Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 26, 2013

Il musico in manette

Dura Lex, Sed Lex
Cronache giudiziarie di oggi e di ieri.

A Genova
Il pretore Adriano Sansa ha ordinato di porre i sigilli al pianoforre di Roberto Chierici, un ragazzo di 16 anni, aspirante allievo del conservatorio, da tre anni studente di pianoforte. Motivo: lo strumcnto fa troppo rumore, nonostante abbia inserita la "sordina", e la circosranza ha indotto una vicina di casa a chiedere l’intervento della magistratura. ("Il Gazzettino", 4.VII,1979)
A Mestre
Il pretore onorario dott. Ariberto Marchiori con una sentenza ha ordinaro che violino e pianoforte possono essere suonati solamente dalle 9 alle 12, e nelle ore pomeridiane dalle 16 alle 18, esclusi i giomi festivi nei quali gli strumenti non possono essere suonati. Questa sentenza colpisce Chiara e Paolo Craglietto, 17 e 13 anni, due fratelli mestrini, studenti di conservatorio e di liceo, entrambi già molto apprezzati per impegno e qualità artistiche. ("La Tribuna di Treviso", 9.IX.1979)
A Bologna
Statuit praecepit Dominus Potestas quod nemo ire debeat per civitatem Bononiae de nocte cum leuto, viola, seu aliquo alio instrumento cum lumine vel sine lumine [...] et de hoc teneatur tam scolares, quam alii homines et perdat liutum er violam et instrumentum. (Statuti comunali bolognesi del sec. XIII)

L’eccesso di zelo nella tutela della quiete pubblica dispiegato dal legislatore medievale potrà far sorridere i contemporanei, da tempo avvezzi ad assopirsi al suono di meno melodiosi ordigni che non siano il liuto e la viola. Ogni nostro compatriota o turista straniero conosce infatti per esperienza la delizia delle notti estive del Bel Paese, cullate dal camo "di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esp1osivo", per dirla con la prosa profetica di Marinetti, vero prototipo dell’italiano nuovo, che preferiva il design futuristico delle marmitte d’automobile al panneggio della Vittoria di Samotracia.
E poi ci sono i festival gastro-politici dei partiti ("venite compagni", oppure, secondo un’altra lezione "amici", "alla pesca del coniglio!"), i concerti pop in piazza con le amplificazioni a 20.000 watt, il juke-box del bar dell'angolo, l’hi-fi quadrifonico del vicino amante del ballo liscio, il Mundial, i cortei sindacali, il ritorno dalla partita, gli amici dello sposo a clackson spiegato, il mangiacassette che spunta inopinato dalla valigia del vicino di scompartimento, e via assordando. Di fronte alla marea inarrestabile di rumori meccanici ed elettronici, ai mille segnali autorizzati e non, agli amabili riti corali della partecipazione di massa (le attività produttive no, quelle diventano sempre più silenziose, o almeno sono soggette ad un controllo sindacale sulla c.d. "nocività da rumore") il diritto alla privacy sonora appare sempre più come un bene di lusso, accessibile solamente a coloro che per elevatezza di reddito o per marginalità scelta o subita possono interporre vasti spazi di rispetto fra se e il marasma urbano (ville con parco, oppure casolari di campagna, spechi romiti tra le vallate alpine).
Può anche accadere a questo punto che le vittime di tanta prevaricazione, impotenti ad intervenire radicalmente sulla qualità della vita metropolitana (è forse un caso che i fattacci giudiziari riguardino due dei suburbi industriali più ecologicamente degradati di tutto il Paese, vale a dire Genova e Mestre, paradisi della siderurgia e della chimica di base?) scelgano come bersaglio della propria aggressività, secondo una tipica logica di individuazione del punto di minor resistenza, le poche, pretecniche e ormai ridicolmente desuete fonti di produzione del suono: vogliamo dire gli strumenti musicali nella loro povera realtà fisica di corde vibranti e tavole armoniche risonanti, senza nemmeno un mezzo watt di amplificazione elettrica.
Ed ecco trovati i nuovi untori: sono i viziosi strimpellatori di Schumann, i violinisti eredi della dubbia reputazione morale di un Tartini o di un Paganini, gli squallidi adepti del flauto dolce, già bollati di filo nazismo dai vati della scuola di Francoforte. E giù i vicini a sporgere denuncia in carta da bollo, e i pretori a citare in giudizio; indi, udite le testimonianze e valutate le prove, a porre (in nome del popolo italiano) i sigilli alle tastiere, a multare e diffidare i babbi che si mostrano incapaci di instillare
per tempo nei loro pargoletti gusti e valori più adeguati ai tempi moderni C’è una Honda nel tuo futuro, figliolo! Che poi costa anche meno di un Bechstein mezzacoda, ma in compenso ha molti, molti decibel in più. E soprattutto (se sbaglio mi corregga l’arcigno economista) ha dietro di sé un apparato produttivo che per tecnologia, fatturato globale e produttività per addetto deve ispirare reverenza a chiunque. Anche ai magistrati della Repubblica?

