Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

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venerdì, gennaio 12, 2018

Pierre Boulez - L'opera: tutto o frammento

Pierre Boulez (nel 2002)
Il mio obiettivo è l’analisi di un problema che mi tocca molto da vicino, e che riguarda il fondamento stesso dell'opera, la sua giustificazione in quanto tale. L’opera, cosi come noi la conosciamo, è un tutto unico, o non è piuttosto il frammento limitato nel tempo di un progetto piu vasto, irrealizzato, senza il quale tuttavia questo frammento non avrebbe potuto esistere e dare l’impressione del tutto? C’è la possibilità, ci sono i mezzi, anzi, per parlare del compositore, dell’autore di un’unica opera? Soprattutto nel XIX secolo, non mancano gli esempi di creatori ambiziosi che si sono concentrati su un solo obiettivo, per quanto vasto. Esempi come Balzac, Zola, Proust, dove un atto di volontà più o meno spontaneo, più o meno plasmato ha spinto gli autori a creare delle strutture immense, che appartengono al mondo dei giganti, o piu ristrette e circoscritte a un settore più ridotto. Tuttavia gli elementi costitutivi della struttura possono essere separati gli uni dagli altri e possono essere uniti in sottoinsiemi diversi senza danneggiare la loro coerenza. Allora, tutto unico, o catena di frammenti separabili? E anche un singolo libro, è un libro o un album? Album: raccolta di fogli indipendenti (consideriamo ad esempio il titolo tedesco Albumblätter adoperato da Schumann ma anche da molti altri seguaci meno illustri), riuniti per affinità o in contrasto gli uni con gli altri, ma che non sono legati da alcun vincolo. Il che spinge Mallarmé a ideare un accostamento di Libro e Album: un Libro, con la L maiuscola, dove i fogli dell’album possono mutare di posizione e di significato, pur restando legati da un ordine superiore. L’utopia di Mallarmé non fu mai realizzata, ma ce ne resta il sublime “frammento” del “Coup de dés”, seppure ben lontano dall'obiettivo iniziale.
Nel Campo della musica, un esempio inevitabile - probabilmente l’unico di questa ampiezza - è il Ring di Wagner, progetto perseguito con accanimento per anni, che testimonia una unità di concezione messa in opera con tenacia. La storia della sua genesi mostra d'altronde una specie di percorso al contrario rispetto a quello che ci offre la realizzazione definitiva: la morte di Siegfried ha generato tutto il resto dell'opera, e la musica segue il percorso cronologico, andando quindi contro corrente: sulla trama più “operistica” in senso convenzionale, la musica più elaborata; sulla concezione drammatica più innovativa, una musica che, potremmo dire, si va sperimentando poco a poco. Ma anche in questo caso, e lo dimostra l’esperienza, i vari frammenti sono divisibili dalla struttura d’insieme: Die Walküre viene eseguita ben più spesso delle altre giornate, in maniera totalmente autonoma, nonostante si sappia che c’è un seguito. Tanto bene Wagner lo sapeva che, con un pretesto o con un altro, in ogni giornata riprende la genesi della storia. C'è quindi una certa contraddizione fra queste entità che tendono all’autonomia e la sintesi del tutto. Ed è per questo che perfino in questo caso si può parlare di divergenza fra il tutto e il frammento.
Certo, nel caso del Ring si tratta di opera, di teatro, e non di forme pure; perché questa dialettica del tutto e del frammento si ritrova anche all’interno di opere “a pezzi chiusi”, fatte di una successione di arie, di recitativi e di brani d’insieme: tanto che era possibile - e Mozart non ha rinunciato a questa opportunità - sostituire un’aria con un’altra, secondo i desideri del cantante, senza che la catena dei frammenti subisse un danno irreparabile. Il legame teatrale dovrebbe essere robusto a sufficienza per assicurare la continuità e la coerenza del tutto.
