"Noi possiamo essere, di volta in volta, degli Stradivari o dei violini di plastica, a seconda delle capacità di chi ci concerta”. La battuta del violinista Franco Cipolla introduce la seconda parte del discorso a più voci relativo al rapporto tra direttore e professori d’orchestra. Dopo la carrellata di ricordi, le testimonianze degli strumentisti si precisano sui momenti del "lavoro” che porta a un’esecuzione musicale con orchestra: si guarda al "mestiere” di direttore con rispetto ma senza soggezioni, se ne giudicano gli atteggiamenti, la preparazione, la capacità di realizzare nella fase di concertazione quello stadio di reciproca collaborazione che sfocerà in una buona o cattiva esecuzione, in un fatto musicale tecnicamente apprezzabile, a volte addirittura poetico.
La costruzione di tale avvenimento musicale passa attraverso numerose gradazioni, è condizionata da fatti diversi: il professore d’orchestra “rende” in relazione all'autorità del direttore. alla sua umanità, alla chiarezza di idee, all'espressività del gesto o delle parole impiegate a spiegare la propria visione; e ancora l’esecuzione risente della buona volontà dell'orchestra, del suo livello artistico, della complessiva professionalità. Tutte componenti che tracciano il percorso parallelo, spesso specchiante, di due “mestieri” adiacenti. che vivono l'uno per l'altro.
E dalle discussioni emerge una figura utopica di direttore come lo vorrebbero i professori d’orchestra, ma si chiarisce anche la coscienza professionale di chi lavora con passione in orchestra e trova soddisfazioni importanti quando l’incontro musicale avviene sotto il segno dell'intelligenza, della comunicativa, della vicendevole voglia di trasmettere qualcosa.
La prima riflessione polifonica s'indirizza allo stato delle orchestre italiane, che come ricorda Aleardo Savelli vanno considerate in effetti professioniste dal Dopoguerra, quando sono divenute stabili. Allora si era in un tempo felice: “concorsi in cui violinisti come Ferraresi o Gulli partecipavano magari non arrivando nemmeno primi, vista l’enorme ricchezza di strumentisti. Oggi siamo in una situazione opposta. In più la crescente presenza di strumentisti stranieri nelle orchestre ha fatto scomparire quel ‘suono italiano’ che era un’invidiata caratteristica dei nostri complessi”. Ma il guaio vero delle orchestre è piuttosto l'individualismo e l'antica concezione del conservatorio che indirizza gli strumentisti verso la carriera solistica, invece di “insegnare di più a essere musicisti, senza falsi scopi”, come si augura Enrico Sciarra, violinista al Teatro Comunale di Firenze. Di certo il livello delle orchestre oggi è un po’ diminuito rispetto al passato malgrado “il miglioramento sostanziale dei fiati, specialmente i cosiddetti strumentini”, come annota Michieli, ma di fronte a un certo ridimensionamento della valutazione totale, lavorano in orchestre professionisti uno per uno più preparati. Secondo Alessandro Lanzi una volta c'erano in più “disciplina e spirito di corpo”, e azzarda un primo tratteggio del direttore dalla parte del leggio:“in molti strumentisti c'è il desiderio dell'autorità, del magnetismo, del direttore-padrone. Forse individualmente noi non lo vorremmo, ma spesso arrivano interpreti molto ben preparati che però non hanno la carica giusta, oggi si direbbe il carisma necessario, e così nasce la nostalgia per il
personaggio un po’ autoritario. Penso che noi strumentisti siamo in bilico tra il desiderio del direttore-padrone e il direttore cosiddetto democratico. Il problema comunque sta nel fatto che noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica qualche cosa di più di quello che già sappiamo”.
Ma c'è modo e modo per dire proprio questo. Una volta si parlava del direttore-padrone o dittatore. Nonostante questa figura bizzosa e antidemocratica si sia superata (e come vivrebbe oggi di fronte alle legittime difese dei professori, anche sotto forme corporative-sindacali) Franzetti dichiara di non avere fiducia completa in chi si mostra “troppo amico dell’orchestra. Noi cerchiamo sempre chi ha autorità; non quella di chi grida ma quella di chi conosce la musica e ha i mezzi, che gli vengono riconosciuti dall'orchestra, per farla capire; chi, insomma, ti convince. Questa specie di rivalità fra ‘comandante’ e ‘comandato’ per me deve esistere. Io posso avere le mie idee, però quando sono in orchestra il responsabile è il direttore e non mi posso permettere di fare cose personali perché ho un campo di azione limitato; mi può succedere di prendere delle iniziative con un cattivo direttore, ma generalmente possono solo aiutare l’interprete ad ottenere quello che desidera”.
