Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 20, 2021

Dalla parte del leggio (II)

"Noi possiamo essere, di volta in 
volta, degli Stradivari o dei violini di plastica, a seconda delle capacità di chi ci concerta”. La battuta del violinista Franco Cipolla introduce la seconda parte del discorso a più voci relativo al rapporto tra direttore e professori d’orchestra. Dopo la carrellata di ricordi, le testimonianze degli strumentisti si precisano sui momenti del "lavoro” che porta a un’esecuzione musicale con orchestra: si guarda al "mestiere” di direttore con rispetto ma senza soggezioni, se ne giudicano gli atteggiamenti, la preparazione, la capacità di realizzare nella fase di concertazione quello stadio di reciproca collaborazione che sfocerà in una buona o cattiva esecuzione, in un fatto musicale tecnicamente apprezzabile, a volte addirittura poetico.
La costruzione di tale avvenimento musicale passa attraverso numerose gradazioni, è condizionata da fatti diversi: il professore d’orchestra “rende” in relazione all'autorità del direttore. alla sua umanità, alla chiarezza di idee, all'espressività del gesto o delle parole impiegate a spiegare la propria visione; e ancora l’esecuzione risente della buona volontà dell'orchestra, del suo livello artistico, della complessiva professionalità. Tutte componenti che tracciano il percorso parallelo, spesso specchiante, di due “mestieri” adiacenti. che vivono l'uno per l'altro.
E dalle discussioni emerge una figura utopica di direttore come lo vorrebbero i professori d’orchestra, ma si chiarisce anche la coscienza professionale di chi lavora con passione in orchestra e trova soddisfazioni importanti quando l’incontro musicale avviene sotto il segno dell'intelligenza, della comunicativa, della vicendevole voglia di trasmettere qualcosa.
La prima riflessione polifonica s'indirizza allo stato delle orchestre italiane, che come ricorda Aleardo Savelli vanno considerate in effetti professioniste dal Dopoguerra, quando sono divenute stabili. Allora si era in un tempo felice: “concorsi in cui violinisti come Ferraresi o Gulli partecipavano magari non arrivando nemmeno primi, vista l’enorme ricchezza di strumentisti. Oggi siamo in una situazione opposta. In più la crescente presenza di strumentisti stranieri nelle orchestre ha fatto scomparire quel ‘suono italiano’ che era un’invidiata caratteristica dei nostri complessi”. Ma il guaio vero delle orchestre è piuttosto l'individualismo e l'antica concezione del conservatorio che indirizza gli strumentisti verso la carriera solistica, invece di “insegnare di più a essere musicisti, senza falsi scopi”, come si augura Enrico Sciarra, violinista al Teatro Comunale di Firenze. Di certo il livello delle orchestre oggi è un po’ diminuito rispetto al passato malgrado “il miglioramento sostanziale dei fiati, specialmente i cosiddetti strumentini”, come annota Michieli, ma di fronte a un certo ridimensionamento della valutazione totale, lavorano in orchestre professionisti uno per uno più preparati. Secondo Alessandro Lanzi una volta c'erano in più “disciplina e spirito di corpo”, e azzarda un primo tratteggio del direttore dalla parte del leggio:“in molti strumentisti c'è il desiderio dell'autorità, del magnetismo, del direttore-padrone. Forse individualmente noi non lo vorremmo, ma spesso arrivano interpreti molto ben preparati che però non hanno la carica giusta, oggi si direbbe il carisma necessario, e così nasce la nostalgia per il
personaggio un po’ autoritario. Penso che noi strumentisti siamo in bilico tra il desiderio del direttore-padrone e il direttore cosiddetto democratico. Il problema comunque sta nel fatto che noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica qualche cosa di più di quello che già sappiamo”.
Ma c'è modo e modo per dire proprio questo. Una volta si parlava del direttore-padrone o dittatore. Nonostante questa figura bizzosa e antidemocratica si sia superata (e come vivrebbe oggi di fronte alle legittime difese dei professori, anche sotto forme corporative-sindacali) Franzetti dichiara di non avere fiducia completa in chi si mostra “troppo amico dell’orchestra. Noi cerchiamo sempre chi ha autorità; non quella di chi grida ma quella di chi conosce la musica e ha i mezzi, che gli vengono riconosciuti dall'orchestra, per farla capire; chi, insomma, ti convince. Questa specie di rivalità fra ‘comandante’ e ‘comandato’ per me deve esistere. Io posso avere le mie idee, però quando sono in orchestra il responsabile è il direttore e non mi posso permettere di fare cose personali perché ho un campo di azione limitato; mi può succedere di prendere delle iniziative con un cattivo direttore, ma generalmente possono solo aiutare l’interprete ad ottenere quello che desidera”.
Secondo il giovane Marco Iorino il rapporto umano sereno col direttore è molto importante: “mi troverei malissimo con un direttore che creasse un’atmosfera di gelo e di terrore, sia nelle prove che in concerto. Io desidero tensione nella musica e non nei rapporti, anche perché è già abbastanza difficile aderire a volte ad un’interpretazione con cui magari non si è pienamente d’accordo”.
“Devo dire”, soggiunge Savelli, “che una volta i comportamenti eccessivi erano, se non giustificabili, almeno comprensibili, viste le condizioni in cui si lavorava. I direttori avevano spesso di fronte orchestre composte anche da dilettanti o semi-professionisti. Accanto a noi, appena usciti dal conservatorio, c'erano persone che prendevano in mano lo strumento tre mesi l’anno. Importante è che il direttore, al di là dei metodi, abbia quell'autorità morale e intellettuale oltre che musicale di cui parlava Franzetti”. “Più un direttore è bravo e esigente, più il rapporto è facile”, rincara Fantini: “sono le ‘mezze calzette’ che possono mettere in crisi, anche umanamente”. Certo perché “sul piano umano è difficile farsi guidare da chi non si stima” conferma Franzetti, ma non transige sull'impegno professionale del professore d’orchestra anche di fronte a una bacchetta non eccellente: “nei casi di scarso impegno, anche se dovuto alla presenza di un direttore mediocre, io mi arrabbio ferocemente: non lo concepisco. La musica deve essere al di sopra di tutto, e le difficoltà vere giungono proprio quando un direttore o uno strumentista vanno contro questo principio".
Più conciliante ancora è Fantini che espone un’idea di collaborazione strumentista-direttore: “Certamente possono svolgersi prove disgraziate, disordinate, con l’orchestra indisciplinata, ma alla fine prevale sempre il desiderio di collaborare. Dirò di più: se per assurdo noi stessimo zitti, ogni volta che un mediocre direttore fa o dice una stupidaggine, invece di aiutarlo, come di solito facciamo, forse molti maestri non avrebbero più il coraggio di tornare a dirigerci”. In effetti, interviene Sciarra, “non c'è mai una volontà di boicottare, Solo talvolta c'è l'impossibilità di aiutare perché non riusciamo a comprendere ciò che l’interprete ci chiede”. Di opinione identica è il collega Mario Ardito: “un boicottaggio sarebbe veramente una cosa stupida. E' successo invece che l’orchestra si sia rifiutata di suonare. Alcuni anni fa stavamo provando una sinfonia di Beethoven. In prova il direttore ci fece leggere tutta la sinfonia, un tempo dopo l’altro, senza mai fermarsi a concertare. Alla fine dell’ultimo movimento, fra lo stupore generale, disse ‘Da capo’. Si sentì pronta la voce di un collega che chiese: "Ma perché?" E il direttore di rimando: ‘Perché è molto bella’. ‘Questo lo si sapeva anche noi!` Tutti si alzarono e se ne andarono". Queste manifestazioni eccessive, appartenenti di diritto all'anedottica, sono sempre più rare; la coscienza e l'amor proprio dello strumentista scelgono altre vie per farsi notare. La conformazione diversa delle orchestre e l'impostazione dei direttori definiscono modi diversi di lavorare. Ne parla Giulio Franzetti: “Forse le orchestre di ieri avevano più compattezza e questo derivava dai direttori. Si guardava all'essenza dell’interpretazione, all'impronta musicale; non c’era una costruzione tecnica esasperata, l’idea e la concezione erano più complete. Oggi, specialmente con giovani bacchette, alla terza battuta spesso si è già fermi e questo secondo me è un errore. Numerosi musicisti dimenticano che quando l'orchestra inizia le prove spesso non conosce la partitura o non ha avuto la possibilità di assimilarla come invece ha fatto, studiandola, il direttore. Il primo problema è quello di far conoscere la musica agli strumentisti, poi verrà la linea interpretativa; invece spesso si va subito nei dettagli senza che l'orchestra si sia resa conto se sta leggendo un romanzo, una poesia o un saggio. I bravi interpreti si fermano magari su un particolare e lo puliscono, ma facendolo nel punto giusto danno subito il senso dello stile del brano e la percezione del loro modo di vedere. E' come posare i pilastri di una costruzione, e questa dote credo che la posseggano in pochissimi”. Questo lavoro di architettura primario, come un po` tutto il lavoro esteriore del direttore (almeno visto da parte dell'ascoltatore) è affidato molto a questo mitico movimento delle braccia e del corpo, il ‘gesto’. Ma come lo concepiscono i musicisti cui soprattutto è diretto? “Direi che il gesto è la continuazione della musicalità” afferma Michieli, “Senza una vera possibilità di scissione. Ci sono comunque molti clamorosi casi di mancanza di un bel gesto e di grande capacità insieme; Furtwängler aveva un gesto quasi incomprensibile, ma possedeva un tale magnetismo da riuscire comunque ad ottenere un insieme orchestrale perfetto”.