E nel campo della musica pura cosa possiamo osservare? Nel periodo classico la dialettica del tutto e del frammento è presente nelle forme impiegate più comunemente (ovvero quasi esclusivamente): sonata, concerto; l’opera è organizzata in frammenti autonomi connessi da una struttura generale, la quale è fondata su contrasti spesso codificati da norme precise. Nel precedente periodo barocco, il legame è forse meno rigido ma serve esattamente allo stesso scopo: dare l'apparenza del “tutto” a un insieme di frammenti, a volte disparati e perfino intercambiabili. Sostituire una giga a un’altra in una suite di Bach avrebbe forse l'effetto di sconvolgere le nostre abitudini d’ascolto, ma se le regole tonali fossero osservate l'operazione non provocherebbe alcuna incoerenza profonda, né stilistica né formale. E del resto è stata proprio questa l'operazione di Mahler quando ha scelto dei brani da due suites di Bach e li ha “riordinati” in una suite realizzata a sua cura, e da lui stesso eseguita - a New York oltre che in altra sede. Per noi, viziati dalla mania storicista della nostra epoca, il procedimento risulterebbe non poco scandaloso; eppure lo stesso Bach non trovava affatto disdicevole inglobare in una nuova composizione brani scritti precedentemente, come testimoniano a più riprese i Concerti Brandeburghesi e le Cantate. E quando esaminiamo con incredulo stupore quei programmi del XIX secolo che prevedono l’esecuzione di un movimento di concerto isolato, o di movimenti di sinfonia intervallati da qualche aria da concerto, possiamo riflettere che questa pratica, che oggi ci appare assurda e menomante, mette in luce i termini reali del problema: la successione propria del tutto può essere interrotta per isolare il frammento in quanto tale, come componente autonoma. Oggi abbiamo un rispetto spesso eccessivo per l’integrità e l'integralità della struttura d’insieme. Siamo convinti di dover inghiottire uno dopo l’altro tutti i pezzi dell’Oratorio di Natale, e respingiamo con orrore l’idea di eseguire solo una parte della Messa in si minore. Potrei citare numerosi altri esempi aneddotici e più futili, come il fatto che applaudire fra i movimenti è considerato una dimostrazione di inciviltà, un delitto di lesa maestà nei confronti dell’opera: ma gli applausi possono davvero distruggere ciò che lega i frammenti/movimenti della sinfonia al tutto? E proibire l’applauso non è invece la più superficiale delle manifestazioni di una presunta comprensione? A parte il caso specifico in cui l’autore ha scritto una transizione o ha specificato che due movimenti devono susseguirsi senza soluzione di continuità, cosa impedisce una pausa - sia pure non silenziosa?
E' impossibile eseguire una fuga separata dal suo preludio? E' indispensabile eseguire sempre l'integrale di una raccolta, ovvero rispettare fino in fondo l’ordine e la totalità della pubblicazione scritta, come si fa quasi sempre ad esempio con gli Intermezzi di Brahms? Indubbiamente, siamo diventati molto rispettosi della lettera; ma lo siamo altrettanto dello spirito?
Tuttavia esiste una differenza marcata e voluta fra i movimenti (Sätze) di una sonata, di una sinfonia o di un concerto, e i “pezzi” (Sätze) di un album, quale che sia il titolo loro dato: Nocturnes, Ballades, Estampes, Miroirs, Images, Pièces de Caractère (Charakterstücke). La sinfonia, il concerto o la sonata implicano un ordine definito, un contrasto preciso, e in certi casi uno schema ritmico, o un metro, e quasi una lunghezza. Minuetto o Scherzo implicano un ritmo ternario, la ripetizione di alcune sezioni e altre norme che limitano d'altronde anche la durata del movimento, proprio perché le norme non possono essere protratte oltre misura. E' vero che queste forme si emancipano più tardi fino ai limiti del possibile, con Mahler per esempio. Tuttavia all’inizio, e sempre nelle forme classiche, si succedono forma-sonata, forma-Lied, forma-minuetto/Scherzo, forma-rondò. Si tratta di una semplificazione, perché soprattutto nelle sonate le forme possono essere molto più libere: dai due
movimenti dell’op. 111 ai sette del Quartetto op. 131 (entrambe composizioni tarde, bisogna rilevare), Beethoven non ha rinunciato a variare i confini codificati. Ma a proposito di quest'ultimo Quartetto in do diesis minore, è ancora possibile parlare di movimenti? Si tratta piuttosto di un contrasto fra frammenti e movimenti veri e propri. Se alcuni di questi movimenti, fra cui la Fuga, il Finale, le Variazioni e lo Scherzo, sono molto sviluppati, un altro (il terzo) può essere considerato solo come una breve transizione; e anche l’Adagio (il sesto) ha un’esposizione ma non un vero sviluppo. Possiamo constatare la determinata intenzione dell’autore di connettere irreversibilmente i vari movimenti e frammenti in un ordine dato, di cui ha cura di indicate gli attacchi. In questo caso non possiamo parlare di frammenti intercambiabili: l’opera non è una successione codificata di movimenti tipizzati, ma un tutto indissolubile dall'inizio alla fine.
