Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, maggio 19, 2006

Pierre Boulez: difesa di Alban Berg

Célestin Deliège - Sin dall'inizio lei ha parlato di Berg. Orbene, ci troviamo adesso ad evocare un periodo della sua evoluzione in cui Berg rappresentava un valore che lei non voleva affatto riconoscere. Ci si ricorda dell'articolo apparso nel secondo numero della rivista «Polyphonie» - ci aveva d'altronde colpito molto a quell'epoca -, in cui Berg era duramente malmenato dal polemista che lei già era. Ma mi sembra ora che questa posizione sia stata molto corretta. E' il mestiere di direttore d'orchestra che le ha fatto riassimilare Berg in modo differente o, forse, lei ha conservato la sua posizione originaria solo su certi aspetti dell'opera di Berg?
Pierre Boulez - No, avevo già riassimilato Berg prima di farlo con la direzione d'orchestra, quando avevo analizzato Wozzeck per i miei allievi, al corso di Basilea nel 1960. In ogni modo, Wozzeck è un'opera che mi ha sempre affascinato moltissimo (affascinato nel bene e nel male). Ma, allora in particolare (e nel 1945 in modo speciale), tutto il romanticismo mi infastidiva profondamente, specialmente per una ragione del tutto esteriore, l'ambiente sociale. In quel periodo difficile in cui si negava il valore di Schönberg e molto piú ancora quello di Webern, il solo compositore della scuola di Vienna ritenuto giustificabile era Berg perché, si diceva, era «umano», perché era «il solo che scrivesse della musica», perché s'occupava dell'«espressione», ecc. (Lei ha sentito questi argomenti come me, ed erano estremamente irritanti). Ecco una delle ragioni che mi hanno fatto scendere in guerra. Questo qualunquismo romantico - e ci metta tutte le virgolette che vuole - faceva la delizia del mondo musicale che s'incanagliva in Berg, ma non andava ad incanaglirsi in Webern: ecco, è stata proprio questa la molla della polemica. Sapevo anche benissimo che, per trovare un nuovo vocabolario, non era verso Berg che mi sarei orientato, perché, al contrario, era, oserei dire, da questo punto di vista, come la fine d'un mondo.
E' in seguito - le ho detto come si trae dalle persone il profitto che si vuole - che mi sono legato alla complessità di Berg. Ricordo molto bene che, molto presto, nel 1948, quindi pochissimo tempo dopo l'articolo che lei cita, ho studiato - per la prima volta avevo avuto la partitura lungamente in mano - il Kammerkonzert, un'opera che mi ha fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben altro che quella specie di romanticismo facile da cogliere al primo approccio. E, di scoperta in scoperta, ciò che mi ha appassionato via via, è la complessità di quello spirito: la proporzione dei rapporti interni, l'intrigo della costruzione musicale, l'esoterismo stesso di molti rapporti, la densità della struttura, tutto quell'universo che è in perpetuo movimento e che non cessa di ruotare su se stesso, tutto ciò è assolutamente affascinante. E' un universo che non è mai finito, un universo sempre in espansione, un fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben universo cosí profondo, cosí denso e cosí ricco, e che implica una tale conoscenza dell'opera per analizzarla, che si può tornarvi quattro o cinque volte; vi si trovano dei rapporti estremamente sfuggenti che si colgono solo alla terza o alla quarta lettura.
Viceversa l'opera di Webern, una volta che se ne è capita l'essenza ed il vocabolario (specialmente nelle ultime opere, beninteso) non esige una serie di letture differenti. E' come un quadro di Mondrian. Lei ne vede la perfezione, ed è molto sorprendente perché questa giunge sino alla spogliazione piú totale, sino ad una perfezione che è veramente un'ascesi; ma quando lei rivede quel quadro (o quei quadri) piú tardi, non ha piú nulla da prendere. Per lo meno, è il mio parere, o le dico quel che ne traggo: è finito, rivedo il quadro tale quale, ma non ho diversi livelli di lettura. Viceversa - prendo apposta un esempio in un passato storico, in un'epoca che non mi riguarda piú -, se contemplo certi quadri di Cézanne, ho tali e tanti livelli di lettura, secondo la complessità dell'opera, secondo i rapporti, secondo i dettagli infiniti dell'architettura o della struttura stessa, che, veramente, posso leggere questo quadro cinque, dieci volte e la struttura mi lascia sempre in ombra dei particolari che non sono mai completamente sicuro di avere esaurito. Ebbene, in Berg, in molti momenti, ho quest'impressione, d'un'opera molto difficile, di cui è molto arduo esaurire la struttura. A dispetto della sua comunicazione abbastanza facile, nella maggior parte dei casi, è un'opera che si può riprendere cinque, sei volte, soprattutto se è di vaste dimensioni.
