Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, febbraio 10, 2021

Dalla parte del leggio (I)

Mitropoulos, De Sabata, Furtwängler, Guarnieri, Cantelli, Böhm, Klemperer e altri grandi direttori aneddoti e testimonianze dell'incontro professionale di alcuni strumentisti “prime parti” di orchestre italiane.

“E' un lavoro fortunato; si svolge in un bell'ambiente, con in mano un bell'oggetto, ma che ha una grande esigenza: lo studio”. “Penso che questa professione sia stupenda: posso dire di guadagnarmi da vivere con gioia, rallegrandomi lo spirito”. “Per me è il lavoro più bello del mondo!”. Franco Fantini violinista, Giulio Franzetti violinista, Armando Burattin violista: tutti professori d’orchestra alla Scala, tre “spalle”, con esperienza orchestrale in alcuni casi lunghissima. Fantini entra nelle file scaligere nel 1942; Burattin nel 1948 e il giovane Franzetti nel 1969.
I giudizi sul proprio lavoro sono entusiasti. Viene in mente l'appassionata difesa fatta da Carlo Maria Giulini che non perde occasione per ricordare gli anni passati in fila (nell'orchestra romana dell'Augusteo) e per celebrare come invidiabile la professione di orchestrale (termine oggi non gradito e
surrogato dal più istituzionalizzato “professore d’orchestra”, che fa il paio con “artista del coro”): i suoi concetti sono ripresi quasi letteralmente da Franco Cipolla (nei complessi del Teatro Comunale di Firenze dal 1961) che aggiunge “quando esco di casa al mattino penso che ho un appuntamento con un grande autore, suono uno strumento che ho scelto io e che quindi mi piace”.
Non è tutta rose la vita di uno strumentista, ma il musicista intelligente vi trova un appagamento professionale e spirituale non confrontabile con quello della maggior parte dei lavori in serie. E comunque il lavoro di chi suona in orchestra viene in primo piano di solito nei casi estremi, quando suonano particolarmente bene o apprezzabilmente male. Esiste invece tutta una gradazione qualitativa e professionale che dall'esterno spesso viene dimenticata; un concerto e un'opera possono avere un esito musicale che dipende da numerosi fattori, umani o tecnici. Il mistero del rapporto che lega un musicista dal podio con altri cento musicisti che hanno il compito di creare il suono e dare vita alle intenzioni del direttore e a quelle dell"autore, è tra quelli più affascinanti della vita musicale.
Un fascino che trova nell'esecuzione pubblica il momento più espresso ma che si crea durante le prove, nei minuti di rapporto diretto, professionale e umano. che si tende tra singolo musicista e direttore.
Nell'intento di testimoniare proprio questa fase musicale circondata da segretezza e da scarsa conoscenza, abbiamo raccolto i pareri di alcune "prime parti" di orchestre italiane. Ne è uscito un racconto molto interessante, ricco di spunti da approfondire e di significative riflessioni: il professore d’orchestra ha del proprio lavoro un’idea precisa, molto meno corporativa di quel che lasciano immaginare alcune rivendicazioni (ricordate l'indennità frac?) un po’ folkloristiche e impietosamente amplificate dai mass media generici, e sa valutare benissimo l’importanza di un direttore in funzione del risultato tecnico, distinto da quello musicale più ampio.
La massa di informazioni raccolte ci consentono di dividere in due puntate il nostro giro d’orizzonte. In questa prima abbiamo voluto lasciare spazio soprattutto ai ricordi, agli aneddoti sui protagonisti del podio. Nella prossima le dichiarazioni dei professori d’orchestra contribuiranno a tracciare un profilo più specificatamente professionale del proprio lavoro, con naturali agganci a quello di direttore con un narcisistico specchiamento nella qualità e nei difetti di chi sta sul podio. Il nostro viaggio tra i direttori lo inizia Giovanni Michieli (violista nell'orchestra della Fenice di Venezia dal l922 al l966, dal 1932 spalla); è una rassegna di nomi, elencati senza ordine, come venivano, che parla da solo: "Mitropoulos, Guarnieri, Karajan, Knappertsbusch, Scherchen, De Sabata, Serafin, Votto, Sanzogno, Marinuzzi, Bernstein, Stravinsky, Richard Strauss, Mengelberg. E qui mi fermo.