Carlo Vitali ("Nuova rivista musicale italiana", n.4, ottobre/dicembre 1979)

sabato, ottobre 19, 2013

Massimo Mila: La fantacustica, principi di una scienza nuova

Roma, Auditorium
Ci rallegriamo spesso per gli innegabili progressi che la cultura musicale sembra fare nel nostro paese, con tanta abbondanza di pubblicazioni, col miglioramento della programmazione nei concerti e nei teatri, con la qualità delle radiotrasmissioni e l’elevato livello di molta parte della produzione discografica. E poi, ogni tanto, giù una mazzata sulla testa, a ricordarti che tutto é come prima, magari peggio di prima.
Poniamo: a Roma sembra si siano finalmente decisi alla costruzione di un auditorium. Bene. Un quotidiano romano, ("Il Tempo", 16 febbraio 1983, pag.4) dedica un’intera pagina al progetto, amabilmente soffiando nella nota polemica tra "effimero" e "permanente". Reca, tra l’altro, la composizione della commissione nominata dalla Giunta regionale per lo studio del problema. Vi sono nomi illustri della cultura, della musica e della spettacolo, come Paolo Portoghesi, Scaparro, Zafred, Zeffirelli. Un Gianni Borgna ne fa parte con la qualifica di "musicologo". La categoria dei musicologi in Italia é liberamente aperta, e niente vieta che ne faccia parte l’autore di uno studio sulla rnusica dei giovani, da Elvis Presley a Sophie Marceau, anche se di musicologi piu qualificati a Roma ce ne sono tanti. Speriamo solo che non si pensi di costruire un auditorium per il rock, genere di musica che presenta esigenze acustiche del tutto diverse da quelle d’un’orchestra sinfonica o d’un quartetto d’archi.
Ma non si tratta di questo. Il guaio é che Per ricreare l’atmosfera perduta a rieducare la nostra sensibilità il giornale ha la felice idea di fare intervistare da Paolo Sangiorgi "uno dei piu autorevoli studiosi viventi di fisica acustica, se non a livello mondiale, certamente europeo". E' un ingegnere, che é anche professore universitario, "uno scienziato abituato a verificare con i fatti quello che dice". Questo luminare della fisica acustica "è però anche uno di quegli uomini che per un’esclusiva  necessità di saggezza rifiuta le interviste, o se le concede pone come condizione essenziale il fatto di non poter essere identificato".
Bene, quali lumi ci porta questo scienziato ignoto? Dopo avere avanzato la scoraggiante affermazione che per costruire un auditorium come si deve, come lo intende lui, non bastano i 18 miliardi stanziati da un assessore regionale, ma "potremmo cavarcela con 200 miliardi tutto compreso", e dopo avere consigliato, del resto non a torto, di non cedere alla tentazione di dimensioni esagerate, per non elaborare una megastruttura come è accaduto a Berlino dove "il suono è riprodotto con impianti di amplificazione", sicché "non è più un auditorium, è una Telefunken, un tempio dell’elettronica" (lì ci suonano gli sprovveduti orchestrali della Filarmonica, sotto la guida di quel notorio incompetente che è Herbert von Karajan), bene, dopo queste premesse generali si entra in particolari d’ordine, diciamo così, scientifico e si forniscono informazioni interessanti, e soprattutto nuove, sulle qualità del suono, prima delle quali viene considerata l’intensità, che si misura in decibel: "30 decibel è la pulsazione del cuore" (accidenti), "120 decibel è il rumore d’un reattore". Per cui se ne deduce che basta la presenza di quattro o cinque persone per coprire il frastuono d’un reattore. E ci si domandi come sia possibile la conversazione di quattro o cinque persone, tutte col loro cuore rombante a 30 decibel ("Sentilo battere! sentilo battere!" diceva Zerlina).
