Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, agosto 30, 2008

Beethoven: Adagio molto e cantabile (IX Sinfonia)

Dopo il trionfo dei sensi nel baccanale ritmico dello Scherzo, l'Adagio schiude un lembo purissimo di paesaggio dell'anima, in calma e trascendente beatitudine di vita spirituale. Beatitudine - in tedesco Seligkeit - è la parola che piú di frequente ricorre nei commentatori. Soltanto uno, il Prod'homme, parla di «douloureux accents», forse per inveterata abitudine che il tempo lento d'una Sonata o Sinfonia debba scandagliare gli abissi del dolore. In realtà siamo a distanza incommensurabile dai primi «adagi» beethoveniani, espressione di un dolore cocente e d'abbattimento mortale dopo il rovello della ribellione, oppure secondo il titolo del Quartetto op.18 n.6 - di blanda «malinconia». L'Adagio della Nona indirizza la composizione verso una sfera liberamente religiosa: non semplice tenerezza, ma il calore benefico d'un amore fraterno e universale, che ha superato le miserie dell'io e abbraccia nell'empito della sua misericordia tutte le creature.
Sulla profondità religiosa e sullo slancio verso il sublime di questo Adagio sono d'accordo tutti i commentatori (soltanto il candido Otto Neitzel ci vede la beatitudine di due innamorati, del resto confrontati anche loro - nei solenni accenti della Coda - con la maestà del trono celeste!) La dolcezza dell'espressione, cosí lontana dalla tragicità di certi tempi lenti del primo e del secondo stile beethoveniano, sfiora quella forma vocale barocca ch'era chiamata l'«aria da chiesa» (celebre esempio, autentico o falso che sia, quella di Stradella), che poi ebbe larga imitazione nella musica strumentale, per esempio in molti lenti di Mozart. Una sorta di estatico rapimento religioso che si avvicina alla soavità un po' dolciastra delle Madonne di Carlo Dolci, del Sassoferrato, o del Murillo.
Occorre sottolineare come la beatitudine manifesta in questo Adagio appartenga interamente al futuro: è una speranza, un'aspirazione, un anelito. «Annuncio di pace sopra le tempeste della vita, - scrive il Bekker, - fiducia in un mondo migliore e piú puro», ma «la tendenza ottimistica di questo movimento si fonda su promesse da sfere al di là dei sensi». Promessa, appunto, di un avvenire migliore, elevato «messaggio di consolazione». Ciò distingue nettamente la categoria espressiva di questo e di altri Adagi beethoveniani da movimenti di Mozart che potrebbero sembrare analoghi. In Mozart non c'è tanto la speranza d'una felicità futura, quanto piuttosto una specie di ricordo ancestrale d'una felicità passata - il paradiso terrestre, l'età dell'oro - che l'uomo ha perduta ma che gli è dovuta. In Mozart l'immagine della felicità ha quasi l'aspetto d'una rivendicazione. In Beethoven si tratta di un'aspirazione, di un romantico anelito verso qualche beatitudine vagheggiata, ma in fondo non ben nota: la categoria dell'anelito e dell'aspirazione è totalmente sconosciuta al razionalismo mozartiano. Col lento e continuo palpito della sua natura ritmica il terzo tempo della Nona ne è la piú insigne formulazione musicale. In Mozart la felicità è un prima, in Beethoven un poi.
Come risulta dallo schema formale, la struttura del pezzo è apparentemente semplicissima, molto piú che nelle complesse anomalie del primo e del secondo tempo. Di fatto, invece, dei quattro tempi della Sinfonia, l'Adagio è quello che presenta le maggiori difficoltà all'ascolto perché ci si può smarrire nella lunga durata delle singoli sezioni e perdere di vista il loro coordinamento, annegandosi all'intemo di ciascuna di esse. Come un palazzo che fosse fatto di settori disposti in perfetta simmetria, ma talmente enormi che questa simmetria l'occhio non arrivi a coglierla.
La forma, o piuttosto lo stile, la tecnica dell'Adagio è quella della «grande variazione», tipica del terzo stile beethoveniano, mescolata però con una parvenza di forma del rondò. Un rondò lento, ben inteso, spogliato di tutta la vivacità generalmente connessa con le iterazioni della forma di rondò. Qui, ad alternarsi sono non semplicemente due temi, ma due organismi musicali veri e propri, con cambiamenti di movimento e di misura (nella forma-sonata i due temi sono diversi per tonalità, ma non per movimento né, generalmente, per misura di battuta). Di questi due blocchi, uno è sottoposto a due variazioni, l'altro no, ed appare soltanto due volte in tutto, mutando tonalità e distribuzione strumentale, ma sostanzialmente intatto nel discorso melodico e armonico. Qualcuno gli attribuisce perciò carattere e funzione di Intermezzo sminuendone l'importanza (già sappiamo che spesso l'importanza espressiva di un frammento può essere superiore alla sua importanza formale). I tedeschi, poi, chiamandolo Zwischenthema, compiono l'ulteriore errore di svilire a semplici temi quelli che sono due compiuti organismi musicali.
Diciamo subito che proprio da questo fatto - essere l'Adagio formato non di due semplici temi, bensí di due blocchi musicali può sorgere qualche perplessità circa la felice fusione unitaria del pezzo. Adagio e Andante si alternano, distinti e incomunicanti come l'olio e l'acqua: non cooperano ad un risultato comune, almeno dal punto di vista formale. Ma la sintesi si attua nel campo dell'espressione, ed è compromessa, se mai, da un terzo elemento contenuto nella Coda. Tale perplessità può essere convalidata - o forse è suggerita - dal fatto che la melodia dell'Andante preesisteva alla concezione generale di questo movimento della Sinfonia, e il compositore si decise in un secondo tempo a impiegarvela. Ciò parrebbe provato da una frase del nipote Carlo in un Quaderno di conversazione dell'autunno 1823: «Mi fa solo piacere (es freut mich nur) che ci hai messo dentro (hineingebracht) il bell'Andante». La formulazione della frase lascia pensare che questo Andante già esistesse, e fosse anche apprezzato ed ammirato da chi lo conosceva, fra gli intimi di Beethoven; solo avesse bisogno di trovare una destinazione, o piuttosto sia stato distolto da una prima destinazione (forse quartettistica) per trovar posto nella Nona Sinfonia. Negli schizzi di Beethoven esso precede infatti cronologicamente la melodia dell'Adagio vero e proprio, inventata per ultima, dopo ogni altro tema della Nona Sinfonia, e si presenta, come vedremo, in forma lievemente diversa, piú sciatta e volgare, accompagnata dall'indicazione «alla Minuetto».
(...)