Uno di quelli che mi ha più impressionato è stato Hans Knappertsbusch. Aveva il prezioso dono, comune fra i grandi direttori, di ottenere in pochissime prove ciò che altri non riuscivano neppure ad avvicinare, nonostante molti più giorni di lavoro. Una volta, alla prova generale di un concerto, si limitò a dirci: “Signori, questa sera guardate me e state tranquilli. Ora potete andare...”, e non ci fece suonare neppure una nota. Il concerto fu un trionfo.
Un altro direttore che mi è rimasto nel cuore per la grande musicalità e capacità è Hermann Scherchen. Sotto la sua guida ci si sentiva sempre sicuri, anche se suonare con lui non era sempre facile dal momento che era esigentissimo e molto autoritario. Molti anni fa dovevamo fare un concerto con il famoso violoncellista spagnolo Gaspar Cassadò. Ebbene, per una serie di disguidi il maestro non potè arrivare che pochi minuti prima dell’inizio del concerto. Scherchen provò alcuni passi difficili soltanto con l’orchestra e, ciononostante, fu una serata stupenda. Cassadò stesso disse che non era mai stato accompagnato con tanta bravura e musicalità”.
Aggiunge Aleardo Savelli, altro violista, spalla della Fenice dal 1963 e con esperienza analoga in altre orchestre tra cui la Suisse Romande, negli anni d’oro (1948-1953): "Antonio Guarnieri da noi ha lasciato una traccia profonda per il suo istinto musicale, la sua decisione, la sua chiarezza. Purtroppo di lui non abbiamo una discografia in grado di tramandarne le straordinarie qualità e quindi, scomparsi noi anziani, non resterà altro che un nome leggendario e molti aneddoti sul suo carattere caustico, graffiante, polemico, che lo rendeva particolarmente temibile”.
“A questo proposito ricordo un episodio avvenuto nel 1940, durante le prove del concerto per il centenario della morte di Paganini - ricorda ancora Michieli - In orchestra allora c’erano veramente i migliori archi italiani e l’aspettativa per la serata era grandissima. All'inizio delle prove, quando Guarnieri salì sul podio, ci furono da parte nostra grandi battimani e colpi d’arco sui leggii per festeggiarlo. Poi si fece un grande silenzio e il maestro ci scrutò a lungo; a un tratto disse: "Ecco, adesso vedremo se con tutti questi geni saremo capaci di andare insieme!".
"Al concerto, poi, svoltosi a Villa Torlonia alla presenza di Mussolini, del suo segretario particolare e di
alcuni gerarchi, il duce pronunciò una di quelle sue ridondanti frasi storiche: “Maestro, nel ringraziarla per questo meraviglioso concerto, le dico che con questa orchestra gireremo il mondo intero”. Era il 30 maggio 1940, a dieci giorni dalla dichiarazione di guerra. Guarnieri, senza quasi lasciarlo finire, con quel suo spiccatissimo accento veneziano, rispose: “Ecelensa, ne riparleremo quando sarà finita questa buriana!”.
Il primo nome che viene in mente a Fantini è quello di Victor De Sabata: “Ricordo ad esempio il Falstaff della mia prima stagione scaligera, nel 1941/42. Mi impressionò subito per quello straordinario dono di saperti convincere fino in fondo della sua interpretazione. Quello che faceva ti dava una sensazione di assoluta logica; era come se non si potesse fare diversamente e le sue idee interpretative ti conquistavano completamente, senza avere la minima possibilità di dimenticarle. Quello che ho suonato in seguito con altri pur grandissimi direttori, difficilmente mi ha dato le stesse emozioni e convinzioni musicali. Forse solo Arturo Toscanini o Bruno Walter, con quella sua straordinaria carica umana - era come un padre per tutti noi - mi hanno altrettanto commosso”. Aggiunge Burattin: “Walter aveva anche un modo di trattare con l’orchestra veramente da gran signore. Non si arrabbiava quasi mai, diceva solo in uno stentato italiano: “Fu bene... non fu bene... fu veramente troppo bene, rifacciamo (!)”.