E' curioso che la fusione realizzata da Beethoven, una fusione che rifiuta ogni convenzione d’ordine, ogni incastro di pezzi staccati, troverà la sua reale applicazione solo per un cammino laterale, in un’applicazione teatrale di Wagner. Perché il romanticismo, in reazione al classicismo, privilegia l’album, ovvero la raccolta di pezzi staccati che non hanno più nulla a che vedere con un codice di successione predefinito. Oppure, se applicano questo codice, i romantici lo fanno o come un’eredità sacra e inviolabile, o in maniera un po' goffa e pesante. Questo non vuol dire che le idee musicali non siano belle, spesso molto belle, ma a volte non si trovano a loro agio in una forma che non e veramente adatta a loro. Si parla spesso degli himmlische Lüge di Schubert, degli sviluppi maldestri e ridondanti di Schumann, e la sola eccezione che abbia una tendenza al “tutto” è la Sonata di Liszt, che inventa una forma in un solo movimento continuo, totalmente liberato dagli schemi classici, anche se a volte ne adotta certi tratti. Ciò che caratterizza il romanticismo non è affatto aver inventato il frammento, ma avergli dato tutta la sua ragion d’essere. E'  l’epoca delle raccolte, degli album, dei pezzi isolati che mettono in risalto l’istante, il momento: si vedano i Momenti musicali di Schubert. La forma spesso è semplice, simmetrica. Si tratta di un frammento chiuso in se stesso, certo, ma aperto assieme al tutto e al nulla; non chiede di essere preceduto o seguito da altro, esiste da solo, non ha bisogno di corrispondenze formali per assumere tutta la sua rilevanza. Esiste come un aforisma più o meno lungo, indipendente, che tuttavia è possibile connettere, eventualmente, ad altri aforismi della stessa natura. Questi pezzi isolati saranno sempre più coltivati dai compositori successivi, quali che siano le loro caratteristiche stilistiche. Tutti rendono loro omaggio, soprattutto nelle composizioni per pianoforte - strumento per eccellenza della rêverie per il viandante solitario - ma anche per gli insiemi di musica da camera, compreso il quartetto d’archi, quasi santificato dalla tradizione. Perché se abbandoniamo l’epoca romantica, anche le sonate si fanno più rare, a tal punto che in Debussy e Ravel le ritroviamo solo nella maturità, e sono invece assenti dalle opere giovanili. Dove invece troviamo degli album: Images, Estampes per il primo, Miroirs, Gaspard de la nuit per il secondo; oppure delle suites: Suite bergamasque, Tombeau de Couperin.
Ci siamo considerevolmente allontanati dall’illusione stessa del “Tutto”. Abbiamo a che fare con raccolte di frammenti concepiti in quanto tali e perfettamente isolati. E anche in questo caso, il rispetto del testo scritto ci porta a eseguire sempre Estampes, Images o Miroirs nell’ordine di stampa; ma nulla vieterebbe un ordine diverso purché si mantenesse un certo contrasto di carattere fra i pezzi.
Alle soglie del nostro secolo, si arriva all’estremo di questa frammentazione, e le piéces divengono quasi delle annotazioni fuggitive ritrovate in un diario. Che si tratti di Stravinsky o di Webern, il pezzo breve si riduce all’annotazione di un istante, in totale opposizione al concerto stesso di sviluppo. L’idea è espressa per intero nella sua totale concentrazione; in questo senso si tratta di un frammento temporale brevissimo e interamente ripiegato su se stesso. Nella produzione di Webern ciò è particolarmente evidente; si può obiettare che tutte le composizioni sono brevi, ma che possiedono per lo più la nozione di sviluppo, per quanto condensato. Invece le composizioni di cui voglio parlare, in particolare i pezzi per violoncello e pianoforte, i Cinque Pezzi op. 10 per complesso
da camera, le Sei Bagatelle per quartetto d’archi, rifiutano totalmente questa nozione di sviluppo. L’idea è esposta, il frammento è rischiarato da un’unica luce, il momento dell’ascolto è concluso. Questa ossessione della non-ripetizione, del frammento assolutamente unico e unico nell’assoluto, lo stesso Webern la descrive come l’estrema condensazione di un pensiero di cui si sentiva prigioniero, e da cui gli era indispensabile uscire se voleva continuare a comporre.