“Il gesto è una convenzione, come le stanghette sul pentagramma: è necessario per avere dei punti di riferimento”, aggiunge Sciarra; ma precisa che la base rimane la musicalità, che “invece è un dono naturale”. Per Iorino il gesto ha un suo ambito d’azione insostituibile nell'esecuzione della musica contemporanea, ma è persuaso che gesto, musicalità e capacità in genere debbano essere al medesimo livello per funzionare.
Il discorso si fa spinoso. Quanto conta l'età nella personalità del direttore? I pareri qui sono molto discordi: è il solito Franzetti a esprimere la voce più equilibrata: “la maturazione umana di solito va di pari passo con la capacità, ma se un musicista possiede un vero talento può dimostrarlo anche se è molto giovane. Per il gesto e la musicalità credo che sia come per uno strumentista: c'è chi è naturalmente musicale e chi invece ha solo una grande capacità di coordinazione, ma con dei chiari limiti. E poi come si fa, nel caso di un direttore. a parlare solo di braccio? E l'espressività del viso? C'è qualche cosa che sfugge a una analisi. L'ideale dei risultati si ha quando c'è perfetto equilibrio fra ciò che si sente e la gestualità, anche se molti bravissimi direttori, anticipando molto il gesto rispetto alla musica, riescono a ottenere comunque risultati di livello superlativo”. Un’altra questione che viene a galla è quella del dirigere a memoria, un fatto che come ricorda Armando Burattin “può impressionare il pubblico, non gli strumentisti. Personalmente mi interessa il direttore che conosce e sa trasmettere lo spirito della musica: non importa se la partitura sta sul leggio o in testa. Guarnieri aveva quasi sempre la musica davanti, Toscanini - anche perché ci vedeva pochissimo - mai!” Interviene Sciarra: “se una persona ci tiene ad avere una completa libertà dal ‘pezzo di carta’, è giusto che lo faccia, ma non ha nessuna rilevanza. Quando in un direttore coesistono un gesto chiaro e una grande musicalità non ci sono mai problemi”. Fantini tiene a distinguere l'ambito del dirigere a memoria: “lo sforzo, specialmente nella lirica, deve essere enorme. Tuttavia può spesso togliere qualche momento di elasticità all'esecuzione. Del resto chi tiene davanti la partitura, la conosce comunque praticamente a memoria; la usa dunque solo per un’eventuale amnesia. Nel repertorio sinfonico forse è diverso: a me piace vedere un maestro che dirige a memoria, come se l'orchestra fosse un grande quartetto d’archi; nell'opera invece non mi pare che il gioco valga la candela”.
Passando dagli atteggiamenti esteriori al nocciolo della questione, cioè al lavoro di concertazione del direttore, le posizioni si precisano, a seconda della generazione d’appartenenza, delle esperienze personali. della frequentazione di determinati interpreti e repertori. Anche per questo ‘tema’ l'inizio un po’ scontato propone lo sguardo nostalgico all'indietro. con l'inevitabile confronto tra direttori di ieri e di oggi: ma la contrapposizione non è meccanica né maliziosa. Spesso diventa istruttiva ed eloquente. “Credo che i direttori di oggi tendano a essere più fedeli possibile a quanto scritto in partitura”. interviene Burattin proponendo una prima riflessione, meno scontata di quanto appaia a prima vista: “a volte sembrano più vicini al musicologo che all'interprete. I maestri di ieri erano più fedeli a certe regole che erano state loro tramandate; anche se alcune dinamiche erano scritte dal compositore, le variavano secondo tradizioni acquisite nel tempo, quasi ‘migliorando’ le intenzioni dell’autore; non bisogna dimenticare che molti direttori di allora avevano potuto ascoltare di persona le prime esecuzioni delle opere che poi avrebbero diretto per moltissimi anni; mentre oggi, a parte i dischi, non c'è che lo studio della partitura. C'era insomma un contatto diretto con il mondo dell’Ottocento e questo ha avuto certamente un peso determinante nella loro formazione”.
Un’altra distinzione veniva da ragioni propriamente tecniche. “Molti direttori del passato”, afferma Michieli, “erano facilitati dal fatto di essere anche degli strumentisti; gli eventuali problemi tecnici erano quindi presto risolti e restava ‘solo’ il problema interpretativo. Tanto Toscanini che Guarnieri erano violoncellisti, Serafin suonava la viola così come Giulini. Oggi questo succede molto meno spesso”.
Savelli fa una boutade provocatoria: “Forse una volta erano meno colti e piu istintivi!”; gli risponde indirettamente Lanzi citando l'esempio indiscutibile di Mario Rossi, musicista civilissimo, colto, cresciuto gradualmente nel lungo e stretto rapporto di collaborazione con l’Orchestra Rai di Torino. Si aggancia alla battuta Franzetti, ma per introdurre un pensiero più ‘storico’. In altre parole la ‘spal1a’ scaligera non nega che la vecchia generazione fosse per così dire più “dotata d’istinto” ma preferisce affrontare il problema da un’angolazione meno schematica e con esempi. Dice infatti: “personalmente ho avuto l’impressione che nei direttori del passato la tecnica, l’analisi della partitura, l'istinto, l'impeto, l'emozione fossero tutt'uno. Oggi c'è più frazionamento anche in una grande natura come Carlos Kleiber, il direttore che assomiglia di più a quelli di una volta. Nella concertazione spacca veramente il famoso capello in quattro. Mi ricordo che per Otello, la prima opera con cui ho incominciato la mia collaborazione con lui, siamo arrivati all'antigenerale senza che avesse fatto suonare all'orchestra più di cinque battute di seguito evitando di fermarla per concertare. In orchestra eravamo molto preoccupati, ma all'antigenerale e alla generale restammo sbalorditi dalla sua capacità di sintesi e lo scopo della concertazione apparve in tutta la sua chiarezza. Il bisogno di fermarsi e ottenere in quel preciso secondo ciò che vuole è irresistibile in lui; però quando si lascia andare è un musicista straordinario. Spesso mette sui leggii di noi strumentisti, prima o dopo la prova, dei messaggi per stimolarci a rispettare certe dinamiche o certi particolari che ha paura che noi possiamo dimenticare: anche in questo si vede una ricerca e un evolversi continuo. un lavoro pieno di dubbi ma sempre costruttivo. Claudio Abbado lo ritiene il più preparato fra i direttori di oggi, e Kleiber è anche quello che dirige meno partiture di tutti perchè vuole approfondirne continuamente la conoscenza, in maniera ossessiva. Un altro direttore che ha la saggezza tipica dei colleghi più anziani è Riccardo Muti. Ha istinto musicale, strategia di lavoro e di concertazione incredibili. Sa far lavorare e stancare ‘sanamente` l'orchestra, con lui non si suona mai ‘sui nervi’. Vive e lavora con l'orchestra, con capacità di comando; lo senti veramente come primus inter pares.
Abbado ha la stessa efficacia, ma ottiene ciò che vuole in un modo diverso. Fa lavorare l'orchestra più ripetitivamente, esige la lettera, è razionalissimo e sa risparmiarsi durante le prove, pero quando viene il momento dell’esecuzione si capisce perfettamente ciò che si è provato”.