Massimo Mila (tratto da "Lettura della nona sinfonia", PBE Einaudi, Torino, 1977)

sabato, agosto 23, 2008

Scarlatti, il gran discreto

Le "Sonate" sono il vero diario e lo specchio di un uomo che fece perdere le proprie tracce.

Le vite dei musicisti non furono vissute dai titolari per essere raccontate ai posteri. Forse per questo sono affascinanti. Chi ha curato a puntino la propria autobiografia, sovente non e' riuscito a trovare il tempo per lasciarci buone note. Tali vite, messe assieme,formano un campi onario di alta umanita' stravagante, un po' irrequieto, abituato a strizzare l'occhio ai piaceri mentre si dedica a composizioni sacre. Un'umanità spesso in viaggio, sempre dominata dalle note che ha concepito, composta da vite che hanno trasformato tutto il suono: sapori, odori, dubbi, debolezze e quella dose che tocca a ciascuno del fugace mondo dei sentimenti. Il 26 ottobre cade il terzo centenario della nascita di Domenico Scarlatti. Senza voler plagiare d'Ormesson, si puo' dire che "a Dio piacendo" e' l'ultima ricorrenza di questo gonfio Anno della Musica. E' toccato a Scarlatti archiviare celebrazioni, auspici, saluti, comunicazioni, prolusioni, sottolineature, inchini e tutte quelle cose popolate dal nulla che hanno sostituito le vere iniziative (qualche felice eccezione conferma la regola). Si e' frugato ancora una volta nelle vite dei musicisti ancora una volta si e' parlato di un certo aspetto o della tal cosa. Le stesse dell'anniversario precedente. In Italia Scarlatti, nonostante tutto, sembra il meglio trattato. Si e' tradotto finalmente il fondamentale Domenico Scarlatti di Ralph Kirkpatrick (ed. Eri) in novembre uscira' un denso e piacevole lavoro di Roberto Pagano, Scarlatti. Alessandro e Domenico: due vite in una (collana "Musica e storia", ed. Mondadori), che propone una vasta documentazione e qualche novità . Tra le iniziative degne di nota, vi è quella dell'"Associazione Amici del S. Maurizio", che a Milano ha organizzato una serie di incontri di estremo interesse. Dopo interventi di Piero Rattalino e di Giorgio Pestelli, il 17ottobre è stata la volta di Francesco Degrada, che ha parlato delle musiche vocali del nostro. Seguiranno le presenze del clavicembalista Kenneth Gilbert il 29 ottobre: e' il caso di usare il plurale, giacchè la sua giornata sara' divisa in un "corso di interpretazione" e in un concerto. Ma, al di la' di tutto ciò , che cosa può dirci oggi DomenicoScarlatti? Occorre premettere ad ogni discorso che la sua biografia è abbastanza misteriosa. Molti si ricorderanno di quanto scrisse in proposito Massimo Bontempelli in Passione incompiuta: e cioe' che tutti i poeti dovrebbero invidiare a Scarlatti "la fortuna di aver quasi fatto scomparire le tracce della sua vita quotidiana, di aver lasciato ai biografi poco o nulla da scovare, rimpinzare, diffondere...". Una vita che il musicista godette sino al possibile, per quel poco che ci risulta, spegnendola nel gioco e nelle irregolarità. Uno strano accordo di musica e carne, un vortice di passioni, ma anche un desiderio di discrezione. Poi una produzione immensa. Pagano ha ragione di inseguire l'uomo sui documenti brillanti e piacevoli, o di fiutarlo attraverso l'albero genealogico. Ma ha ancor più ragione quando mette in luce certi atteggiamenti del musicista fidandosi del proprio fiuto siciliano (a proposito di papà Alessandro Scarlatti, Pagano parla di una fragilità "radicata