Anche in Stravinsky e Berg si trova questa cultura del frammento, se cosi posso definirla, ma come un modello ridotto di una proiezione ampliata in altre composizioni. Tutte le miniature russe degli anni 1914-17, che siano Pribaoutki, La berceuse du Chat, La Souscoupes, sono minuscoli satelliti dell’opera in formato maggiore che sarà Les noces. E per contrasto rispetto a questa catena discontinua di frammenti così composta, Les noces sarà tesa verso la sintesi continua dei frammenti, strettamente connessi fra loro dalla nozione di un tempo-fulcro, assolutamente invariato attraverso le varie velocità che assume. Ci sono tuttavia in Stravinsky dei frammenti che restano tali, Senza connessione a nessun tipo di ordine; intendo parlare della Lyrique japonaise del Roi des Etoiles, due frammenti molto brevi, il secondo particolarmente enigmatico nella produzione dell’autore. Non si tratta di satelliti, bensì piuttosto di oggetti smarriti in un universo che li dimenticherà completamente. Per quanto riguarda Berg, a parte i Lieder, possiamo considerare le composizioni per clarinetto e pianoforte come degli abbozzi per l’impresa teatrale del Wozzeck, che ben presto assorbirà l’intera attenzione dell’autore. Vi possiamo vedere, d’altronde, un’antinomia fra la forma ristretta e il gesto teatrale assai più ampio; potremmo quasi dire che si tratta di frammenti di composizioni che per il resto sono andate smarrite, o sono state cancellate dall’autore. La dialettica fra tutto e frammento d’altronde si manifesterà pienamente nella creazione del Wozzeck, concatenazione di forme chiuse, legate le une alle altre da una rete estremamente complessa di motivi e segni.
E che dire allora di Schönberg? Lui che aveva iniziato con forme sviluppate continue, nella tradizione di un certo romanticismo tardivo, soprattutto in Verklärte Nacht, in Pelleas und Melisande, ben presto lo troviamo a comporre l’opera che agli occhi del pubblico sarà la più espressiva della sua personalità, e quest’opera sarà una successione di 21 pezzi molto brevi, ventuno frammenti per così dire, connessi, certo, in tre gruppi di sette, ma pur sempre frammenti del tutto indipendenti gli uni dagli altri, nell’organico come nel tematismo. Del testo in larga parte fu proprio la brevità di questi frammenti successivi a provocare le resistenze del pubblico; le recensioni dell’epoca mettono l’accento sul rinnovamento costante dei vari momenti, che impedisce la continuità dell’ascolto, impedisce dunque di assorbire l’opera come un tutto coerente. E tuttavia le composizioni vocali, frammentate e perfino composte di frammenti brevi, non sono rare prima del Pierrot lunaire. Penso in particolare ai cicli - intenzionalmente tali o meno - di Lieder composti o raccolti da Schubert, Schumann e Brahms in particolare. Dichterliebe e Frauenliebe und-Lebe sono veri e propri cicli di brani a volte molto brevi. Sono pero cicli “narrativi”, definizione che non si può veramente applicare alla Winterreise o a Die schöne Müllerin; quest’ultimo ciclo può essere considerato “narrazione” in quanto raduna i frammenti in un tutto ordinato che segue una precisa progressione agogica. Nel Pierrot lunaire non v'è nulla di tutto questo; non c'è alcuna narrazione; ogni frammento gode di un’innegabile autonomia poetica, anche se ogni poesia è collegata allo stesso personaggio, alla stessa atmosfera. E' vero che i piccoli cicli in cui le liriche sono raggruppate hanno ciascuno una tendenza più poetica, più tragica o più nostalgica: ma non vi è alcuna chiave di continuità. Possiamo connettere questi frammenti gli uni agli altri grazie, in parte, all’autore; il quale con minuziosa cura ci indica “come” concatenarli: se c'è una transizione diretta; se bisogna osservare un intervallo più o meno lungo fra i brani. Una cesura più ampia si impone per separare un ciclo dall’altro, in modo da poterli riconoscere come tali. Così per mezzo di una precisa concatenazione i molteplici frammenti si organizzano in un tutto coerente, ma in assenza totale di un codice predeterminato. L’opera possiede il suo proprio codice d’integrazione, e bisogna viverlo per apprenderlo, e viverlo diverse volte per conoscerlo bene e non essere più disorientati.