Una sorta di sintesi la da anche Sciarra: “a differenza di oggi i direttori salivano sul podio dopo aver fatto una lunga gavetta e quindi possedendo una notevole esperienza umana: oggi chi non ha qualità straordinarie, di natura, non può vantare nemmeno quel bagaglio di esperienze acquisito durante la gavetta, lavorando come preparatore di palcoscenico o ‘sostituto’. Così capita spesso di trovare oggi maggiore divario tra i buoni direttori e ‘gli altri’: questi, mancando dell’esperienza quando non addirittura del talento, si riducono a solfeggiare con la bacchetta dal podio, senza la capacità di trasmettere agli strumentisti quello di cui hanno bisogno. Un’orchestra è fatta di diciottenni e di sessantenni: è necessario che il bravo direttore sappia dare qualcosa ad ognuno”.
Ancora una volta emerge il bisogno del “punto di riferimento” rappresentato dal personaggio che sta sul podio. In fondo la professione di orchestrale ha questo guaio: non esiste senza il direttore. Ma il rapporto è vicendevole. Anche se al direttore, nei casi buoni, vengono rivolte le maggiori attenzioni, mentre del lavoro prezioso del professore d’orchestra si sanno appena gli estremi. Come conclude amaramente Sciarra, ancora oggi molti chiedono a lui a ai colleghi: “ma voi, quando non c'è spettacolo in teatro, cosa fate? Quanti giorni la settimana lavorate?".
Adriano Maria Barbieri
("Musica Viva", n.10, Anno VIII, ottobre 1984)

mercoledì, febbraio 10, 2021

Dalla parte del leggio (I)

Mitropoulos, De Sabata, Furtwängler, Guarnieri, Cantelli, Böhm, Klemperer e altri grandi direttori aneddoti e testimonianze dell'incontro professionale di alcuni strumentisti “prime parti” di orchestre italiane.

“E' un lavoro fortunato; si svolge in un bell'ambiente, con in mano un bell'oggetto, ma che ha una grande esigenza: lo studio”. “Penso che questa professione sia stupenda: posso dire di guadagnarmi da vivere con gioia, rallegrandomi lo spirito”. “Per me è il lavoro più bello del mondo!”. Franco Fantini violinista, Giulio Franzetti violinista, Armando Burattin violista: tutti professori d’orchestra alla Scala, tre “spalle”, con esperienza orchestrale in alcuni casi lunghissima. Fantini entra nelle file scaligere nel 1942; Burattin nel 1948 e il giovane Franzetti nel 1969.
I giudizi sul proprio lavoro sono entusiasti. Viene in mente l'appassionata difesa fatta da Carlo Maria Giulini che non perde occasione per ricordare gli anni passati in fila (nell'orchestra romana dell'Augusteo) e per celebrare come invidiabile la professione di orchestrale (termine oggi non gradito e
surrogato dal più istituzionalizzato “professore d’orchestra”, che fa il paio con “artista del coro”): i suoi concetti sono ripresi quasi letteralmente da Franco Cipolla (nei complessi del Teatro Comunale di Firenze dal 1961) che aggiunge “quando esco di casa al mattino penso che ho un appuntamento con un grande autore, suono uno strumento che ho scelto io e che quindi mi piace”.
Non è tutta rose la vita di uno strumentista, ma il musicista intelligente vi trova un appagamento professionale e spirituale non confrontabile con quello della maggior parte dei lavori in serie. E comunque il lavoro di chi suona in orchestra viene in primo piano di solito nei casi estremi, quando suonano particolarmente bene o apprezzabilmente male. Esiste invece tutta una gradazione qualitativa e professionale che dall'esterno spesso viene dimenticata; un concerto e un'opera possono avere un esito musicale che dipende da numerosi fattori, umani o tecnici. Il mistero del rapporto che lega un musicista dal podio con altri cento musicisti che hanno il compito di creare il suono e dare vita alle intenzioni del direttore e a quelle dell"autore, è tra quelli più affascinanti della vita musicale.
Un fascino che trova nell'esecuzione pubblica il momento più espresso ma che si crea durante le prove, nei minuti di rapporto diretto, professionale e umano. che si tende tra singolo musicista e direttore.
Nell'intento di testimoniare proprio questa fase musicale circondata da segretezza e da scarsa conoscenza, abbiamo raccolto i pareri di alcune "prime parti" di orchestre italiane. Ne è uscito un racconto molto interessante, ricco di spunti da approfondire e di significative riflessioni: il professore d’orchestra ha del proprio lavoro un’idea precisa, molto meno corporativa di quel che lasciano immaginare alcune rivendicazioni (ricordate l'indennità frac?) un po’ folkloristiche e impietosamente amplificate dai mass media generici, e sa valutare benissimo l’importanza di un direttore in funzione del risultato tecnico, distinto da quello musicale più ampio.
La massa di informazioni raccolte ci consentono di dividere in due puntate il nostro giro d’orizzonte. In questa prima abbiamo voluto lasciare spazio soprattutto ai ricordi, agli aneddoti sui protagonisti del podio. Nella prossima le dichiarazioni dei professori d’orchestra contribuiranno a tracciare un profilo più specificatamente professionale del proprio lavoro, con naturali agganci a quello di direttore con un narcisistico specchiamento nella qualità e nei difetti di chi sta sul podio. Il nostro viaggio tra i direttori lo inizia Giovanni Michieli (violista nell'orchestra della Fenice di Venezia dal l922 al l966, dal 1932 spalla); è una rassegna di nomi, elencati senza ordine, come venivano, che parla da solo: "Mitropoulos, Guarnieri, Karajan, Knappertsbusch, Scherchen, De Sabata, Serafin, Votto, Sanzogno, Marinuzzi, Bernstein, Stravinsky, Richard Strauss, Mengelberg. E qui mi fermo.
Uno di quelli che mi ha più impressionato è stato Hans Knappertsbusch. Aveva il prezioso dono, comune fra i grandi direttori, di ottenere in pochissime prove ciò che altri non riuscivano neppure ad avvicinare, nonostante molti più giorni di lavoro. Una volta, alla prova generale di un concerto, si limitò a dirci: “Signori, questa sera guardate me e state tranquilli. Ora potete andare...”, e non ci fece suonare neppure una nota. Il concerto fu un trionfo.
Un altro direttore che mi è rimasto nel cuore per la grande musicalità e capacità è Hermann Scherchen. Sotto la sua guida ci si sentiva sempre sicuri, anche se suonare con lui non era sempre facile dal momento che era esigentissimo e molto autoritario. Molti anni fa dovevamo fare un concerto con il famoso violoncellista spagnolo Gaspar Cassadò. Ebbene, per una serie di disguidi il maestro non potè arrivare che pochi minuti prima dell’inizio del concerto. Scherchen provò alcuni passi difficili soltanto con l’orchestra e, ciononostante, fu una serata stupenda. Cassadò stesso disse che non era mai stato accompagnato con tanta bravura e musicalità”.
Aggiunge Aleardo Savelli, altro violista, spalla della Fenice dal 1963 e con esperienza analoga in altre orchestre tra cui la Suisse Romande, negli anni d’oro (1948-1953): "Antonio Guarnieri da noi ha lasciato una traccia profonda per il suo istinto musicale, la sua decisione, la sua chiarezza. Purtroppo di lui non abbiamo una discografia in grado di tramandarne le straordinarie qualità e quindi, scomparsi noi anziani, non resterà altro che un nome leggendario e molti aneddoti sul suo carattere caustico, graffiante, polemico, che lo rendeva particolarmente temibile”.
“A questo proposito ricordo un episodio avvenuto nel 1940, durante le prove del concerto per il centenario della morte di Paganini - ricorda ancora Michieli - In orchestra allora c’erano veramente i migliori archi italiani e l’aspettativa per la serata era grandissima. All'inizio delle prove, quando Guarnieri salì sul podio, ci furono da parte nostra grandi battimani e colpi d’arco sui leggii per festeggiarlo. Poi si fece un grande silenzio e il maestro ci scrutò a lungo; a un tratto disse: "Ecco, adesso vedremo se con tutti questi geni saremo capaci di andare insieme!".
"Al concerto, poi, svoltosi a Villa Torlonia alla presenza di Mussolini, del suo segretario particolare e di
alcuni gerarchi, il duce pronunciò una di quelle sue ridondanti frasi storiche: “Maestro, nel ringraziarla per questo meraviglioso concerto, le dico che con questa orchestra gireremo il mondo intero”. Era il 30 maggio 1940, a dieci giorni dalla dichiarazione di guerra. Guarnieri, senza quasi lasciarlo finire, con quel suo spiccatissimo accento veneziano, rispose: “Ecelensa, ne riparleremo quando sarà finita questa buriana!”.