Segue il problema "dell’impulso musicale", che determina "la così detta intellegibilità del discorso". E qui tutto è troppo bello, e bisogna indulgere a una lunga citazione. "Per dire una parola l’uomo impiega circa un secondo; una frase di dieci parole, 10 secondi. Ma se io parlo in un luogo dove al decimo secondo sto ancora ascoltando una parte della prima parola nessuno capirebbe niente. E questo è il problema della coda sonora. Del corretto distacco tra un impulso musicale e l’altro". (Gran conforto, questa Coda, per i sordastri, quelli che "sentono la voce ma non capiscono le parole").
Evidentemente il nostro scienziato ignoto ignora che la velocità di trasmissione del suono è uguale, 340 metri al minuto secondo, in qualunque luogo, al cesso come alla Scala, e varia soltanto col variare della pressione atmosferica (per questo in alta montagna il suono viaggia più adagio che in pianura). La possibilità di sovrapposizione delle onde sonore deriva soltanto dall’eventuale presenza di riverberazioni, ed è a questo rischio che si deve badare costruendo una sala, qualunque sia la sua ampiezza.
Continuiamo, che ora viene il bello. "Quindi per ascoltare fedelmente un concerto fatto con musiche di Rossini e più in generale di musica italiana dell’800 c’è bisogno di una maggior scansione. Per la musica tedesca e Wagner in particolare è necessario invece un maggiore impasto". Donde la preoccupante deduzione che a rigore "sarebbero necessari auditorium diversi" (con quel prezzo!) "per musiche diverse".
Oltre all’intensità, e in certo senso prima, perché più intrinseci, è noto che il suono possiede altri due parametri: l’altezza e il timbro. Il nostro scienziato riesce brillantemente a confonderli l’uno con l’altro. “Ultimo problema da affrontare è quello del timbro. Della qualità della riproduzione. Questa si misura in "ertz" (sic!). 100 ertz (sic!) ad esempio è il timbro di una voce maschile, 200 quello di una voce femminile, 16.000 ertz (sic!) è invece una zanzara. E' in base a queste frequenze che si distingue il suono di uno strumento da un altro".
L’incognito studioso sarebbe ben imbarazzato a spiegare perché una medesima nota, della stessa altezza, con lo stesso numero di hertz, suoni tanto diversa alle nostre orecchie a seconda che sia emessa dalla voce della Caballé, dal flauto di Gazzelloni o dal violino di Uto Ughi. Qualunque scolaro del sest’anno di conservatorio potrebbe spiegargli che il timbro e l’altezza sono due qualità diverse e distinte del suono. L’altezza, non il timbro, dipende dal numero di hertz, cioè dalla frequenza di vibrazioni d’un corpo elastico (200 per la voce femminile sono davvero un po’ pochine, ma non è escluso che qualche contralto fenomenale ci riesca a scendere). Il timbro dipende dalle diverse combinazioni di suoni armonici che si accompagnano al suono fondamentale. Ma chissà se il nostro Professore sa che Cosa sono i suoni armonici. E tuttavia egli appartiene a quella categoria di personaggi che nel linguaggio giornalistico si designano con l’ineffabile qualifica di "esperti".