Il Pierrot lunaire consiste in una serie di pezzi brevi, a volte brevissimi; il mio Marteau sans maitre riprende con piena intenzione questo principio, anche se i brani sono relativamente più lunghi; mai tre cicli che essi formano non sono più separati, anzi si sovrappongono l’uno all’altro proprio per evitare una separazione, per evitare il raggruppamento dei frammenti assimilabili. Tanto che all’ascolto, con l’aiuto della memoria, si possono ricostruire i cicli basati sugli stessi principi a partire dallo stesso testo poetico che li ha generati. Si giunge alla successione reale di cicli virtuali poiché spezzati nella loro continuità, e di conseguenza si giunge a una diversa dialettica del tutto in rapporto al frammento. (Traduzione di Alessandra Quattrocchi)

a cura di Arrigo Quattrocchi (EDT, 1996)

venerdì, maggio 19, 2006

Pierre Boulez: difesa di Alban Berg

Célestin Deliège - Sin dall'inizio lei ha parlato di Berg. Orbene, ci troviamo adesso ad evocare un periodo della sua evoluzione in cui Berg rappresentava un valore che lei non voleva affatto riconoscere. Ci si ricorda dell'articolo apparso nel secondo numero della rivista «Polyphonie» - ci aveva d'altronde colpito molto a quell'epoca -, in cui Berg era duramente malmenato dal polemista che lei già era. Ma mi sembra ora che questa posizione sia stata molto corretta. E' il mestiere di direttore d'orchestra che le ha fatto riassimilare Berg in modo differente o, forse, lei ha conservato la sua posizione originaria solo su certi aspetti dell'opera di Berg?
Pierre Boulez - No, avevo già riassimilato Berg prima di farlo con la direzione d'orchestra, quando avevo analizzato Wozzeck per i miei allievi, al corso di Basilea nel 1960. In ogni modo, Wozzeck è un'opera che mi ha sempre affascinato moltissimo (affascinato nel bene e nel male). Ma, allora in particolare (e nel 1945 in modo speciale), tutto il romanticismo mi infastidiva profondamente, specialmente per una ragione del tutto esteriore, l'ambiente sociale. In quel periodo difficile in cui si negava il valore di Schönberg e molto piú ancora quello di Webern, il solo compositore della scuola di Vienna ritenuto giustificabile era Berg perché, si diceva, era «umano», perché era «il solo che scrivesse della musica», perché s'occupava dell'«espressione», ecc. (Lei ha sentito questi argomenti come me, ed erano estremamente irritanti). Ecco una delle ragioni che mi hanno fatto scendere in guerra. Questo qualunquismo romantico - e ci metta tutte le virgolette che vuole - faceva la delizia del mondo musicale che s'incanagliva in Berg, ma non andava ad incanaglirsi in Webern: ecco, è stata proprio questa la molla della polemica. Sapevo anche benissimo che, per trovare un nuovo vocabolario, non era verso Berg che mi sarei orientato, perché, al contrario, era, oserei dire, da questo punto di vista, come la fine d'un mondo.
E' in seguito - le ho detto come si trae dalle persone il profitto che si vuole - che mi sono legato alla complessità di Berg. Ricordo molto bene che, molto presto, nel 1948, quindi pochissimo tempo dopo l'articolo che lei cita, ho studiato - per la prima volta avevo avuto la partitura lungamente in mano - il Kammerkonzert, un'opera che mi ha fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben altro che quella specie di romanticismo facile da cogliere al primo approccio. E, di scoperta in scoperta, ciò che mi ha appassionato via via, è la complessità di quello spirito: la proporzione dei rapporti interni, l'intrigo della costruzione musicale, l'esoterismo stesso di molti rapporti, la densità della struttura, tutto quell'universo che è in perpetuo movimento e che non cessa di ruotare su se stesso, tutto ciò è assolutamente affascinante. E' un universo che non è mai finito, un universo sempre in espansione, un fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben universo cosí profondo, cosí denso e cosí ricco, e che implica una tale conoscenza dell'opera per analizzarla, che si può tornarvi quattro o cinque volte; vi si trovano dei rapporti estremamente sfuggenti che si colgono solo alla terza o alla quarta lettura.
Viceversa l'opera di Webern, una volta che se ne è capita l'essenza ed il vocabolario (specialmente nelle ultime opere, beninteso) non esige una serie di letture differenti. E' come un quadro di Mondrian. Lei ne vede la perfezione, ed è molto sorprendente perché questa giunge sino alla spogliazione piú totale, sino ad una perfezione che è veramente un'ascesi; ma quando lei rivede quel quadro (o quei quadri) piú tardi, non ha piú nulla da prendere. Per lo meno, è il mio parere, o le dico quel che ne traggo: è finito, rivedo il quadro tale quale, ma non ho diversi livelli di lettura. Viceversa - prendo apposta un esempio in un passato storico, in un'epoca che non mi riguarda piú -, se contemplo certi quadri di Cézanne, ho tali e tanti livelli di lettura, secondo la complessità dell'opera, secondo i rapporti, secondo i dettagli infiniti dell'architettura o della struttura stessa, che, veramente, posso leggere questo quadro cinque, dieci volte e la struttura mi lascia sempre in ombra dei particolari che non sono mai completamente sicuro di avere esaurito. Ebbene, in Berg, in molti momenti, ho quest'impressione, d'un'opera molto difficile, di cui è molto arduo esaurire la struttura. A dispetto della sua comunicazione abbastanza facile, nella maggior parte dei casi, è un'opera che si può riprendere cinque, sei volte, soprattutto se è di vaste dimensioni.