Il primo nome che viene in mente a Fantini è quello di Victor De Sabata: “Ricordo ad esempio il Falstaff della mia prima stagione scaligera, nel 1941/42. Mi impressionò subito per quello straordinario dono di saperti convincere fino in fondo della sua interpretazione. Quello che faceva ti dava una sensazione di assoluta logica; era come se non si potesse fare diversamente e le sue idee interpretative ti conquistavano completamente, senza avere la minima possibilità di dimenticarle. Quello che ho suonato in seguito con altri pur grandissimi direttori, difficilmente mi ha dato le stesse emozioni e convinzioni musicali. Forse solo Arturo Toscanini o Bruno Walter, con quella sua straordinaria carica umana - era come un padre per tutti noi - mi hanno altrettanto commosso”. Aggiunge Burattin: “Walter aveva anche un modo di trattare con l’orchestra veramente da gran signore. Non si arrabbiava quasi mai, diceva solo in uno stentato italiano: “Fu bene... non fu bene... fu veramente troppo bene, rifacciamo (!)”.
Mario Ardito, spalla dei secondi violini, in orchestra al Comunale di Firenze dal 1939 non può dimenticare anche l'umanità di De Sabata: “al di là della soggezione, direi quasi del terrore che incuteva salendo sul podio, alto e leggermente claudicante, con occhi incredibilmente espressivi, era invece la persona più gentile di questo mondo, specialmente con noi giovani strumentisti alle prime esperienze importanti. Ricordo che con altri direttori ho vissuto momenti di vero e proprio panico. Per esempio, nel 1939 il primo concerto diretto a Firenze da Wilhelm Furtwängler. Io ero alla mia prima esperienza veramente impegnativa in orchestra e alla prima lettura, sconcertato da quel suo famoso gesto a serpentina quasi incomprensibile, praticamente non suonai neppure una nota”. Problemi di gesto c’erano con molti direttori di allora, come precisa Franco Cipolla altra spalla dei secondi violini nella stessa orchestra (vi suona da ventitre anni): “Otto Klemperer sembrava quasi non dirigere. Era semi-paralizzato e con quella sua grande mano gesticolava in qualche modo e la musica sembrava uscire dal nulla, con pochissima concertazione, quasi per magia”.
E qui si entra in quella dimensione del rapporto direttore-strumentista che possiamo tranquillamente considerare misteriosa; quel “fluido” che dalla bacchetta, anche se incomprensibile, colpisce il singolo strumentista. Alla base di tutto c'è ancora un rapporto umano che è capace di trasmetterti la carica maggiore; affronta l'argomento Michieli: “Il comportamento del direttore durante le prove è una delle componenti che i giovani devono assolutamente imparare perché ci si può trovare di fronte a personalità severe, decise, esigentissime ma che riescono ugualmente a trasmetterti tranquillità e sicurezza. Prima della guerra succedevano spesso episodi allucinanti. Oggi, al confronto, siamo in paradiso! Il rapporto è più umano, più da professionisti. Molti hanno capito che a volte serve più di uno sguardo di incoraggiamento, dopo un errore, che due occhi che lanciano strali, come avessero visto il diavolo, come faceva Celibidache. Lo strumentista serio infatti è già sufficientemente mortificato dell'errore commesso”.
Al nome del direttore rumeno intervengono due strumentisti dell’orchestra Rai di Torino, Guido Tonini Bossi (ottavino, in questa orchestra dal 1961) e Alessandro Lanzi percussionista (a Torino dal 1968), per testimoniare la singolare carica musicale e intellettuale di questo direttore che sfugge alle classificazioni. Come precisa Bossi: “Celibidache dice sempre che il concerto è sicuramente un momento molto bello, ma che è interessante soprattutto fare e creare musica fra noi musicisti, in prova, giorno per giorno. A volte si discutono persino alcune sue scelte interpretative perché, in un certo senso, lui si comporta come un provocatore, chiede cose che, in un primo momento sembrano impossibili da eseguire. Di qualsiasi cosa può parlare e spiegare a lungo”.
“Con lui si entra veramente nella musica e si ha la sensazione di fare qualcosa di importante”, aggiunge Lanzi che poi cede la parola al collega: “Celibidache sa far suonare bene anche orchestre non eccelse. Possiede una caratteristica abbastanza strana: conserva un certo distacco dal concerto, sembra quasi che patisca il contatto con il pubblico e infatti rende meno in concerto che durante le prove; ma il lavoro di preparazione è di solito tale da portare comunque l’orchestra a un grande livello esecutivo. Un altro direttore che mi ha molto colpito è Muti, per la personalità spiccatissima e la sicurezza estrema”- Sempre dai professori di Torino viene il ricordo di Igor Markevitch, “la quintessenza del direttore”, secondo Lanzi. Il flautista Bossi è d’accordo: “Aveva un rigore interpretativo incredibile. Se il primo giorno di prove staccava un certo tempo, durante il concerto, alla fine della settimana di prove, quel tempo era assolutamente identico, un certo rallentando assolutamente uguale e così via. Dal punto di vista dello strumentista questa estrema serietà interpretativa è importantissima. E l’eleganza del gesto, a cui teneva moltissimo, era sempre al servizio della musica. Ricordo che diceva spesso una cosa molto buffa: “Il direttore non deve sudare; quelli che sudano troppo mi insospettiscono”. (La frase in realtà si attribuisce a Richard Strauss, ma come per tutte le frasi celebri la paternità è sempre problematica).
Si inserisce Fantini con una riflessione molto realistica: “Parlando delle migliori bacchette noto con un po’ di paura un particolare. Anche quando ero giovane si lodavano i tempi passati. Mi accorgo che sto giungendo oggi alle stesse conclusioni. Senza togliere nulla ai grandi interpreti contemporanei, ho comunque la sensazione che i direttori del passato fossero, specialmente nell'opera lirica, più vicini alla ‘verità’ di quelli di oggi, forse per una maggior conoscenza del palcoscenico. Un uomo come Tullio Serafin, grande conoscitore del repertorio lirico e grande “preparatore”, che forse oggi darebbe la sensazione di avere un gesto un po’ duro, possedeva una tale musicalità da supplire ampiamente a questa carenza. E come lui ce n’erano molti!"
“Senza contare la sua grande partecipazione - ribadisce Franco Cipolla - ricordo che ogni volta, all'ultimo atto di Bohème, piangeva. Faceva un’enorme impressione vedere questo grande vecchio così commosso”. “Altri due nomi che ormai non si sentono più e che invece nella lirica hanno avuto, secondo me, una certa importanza sono quelli di Giuseppe Del Campo, grande conoscitore del repertorio lirico e di Antonino Votto, uomo di grande sapienza musicale e capace di creare un rapporto umano con gli strumentisti veramente eccezionale”.
La citazione è di Savelli che non dimentica il periodo d’orchestra alla Suisse Romande: “Con Ernest Ansermet ho avuto l'opportunità di ampliare il repertorio. Ricordo che ho dovuto studiare molto per mettermi alla pari con gli altri strumentisti della Suisse Romande, perché in Italia subito dopo la guerra, non si poteva avere un’attività continuativa e quindi un repertorio sufficientemente ampio per la mancanza di orchestre stabili. Ansermet lo ricordo come un uomo molto serio, un po’ freddo, con un gesto non eccessivamente morbido, sostenuto però da una conoscenza ed esperienza notevolissime”.
Fantini invece aggiunge ai ricordi quello di Guido Cantelli, un direttore che la maturità musicale l’aveva già a venticinque anni. E Ardito fa eco alle sue parole: “Ho suonato in diversi concerti sotto la sua direzione e, nonostante la giovane età, era davvero grandissimo: un uomo di grande fascino, una bacchetta chiarissima e sul podio otteneva tutto ciò che voleva”.