Secondo il giovane Marco Iorino il rapporto umano sereno col direttore è molto importante: “mi troverei malissimo con un direttore che creasse un’atmosfera di gelo e di terrore, sia nelle prove che in concerto. Io desidero tensione nella musica e non nei rapporti, anche perché è già abbastanza difficile aderire a volte ad un’interpretazione con cui magari non si è pienamente d’accordo”.
“Devo dire”, soggiunge Savelli, “che una volta i comportamenti eccessivi erano, se non giustificabili, almeno comprensibili, viste le condizioni in cui si lavorava. I direttori avevano spesso di fronte orchestre composte anche da dilettanti o semi-professionisti. Accanto a noi, appena usciti dal conservatorio, c'erano persone che prendevano in mano lo strumento tre mesi l’anno. Importante è che il direttore, al di là dei metodi, abbia quell'autorità morale e intellettuale oltre che musicale di cui parlava Franzetti”. “Più un direttore è bravo e esigente, più il rapporto è facile”, rincara Fantini: “sono le ‘mezze calzette’ che possono mettere in crisi, anche umanamente”. Certo perché “sul piano umano è difficile farsi guidare da chi non si stima” conferma Franzetti, ma non transige sull'impegno professionale del professore d’orchestra anche di fronte a una bacchetta non eccellente: “nei casi di scarso impegno, anche se dovuto alla presenza di un direttore mediocre, io mi arrabbio ferocemente: non lo concepisco. La musica deve essere al di sopra di tutto, e le difficoltà vere giungono proprio quando un direttore o uno strumentista vanno contro questo principio".
Più conciliante ancora è Fantini che espone un’idea di collaborazione strumentista-direttore: “Certamente possono svolgersi prove disgraziate, disordinate, con l’orchestra indisciplinata, ma alla fine prevale sempre il desiderio di collaborare. Dirò di più: se per assurdo noi stessimo zitti, ogni volta che un mediocre direttore fa o dice una stupidaggine, invece di aiutarlo, come di solito facciamo, forse molti maestri non avrebbero più il coraggio di tornare a dirigerci”. In effetti, interviene Sciarra, “non c'è mai una volontà di boicottare, Solo talvolta c'è l'impossibilità di aiutare perché non riusciamo a comprendere ciò che l’interprete ci chiede”. Di opinione identica è il collega Mario Ardito: “un boicottaggio sarebbe veramente una cosa stupida. E' successo invece che l’orchestra si sia rifiutata di suonare. Alcuni anni fa stavamo provando una sinfonia di Beethoven. In prova il direttore ci fece leggere tutta la sinfonia, un tempo dopo l’altro, senza mai fermarsi a concertare. Alla fine dell’ultimo movimento, fra lo stupore generale, disse ‘Da capo’. Si sentì pronta la voce di un collega che chiese: "Ma perché?" E il direttore di rimando: ‘Perché è molto bella’. ‘Questo lo si sapeva anche noi!` Tutti si alzarono e se ne andarono". Queste manifestazioni eccessive, appartenenti di diritto all'anedottica, sono sempre più rare; la coscienza e l'amor proprio dello strumentista scelgono altre vie per farsi notare. La conformazione diversa delle orchestre e l'impostazione dei direttori definiscono modi diversi di lavorare. Ne parla Giulio Franzetti: “Forse le orchestre di ieri avevano più compattezza e questo derivava dai direttori. Si guardava all'essenza dell’interpretazione, all'impronta musicale; non c’era una costruzione tecnica esasperata, l’idea e la concezione erano più complete. Oggi, specialmente con giovani bacchette, alla terza battuta spesso si è già fermi e questo secondo me è un errore. Numerosi musicisti dimenticano che quando l'orchestra inizia le prove spesso non conosce la partitura o non ha avuto la possibilità di assimilarla come invece ha fatto, studiandola, il direttore. Il primo problema è quello di far conoscere la musica agli strumentisti, poi verrà la linea interpretativa; invece spesso si va subito nei dettagli senza che l'orchestra si sia resa conto se sta leggendo un romanzo, una poesia o un saggio. I bravi interpreti si fermano magari su un particolare e lo puliscono, ma facendolo nel punto giusto danno subito il senso dello stile del brano e la percezione del loro modo di vedere. E' come posare i pilastri di una costruzione, e questa dote credo che la posseggano in pochissimi”. Questo lavoro di architettura primario, come un po` tutto il lavoro esteriore del direttore (almeno visto da parte dell'ascoltatore) è affidato molto a questo mitico movimento delle braccia e del corpo, il ‘gesto’. Ma come lo concepiscono i musicisti cui soprattutto è diretto? “Direi che il gesto è la continuazione della musicalità” afferma Michieli, “Senza una vera possibilità di scissione. Ci sono comunque molti clamorosi casi di mancanza di un bel gesto e di grande capacità insieme; Furtwängler aveva un gesto quasi incomprensibile, ma possedeva un tale magnetismo da riuscire comunque ad ottenere un insieme orchestrale perfetto”.