Questa idea dei «livelli di lettura» in un'opera è un'idea che mi è molto cara. L'ho detto numerose volte: per me l'opera dev'essere come un labirinto, ci si deve poter perdere. Un'opera di cui si scoprono i percorsi in modo definitivo in una volta sola è un'opera piatta, che manca di mistero. Il mistero dell'opera sta, giustamente, in questa polivalenza dei livelli di lettura. Sia essa un libro, un quadro o un pezzo di musica: questa polivalenza dei livelli di lettura è, per me, qualcosa di fondamentale nella mia concezione dell'opera.
Célestine Deliège - Si potrebbe dunque dire che, se il mondo musicale dell'epoca si teneva caro Berg in cui vedeva il solo compositore «umano» dei tre viennesi, era perché non ne aveva percepito gli strati profondi. Tuttavia, sta di fatto che a quell'epoca lei non lottava soltanto contro un luogo comune e, per esempio, mi ricordo che lei prendeva di mira quel passaggio del Concerto per violino in cui c'è contraddizione linguistica tra il corale di Bach ed il linguaggio della parte violinistica che gli si oppone. Ritiene, ora, piú «virtuosa» questa forma di coesistenza delle grammatiche e degli stili in quest'opera?
Pierre Boulez - Sono ancora fermamente persuaso che non ci sia coesistenza possibile. Nel caso che lei cita, direi che si tratta di un gesto drammatico. Non penso che sia un gesto molto profondo, al contrario, è piuttosto un gesto d'inquietudine, può darsi anche di rifiuto d'una norma di comportamento tipicamente contemporaneo. Cè una specie di nostalgia del mondo antico che si è ritrovata molto dopo, in opere molto piú recenti. Ho un amico che aveva per questo una espressione molto graziosa, diceva: «Ci sono dei compositori che vogliono a tutti i costi riscoprire il gruppetto». Trovo questa espressione abbastanza incisiva, ma molto ben scelta, poiché, in effetti, i tentativi di ricupero non hanno alcun interesse per il futuro. Secondo me, se si vogliono conservare certi aspetti del passato ed integrarli nel nostro pensiero attuale, bisogna farlo in modo estremamente astratto. Si può prendere come forma interessante del passato lo schema di una scrittura obbligata - eventualmente d'una scrittura canonica - e di una scrittura libera. Cosí, il voler mantenere il principio della scrittura canonica è valido, ed impone una responsabilità estremamente severa rispetto agli intervalli che si scrivono: ammetto una trascrizione in questo senso; ma non per questo voglio rifare dei canoni in senso accademico. Parimenti, è possibile riscoprire delle funzioni armoniche...
A questo proposito, ecco un punto in cui i tre viennesi avevano d'altronde molte altre preoccupazioni -, sono stati abbastanza deboli. Pensi, in particolare, ai temi melodici di Schönberg, il tema delle Variazioni op.31 per orchestra, per esempio: è una melodia e Schönberg credeva che fosse sufficiente aggiungervi i complementari cromatici per arrivare a fare un'armonia conveniente. Era una specie di dogma astratto, per cui si mettevano tre o sei suoni, poi gli altri sei, e ciò doveva produrre un'armonia funzionale. Era una concezione assai debole, le funzioni armoniche sono di tutt'altra natura, non sono solo funzioni di complementarietà. Se si vogliono riscoprire delle funzioni armoniche, cosa in effetti molto importante, bisogna sapere che non le si riscoprirà nel nostro vocabolario attuale cercando semplicemente di ricollocarvi il ciclo delle quinte o di riprendere il vocabolario tonale allargato e di fargli dire ciò che non può esprimere. Tali mezzi portano ad una contraddizione completa, fanno sorgere connotazioni che, non solo rompono l'unità d'uno stile, ma rompono completamente il progetto estetico. In questo senso ci sono delle forze centrifughe nella composizione che non c'è mezzo di unire. Forse talvolta, ma non sempre, visivamente, i pittori hanno potuto provare a fare certi collages con un materiale sufficientemente neutro. In questi casi, in generale, essi prendevano un materiale che poteva integrarsi in una nuova forma, proprio perché era veramente neutro. Orbene, il materiale musicale, per sua stessa definizione, non è neutro. Esprime una qualità stilistica, e, nel momento in cui questa qualità è ricollocata all'intemo d'un materiale piú generale, c'è un buco, vale a dire che questo pezzo di carta incollata, o piú esattamente di musica incollata, semplicemente si disintegra: allora, non solo non esiste alcuna funzione globale che potrà particolarizzarsi in questo o quel riferimento ad un dato stile, ma al contrario, un pulviscolo di frammenti che non hanno piú assolutamente alcuna unità formale; e questo perché anche la forma in musica dipende essenzialmente dal materiale. Quando il materiale diventa un campionario, la forma, anch'essa, diventa un'accumulo di campioni.