Questa idea dei «livelli di lettura» in un'opera è un'idea che mi è molto cara. L'ho detto numerose volte: per me l'opera dev'essere come un labirinto, ci si deve poter perdere. Un'opera di cui si scoprono i percorsi in modo definitivo in una volta sola è un'opera piatta, che manca di mistero. Il mistero dell'opera sta, giustamente, in questa polivalenza dei livelli di lettura. Sia essa un libro, un quadro o un pezzo di musica: questa polivalenza dei livelli di lettura è, per me, qualcosa di fondamentale nella mia concezione dell'opera.
Célestine Deliège - Si potrebbe dunque dire che, se il mondo musicale dell'epoca si teneva caro Berg in cui vedeva il solo compositore «umano» dei tre viennesi, era perché non ne aveva percepito gli strati profondi. Tuttavia, sta di fatto che a quell'epoca lei non lottava soltanto contro un luogo comune e, per esempio, mi ricordo che lei prendeva di mira quel passaggio del Concerto per violino in cui c'è contraddizione linguistica tra il corale di Bach ed il linguaggio della parte violinistica che gli si oppone. Ritiene, ora, piú «virtuosa» questa forma di coesistenza delle grammatiche e degli stili in quest'opera?
Pierre Boulez - Sono ancora fermamente persuaso che non ci sia coesistenza possibile. Nel caso che lei cita, direi che si tratta di un gesto drammatico. Non penso che sia un gesto molto profondo, al contrario, è piuttosto un gesto d'inquietudine, può darsi anche di rifiuto d'una norma di comportamento tipicamente contemporaneo. Cè una specie di nostalgia del mondo antico che si è ritrovata molto dopo, in opere molto piú recenti. Ho un amico che aveva per questo una espressione molto graziosa, diceva: «Ci sono dei compositori che vogliono a tutti i costi riscoprire il gruppetto». Trovo questa espressione abbastanza incisiva, ma molto ben scelta, poiché, in effetti, i tentativi di ricupero non hanno alcun interesse per il futuro. Secondo me, se si vogliono conservare certi aspetti del passato ed integrarli nel nostro pensiero attuale, bisogna farlo in modo estremamente astratto. Si può prendere come forma interessante del passato lo schema di una scrittura obbligata - eventualmente d'una scrittura canonica - e di una scrittura libera. Cosí, il voler mantenere il principio della scrittura canonica è valido, ed impone una responsabilità estremamente severa rispetto agli intervalli che si scrivono: ammetto una trascrizione in questo senso; ma non per questo voglio rifare dei canoni in senso accademico. Parimenti, è possibile riscoprire delle funzioni armoniche...
A questo proposito, ecco un punto in cui i tre viennesi avevano d'altronde molte altre preoccupazioni -, sono stati abbastanza deboli. Pensi, in particolare, ai temi melodici di Schönberg, il tema delle Variazioni op.31 per orchestra, per esempio: è una melodia e Schönberg credeva che fosse sufficiente aggiungervi i complementari cromatici per arrivare a fare un'armonia conveniente. Era una specie di dogma astratto, per cui si mettevano tre o sei suoni, poi gli altri sei, e ciò doveva produrre un'armonia funzionale. Era una concezione assai debole, le funzioni armoniche sono di tutt'altra natura, non sono solo funzioni di complementarietà. Se si vogliono riscoprire delle funzioni armoniche, cosa in effetti molto importante, bisogna sapere che non le si riscoprirà nel nostro vocabolario attuale cercando semplicemente di ricollocarvi il ciclo delle quinte o di riprendere il vocabolario tonale allargato e di fargli dire ciò che non può esprimere. Tali mezzi portano ad una contraddizione completa, fanno sorgere connotazioni che, non solo rompono l'unità d'uno stile, ma rompono completamente il progetto estetico. In questo senso ci sono delle forze centrifughe nella composizione che non c'è mezzo di unire. Forse talvolta, ma non sempre, visivamente, i pittori hanno potuto provare a fare certi collages con un materiale sufficientemente neutro. In questi casi, in generale, essi prendevano un materiale che poteva integrarsi in una nuova forma, proprio perché era veramente neutro. Orbene, il materiale musicale, per sua stessa definizione, non è neutro. Esprime una qualità stilistica, e, nel momento in cui questa qualità è ricollocata all'intemo d'un materiale piú generale, c'è un buco, vale a dire che questo pezzo di carta incollata, o piú esattamente di musica incollata, semplicemente si disintegra: allora, non solo non esiste alcuna funzione globale che potrà particolarizzarsi in questo o quel riferimento ad un dato stile, ma al contrario, un pulviscolo di frammenti che non hanno piú assolutamente alcuna unità formale; e questo perché anche la forma in musica dipende essenzialmente dal materiale. Quando il materiale diventa un campionario, la forma, anch'essa, diventa un'accumulo di campioni.
No, veramente da quel tempo di cui lei parla, non ho assolutamente cambiato il mio punto di vista; sono, al contrario, forse piú severo ancora di quanto non fossi a quell'epoca: la nostalgia mi interessa sempre meno!
intervista a Pierre Boulez (da "Per volontà e per caso"), Nuovo Politecnico 94 - Einaudi 1977

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