“Il gesto è una convenzione, come le stanghette sul pentagramma: è necessario per avere dei punti di riferimento”, aggiunge Sciarra; ma precisa che la base rimane la musicalità, che “invece è un dono naturale”. Per Iorino il gesto ha un suo ambito d’azione insostituibile nell'esecuzione della musica contemporanea, ma è persuaso che gesto, musicalità e capacità in genere debbano essere al medesimo livello per funzionare.
Il discorso si fa spinoso. Quanto conta l'età nella personalità del direttore? I pareri qui sono molto discordi: è il solito Franzetti a esprimere la voce più equilibrata: “la maturazione umana di solito va di pari passo con la capacità, ma se un musicista possiede un vero talento può dimostrarlo anche se è molto giovane. Per il gesto e la musicalità credo che sia come per uno strumentista: c'è chi è naturalmente musicale e chi invece ha solo una grande capacità di coordinazione, ma con dei chiari limiti. E poi come si fa, nel caso di un direttore. a parlare solo di braccio? E l'espressività del viso? C'è qualche cosa che sfugge a una analisi. L'ideale dei risultati si ha quando c'è perfetto equilibrio fra ciò che si sente e la gestualità, anche se molti bravissimi direttori, anticipando molto il gesto rispetto alla musica, riescono a ottenere comunque risultati di livello superlativo”. Un’altra questione che viene a galla è quella del dirigere a memoria, un fatto che come ricorda Armando Burattin “può impressionare il pubblico, non gli strumentisti. Personalmente mi interessa il direttore che conosce e sa trasmettere lo spirito della musica: non importa se la partitura sta sul leggio o in testa. Guarnieri aveva quasi sempre la musica davanti, Toscanini - anche perché ci vedeva pochissimo - mai!” Interviene Sciarra: “se una persona ci tiene ad avere una completa libertà dal ‘pezzo di carta’, è giusto che lo faccia, ma non ha nessuna rilevanza. Quando in un direttore coesistono un gesto chiaro e una grande musicalità non ci sono mai problemi”. Fantini tiene a distinguere l'ambito del dirigere a memoria: “lo sforzo, specialmente nella lirica, deve essere enorme. Tuttavia può spesso togliere qualche momento di elasticità all'esecuzione. Del resto chi tiene davanti la partitura, la conosce comunque praticamente a memoria; la usa dunque solo per un’eventuale amnesia. Nel repertorio sinfonico forse è diverso: a me piace vedere un maestro che dirige a memoria, come se l'orchestra fosse un grande quartetto d’archi; nell'opera invece non mi pare che il gioco valga la candela”.
Passando dagli atteggiamenti esteriori al nocciolo della questione, cioè al lavoro di concertazione del direttore, le posizioni si precisano, a seconda della generazione d’appartenenza, delle esperienze personali. della frequentazione di determinati interpreti e repertori. Anche per questo ‘tema’ l'inizio un po’ scontato propone lo sguardo nostalgico all'indietro. con l'inevitabile confronto tra direttori di ieri e di oggi: ma la contrapposizione non è meccanica né maliziosa. Spesso diventa istruttiva ed eloquente. “Credo che i direttori di oggi tendano a essere più fedeli possibile a quanto scritto in partitura”. interviene Burattin proponendo una prima riflessione, meno scontata di quanto appaia a prima vista: “a volte sembrano più vicini al musicologo che all'interprete. I maestri di ieri erano più fedeli a certe regole che erano state loro tramandate; anche se alcune dinamiche erano scritte dal compositore, le variavano secondo tradizioni acquisite nel tempo, quasi ‘migliorando’ le intenzioni dell’autore; non bisogna dimenticare che molti direttori di allora avevano potuto ascoltare di persona le prime esecuzioni delle opere che poi avrebbero diretto per moltissimi anni; mentre oggi, a parte i dischi, non c'è che lo studio della partitura. C'era insomma un contatto diretto con il mondo dell’Ottocento e questo ha avuto certamente un peso determinante nella loro formazione”.