La parola passa ora a Franzetti che anagraficamente sta in posizione centrale, ma in quanto a esperienza e “incontri” professionali non ha nulla da invidiare ai colleghi più anziani. Entrato alla Scala in piena era-Abbado cita tra i direttori “storici” per primo Karl Böhm: “dalla prima volta che suonai con lui, per dirla wagnerianamente, fu un vero idillio. Era un uomo esigente, nervoso, ma con quel tanto di austriaco, di caustico, direi di malizioso da conquistare chiunque. Era uno di quei musicisti che sanno quanto sia difficile fare musica, e quindi capiscono immediatamente se in una orchestra ci sono la sensibilità necessaria e l’intenzione di affrontare questa fatica. Se si accorgono che l'atteggiamento è negativo o c'è qualcuno che oppone resistenza, non capendo l’importanza della ricerca interpretativa, allora è la guerra. Mi hanno detto che Toscanini, nonostante il suo difficilissimo carattere, con l’orchestra poteva essere l'uomo più comprensivo del mondo; non solo non metteva in crisi ma aiutava lo strumentista a suonare: se a un certo punto, però, incontrava una resistenza o una opposizione da parte di chicchessia, lo schiacciava. Comunque in tutti i grandi direttori ho trovato un denominatore comune: una grande esigenza di perfezione, una tensione interiore che a volte raggiunge livelli parossistici. Hanno naturalmente peculiarità diverse: Claudio Abbado, impressiona per l’estrema razionalità e per il rigore interpretativo; Carlos Kleiber per la ipersensibilità e il perfezionismo esasperato ed è forse quello che meno di tutti si accontenta. Anche Georges Prétre è difficilmente contentabile, ma è umanamente più coriaceo di Kleiber che è più fragile, più facile a “rompersi”. Wolfgang Sawallisch invece è un uomo di grande civiltà musicale, di grande facilità, forse troppa, e questo a volte gli impedisce di approfondire fino in fondo il discorso interpretativo, anche se con lui si hanno sempre interpretazioni corrette, col “giusto profumo”. Di Böhm mi impressionava la concezione filosofica della musica, veramente cristallina. Si poteva non essere d’accordo con alcune sue interpretazioni, ma era comunque un arricchimento il lavorarci insieme”.
Tempi, modi e risultati di tale processo di persuasione collettiva nell'intimo delle prove, al momento della concertazione, saranno argomento della prossima riflessione a pi+ voci.
Adriano Maria Barbieri
("Musica Viva", n.9, Anno VIII, settembre 1984)

lunedì, febbraio 01, 2021

Non più "bruciata viva" la "Decima" di Mahler?

Alma Mahler Schindler (1879-1964)
Mahler: è ancora un "caso"?
Sulla Decima sinfonia di Mahler gli argomenti più consueti sono: 1° (immancabile quando si tratteggia la figura del musicista): superstizione di Mahler, che aveva creduto di ingannare il Fato o il Padre Eterno numerando una sinfonia in meno, così da aver superato il preteso mortifero numero nove (vedi Beethoven, Schubert, Bruckner); 2° discussione pro o contro la "ricostruzione" della Decima, con particolare riferimento alla versione Cooke; 3° l’"adagio" inteso come unica parte autentica ed effettiva della Decima, e come tale eseguibile.
Il caso della Decima sinfonia si aggiunge dunque a quello che ormai non dovrebbe più essere il "caso Mahler", ma che di fatto continua a esserlo, almeno in residuo, per gli eccessi di amore e di repulsione che si manifestano, e per i mezzi un po’ abnormi con i quali da noi si è diffusa più largamente la sua musica (film Morte a Venezia, con l’"Adagietto" della Quinta).; tutto ciò, dopo circa quarant’anni nei quali in Italia fu pressoché sconosciuto, mentre c’erano state all’inizio del secolo grandiose esecuzioni mahleriane in paesi del Nord.
Pur non essendo autore di monografie più o meno fondamentali su Mahler, ho sperimentato negli anni Quarantacinque-Cinquanta gli stridori (di molti) e gli entusiasmi (di pochi, allora) che salutarono l’arrivo della sua musica da noi.
"...uno strazio, il tuo Mahler!"; così protestava, incontrandomi in via Conservatorio una mattina del giugno 1949, una giovane musicofila che avevo indotto ad ascoltare, la sera prima alla Scala, un concerto sinfonico in cui Mario Rossi dirigeva la Quarta sinfonia di Mahler, solista il soprano Carlotta Ordassy; non era la prima esecuzione in città: la Quarta era già stata diretta qui da Nikisch nel 1914, ma dopo, tolto un secondo tempo della Seconda (Wendel, 1922) e l’Adagietto della Quinta diretto da Perlea ai "Pomeriggi", per trovare un Mahler sinfonico nei programmi di Milano occorreva arrivare appunto a quella Quarta che tanto era spiaciuta a quella persona, e non soltanto a lei. Ad apostrofi del genere, mi sarei abituato.
Mahler cominciava a venir conosciuto anche in Italia un po’ meno eccezionalmente (tra i primi a dirigerlo da noi in quel periodo ricordo, oltre a Rossi, Bernstein, Scherchen, Barbirolli, Mitropoulos). Ma trovava parecchia opposizione sia tra il pubblico sia tra i critici. In genere, i soli a sostenerlo erano gli affiliati alla scuola atonale-dodecafonia; allora era in piena efficienza l’ipotesi (da loro considerata come l’unica esistente) che faceva discendere, nel dopo-Wagner, Schoenberg e Berg da Mahler, con assoluta e nauseata esclusione per tipi come il "bavarese piattamente diatonico" Richard Strauss.
Che io considerassi, invece, grandi compositori sia Strauss sia Mahler, non era certo una anticipazione importante; però provava, in piccolo, che Mahler aveva peso e attrattiva non soltanto in, funzione della "Seconda Scuola di Vienna", dell’atonalità e della dodecafonia; perché, pur avendo avuto contatti diretti con quella corrente, e seguito un corso, non mi attraeva affatto. A parte le componenti espressioniste già presenti in Mahler (e anche in Strauss: vedi Salome e ancor più Elektra: ma allora, guai a dirlo) c’era e c’è ben altro a renderlo importante.
A parte il mio minimo caso, si osservava (e si osserva a volte ancora) che gli oppositori di Mahler fossero i medesimi che non gradiscono molto il finale della Nona sinfonia di Beethoven. Ed è giusta questa coincidenza, non già perché anche Mahler usa le voci in alcune sue sinfonie, ma perché da quel finale discende un basilare atteggiamento di Mahler, quello di far giocare il significato umano della musica "usata". I motivi che a molti parvero "banali", le caricature popolari e bandistiche, le reminiscenze e le citazioni vere o apparenti, tipiche in Mahler (per cui si parlò di "musica da direttore d’orchestra") sono figlie della marcetta con la quale Beethoven vuol evocare la gioia umana universale, popolare, ben riconoscibile nel suo ingenuo, usato aspetto.
Poi c’era la questione della lunghezza, e lì Mahler veniva associato a Bruckner, mentre ci sarebbero ben altri aspetti che legano i due musicisti; non per niente Mahler si considerava un po’ discepolo di Bruckner, e certi suoi spunti danzanti hanno quell’origine.
Oggi Mahler non è più da tempo un autore "da festival" nemmeno in Italia (c’è stata addirittura la popolarità da film, un po’ equivoca); e si può ragionarne e apprezzarlo senza appartenere a sètte o a scuole e senza esser giudicati bestie rare.
A parte le raccolte di Lieder con orchestra, in campo sinfonico ci sono le nove Sinfonie più una “Sinfonia di Lieder", Das Lied von der Erde, più la Decima incompiuta, o meglio soltanto abbozzata in tutta la sua lunghezza; si va dalla Quarta, con orchestra ricca ma non enorme, durata ragionevole, e con una voce solista, alla Ottava con grandissima orchestra, doppio grande coro e coro infantile, voci soliste, organo, il tutto ampliato alla "prima" di Monaco nel 1910, Mahler che sale un podio-torre, con davanti mille esecutori e dietro le spalle tremila ascoltatori, (fra cui Thomas Mann, Richard Strauss, Alfredo Casella, Stefan Zweig) e di lassù da l'attacco; la il gigantismo sonoro di per se stesso diventa un effetto e un contenuto, e scatena fisiologicamente analogo gigantismo di applausi (mezz’ora, pare).
Certo Mahler può sconcertare. Tanto più se, avendo letto da un lato che Mahler sarebbe, più o meno, uno che copia Wagner, e dall’altro che sarebbe il generatore dell’atonalismo viennese, ci si trova nell’orecchio tutt’altra musica, con ritmi e cadenze apparentemente vecchiotti e bonari, quasi in caricatura, con intense oasi liriche rotte da impennate inattese.