Massimo Mila ("Nuova Rivista Musicale Italiana", n.1, gennaio/marzo 1983)

sabato, ottobre 12, 2013

Ralph Kirkpatrick in memoriam

Ralph Kirkpatrick (1911-1984)
Come un gran signore desideroso di evitare le contaminanti promiscuità connesse a ogni forma di assembramento, Ralph Kirkpatrick è uscito di scena prima che si scatenasse le kermesse dell’Anno della musica, dedicato principalmente ai “suoi” Bach, Haendel e Scarlatti: addolorati per così grave perdita, possiamo solo in parte consolarcene pensando che la morte ha risparmiato al supremo artefice del ritorno all’autenticità dei testi clavicembalistici la verifica della degenerazione subita, nel tempo, dalla linea che aveva saputo intraprendere da giovane e alla quale ebbe il coraggio di tornare giusto quando gli interessi commerciali che lo esaltavano “re del clavicembalo” avrebbero dovuto sconsigliarglielo.Negli anni che vedevano trionfare gli eroici furori della crociata intrapresa da Wanda Landowska per riproporre al pubblico delle moderne sale da concerto il superbe ferraillement del suo clavicembalo, Kirkpatrick traversò l’Atlantico per confrontare le esperienze da lui compiute a Boston con quanto veniva maturando in Europa nell’ambito del vasto movimento di ritorno alla musica antica che da Parigi a Berlino andava estendendosi in Inghilterra. A Parigi, notevole importanza ebbero i contatti con Nadia Boulanger, ma l’approccio decisivo fu quello con la Landowska in persona, la quale accolse il giovane americano nel novero degli eletti che approfittavano del suo insegnamento nel mitico ritiro campestre di Saint-Leu-La Foret, vicino Parigi. La storia di questo rapporto difficile non è mai stata scritta, ma se il fascino regale di quella Vestale del claivicembalo non poteva lasciare insensibile il curiosissimo pellegrino, è certo che dopo un paio d’anni Kirkpatrick varcò la Manica per accostarsi a Arnold Dolmetsch, fautore di criteri più scientifici e rigorosi nella riesumazione di strumenti e musiche del passato; in fondo, era un ritorno alle origini, in quanto sotto la consulenza personale di Dolmetsch erano stati costruiti i clavicembali bostoniani sui quali era avvenuta l’iniziazione del giovane specialista. Finalmente, a Berlino, i contatti con Günther Ramin, vero patriarca del culto bachiano, videro raggiunto il massimo delle acquisizioni possibili e nel 1933 il Ventiduenne Kirkpatrick si imponeva all’attenzione della critica tedesca con un’esecuzione delle Variazioni Goldberg che lo laureava interprete qualificatissimo di quel difficile capolavoro.In quello stesso anno la Landowska invitava i fedeli nel suo ritiro per partecipare a un rito esemplare: l’esecuzione delle Goldberg (successivamente trasferita in dischi a 78 giri), accompagnata dalla polemica dichiarazione di essersi decisa a suonare in pubblico quel capolavoro solo dopo 45 anni di ricerca e approfondimento dedicati a esso. Per buona sorte la Mére mure de la Forét (così veniva chiamata la Landowska con un divertentissimo calembour wagneriano legato al tempio del suo culto) era troppo altezzosa per scendere a forme più dirette di ostracismo; cosi la carriera di Kirkpatrick poté procedere trionfalmente in Europa (insegnamento ai Mozarteum di Salisburgo) e in America.