Un’altra distinzione veniva da ragioni propriamente tecniche. “Molti direttori del passato”, afferma Michieli, “erano facilitati dal fatto di essere anche degli strumentisti; gli eventuali problemi tecnici erano quindi presto risolti e restava ‘solo’ il problema interpretativo. Tanto Toscanini che Guarnieri erano violoncellisti, Serafin suonava la viola così come Giulini. Oggi questo succede molto meno spesso”.
Savelli fa una boutade provocatoria: “Forse una volta erano meno colti e piu istintivi!”; gli risponde indirettamente Lanzi citando l'esempio indiscutibile di Mario Rossi, musicista civilissimo, colto, cresciuto gradualmente nel lungo e stretto rapporto di collaborazione con l’Orchestra Rai di Torino. Si aggancia alla battuta Franzetti, ma per introdurre un pensiero più ‘storico’. In altre parole la ‘spal1a’ scaligera non nega che la vecchia generazione fosse per così dire più “dotata d’istinto” ma preferisce affrontare il problema da un’angolazione meno schematica e con esempi. Dice infatti: “personalmente ho avuto l’impressione che nei direttori del passato la tecnica, l’analisi della partitura, l'istinto, l'impeto, l'emozione fossero tutt'uno. Oggi c'è più frazionamento anche in una grande natura come Carlos Kleiber, il direttore che assomiglia di più a quelli di una volta. Nella concertazione spacca veramente il famoso capello in quattro. Mi ricordo che per Otello, la prima opera con cui ho incominciato la mia collaborazione con lui, siamo arrivati all'antigenerale senza che avesse fatto suonare all'orchestra più di cinque battute di seguito evitando di fermarla per concertare. In orchestra eravamo molto preoccupati, ma all'antigenerale e alla generale restammo sbalorditi dalla sua capacità di sintesi e lo scopo della concertazione apparve in tutta la sua chiarezza. Il bisogno di fermarsi e ottenere in quel preciso secondo ciò che vuole è irresistibile in lui; però quando si lascia andare è un musicista straordinario. Spesso mette sui leggii di noi strumentisti, prima o dopo la prova, dei messaggi per stimolarci a rispettare certe dinamiche o certi particolari che ha paura che noi possiamo dimenticare: anche in questo si vede una ricerca e un evolversi continuo. un lavoro pieno di dubbi ma sempre costruttivo. Claudio Abbado lo ritiene il più preparato fra i direttori di oggi, e Kleiber è anche quello che dirige meno partiture di tutti perchè vuole approfondirne continuamente la conoscenza, in maniera ossessiva. Un altro direttore che ha la saggezza tipica dei colleghi più anziani è Riccardo Muti. Ha istinto musicale, strategia di lavoro e di concertazione incredibili. Sa far lavorare e stancare ‘sanamente` l'orchestra, con lui non si suona mai ‘sui nervi’. Vive e lavora con l'orchestra, con capacità di comando; lo senti veramente come primus inter pares.
Abbado ha la stessa efficacia, ma ottiene ciò che vuole in un modo diverso. Fa lavorare l'orchestra più ripetitivamente, esige la lettera, è razionalissimo e sa risparmiarsi durante le prove, pero quando viene il momento dell’esecuzione si capisce perfettamente ciò che si è provato”.
Una sorta di sintesi la da anche Sciarra: “a differenza di oggi i direttori salivano sul podio dopo aver fatto una lunga gavetta e quindi possedendo una notevole esperienza umana: oggi chi non ha qualità straordinarie, di natura, non può vantare nemmeno quel bagaglio di esperienze acquisito durante la gavetta, lavorando come preparatore di palcoscenico o ‘sostituto’. Così capita spesso di trovare oggi maggiore divario tra i buoni direttori e ‘gli altri’: questi, mancando dell’esperienza quando non addirittura del talento, si riducono a solfeggiare con la bacchetta dal podio, senza la capacità di trasmettere agli strumentisti quello di cui hanno bisogno. Un’orchestra è fatta di diciottenni e di sessantenni: è necessario che il bravo direttore sappia dare qualcosa ad ognuno”.
Ancora una volta emerge il bisogno del “punto di riferimento” rappresentato dal personaggio che sta sul podio. In fondo la professione di orchestrale ha questo guaio: non esiste senza il direttore. Ma il rapporto è vicendevole. Anche se al direttore, nei casi buoni, vengono rivolte le maggiori attenzioni, mentre del lavoro prezioso del professore d’orchestra si sanno appena gli estremi. Come conclude amaramente Sciarra, ancora oggi molti chiedono a lui a ai colleghi: “ma voi, quando non c'è spettacolo in teatro, cosa fate? Quanti giorni la settimana lavorate?".
Adriano Maria Barbieri
("Musica Viva", n.10, Anno VIII, ottobre 1984)
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