Mettersi in sintonia con la musica di Maher senza intermediazioni letterarie e critiche potrebbe sembrare impossibile, sapendo quali siano i suoi ingredienti. C’è il clima circostante nella Vienna a cavallo tra i due secoli, un clima inevitabilmente postwagneriano (in effetti, Mahler protesse Schoenberg, pur non approvandolo).
Ci sono le intenzioni filosofanti di Mahler, il suo voler trasmettere messaggi (lo ha imparato da Beethoven); Mahler si sente impegnato dal dolore cosmico, il famoso "Weltschmerz", il dolore del mondo (anche se sua moglie Alma motteggiava: "Altro è parlare del dolore, altro è provarlo veramente") ma intuiva anche, fuori dalla retorica ottocentesca, il ghignante contrasto che attanaglia ogni vita.
Grandissimo direttore d’orchestra, aveva sentito la musica caricarsi via via di un singolare fardello man mano che veniva eseguita e soprattutto ascoltata, e assimilata, dalle persone umane. Di più, era uomo di teatro (quasi contemporaneamente a Toscanini, aveva concepito lo spettacolo d’opera come un tutto unico centrato sull’alta qualità della lettura musicale, e aveva cominciato a realizzarlo come direttore dell’Opera di Vienna).
Istraelita boemo trapiantato a Vienna, portava in sé mille echi poetici e musicali dell’Impero, popolari, militari, classici. Gli squilli di caserma, le canzoni di strada, le bande di paese ai funerali, i balli in piazza; Mozart sinfonico e teatrale, Beethoven (sinfonie e Fidelio), Wagner, Bruckner (anche lui, a modo suo, "cosmico" e anche lui talvolta "popolare»; Schubert, il sapiente ingenuo, e il Lied; Goethe, Klopstock, Rückert, ma anche Des Knaben Wunderhorn (il corno prodigioso del fanciullo), la raccolta di poesie e canti popolari fatta da Achim von Arnim e da Clemens Brentano ai primi dell’Ottocento, dove si mescolano, surrealmente come fa il popolo, epopee e fatti quotidiani, echi medievali, strazi delle guerre dei trent’anni ingenue visioni del Paradiso e motteggi da forca, trasfigurazioni e maledizioni.
In una sensibilità acutissima e nevrastenica come quella di Mahler tutto questo provoca l’esaltazione verso l’Ineffabile romantico come l’autosarcasmo (chi è, se non lui stesso, il morto accompagnato dalle sue tipiche, spesso caricaturalmente bandistiche marce funebri?); il senso della musica più o meno popolare, più umana perché "usata" e riconoscibile, incrementa così un "teatro di musiche" altrui e talvolta proprie (la caccia alle autocitazioni in Mahler ha raggiunto, presso certi critici, il trovare anche quelle che non ci sono, magari non ravvisando quelle che invece ci sono: quanto alle citazioni da altri, il caso più buffo è nel Mahler di Ugo Duse, dove si legge che il "solo" di cornetta da posta della Terza si concluderebbe con lo stesso segnale militare austriaco usato da Beethoven per i celebri squilli del Fidelio e nella ouverture Leonore n° 3, che invece sono del tutto differenti; mentre poi quasi nessuno nota che l’adagio della Quarta nasce dalle due prime battute del "quartetto" del Fidelio).
E poi c’è il Lied. Mahler è prima di tutto un compositore di Lied, uno dei maggiori tra i più tardi (anche gli antimahleriani, in genere rispettano e a volte ammirano la sua musica vocale); e il Lied è buon socio della poesia di alti ideali sia di quella a sfondo popolare. Il Lied con orchestra. Mahler, eccezionale conoscitore della tavolozza orchestrale, si crea una scrittura diversa da quella wagneriana e da quella del collega Richard Strauss; una scrittura che adopera spesso la grandissima orchestra come un complesso da camera, con trasparenze, con colori inconsueti (con certi timbri abbrividenti Mahler precorre effettivamente l’espressionismo), tratti personali (certi "portamenti" degli archi, quasi carezzanti o avvolgenti; e il quanto mai tipico colpo d’arco su più corde, quasi un "gesto" che sottolinea lo slancio della melodia, a volte su intervallo dissonante; i bassi dell’arpa scoperti; i corni lanciati in arabeschi un po’ ebbri); ottimo ambiente sonoro per i bizzarri Wunderhornlieder e per i colpi di scena, a volte ironici. E dal Lied solistico, al coro: nei grandiosi finali della Seconda e dell’Ottava, o nell’evocazione infantile della Terza. Il tutto, tendendo a far cantare più melodie una sull’altra. Parrebbe, dicevo, che occorra saper tutto questo per cavar dalla musica di Mahler quello che l’autore ci ha voluto mettere.
Invece no, non occorre. I salti di umore, i contrasti di carattere (dal lirico allo scanzonato, dal bonario all’ascensione, dal distillato alla citazione quasi volgare) parlano anche da soli; un sapore emotivo e psicologico, la musica lo ha sempre spontaneamente; e nessuno è nato abbastanza ieri da non riconoscere il fare popolareggiante e quello classico, magari fusi insieme.
Questo gioco, questo "teatro di musiche" Mahler lo trasmette anche senza saperne niente. E ci sono poi gli spunti che hanno una semplice e diretta espressività. Se poi, invece, se ne sa di più, al gioco si aggiungono altri elementi; ma il percorso può riuscire chiaro a tutti. Purché non abbiano avversioni spontanee a questo modo di far vivere la musica.

La Decima: dagli abbozzi alle polemiche...
Nell’estate del 1910, a Toblach (diventata poi Dobbiaco), Mahler cominciò a comporre la sua Decima. Dentro di sé, era convinto di aver gia terminato un lavoro catalogato con questo numero: dopo l’Ottava aveva composto quella che per lui era la Nona ma, essendo una sinfonia di Lieder, aveva potuto intitolarla invece Das Lied von der Erde (Il canto della Terra); secondo lui l’Ente Supremo, che aveva fatto morire Beethoven dopo la Nona a Decima appena abbozzata, Schubert pure dopo la Nona (sebbene in realtà ne avesse composte un paio di più, perdute o non finite) e idem anche Bruckner (anche lui, però con due senza numero) sarebbe rimasto giocato; e lui, Mahler, non sarebbe morto dopo la Nona effettiva, perché poi avrebbe numerato col nove un successivo lavoro, e via di seguito. Uomini di alta intelligenza e di vasta cultura come era anche Mahler, ma con nervi piuttosto labili, sono capaci di simili ingenuità. Erano contraddittori anche i rapporti con Alma, la moglie amatissima dalla personalita non proprio umile (non per niente collezionò, come mariti, Mahler, Franz Werfel, Walter Gropius e amò Kokoschka a non dire della sua amicizia con Klimt).
Mahler era andato a consultare Freud, che ne disse poi: "...sua moglie si era ribellata perché lui le ricusava la sua libido; ...in appassionanti escursioni nella sua vita passata, abbiamo chiarito la sua personale attitudine di fronte all’amore, e soprattutto il suo complesso della Sancta Maria (fissazione Materna)..." Mahler dichiarava al Alma: "Freud ha ragione: tu fosti sempre per me la luce e il centro di tutto!"; e non bastandogli di lodare come capolavori i Lieder che Alma aveva composti tanto tempo prima, costellò alcuni degli abbozzi con invocazioni ardenti, rese un po’ caotiche dallo slancio e dall'emozione; inoltre Mahler le dedicò l’Ottava (non dimentichiamo che, nel suo gigantismo, questa sinfonia musica due espressioni di amore universale, il Veni Creator Spiritus e il finale del secondo Faust di Goethe con l’invocazione all’Ewigweibliche (Eterno Femminino). Il progetto della Decima prevedeva cinque tempi; questo risultava anche dall’elenco di frammenti che Alma Mahler rese noto nel 1924: erano indicati un "Terzo tempo (Purgatorio)", "Quarto tempo" e un "Quinto tempo", finale. Su questi frammenti, si leggevano invocazioni e allusioni. Precisamente queste:

- nel 3° tempo "Purgatorio"Tod! Verk
(Morte! Trasf [ igurazione?]) PIETA’
O Dio O Dio, perché mi hai abbandonato?
- nel 4° tempo: Il diavolo lo balla con me
Follìa, afferrami, sono maledetto!
Distruggimi, ch ’io dimentichi che sono!
che finisca di essere, che io ... 