No, veramente da quel tempo di cui lei parla, non ho assolutamente cambiato il mio punto di vista; sono, al contrario, forse piú severo ancora di quanto non fossi a quell'epoca: la nostalgia mi interessa sempre meno!
intervista a Pierre Boulez (da "Per volontà e per caso"), Nuovo Politecnico 94 - Einaudi 1977

martedì, dicembre 27, 2005

Intervista a Pierre Boulez

Scala Festival Berg - Milano
Si è svolto a Milano dal 18 al 31 maggio 1979 il "Festival Berg", un ciclo di concerti e rappresentazioni liriche che il Teatro alla Scala ha programmato, con la collaborazione del Théatre National Opéra de Paris.

Lei ha sempre vissuto profondamente e con passione i momenti fondamentali e gli sviluppi della musica del nostro secolo. In che misura questi hanno inciso sul/nel sociale? Nella formazione ed emancipazione dell'«uomo» dei nostri giorni?
E' una domanda molto difficile cui rispondere. L'evoluzione della musica non è per forza parallela all'evoluzione sociale. Ciò che tuttavia si può senz'altro constatare è che la musica ha enormemente ampliato il suo campo d'azione, il pubblico; gli ascoltatori poi sono molto più numerosi rispetto al passato. Ma anche la musica contemporanea resta, malgrado tutto, legata ad un certo numero di persone che vogliono fare uno sforzo per seguire anche questo genere. Per quanto ci si voglia impegnare, e sia detto senza allarmismi, rimarrà sempre ristretto il numero di coloro che seguiranno veramente, con uno spirito che va al di là dell'interesse, e ricco di maggior competenza. Il che non impedisce certo che le cose, più avanti, si estendano maggiormente e che, qualora raggiungessero un punto di diffusione sufficientemente grande, la musica contemporanea venga assorbita ...
La crisi morale, culturale, di valori che la nostra società (o il nostro sistema sociale) sta vivendo (ci riferiamo all'Italia e alle nuove generazioni, disgregazione intorno al privato, terrorismo ... ecc.), come viene recepita o sentita dal «mondo musicale»?
Il «mondo musicale» risente delle stesse crisi degli altri ambienti, non è un mondo a sé, ci sono gli stessi riferimenti. E' dunque certo che, anche qui, ci sia il timore del futuro, come sempre, e che questa paura del futuro si manifesti in diversi modi: conservatorismo nell'insegnamento, conservatorismo nel repertorio, conservatorismo nella forma del concerto e conservatorismo persino in tutto ciò che è implicato nella cultura musicale. E' evidente che esistono delle trasformazioni, ma queste trasformazioni sono molto lente e, in quanto molto lente, non si potrà parlare tanto di evoluzione. I programmi e la forma dei concerti si stanno evolvendo moltissimo e, probabilmente, in un certo numero di anni molte cose cambieranno.
La nostra scuola musicale sembra vivere al di fuori «del resto del mondo», anche se con importanti eccezioni ancora non capaci di diventare forza trainante. L'esperienza formativa del suo paese è diversa? Qual è? Quali sono gli elementi per una completa formazione del futuro musicista?
La situazione è la stessa anche in Francia. Certamente l'ambiente musicale è molto isolato dal resto. E un ambiente molto specializzato. E se si decide di analizzare in profondità un'azione sulla società, giustamente bisogna vederla attraverso il proprio mestiere e per mezzo della forza di cui si è portatori. Altrimenti ci si comporta da dilettanti in primo luogo e, secondariamente, si agisce senza alcuna forza in quanto si è al di fuori della competenza personale d'azione. E io credo fermamente che la capacità d'azione dipenda essenzialmente dalla professionalità di cui si è capaci.
Una domanda al compositore più che all'organizzatore o al direttore d'orchestra. Non ritiene che per le nuove generazioni sia venuto a mancare un punto di riferimento quale è stato Darmstadt dei primi anni per lei e la sua generazione?