Mario Ardito, spalla dei secondi violini, in orchestra al Comunale di Firenze dal 1939 non può dimenticare anche l'umanità di De Sabata: “al di là della soggezione, direi quasi del terrore che incuteva salendo sul podio, alto e leggermente claudicante, con occhi incredibilmente espressivi, era invece la persona più gentile di questo mondo, specialmente con noi giovani strumentisti alle prime esperienze importanti. Ricordo che con altri direttori ho vissuto momenti di vero e proprio panico. Per esempio, nel 1939 il primo concerto diretto a Firenze da Wilhelm Furtwängler. Io ero alla mia prima esperienza veramente impegnativa in orchestra e alla prima lettura, sconcertato da quel suo famoso gesto a serpentina quasi incomprensibile, praticamente non suonai neppure una nota”. Problemi di gesto c’erano con molti direttori di allora, come precisa Franco Cipolla altra spalla dei secondi violini nella stessa orchestra (vi suona da ventitre anni): “Otto Klemperer sembrava quasi non dirigere. Era semi-paralizzato e con quella sua grande mano gesticolava in qualche modo e la musica sembrava uscire dal nulla, con pochissima concertazione, quasi per magia”.
E qui si entra in quella dimensione del rapporto direttore-strumentista che possiamo tranquillamente considerare misteriosa; quel “fluido” che dalla bacchetta, anche se incomprensibile, colpisce il singolo strumentista. Alla base di tutto c'è ancora un rapporto umano che è capace di trasmetterti la carica maggiore; affronta l'argomento Michieli: “Il comportamento del direttore durante le prove è una delle componenti che i giovani devono assolutamente imparare perché ci si può trovare di fronte a personalità severe, decise, esigentissime ma che riescono ugualmente a trasmetterti tranquillità e sicurezza. Prima della guerra succedevano spesso episodi allucinanti. Oggi, al confronto, siamo in paradiso! Il rapporto è più umano, più da professionisti. Molti hanno capito che a volte serve più di uno sguardo di incoraggiamento, dopo un errore, che due occhi che lanciano strali, come avessero visto il diavolo, come faceva Celibidache. Lo strumentista serio infatti è già sufficientemente mortificato dell'errore commesso”.
Al nome del direttore rumeno intervengono due strumentisti dell’orchestra Rai di Torino, Guido Tonini Bossi (ottavino, in questa orchestra dal 1961) e Alessandro Lanzi percussionista (a Torino dal 1968), per testimoniare la singolare carica musicale e intellettuale di questo direttore che sfugge alle classificazioni. Come precisa Bossi: “Celibidache dice sempre che il concerto è sicuramente un momento molto bello, ma che è interessante soprattutto fare e creare musica fra noi musicisti, in prova, giorno per giorno. A volte si discutono persino alcune sue scelte interpretative perché, in un certo senso, lui si comporta come un provocatore, chiede cose che, in un primo momento sembrano impossibili da eseguire. Di qualsiasi cosa può parlare e spiegare a lungo”.
“Con lui si entra veramente nella musica e si ha la sensazione di fare qualcosa di importante”, aggiunge Lanzi che poi cede la parola al collega: “Celibidache sa far suonare bene anche orchestre non eccelse. Possiede una caratteristica abbastanza strana: conserva un certo distacco dal concerto, sembra quasi che patisca il contatto con il pubblico e infatti rende meno in concerto che durante le prove; ma il lavoro di preparazione è di solito tale da portare comunque l’orchestra a un grande livello esecutivo. Un altro direttore che mi ha molto colpito è Muti, per la personalità spiccatissima e la sicurezza estrema”- Sempre dai professori di Torino viene il ricordo di Igor Markevitch, “la quintessenza del direttore”, secondo Lanzi. Il flautista Bossi è d’accordo: “Aveva un rigore interpretativo incredibile. Se il primo giorno di prove staccava un certo tempo, durante il concerto, alla fine della settimana di prove, quel tempo era assolutamente identico, un certo rallentando assolutamente uguale e così via. Dal punto di vista dello strumentista questa estrema serietà interpretativa è importantissima. E l’eleganza del gesto, a cui teneva moltissimo, era sempre al servizio della musica. Ricordo che diceva spesso una cosa molto buffa: “Il direttore non deve sudare; quelli che sudano troppo mi insospettiscono”. (La frase in realtà si attribuisce a Richard Strauss, ma come per tutte le frasi celebri la paternità è sempre problematica).
Si inserisce Fantini con una riflessione molto realistica: “Parlando delle migliori bacchette noto con un po’ di paura un particolare. Anche quando ero giovane si lodavano i tempi passati. Mi accorgo che sto giungendo oggi alle stesse conclusioni. Senza togliere nulla ai grandi interpreti contemporanei, ho comunque la sensazione che i direttori del passato fossero, specialmente nell'opera lirica, più vicini alla ‘verità’ di quelli di oggi, forse per una maggior conoscenza del palcoscenico. Un uomo come Tullio Serafin, grande conoscitore del repertorio lirico e grande “preparatore”, che forse oggi darebbe la sensazione di avere un gesto un po’ duro, possedeva una tale musicalità da supplire ampiamente a questa carenza. E come lui ce n’erano molti!"
