Rimasta, com'è noto, incompiuta alla morte di Liù, in realtà Turandot possiede due finali: realizzati entrambi da Franco Alfano. L'esistenza del secondo finale storicamente il primo ad essere realizzato - era nota agli studiosi, ai possessori di alcuni spartiti d'epoca: il sospetto era venuto a molti appassionati che potevano riscontrare curiose differenze tra il testo di alcuni libretti ancora in uso e quanto dato da ascoltare. Ma finora la questione era rimasta a mollo, senza venire riportata in superficie, probabilmente per motivi editoriali - gli stessi che oggi impediscono l'esecuzione di Turandot senza il finale e che hanno congiurato a che la partitura della fatidica versione primitiva venisse "scoperta" nientedimeno che in archivio Ricordi... - e per una certa pruderie nei confronti di un intervento toscaniniano inaspettato.
La storia, in breve. Il completamento di Turandot venne commissionato da Ricordi ad Alfano nel luglio 1925: il compositore lavorò rapidamente, senza però poter utilizzare tutti gli schizzi manoscritti di Puccini né poter venire a conoscenza del resto di partitura, in fase di stampa. Difatti nel gennaio dell'anno successivo Alfano si rivolge a Ricordi chiedendo un adeguamento di compenso in considerazione del fatto che avrebbe dovuto rifare parte del lavoro poiché in ritardo gli erano stati dati altri appunti pucciniani riguardanti la strumentazione. Da due lettere partite da casa Ricordi, per Alfano e per Toscanini, si capisce che in un paio di settimane il povero compositore dovette riprendere in mano il tutto inserendo i suggerimenti pucciniani e soprattutto apportando diversi tagli e spostamenti che da New York Toscanini gli aveva imposto. Il direttore agiva in pieno rispetto dell'originale serie di appunti di Puccini, senza però tenere conto della personalità non impiegatizia del musicista (da lui raccomandato a casa Ricordi) che aveva voluto realizzare una partitura coerente e omogenea. Da un punto di vista puramente formale e musicale è dunque la prima versione a essere più valida; se invece valutiamo il rapporto rigoroso appunti di strumentazione - strumentazione definitiva non c'è dubbio che la versione oggi comunemente eseguita (abbreviata di 110 battute di musica: quando Toscanini chiedeva tagli, non scherzava) sia meno lontana dall'originale.
Alla luce di queste documentazioni come comportarsi oggi? Continuare a eseguire il finale nella versione sfrondata pesantemente che per potere inserire tutti gli appunti pucciniani ha subito anche sacrifici sul piano della drammaturgia (la rapidità dei trapassi psicologici di Turandot fa invidia a Pinocchio), oppure ritornare alla prima edizione, oggi messa a disposizione, già eseguita a Londra in forma concertistica e prevista per la Turandot 1984 di Torre del Lago?
Jürgen Maehder, il ricercatore a cui si devono tali notizie e valutazioni critiche, ha fatto di più proponendo una soluzione di compromesso a nostro parere onestissima ai fini rappresentativi, cioè dando la preferenza alla prima versione con l'inserimento delle prime sessanta battute della seconda che tengono conto di appunti pucciniani prima ignorati da Alfano. Ma il consiglio editoriale finale è salomonico: realizziamo una partitura critica che offra all'interprete e allo studioso in appendice la riproduzione di tutti gli appunti originali di Puccini (alcuni fogli sono stati finora vietati anche agli studiosi) e delle due versioni di Alfano. Anticipando e sintetizzando i dati emersi da una ricerca di un quadriennio (prossimamente pubblicata su Analecta Musicologica, volume XXII), dedicata appunto al capitolo Puccini-Alfano esaminato dal lato tecnico, Maehder ha poi ricordato che nel pieno rispetto delle altezze, delle armonie e dei ritmi Alfano realizzò in realtà un lavoro ottimo sotto il profilo creativo ma indiscutibilmente suo (alcuni confronti con la precedente Leggenda di Sakuntala sono illuminanti): equivocando in modo incredibile ad esempio il problema-timbro di Puccini, ma cercando di realizzare un quadro dallo sviluppo più naturale possibile. Definita felicemente da Maehder "La trasformazione interrotta della principessa", la questione del finale di Turandot - di cui è stato offerto l'ascolto della registrazione londinese - ha accentrato com'era prevedibile gli interessi per il convegno "Esotismo e colore locale pucciniani" tenuto a Torre del Lago nei primi giorni di agosto sotto la presidenza di Simonetta Puccini. Alla tre giorni coordinata dallo stesso Maehder ha preso parte anche Mosco Carner, autore di una relazione introduttiva presto superata dalle più spregiudicate analisi degli altri congressisti. Se le differenze tra i due finali di Turandot sono state usate da Cesare Orselli per spezzare una lancia (provocatoria?) a favore della complessiva mancanza di trapassi psicologici di tutta l'opera (quindi pollice levato alla seconda versione), la tesi di Maehder è parsa condivisa dagli altri intervenuti anche se tutte le relazioni che hanno sfiorato il pianeta-Turandot hanno posto l'accento sull'antinaturalismo radicale dell'opera, sul suo creare personaggi privi di reali connotazioni psicologiche. Fedele D'Amico, prima di addentrarsi in una "lettura" de Il Tabarro dimostrandone il peregrinare musicale attorno allo stesso disegno ritmico a terzine che evoca il fluire della Senna, ha posto ancora l'accento sulla ritualità livida di Turandot; Enzo Restagno ha ripercorso l'opera come un teatro di marionette grandiosamente crudeli, mentre le questioni direttamente connesse al termine esotismo hanno scatenato le analisi, fino alla sottile sottolineatura di Piero Santi che ha ipotizzato il vero esotìsmo di Madama Butterfly (esotismo, su questo erano quasi tutti d'accordo, inteso come costruzione di una realtà ambientale funzionale alla drammaturgia) nel ricorrere tra le linee strumentali dell'Inno Americano, cioè il "remoto" di Cio Cio San.
Le questioni inerenti a Turandot sono state sfiorate da molte relazioni. Mentre altre occasioni "esotiche" pucciniane sono state scandagliate dal 'rondinologo' Alfredo Mandelli (con l'analisi di episodi di Tosca e La Rondine), da Peter Ross (su Madama Butterfly), da Michael Saffle (sul colore armonico di Fanciulla del West e Turandot) da Susanne Strasse Vill e Olga Visentini su questioni laterali riguardanti il testo gozziano e quello esotico in genere, da Jürgen Lenkel (sugli elementi extramusicali presenti in Puccini), mentre una dimensione singolare del linguaggio pucciniano, equidistante dall'esotismo come dal colore locale eppure adiacente ad entrambe le 'tinte', come il settecentismo che cifra Manon Lescaut, è stata investigata originalmente da Michele Girardi.
A Sylvano Bussotti, tra reminiscenze di organizzatore, amori di pucciniano e seduzioni di poeta, la conclusione del convegno. Per dire: il primo organizzato nella cittadina natale. Mentre dalle finestre di Villa Orlando tra salici e canneti il lago imbronciato diffondeva umori pucciniani sottili.
Angelo Foletto (Musica Viva, Anno VII n.10, ottobre 1983)
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