisogna essere un dittatore, ma abbracciare tutti i musicisti. E la tecnica serve solo a spiegarlo con le mani, invece che con le parole.

Intervista di Nicola Cattò ("MUSICA", n.272, dicembre 2015 - gennaio 2016)
(Ringrazio Paolo Bertoli per i preziosi spunti fomiti nella preparazione dell’intervista)