(al termine) dopo l’indicazione
"vollstandige gedampfte Trommel!" (tamburo completamente coperto):
Du allein versst/ was es benedeutet
(tu soltanto capisci che cosa questo significhi)
e più volte: Ach! Ach! (Ah! Ah!)
Got! Leb’ wol (Dio! Addio)
Leb’ wol, mein Saitenspiel!

(nell’empito ultrapalpitante, ortografia e nessi sono perlomeno strani: c’è perfino un Ach wol, che mescola due invocazioni, l’Ah! e metà dell’Addio). Quanto alla frase più lunga, letteralmente significa "Addio, mie corde" riferito alle corde degli strumenti ad arco; ma, come altrove, c’è una eco letteraria, che ha permesso di tradurre, riferendosi a una lettera di Mahler ma anche a un verso di Goethe, "mia canto, mia lira" ed altro ancora.
Forse è meglio non dimenticare la parte accesa e vibrante che Mahler dà agli archi della sua orchestra, e non fantasticare troppo, poiché Mahler era anche letterato e pensatore, ma prima di tutto musicista e dominatore dell’orchestra.

- nel 5° tempo (finale) "Vivere per te! Morire per te! Almschi! (Ho riprodotto nell’originale tedesco - viennese soltanto le espressioni più caratteristiche; quelle in italiano sono tradotte).
Che cosa mai soltanto Alma, anzi "Almschi", potesse capire, nella chiusa del quarto tempo, a proposito del tamburo coperto, è presto detto: durante uno dei soggiorni direttoriali a New York, da una finestra all’undicesimo piano dell’Hotel Majestic, vicino al Central Park, Mahler e Alma avevano assistito al solenne funerale di un pompiere morto in servizio durante un incendio; e l’unico suono che arrivasse fino a loro lassù era stato un colpo pesante e soffocato, uno solo, di un grande tamburo militare, coperto in segno di lutto, quale conclusione rituale al discorso del comandante, prima che il corteo si muovesse. Quel colpo era rimasto confitto nella memoria di Mahler, fra i tanti spunti funebri che la abitavano e che gli dettarono pagine ben note; qui, l’abbozzo suggeriva una chiusa per sola percussione o quasi, terminato da quel colpo.
Nel maggio 1911, Mahler ritorno in Europa dalle ultime esperienze direttoriali americane in gravi condizioni; il 18, moriva a Vienna, salutando, fusi insieme in un bizzarro vezzeggiativo austriaco, Alma e un grande musicista amatissimo; cos': "Mozartl"...
Della Decima, incompiuta malgrado i trucchi scaramantici, apparve compiuto in partitura soltanto un vasto Adagio, sia pure ancora in brutta copia. Gli altri tempi erano abbozzati; alcune pagine erano abbastanza completate nell’orchestrazione, molte altre erano appuntate da cima a fondo in una partitura schematica di tre, quattro cinque pentagrammi, a volte di uno solo.
L’anno dopo la morte di Mahler, vennero pubblicate postume le partiture di Das Lied von der Erde e della Nona; Bruno Walter ne diresse le prime esecuzioni.
Quanto alla Decima, cominciò un confuso incrociarsi di opinioni, che sarebbe durato a lungo.
Pare che Mahler, ammalatosi, avesse pregato dapprima la moglie di bruciare gli abbozzi della Decima se fosse morto senza rifinirli; ma in seguito le avrebbe raccomandato, invece, di disporne con molta discrezione.
Paul Stefan, commentando la Decima nella ristampa del suo saggio su Mahler, nel 1912 opinava che forse nessuno avrebbe mai potuto vedere da vicino la partitura incompiuta e le sue misteriose invocazioni.
Schoenberg, non si capisce bene se ingenuamente (ma era il tipo?) o non meno morbosamente di Mahler, dichiarava che il numero nove non andava superato (dimenticando, osserva Deryck Cooke in una nota alla sua edizione della Decima, che Haydn aveva messo in carta almeno 104 sinfonie, Mozart almeno 41, e così via). Questo di Schoenberg pareva un veto; e alimentò il parere che voleva si considerasse come bruciato il manoscritto della Decima; in realtà, "Bruciato vivo" avverte Cooke nell’apparato alla sua edizione. Ci furono altre opinioni autorevoli per il nome di chi le manifestava, contrarie a qualsiasi esecuzione anche del solo Adagio (Bruno Walter) o anche a qualsiasi tentativo di ricostruire la Sinfonia stendendo in partitura quello che era appena riassunto e accennato nella "Particell" buttata in carta da Mahler, e collegandolo con le parti completate.
A questi nomi si appoggiano coloro che oggi non approvano la "versione per esecuzione" di Deryck Cooke. Chi invece è d’accordo, ha a sua disposizione un fatto singolare: Richard Specht, musicologo insigne, nel 1913 aveva dichiarato che una qualunque "operazione Decima" non si dovesse né si potesse tentare; ma nel 1925 sconfessò esplicitamente la sua vecchia opinione. Anzi, si vuole che il suo parere in evoluzione non sia stato estraneo ad una inattesa sortita della vedova Mahler, che nel 1924 permise di pubblicare il famoso manoscritto dall’editore Zsolnay, in fac-simile fotostatico. Poteva sembrare poco più di una curiosità museale e come tale piuttosto inerte; ma non fu così. Difatti, il giovane compositore Ernst Krenek venne incaricato di curare una revisione dell’Adagio e del Purgatorio; nacque così un edizione Krenek-Berg-Zemlinsky dei due brani, tale da permettere a Franz Schalk (pure non estraneo alla revisione) di dirigerli a Vienna il 14 ottobre 1924; poco dopo Zemlinsky faceva altrettanto a Praga. Il risultato, però, se appariva pratico e abbastanza soddisfacente, non aveva metodo filologico; infatti non era possibile individuare e quindi valutare le correzioni fatte da Berg e dagli altri. D’altra parte, seguì un periodo in cui nuovi pareri contrari a decriptare la Decima giunsero da fonti non certo trascurabili; basterebbero quello di Dmitri Sciostakovic nel 1942 ("...per me, sarebbe impossibile"). Per lui. Ma intanto studiosi di vari paesi si applicavano all’edizione fotostatica degli abbozzi, per trarne una partitura adatta ad essere eseguita : probabilmente, l’uno all’insaputa dell’altro; l’inglese Joe Wheeler, il tedesco Hans Wollschlaeger, l’americano Clinton Carpenter; e infine un altro inglese, Deryck Cooke.
Non possiamo paragonare il lavoro di ciascuno; attualmente, quello che ha potuto raggiungere la via di una certa diffusione è quello di Cooke, grazie al metodo, al risultato e fors’anche grazie ad alcune circostanze d’origine più fortunate. Ma nemmeno Coo
ke ebbe subito strada libera.
Nel 1960 avrebbe dovuto soltanto preparare un volumetto-guida alla esecuzione delle Sinfonie di Mahler prevista dalla BBC per il centenario. Finì per esaminare sempre più a fondo non soltanto i due tempi eseguibili ed eseguiti della Decima, ma soprattutto la famosa edizione in facsimile; cominciò col copiarla (era questa la prima fase di studio degli antichi allievi, ancora all’epoca del giovane Wagner); dapprima doveva servirgli per delle conferenze con esempi musicali; finì per nascerne una vera esecuzione radiotrasmessa, con adatti commenti, non solo dell’Adagio e del Purgatorio, ma anche del finale, che era tutto abbozzato in "Particell" e che si prestava ad essere scritto per disteso; inoltre venivano aggiunti frammenti dei due "scherzi"; era il 19 dicembre 1960. I commenti critici alla trasmissione, lodando il finale completo e biasimando gli "scherzi" incompleti, fecero capire a Cooke che era il caso di procedere a una versione compiuta di tutta la Decima. Tantopiu che il suo concetto non era quello di un "completamento" o di una "ricostruzione", ma quello di "versione per esecuzione degli abbozzi" esistenti da cima a fondo, pur tenendo presente che Mahler avrebbe potuto modificarli.
Ma qui intervenne Alma Mahler; e proibì che la trasmissione venisse nuovamente diffusa, e che si facessero nuove esecuzioni dei "risultati Cooke", con l’effetto di riaprire la questione, in un’epoca che però stava mutando mentalità estetica rispetto ai rigorismi idealisti di quarant’anni prima. Favorevole al lavoro di Cooke e al suo completamento era, tra gli altri, la figlia di Mahler, Anna "Gucki" (poi moglie del direttore Anatol Fistoulari e stabilita a Spoleto, scultrice); grazie a lei e agli argomenti del direttore Harold Byrns, l’8 maggio 1963 Alma Mahler Gropius Werfel nata Schindler scrisse a Cooke, ritirando il divieto. (Alma morì nel 1964).