in quella Sicilia che ho ragione di conoscere meglio degli altri"). Tutto cio' , comunque, e' ancora ben lontano dalla figura che fu Domenico. Nasce a Napoli, dove si presenta in societa' con L' Ottavia ristituita al trono del 1703, ma ben presto è a Firenze, a Roma, quindi a Venezia per ritoccare i propri studi con Francesco Gasparini e per incontrare Vivaldi ed Handel. Poi è dinuovo a Roma, si riempie la vita di melodrammi, e' maestro di cappella presso la regina Maria Casimira di Polonia, quindi coadiutore in San Pietro, ed ancora maestro di cappella nella piu' grande chiesa della cristianità. Per continuare dovremmo trasferirci in Inghilterra, dove si reca con un Narciso rifatto poi in Portogallo, presso Giovanni V, per il quale compone musica sacra abbandonando il melodramma. Di nuovo in Italia, quindi in Spagna: Siviglia, Madrid. Ma pur in questi spostamenti ve ne sono altri e nel 1738 pubblica a Londra la raccolta dei 30 Essercizii per gravicembalo. La sua vita musicale la chiude con un Salve Regina, una delle piu' belle pagine sacre del Settecento. La sua anima pero' fu consegnata al corpus delle sonate: un blocco di 555 numeri, dei quali solo qualcuno vide la luce vivente Scarlatti. Nessuna di esse e' stata datata dall'autore, nessuna ci è giunta in autografo. La loro cronologia, nonostante i meriti e gli sforzi della critica bene informata - ricordiamo ancora Kirkpatrick e Pestelli - resta un enigma. Ed un enigma e' pure la divisione in tipi di sonate. Gerstenberg ne individuo' tre fondamentali: monotematica, a gruppi di moti piu' o meno contrastanti tra loro e concatenati l'uno all'altro, a gruppi di motivi di cui la maggior parte e' subordinataa una o piu' idee. Ma gli studi successivi si accorsero quanto fosse malsicura tale divisione, eccezion fatta per la monotematica (o sonata bipartita in un sol tempo). In esse abita un clima timbrico spagnolo, o meglio iberico, ed e' innegabile la predilezione per certi intervalli tipici di quel mondo. L'orecchio piu' attento vi puo' scorgere imitazioni di chitarra e castagnette. Quanto alle fonti, restano ancora troppe cose da cercare e scoprire. Certe invenzioni dominate da un unico disegno ricordano Frescobaldi, certe altre sembrano ardite anticipazioni. C' e' qualche filosofo che si è dedicato a ricostruire i collegamenti con i tocchi fragili e profondi di papa' Alessandro, altri che non sono riusciti ad uscire dal labirinto che il gioco sapiente dei rimandi ha creato, e ancora lavorano. In verita' ci si perde. E la colpa e' forse della bizzarria, vera sovrana di quegli spartiti. Specchio sonoro di una vita, rifugio costruito da un'anima dedita ai piaceri ma amante della discrezione, le sonate sono il vero diario di Scarlatti, lo stesso che se fosse stato vergato a parole avrebbe fatto impallidire generazioni di storici della musica. Alberto Basso le ha definite un "miracolo di intelligenza", un fatto insolito partorito dal ventre del Settecento, quel secolo che vide il crepuscolo del clavicembalo e di certe profonde confessioni sonore. Forse è così. Ma Scarlatti si è rifiutato di confermare anche queste briciole. Quel Domenico talmente riservato che si penso' di traslare in gran segreto dall'abitazione madrilena in Calle di Leganitos al Convento di San Norberto. Per le normali operazioni di sepoltura, in un caldo giorno del luglio 1757.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 20/10/1985)