Nel 1938, la pubblicazione di un’edizione critica delle Variazioni Goldberg rimasta a tutt'oggi insorpassata rendeva manifesta la profondità del sapere che si accompagnava alle doti dell’esecutore da tutti apprezzato. Pochi anni più tardi, in concomitanza con l’ininterrotto svolgersi della carriera concertistica, ebbe inizio la fatica che avrebbe procurato i massimi riconoscimenti al musicologo e all’interprete: il saggio su Domenico Scarlatti, destinato a dare assetto quasi definitivo a una biografia precedentemente lacunosa e a assicurare al musicista il ruolo primario che oggi lo vede festeggiato con i suoi formidabili coetanei. Pubblicato nel 1952 a Princeton, il volume si arricchì di un’appendice straordinariamente interessante: una scelta di sessanta sonate organizzate in modo da illuminare gli aspetti meno noti e inflazionati dell’arte scarlattiana, simultaneamente stampata da Schirmer e registrata dallo stesso Kirkpatrick in quattro dischi Columbia.
La lunga elaborazione (1941-1953) del saggio garantì completezza alla sintesi e a Kirkpatrick resta il merito di aver fatto luce sulla figura di un artista che forse solo nella terza età raggiunse il suo vero stile. E' questa la tesi che Kirkpatrick sostiene, riferendosi rigorosamente alle datazioni certe delle prime edizioni e dei manoscritti (non autografi) che ci tramandano l’immenso corpus delle Sonate. La lucida impostazione della trattazione evidenzia, del resto, il carattere pragmaticamente “americano” della ricerca: basti dire che preziosi documenti di famiglia prevalentemente ignoti ai precedenti biografi furono scoperti da Kirkpatrick grazie a un contatto con gli ultimi discendenti di Domenico Scarlatti, rintracciati con l’ausilio elementare di una guida telefonica di Madrid. Tanta disinvoltura non deve far pensare all’adozione di superficiali scorciatoie nello svisceramento della materia scientifica: potranno rendersene conto i lettori di lingua italiana ai quali l’ERI ha il merito di rendere finalmente accessibile in lingua italiana un testo cosi fondamentale.
Ma l’eredita di Kirkpatrick non resta circoscritta alla sua magistrale fatica scientifica. Sin dagli esordi americani, la sua carriera di esecutore fu caratterizzata da una sete di rigore filologico, in seguito solo parzialmente contraddetta dal coinvolgimento dell’artista nell’andazzo del concertismo da grandi sale. Resta estremamente indicativa la sua scelta del disco, costantemente usato come veicolo capace di trasmettere alle moltitudini ciò che era nato per gli stendhaliani happy few. I dischi incisi sino al 1949 sono realizzati su uno dei clavicembali costruiti nel 1910 da Chickering sotto la guida di Dolmetsch; si tratta di uno strumento significativamente privo di quel registro da 16 piedi che, dal punto di vista storico, resta la più improbabile tra le innovazioni dell’era landowskiana. Quando poi Kirkpatrick si decise a usare un altro Chickering dotato del registro discutibile, tenne a dichiarare che tanto il vecchio che il nuovo strumento non avevano un volume di suono adatto alla sala da concerto moderna, ma che compensavano a tale limitazione con una sorprendente rispondenza a variazioni di tocco capaci di assicurare variabilità al suono. Come abbiamo visto, era il disco e non la sala da concerto a risolvere il problema di trasmettere a un vasto pubblico il messaggio dell’interprete; ma il disco comporta un obbligatorio coinvolgimento in problemi commerciali e già la serie scarlattiana venne realizzata su un “nuovo” strumento espressamente costruito nel 1950 per Kirkpatrick da John Challis di Detroit. Questa volta l’interprete dichiarava testualmente:

Si tratta di uno strumento francamente moderno e io adatto in vario modo le sue risorse alle multiformi implicazioni delle sonate di Scarlatti. Ho tenuto presenti soprattutto le orchestre e la musica popolare che Scarlatti era abituato a ascoltare, e le immaginarie fonti extra-clavicembalistiche di molta parte della sua ispirazione musicale. Nessun buon compositore di musica per tastiera ha lasciato che la propria immaginazione risultasse mortificata dai pur notevoli limiti che lo strumento poteva imporgli [...]. Non sono interessato soltanto al clavicembalo in quanto tale: né mi sento tenuto a dare dimostrazione di tutti i suoi accessori, come accade al coscienzioso venditore di aspirapolvere. Per me il cembalo è uno dei vari strumenti impiegati per far musica, non per fare sopra di essi dimostrazioni di novità, o esibizione di dispositivi particolari. I suoi effetti mi interessano solo quando servono a comunicare un senso musicale.

Subito dopo, Kirkpatrick riconosceva correttamente:

Come ho dimostrato nel mio Domenico Scarlatti, gli strumenti che molto probabilmente Scarlatti ebbe a disposizione nei suoi ultimi anni possedevano un minimo di dispositivi: di fatto, sembra che avessero solo una tastiera e due registri da 8 piedi; da ciò deriva forse la varietà che Scarlatti seppe rendere insita nella sua musica, e che talvolta può essere soverchiata da un’ulteriore varietà imposta dall’esterno. Così, talvolta ho mantenuto il cembalo Challis a livelli sonori che probabilmente sono gli stessi usati da Scarlatti. Altre volte, però, ho seguito quello che mi sembrava fosse lo spirito, anziché la lettera; specialmente in quelle sonate nelle quali sembrava che nessun contrasto fosse abbastanza violentemente esasperato, nelle quali nessuna suggestione poetica appariva suscettibile di essere realizzata esageratamente.

Sulle copertine dei dischi scarlattiani leggiamo il preoccupato riflesso dello scrupolo suscitato nell’artista dalle distorsioni sonore connesse all’uso improprio del mezzo riproduttivo: "Devo implorare l’ascoltatore di non suonare questi dischi a un volume troppo alto [...]". Quale migliore omaggio a Kirkpatrick, se non ripetere questa sua raccomandazione in vista di un Anno della musica dedicato a tre maestri che mai saprebbero riconoscere il loro clavicembalo nell'immagine sonora distortissima che è pane quotidiano per i troppi fans di un Barocco da società dei consumi?
Ma intendimenti tanto selettivi non coincidevano con la politica commerciale delle case discografiche: i raffinati strumenti prodotti dall’artigianato clavicembalistico di Boston furono messi da parte e la grande cavalcata bachiana venne intrapresa sotto gli auspici combinati del cembalo Neupert e della Deutsche Grammophon Gesellschaft. Quando già parecchi dischi erano in commercio, Kirkpatrick dovette rendersi conto dell'importanza di un movimento tendente all’impiego di strumenti fedeli agli originali; per lui si trattava solo di tornare agli ideali di tutta la prima fase della sua carriera e così il traguardo del Wohltemperierte Clavier venne toccato con una doppia versione del capolavoro, interpretato su un clavicordo costruito nel 1932 da Dolmetsch e su un clavicembalo che Hubbard e Dowd avevano copiato a Boston nel 1958 da un modello francese di Pascal Taskin. La cassetta dei dischi della versione clavicordistica del primo volume (il secondo, annunziato, non fu mai pubblicato) contiene questa importantissima dichiarazione del Maestro:

Mi chiedo talvolta perché mai preferisca suonare il Wohltemperierte Clavier su uno strumento difficile e pieno di svantaggi evidenti come e il clavicordo. E' forse in segno di riconoscenza verso lo strumento che più d’ogni altro ha contribuito ad affinare il mio orecchio e a favorire lo sviluppo della mia sensibilità musicale? O è perché le sue ridotte possibilità impongono la concentrazione e rendono indispensabile esprimere costantemente l’essenza dell’opera rinunciando agli effetti sonori di grandi crescendo? Oppure gioca un ruolo la reazione del pubblico, necessariamente ristrettissimo, di fronte al quale ho suonato il clavicordo durante la mia carriera (una reazione profondamente diversa da quella provocata da altri strumenti a tastiera)? Si tratta di un processo raro e inesplicabile, ma resta il fatto che mi sono consacrato per quasi trent’anni a questo strumento di ridotte possibilità e di grande difficoltà, spesso più intensamente di quanto facessi con il clavicembalo, sino al punto da giudicare proficuo riscoprire e perfezionare una tecnica ben più esigente di quanto lo sia quella degli altri strumenti a tasto.

Dopo il successo delle Partite, delle Suites, dei Concerti e delle Variazioni Goldberg, questo Wohltemperierte Clavier tanto più raffinato dovette registrare un calo di vendite: il best seller Landowska continuava a spopolare e quel tirare i remi in barca con uno strumento storico o con il flebile clavicordo non coincideva, almeno in quel momento, con la politica commerciale in espansione della grande casa discografica; fatto sta che Kirkpatrick incise un ultimo disco DGG dedicandolo a 12 Sonate di Scarlatti non comprese nelle 60 della serie Columbia. E' questo il commovente commiato del Maestro dal mezzo che aveva scelto a messaggero del suo messaggio fatto di profonda consapevolezza: il declino della vista avviava ineluttabilmente l’artista alle peripezie cliniche che avevano caratterizzato gli ultimi anni di Haendel e portato alla cecità il vecchio Bach. Quando ogni speranza fu perduta, Kirkpatrick ricominciò a studiare il suo repertorio usando il sistema Braille; in chi ha avuto la fortuna di riascoltarlo resta il rimpianto che il disco non ci abbia conservato l’immagine sonora di questo suo estremo insegnamento.