“Senza contare la sua grande partecipazione - ribadisce Franco Cipolla - ricordo che ogni volta, all'ultimo atto di Bohème, piangeva. Faceva un’enorme impressione vedere questo grande vecchio così commosso”. “Altri due nomi che ormai non si sentono più e che invece nella lirica hanno avuto, secondo me, una certa importanza sono quelli di Giuseppe Del Campo, grande conoscitore del repertorio lirico e di Antonino Votto, uomo di grande sapienza musicale e capace di creare un rapporto umano con gli strumentisti veramente eccezionale”.
La citazione è di Savelli che non dimentica il periodo d’orchestra alla Suisse Romande: “Con Ernest Ansermet ho avuto l'opportunità di ampliare il repertorio. Ricordo che ho dovuto studiare molto per mettermi alla pari con gli altri strumentisti della Suisse Romande, perché in Italia subito dopo la guerra, non si poteva avere un’attività continuativa e quindi un repertorio sufficientemente ampio per la mancanza di orchestre stabili. Ansermet lo ricordo come un uomo molto serio, un po’ freddo, con un gesto non eccessivamente morbido, sostenuto però da una conoscenza ed esperienza notevolissime”.
Fantini invece aggiunge ai ricordi quello di Guido Cantelli, un direttore che la maturità musicale l’aveva già a venticinque anni. E Ardito fa eco alle sue parole: “Ho suonato in diversi concerti sotto la sua direzione e, nonostante la giovane età, era davvero grandissimo: un uomo di grande fascino, una bacchetta chiarissima e sul podio otteneva tutto ciò che voleva”.
La parola passa ora a Franzetti che anagraficamente sta in posizione centrale, ma in quanto a esperienza e “incontri” professionali non ha nulla da invidiare ai colleghi più anziani. Entrato alla Scala in piena era-Abbado cita tra i direttori “storici” per primo Karl Böhm: “dalla prima volta che suonai con lui, per dirla wagnerianamente, fu un vero idillio. Era un uomo esigente, nervoso, ma con quel tanto di austriaco, di caustico, direi di malizioso da conquistare chiunque. Era uno di quei musicisti che sanno quanto sia difficile fare musica, e quindi capiscono immediatamente se in una orchestra ci sono la sensibilità necessaria e l’intenzione di affrontare questa fatica. Se si accorgono che l'atteggiamento è negativo o c'è qualcuno che oppone resistenza, non capendo l’importanza della ricerca interpretativa, allora è la guerra. Mi hanno detto che Toscanini, nonostante il suo difficilissimo carattere, con l’orchestra poteva essere l'uomo più comprensivo del mondo; non solo non metteva in crisi ma aiutava lo strumentista a suonare: se a un certo punto, però, incontrava una resistenza o una opposizione da parte di chicchessia, lo schiacciava. Comunque in tutti i grandi direttori ho trovato un denominatore comune: una grande esigenza di perfezione, una tensione interiore che a volte raggiunge livelli parossistici. Hanno naturalmente peculiarità diverse: Claudio Abbado, impressiona per l’estrema razionalità e per il rigore interpretativo; Carlos Kleiber per la ipersensibilità e il perfezionismo esasperato ed è forse quello che meno di tutti si accontenta. Anche Georges Prétre è difficilmente contentabile, ma è umanamente più coriaceo di Kleiber che è più fragile, più facile a “rompersi”. Wolfgang Sawallisch invece è un uomo di grande civiltà musicale, di grande facilità, forse troppa, e questo a volte gli impedisce di approfondire fino in fondo il discorso interpretativo, anche se con lui si hanno sempre interpretazioni corrette, col “giusto profumo”. Di Böhm mi impressionava la concezione filosofica della musica, veramente cristallina. Si poteva non essere d’accordo con alcune sue interpretazioni, ma era comunque un arricchimento il lavorarci insieme”.
Tempi, modi e risultati di tale processo di persuasione collettiva nell'intimo delle prove, al momento della concertazione, saranno argomento della prossima riflessione a pi+ voci.
Adriano Maria Barbieri
("Musica Viva", n.9, Anno VIII, settembre 1984)

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