sabato, agosto 09, 2008

Musica e Politica: inni nazionali

Gli inni nazionali dei grandi e dei piccoli Stati e le musiche adatte ai vari partiti dimostrano che le note sanno esprimere un' ideologia meglio delle parole. L'Italia ha una marcetta ottocentesca... In Francia è stata pubblicata un' interpretazione politica della "Nona" di Beethoven - L'inno inglese fu utilizzato prima da svizzeri e prussiani.

Musica e politica: un accostamento urtante, un legame impossibile, almeno se badiamo al significato delle parole. Per definizione, la politica è "reale"; la musica, direbbe subito un interlocutore saputo, interferendo, è "ideale". (Qualche crociano superstite, e ahimè ve ne sono, direbbe: "spirituale", né mancherebbe colui che ha capito tutto, proponendo: "morale"). Ma no, la vera contrapposizione a "reale" non è "ideale" né "spirituale" né "morale". La musica, come ogni arte che sia però se stessa e possieda grandezza, è propriamente un'alternativa alla cosiddetta realtà; è un grande "no" lanciato contro il reale e l'esistente. C'è un altro motivo d'incompatibilità, in linea di principio: la politica è l'effimero, la musica aspira alla lunga durata, possibilmente all'eternità, e ne è esempio il provvisorio inno nazionale di una repubblica tipicamente lavorativa e democratica, l'Italia. Infatti, il possente e bruckneriano Fratelli d'Italia fu definito "provvisorio" con saggia lungimiranza: era l'unica condizione affinché esso - in virtù dell'inimitabile legame tra pensiero e azione esistente in Italia - potesse durare per sempre. Ecco: intemperanti come al solito, abbiamo ragionato con l'accetta (Nietzsche filosofava con il martello, ma allora e nel suo Paese aveva qualcosa di duro da martellare, mentre a noi manca, qui e ora, la materia prima). Insomma, asserire che la politica sia l'effimero e la musica non lo sia è un discorso rozzo, tranchant. Fidando in ciò che scrive, il compositore mira a perdurare nel tempo, ma non è sempre stato così. Musicisti di genio e di varie epoche come John Dowland o Eduard Strauss erano convinti di produrre musiche di consumo, del tipo usa e getta, e invece a ogni nuovo ascolto ci imprigionano in una rete fatata: vogliamo quei songs e quei valzer, istituzionalizzati in loco, all'ingresso del Paradiso, se c'è. É un po' comico il fatto che i musici fra i più sublimi d'Occidente, i trovatori e i trovieri di Francia e d'Occitania, abbiano previsto vita assai breve, un anno tutt'al più, alle loro creature, mentre comminano gravemente mormorando dentro di sé "exegi monumentum aere perennius" certi probi docenti di Conservatorio che inondano le case dei colleghi di loro recentissime partiture, suscitando il malumore delle mogli o delle colf che non trovano mai il tempo di portare il tutto alla discarica. All'inverso, la politica non è sempre l'effimero (parliamo seriamente). Certo, nessun musicista ammetterebbe mai di aver composto musica per un partito, per una maggioranza di Governo: sarebbe peggio dell'essere al servizio di un principe settecentesco, ché almeno allora qualcosa di buono ne usciva, non essendo Bach e Haydn del tutto disprezzabili. Nessuno ammetterebbe di scrivere per l'uno o per l'altro Polo (la Sinfonia antartica di Vaughan Williams non c'entra), e magari lo si fa, ma velatamente: lo fecero due rinomati maestri italiani, uno oggi defunto e l'altro vivente ma disamorato, per il vecchio Pci, altri lo fecero per la vecchia Dc, ma i primi asserivano di farlo per la "sinistra" (suona meglio, ed è il caso di dire "suona"), i secondi per la "tradizione". Per non parlare di coloro che scrissero esplicitamente musica per Stalin (magari erano costretti) o per Mussolini, Hitler, Mao Tse-Dong (magari non erano costretti), o per qualche pool giudiziario (per carità, non nominiamoli: querelano!). Qualcuno, oggi, lo fa per il Papa, o, più pudicamente, "per