Roberto Pagano (Nuova rivista musicale italiana, n.4, ottobre/dicembre 1984)

domenica, ottobre 06, 2013

Benedetti Michelangeli e Giulini al Conservatorio

Arturo Benedetti Michelangeli
(1920-1995)
Serata laboriosa per Benedetti Michelangeli, quella di ieri sera, e non riposante per un direttore, qual'è il Giulini, che non si limiti ad accompagnare il solista, ma, concorde con lui, miri alla unità e all'equilibrio delle composizioni. Due delle quali erano d'altissimo valore e di somma importanza, il Concerto in do magg., del dicembre 1786, di Mozart e il Quinto, detto "dell'Imperatore", di Beethoven.
Di somma importanza, s'è detto. E tale è infatti la numerosa raccolta di risorse inventive e tecniche che Mozart sparse in quell'opera. Nel momento decisivo per la più eletta funzione del solista in rapporto all'orchestra, per la integrazione del Concerto, non più edonistico ed esibizionistico, nella Sinfonia, collettività strumentale rispondente al più intenso ideale drammatico, Mozart compiva la sua prodigiosa evoluzione nel campo appunto del Concerto, cui aveva tanto contribuito come creatore e come pianista. Nel richiedere al concertista una bravura, che soltanto i migliori discepoli di Clementi avrebbero allora saputo mostrare, egli ne limitava l'appariscenza, inserendo la voce del pianoforte nella fitta trama sonora, togliendo al solista alcune tradizionali prerogative, iniziare il discorso, primeggiare sovente. E dunque più badava alla severa struttura e, naturalmente, all'espressione dei propri sentimenti.
Una delle note preclare al tempo del Don Giovanni, la maggior vigoria e tensione drammatica, e l'altra, perenne, la delicatezza sostenuta, nobilissima, risuonano infatti nella composizione, tanto contrappuntistica quanto aerosa. Quell'insistente ritorno nell'Allegro maestoso della cellula ritmica, che al De Saint-Foix sembra "decisamente fatidica" e che nella mirabile misura aristocratica di Mozart realmente rappresenta uno stato d'animo, si direbbe, ossessivo, è pari in bellezza alla speciale cantabilità dell'Andante, che, non espanso come in una toccante lirica, sembra racchiuso in sè, o desideroso di non comuni associazioni di timbri diversi.
Quali siano poi il valore e l'importanza del Quinto Concerto di Beethoven non occorre neppur accennare, tanto esso è noto. L'interpretazione di Benedetti Michelangeli parve un po' gracile; in qualche punto avrebbe dovuto balzare più veemente, gagliarda, anche più poderosa nella sonorità. Aveva toccato Invece Mozart con piena adesione allo spirito e alla tecnica. E ancora una volta fu notato come alla soavità costante del suo giuoco giovanile, costante e perciò alquanto generica, succeda il vario accentarsi di uno e di un altro sentimento. E ancora egli riuscì mirabilmente nel fraseggio articolato, nella particolare vibrazione delle note essenziali, nella diversa luminosità del trillo, nelle sfumature dei gruppetti. Il successo suo e quello del Giulini fu assai caloroso.
Il Concerto del maestro Mario Peragallo, che alterna episodi promettenti un dramma e relativo svolgimento e subito deludenti, con altri banali e altri vacui, raccolse tepidi applausi e qualche contrasto. (Molto uditori si domandavano perché Benedetti Michelangeli perseveri nel portare in giro questo Concerto, egli che pratica i grandi artisti ed esclude quasi del tutto musiche d'altri contemporanei, siano pari a questa o superiori).

Andrea Della Corte ("La Stampa", sabato 12 maggio 1951)