Certamente la situazione è cambiata ma non si è semplificata. La situazione non è mai semplice ma è certo che, dopo la guerra, molte cose erano migliorate in quanto l'anticultura, se così si può definire, che si era venuta a formare tra il '32 e il '45 aveva provocato un gran desiderio di rinnovamento e questo desiderio non doveva incontrare ostacoli di sorta. In quanto si era visto a che cosa l'ostacolo poteva condurre. Quindi, dal mio punto di vista, della mia generazione intendo, il terreno era molto «libero». Questa specie di visione globale ora non esiste; si ripresenterà probabilmente non tanto in occasione di un altro conflitto ma certamente in caso di crisi. Ritengo che le crisi permettano di avere una visione globale di una certa situazione mentre i periodi normali sono al contrario soggetti alla dispersione. E non si può certo dire di che crisi si possa trattare proprio perché, in quanto crisi, non la si può prevedere ...
E più specificatamente Darmstadt?
Darmstadt è stata soprattutto un'esperienza internazionale. Quando sono arrivato a Darmstadt, cioè nel '52 la prima volta, poi nel '55, avevo già tutta una evoluzione musicale alle mie spalle, dal '45 a Parigi. Per cui Darmstadt ha rappresentato molto di più di un'esperienza personale perché è stato un incontro di persone di diversi paesi. E' stato probabilmente il primo incontro veramente internazionale che si è tenuto dopo la guerra. E, a mio parere, è questo un fatto molto importante, molto più del linguaggio musicale stesso. E' il confronto di persone che nascono da orizzonti musicali «diversi», da paesi che erano stati tenuti a lungo isolati gli uni dagli altri, che si sono infine incontrati e ciò ha dato la possibilità di raggiungere dei punti mai esistiti prima di allora. Chi dice confronto dice giustamente esperienza comune, finalmente, e esperienza comune significa in gran parte un nuovo linguaggio.
Che cosa ha rappresentato per lei questa esperienza musicale milanese?
Ne ricavo un'esperienza decisamente positiva, in tutti i sensi. So che Abbado ha fatto qui un grosso lavoro con la gente per cambiare i programmi. Non di meno Pollini. Esiste dunque una mentalità molto diversa da quello che avevo conosciuto venti, venticinque anni fa. Gli «animi» sono molto più aperti, più pronti, se si vuole, a ricevere la musica che si ascolta. Devo tuttavia riconoscere che il mio soggiorno a Milano non ha prodotto una musica attuale nel vero senso del termine. E' una musica che appartiene al passato, benché si tratti di un passato recente. Ma se mi si presentasse ancora l'occasione, vorrei andare più lontano, proporre la musica di oggi.
Può suggerire un modulo per avvicinare il pubblico non acculturalizzato alla musica contemporanea che viene solitamente definita estremamente ostica?
La gente bisogna andarla a prendere, è quanto noi in Francia facciamo, bisogna andarla a trovare, tenere sempre i contatti con comitati, enti ... con chi organizza corsi o concerti ...
Come interpreta la differenza di giudizio, spesso opposta, tra la critica e il pubblico?
Direi che è un fatto del tutto normale. E' una situazione che esiste da sempre, non è per niente nuova. E' chiaro, il pubblico ha un'opinione più generale, e non c'è un solo pubblico, ma tanti così come non c'è una critica ma i critici. Costoro hanno opinioni personali, si esprimono su organi di stampa diversi. Ritengo del tutto normale che nell'«esistenza», esistano degli opposti.
Quali sono, secondo lei, le cause e a chi attribuire le responsabilità - oggettive e soggettive della suddivisione netta fra musica d'impegno, accademica, e musica di consumo?
La musica e anche «molte cose». C'è la musica che si può ascoltare, senza dover prestare troppa attenzione, una specie di sottofondo musicale e c'è anche la musica che, contrariamente, richiede concentrazione, attenzione, ascolto attivo che, tuttavia, non significa necessariamente entrare in profondità. Da parte mia non ritengo possibile un ascolto impegnato ventiquattrore su ventiquattro. Esistono quindi dei momenti che sono più adatti all'ascolto passivo degli altri al contrario, nei quali ci si può concentrare. Del resto, nella stessa musica «seria», troviamo delle opere che richiedono più attenzione di altre ... E un fenomeno che esiste anche nella letteratura, dove, per fare un esempio nella letteratura francese, ci sono poeti come Rimbaud o Mallarmé che sono sempre più difficili da leggersi che non Victor Hugo o la Sagan.

da Laboratorio & Musica (Anno I m.2/3, lug/ago 1979)