Dal 1971 il direttore rumeno non metteva piede in Italia. Deluso dall'ambiente musicale, snobbato dagli addetti, in continua tensione con i professori d'orchestra di tutti i complessi se n'era andato malgrado l'affetto che lo lega al nostro paese. C'era l'occasione di riascoltarlo dopo tanti anni, a capo dell'orchestra Filarmonica di Monaco di cui è direttore stabile dal 1979, e soltanto il San Carlo s'è inserito nel percorso di una tournée che aveva fatto tappa in Spagna e in Francia. Già questo la dice lunga sulla considerazione di cui gode un interprete che per molti anni nel Dopoguerra era considerato l'unico concorrente degno di Karajan. Certo, l'essersi sottratto al meccanismo commerciale discografico ha fatto sì che il suo nome circolasse con minore intensità di quello del direttore austriaco, ma ugualmente stupisce l'avarizia di consensi ottenuta da Celibidache, sicuramente il direttore più pensante e, a ragione veduta, provocatorio espresso dalla generazione post-Furtwängler, a cui è legato da circostanze non sottovalutabili (a ventisei anni, nel 1938, Celibidache si perfeziona a Berlino; nel 1945 prende la direzione dei Filarmonici di Berlino fino al ritorno di Furtwängler, nel 1952). Del personaggioC elibidache ci occuperemo in un prossimo numero, con la testimonianza della piacevole conversazione combinata fortunosamente dopo il secondo concerto napoletano; qui ci limiteremo a elementi di riflessione sull'originale statura di musicista e di affascinante direttore.
Il programma napoletano proponeva un accostamento un po' azzardato spettacolarmente ma storicamente perfetto. L'ultima partitura sinfonica di Haydn (la Sinfonia n.104, conosciuta come «Salomon» o «London») con la Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore (meglio nota come «Romantica») di Bruckner, primo lavoro orchestrale bruckneriano che ebbe riconoscimenti pubblici. Se pensiamo a quanto di estraneo alla cultura viennese s'annida nel sinfonismo eclettico di Mahler, le due parti del concerto coprivano il cuore Il storico" del sinfonismo classico occidentale, in modo esemplare.
Due facce della medesima medaglia. Due facce dell'impostazione direttoriale di Celibidache che ideologizza le pulsazioni temporali mettendole in relazione con la "densità" del tessuto musicale complessivo: la sinfonia haydniana era infatti articolata in modo scorrevole, molto rilevata negli accenti e nelle cerniere formali inevitabili - tra l'altro i punti precisi gestualmente sottolineati con anticipo musicale vistoso - tutta giocata sulle sfumature agogiche e dinamiche sottilissime, soprattutto nelle risoluzioni o negli attacchi più segreti della trama orchestrale, uscendo lumeggiata con incisività, trasparenza e distaccata eleganza (come quella di un gesto affascinante, espressivo, implacabile anche quando si compiace di solleticare colori e vibrazioni con la bacchetta passata sussiegosamente alla sinistra).
Nella Quarta di Bruckner il procedimento applicato in modo contrario dà come primo esito la dilatazione ebbra dei tempi. La Sinfonia bruckneriana più popolare, anche perché la più breve, sembrava infinita; cronometrata avrebbe serbato delle sorprese. Ma non è certamente qui il punto interessante, piuttosto l'osservazione che la coerenza della lettura di Celibidache forniva alla partitura tutta una serie di motivazioni costruttive altrimenti ignorate. Ad esempio la parabola perfetta descritta dal lavoro era specchiata benissimo dall'esecuzione che "bloccava" per così dire, in un'articolazione spazialmente immensa (di qui l'impressione di granitica immobilità pure nella sensazione di un progressivo accumulo di tensioni e materiali musicali) le frange estreme dei movimenti esterni: l'arcano inizio della Sinfonia, il suo pigro costituirsi di temi e colori primigeni in un crescendo immane e fuori dal tempo - nello spazio, appunto - si rifletteva nell'ansiosità stagnante, nella decomposizione strutturale melodica cui l'ultimo movimento sembrava essere votato. L'indeterminazione timbrica e sentimentale vista nella fase di coscienza e poi in quella dell'irrimediabile distacco; possiamo anche azzardare il sostantivo nostalgia, ché la riflessione sulla «Romantica» stuzzicata dalla lettura densissima eppure così ariosa di Celibidache, lasciava spazio a un atteggiamento visionario, di riconquista e smarrimento, cui non erano estranee tinteggiature sensuali e naturalistiche (quelle mahleriane strutturali che aprono la Prima, e rievocano lo sprofondare wagneriano nel Reno). La stessa metamorfosi delle idee tematiche attraverso i vari movimenti della Sinfonia ne era evidente conferma; come la correlazione calcolata delle varie sezioni. Pensiamo al senso sollevante che accompagnava ogni irruzione del secondo tema nel «Mosso, ma non troppo presto» iniziale, in gara con l'ancora meno pensoso che cifrava gradualmente le riprese dello spunto iniziale. Pensiamo alla nascita, come dal nulla, del tema dei violoncelli nell'«Andante», alla tinta notturna e malinconica delle sommesse riesposizioni contrapposte alla riemersione del tema-base (ancora ai corni) tra il trasognato e il minaccioso; a sua volta in conflitto con la brillantezza ludica dell'episodio ripetitivo tra archi e fiati che prelude alla coda attraversata dal gioco imponente degli ottoni prima di sprofondare nel nulla. Dal nulla prende vita la fosforescente illustrazione dello Scherzo, mentre l'oasi «non troppo presto» del Trio veniva giostrata flessibilmente, tra rubati e ombreggiature timbriche lievi. Pennellate forti di luce e proporzioni sonore guidano invece il percorso del quarto tempo: una lettura geometrica, frammentaria quando non miniaturizzata, di aderenza totale al dettato disomogeneo della stesura sinfonica bruckneriana. Questa specie di trascendenza assaporata, rispetto alle procedure e al nitore costruttivo classico, tipica del mondo musicale di Bruckner era testimoniata dall'esecuzione in modo spaventosamente assiomatico.
Una lezione di civiltà musicale da lasciare ammutoliti e pensierosi, piuttosto che un'esecuzione da salutare con spontaneo entusiasmo di applausi unanimi. Ma non sono mancati di certo quelli per il maestro e la Filarmonica di Monaco, orchestra di rango, ben regolata in tutti i reparti (con una certa esuberanza dei fiati rispetto al resto), non eccezionale ma guidata con una professionalità e una forza di cui si può continuare a meravigliarsi.
di Angelo Foletto (Musica Viva. Anno VII n.11, novembre 1983)
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