...e va Versione Cooke.
Nei mesi successivi Cooke poté disporre anche di alcuni altri frammenti di abbozzo fin allora inediti, non compresi dunque nella edizione in fac-simile del 1924; fu ancora la figlia Anna a rivelarli assieme a Henry-Louis de La Grange che ne è proprietario; questi altri frammenti confermavano ciò che Cooke aveva dedotto dalla "Particell" autografa. Le sue fonti erano dunque:
- la minuta di partitura di Mahler (dove esiste)
- Le "Particellen" (di due tipi)
- i fogli di abbozzi isolati
- due edizioni in fac-simile (Ricke e Zsolnay).
Il collaboratore di Cooke, Goldschmith, Byrns e, infine Ormandy, presentarono la partitura ottenuta da Cooke; specialmente importante fu la prima esecuzione americana, diretta da Eugène Ormandy con la Philadelphia Symphony il 5 novembre 1965.
Soltanto nel 1975 questa partitura Mahler-Cooke, la "versione per esecuzione degli abbozzi della Decima sinfonia", impropriamente detta (secondo Cooke) "ricostruzione" è stata pubblicata dalla Associated Music Publishers Inc. di New York e da Faber Music Ltd di Londra; è munita di una introduzione che rifà la storia della Decima e un vasto e minuziosissimo apparato critico che intende dar conto di ogni particolare, di ogni differenza, di ogni dubbio, di ogni decisione.
Al piede delle pagine di partitura piena è riprodotta la "Particell"; i frammenti apparentemente mancanti sono desunti da passi analoghi esistenti. C’è anche una descrizione degli abbozzi, della minuta di partitura, delle "Particellen" e di quant'altro. Cooke e i suoi collaboratori Bertold Goldschmidt, Colin e David Matthews non sembrano voler menzionare affatto le annotazioni invocanti e le allusioni autobiografiche vergate da Mahler; questo sembra avvalorare quanto ho osservato nel breve appunto generale su Mahler, ossia che pur essendo intrisa di autobiografia la musica di Mahler agisce dentro i poteri emotivi della musica, per cui non è necessario conoscerne i retroscena per riceverne il messaggio; ripeto, si può percepire questo "teatro di musiche anche senza saperne niente.
Nell'apparato critico, Cooke spiega anche perché non abbia considerato del tutto compiuta la trascrizione dell’Adagio edita nel 1964 da Universal a Vienna per la Gustav Mahler Internationaler Gesellschaft (edizione critica di Erwin Ratz), e perché ritenga che l’organico orchestrale debba avere i fiati "a quattro" e non "a tre".
Rimane da accennare agli argomenti pro e contro questa "versione" Cooke.
Contro: si tratterebbe di un arbitrio; per esempio Ratz: "...ciò che è scritto su questi fogli era comprensibile solo per Mahler, e neppure un genio avrebbe potuto indovinare, da questo stadio, qualcosa che potesse avvicinarsi alla stesura definitiva". O Pugliese (nel suo Mahler: "il mio tempo verrà": "gli altri movimenti di questa falsa ricostruzione poco o nulla hanno a che vedere con Mahler".
Ma non a tutti l’udito interno e l’orecchio musicale dicono le stesse cose; molti altri sono esattamente del parere opposto, a cominciare (naturalmente) da Eugene Ormandy, che ricordo di aver ascoltato (per la cronaca, a Milano nella hall dell'ahimé scomparso Hotel Continental di via Manzoni) perorare la validità della versione Cooke.
Il rigore di chi non approva sembra avere sapore alquanto crociano; penso al Croce quando, affermava che l’opera d’arte non può essere cercata nei suoi antecedenti, perché là non esiste; e che se si risolve nelle sue fonti, non è opera d’arte; però nell’estetica crociana la musica sta troppo stretta, o non ci sta, addirittura.
Ogni scrittura musicale è sempre stenografica in qualche misura; e in fondo la "Particell" è soltanto una stesura molto più stenografica della pagina piena, e molto leggibile da chi "sappia", così come le partiture - trama dell’epoca barocca erano leggibilissime allora. da chi "sapeva" (e smisero di esserlo quando "non si seppe più", per ritornare leggibili oggi). Né Mahler sembra davvero l'autore più adatto ad esercitare purismi, lui che, immerso nel flusso del tempo, sentiva di dover ritoccare le partiture del passato per adeguarne i mezzi al pubblico mutato, così che non ne cambiasse il messaggio; lui che aveva tolto e rimesso infinite volte il tempo Blumine nella Prima.
Uno sguardo alla partitura.
Nel manoscritto di Mahler ci sono indicazioni contraddittorie circa l’ordine dei tempi; tuttavia è sembrato più attendibile quello che si dà qui.
Si inizia dunque con il già noto e abbastanza spesso eseguito Adagio (sia pure in una veste orchestrale leggermente diversa): gli elementi principali sono il tema-recitativo delle viole sole (che lo apre), il motivo cantabile degli archi (con intensi controcanti dei corni) il dissonantissimo accordo "fortissimo" sopra un la tenuto e dolorosamente gridato della prima tromba, accordo non lontano dal famoso "totale cromatico" ma che, alludendovi senza realizzarlo, ha forse più forza dirompente. Il contrappuntare di melodie che si spingono al sopracuto, scambiandosi continuamente tra violini primi e secondi e dissonando nell’incrocio, è tipicamente mahleriano, come il senso di variazione infinita (di origine beethoveniana).
Il primo "scherzo": ha una ritmica molto mobile e asimmetrica, che sembra poggiare, più che su moduli di battute, su quella che poi le avanguardie anni 50 chiameranno "unità di croma"; la sua ironia sfuggente è interrotta da un "laendler" aggraziato che fa da "trio", e che si apparenta al motivo dell’"adagio"; la parte conclusiva si fa chiassosa e rude.
Il terzo tempo: "Purgatorio"; (o "Inferno") ci scrisse sopra Mahler; il riferimento a Dante parrebbe chiaro; ma accostato al carattere del breve brano, sembra voler adombrare anche qui ironiche nostalgie; un improvviso "fortissimo" con un brusco saliscendi dell’arpa e un colpo di tam-tam sembrano distruggere ogni illusione.
Il quarto tempo, "Scherzo II"; nasce come un insistente valzer, piuttosto caricaturale (qui Mahler scrisse "Il diavolo lo balla con me"), che sembra anche richiamare, con
scarsa reverenza, il ritmo del primo movimento della Terza di Brahms; l'orchestrazione si fa spesso aspra; sempre più fantomatico, il tempo termina in un episodio di sola percussione con appena qualche nota di clarinetto basso e archi "col legno", fino a un cupo colpo di grantamburo militare coperto (quello udito da Mahler al funerale del pompiere di New York).
Il quinto tempo, "finale": inizia ripetendo il colpo di tamburo coperto, cui ne seguono altri, come se l’immagine (non importa quale, certo non lieta), germogliasse via via se stessa; tra un colpo e l’altro, non meno spettrale, una lenta scala ascendente del bassotuba solo; si alternano poi richiami lirici a elementi già uditi (altro esempio della reminiscenza mahleriana); ritorna anche il grande accordo dissonante del primo tempo; infine si snoda una melodia dalla dolcezza a volte eccessiva fino a sfiorare la banalità sentimentale, con passaggi in una formula tipica di Mahler (tre note ascendenti di grado più una con salto pure ascendente); archi e corni soprattutto sembrano collocarsi nei loro registri più fisiologicamente emotivi; il tessuto si rarefà, restano soli ad alternarsi, in un minuscolo frammento, flauti, clarinetti, violini, corni con sordina; poi un gran crescendo, col tipico "portamento" ascendente mahleriano degli archi in un estremo slancio ("Vivere per te, Almschi, morire per te"), e un ultimo congedo dei corni "pianissimo", conclude la sinfonia. Nella Decima ascoltata così sembrano riassumersi gli atteggiamenti più tipici del musicista, addensando la dissonanza e spingendo più a fondo il desiderio di allargare lo spazio tonale. Sempreché tutto questo non sia illusione di Cooke e di chi ne commenta il lavoro.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXV n.2-3, settembre/dicembre 1982)