l'Anno Santo". Ma insomma, almeno finora nessuno ha composto espressamente un inno per un partito politico o per una coalizione governativa: quel che è troppo è troppo, dal che si deduce quali siano gli oggetti che la società civile, nel breve istante in cui l' imperatore è nudo, sente impresentabili. Del resto, come dovrebbe essere l'inno di un partito? Un bel problema, soprattutto in Italia! C'è un raggruppamento parlamentare dagli occhi stralunati, un tantino pazzariello, il cui inno solenne e commovente potrebbe essere Funiculì funiculà, melodia, del resto, già nobilitata da Gustav Mahler (Wo die schonen Trompeten blasen), da Hugo Wolf (Variationen über "Funiculì funiculà") e Richard Strauss (Aus Italien). C' è un altro piccolo partito più serioso e rugoso, più che altro una componente del gruppo misto in Parlamento ma che tuttavia fa politica e dà e toglie la fiducia al Governo, per il cui inno partitico si potrebbe attingere a Rossini, al Duetto d'amore di due gatti (che, per rispetto verso il leader, potrebbero, nell'organico vocale, essere aumentati a quattro). Per un'altra forza politica, un po' più consistente e capace di far pulizia meglio dell'Amsa, il problema è opposto: c'è l'imbarazzo della scelta. Che cosa adottare? Il Lied di Mahler, Lob des hohen Verstandes, in cui l'asino fa da giudice (tra il cuculo e l'usignolo, s'intende) e alla fine dice, con piena autocoscienza, "sì", ma poiché parla tedesco pronuncia "j-a" con un formidabile raglio (pardon: intervallo) discendente di ottava fra il fonema j e il fonema a? Oppure il Lied des transferierten Zettel di Hugo Wolf, dove lo schakesperiano Bottom, trasformato in ciuco, raglia j-a ben otto volte? O magari la cantata Der Schulmeister di Telemann, dove il maestro di scuola dice, di chi non conosce e non capisce la musica, "ist ein Esel, j-a!"? (Nessun riferimento a questo o a quel ministro... del Settecento tedesco, s' intende!).
A volte, però, la politica è meno "reale", ha in sé l'energia del grande impulso, del grande progetto, persino dell'utopia. Allora non dispiace l'accostamento tra il sogno politico e una musica di vera qualità. Berlioz compose nel 1840 la Grande symphonie funèbre et triomphale per celebrare la Rivoluzione di Luglio di dieci anni prima. Weber e Beethoven esaltarono le vittorie alleate contro Napoleone, il primo con l'ouverture Jubel del 1818, in cui appare l'inno God save the King (ma inteso come inno prussiano, non britannico, avendo le due nazioni quella musica patriottica in comune), il secondo con il Wellingtons Sieg (1813) dove si combattono due melodie patriottico-militari, Marlborough se ne va alla guerra (i francesi) e Rule Britannia (gli inglesi), fra divertenti scariche di fucileria e colpi di cannone. In simili casi, l'occasionalità della composizione (spesso si tratta di una committenza) non riesce a render brutta la musica, che anzi sopravvive all'occasione storica: la "rivoluzione" orleanista fu politicamente cosa miserevole (si leggano i romanzi-capolavoro di Eugène Sue), Wellington non fu migliore di Napoleone come macellaio di soldati, mentre la Symphonie funèbre di Berlioz e le marginali composizioni di Weber e di Beethoven sono assai ben tagliate e si ascoltano sempre con piacere. In esse, probabilmente, c'è più patria e più senso politico che negli eventi celebrati. Tutto questo ci avvicina a un tema che non è centrale, nel nostro discorso, ma è il primo che viene in mente quando si parla di musica e politica: gli inni nazionali. Si tratta, si licet, di "arte applicata", e a volte il prodotto non è malvagio. Istruttivo è l'esame comparato. Piccoli Stati, quasi da operetta, hanno a volte inni più decorosi che non grandi potenze. Federico Consolo (Ancona 1841 - Firenze 1906) era un musicologo di modeste ambizioni locali ma di onesta competenza, di formazione francese (Vieuxtemps, Fétis, Liszt), e oltre a una Suite orientale dall'orchestrazione magistrale e a Melodie ebraiche compose la musica per l'inno della Repubblica di San Marino, Onore a te, su testo di Giosuè Carducci. Ebbene, il risultato è nobile: una melodia in La bemolle, prima discendente dalla dominante alla tonica sui tre grandi della triade, e poi una torsione chiaroscurale da Fa a Mi bemolle a Si bemolle con una modulazione avvincente. I versi di Carducci sono commossi (il poeta amò molto San Marino) e per nulla retorici. In Italia (che gli opuscoli turistici sammarinesi definiscono "la Potenza confinante") abbiamo, in parallelo, da un lato l'elmo di Scipio (che sa subito di scipito) e la schiava di Roma, oltre al sublime "su corriam", e dall'altro Michele Novaro (Genova 1822 - ivi 1885), autore di ballabili e di un'opera buffa in genovese, O mego per forza.
Altre nazioni celebrano se stesse su musiche di Arne, di Handel, di Haydn, di Sibelius; noi avremmo avuto Vivaldi, Corelli, gli Scarlatti, autori geniali e nobilissimi, coevi più o meno ad Arne e a Handel. Quanto ai musicisti italiani contemporanei a Haydn, Paisiello e Cimarosa scrissero variamente inni patriottici vuoi per il Regno delle Due Sicilie, vuoi per la Repubblica giacobina. Non capolavori, ma almeno "in stile" decorosi. L'Italia repubblicana avrebbe potuto adottare quelle musiche, il cui settecentismo sarebbe stato assai meno sgradevole dell'oltraggioso strombazzamento popolar-melodrammatico di Novaro. Eppure, molti in Italia difendono, anche musicalmente, quell'abominio: è "nazional-popolare", e del resto il Brutto fa parte del politicamente e culturalmente corretto. Certo, non tutte le nazioni possono pretendere un canto ufficiale come quello olandese, il magnifico Wilhelmus van Nassouwe, il più antico inno europeo (testo attribuito a Philip Marnix van St. Aldegonde, melodia di autore ignoto): ma di mezzo non ci sono Mazzini o Garibaldi, ci sono Guglielmo d'Orange e il conte di Egmont e la leggenda di Thyl Ulenspiegel e la lotta dei gueux per la libertà, contro il duca d'Alba e Filippo II. Ci siamo spiegati? Piccola, l'Olanda: la grandezza del Paese non è di necessità proporzionale alla qualità dell'inno. Quello degli Stati Uniti, testo di Francis Scott Key, musica di John Stafford Smith (entrambi vissuti tra Settecento e Ottocento) è fra i più belli: ci emoziona quando lo udiamo in Madama Butterfly di Puccini. Quello russo zarista, Dio salvi lo Zar, su musica di L'vov, era di grande maestà (lo cita Ciajkovskij nell'ouverture 1812); quello sovietico (testo di Lebedev-Kumach, musica di Aleksandrov, istituzionalizzato nel 1943 e noto come "Inno di Stalin") fa musicalmente schifo. Tutt'altro tema è l'uso politico di musiche grandi o grandissime. Se gli inni nazionali sono materia capace di illuminare e divertire con tante piccole sorprese, in quest'altro ambito ci sentiamo diversi; siamo in una dimora dai tratti nobili, contempliamo un antico e splendido arazzo intessuto di cultura, storia e arte. Gran parte della bibliografia sull'argomento, finora, in realtà ha girato intorno ai temi centrali. Li affronta invece, con talento e freschezza, strumenti culturali di prim'ordine e purezza di spirito (tra poco ne diremo le ragioni), un giovane studioso nato in Argentina e trapiantato in Francia, Esteban Buch (La "Neuvième" de Beethoven, una histoire politique, Gallimard, Paris 1999, pagg. 368, Ff 165, vincitore del "Gran Prix des Muses" 1999). É doveroso segnalare che la "scoperta" da parte nostra di questo e di altri libri tedeschi, francesi e svizzeri è dovuta alla cortesia di un ricercatore tanto implacabile quanto solitario, Giacomo Di Vittorio, cui dovrebbe andare l'espressa gratitudine di molti editori italiani: pochi, come Di Vittorio, sanno bouquiner nei giacimenti librari antichi o prevedere le novità con una vibrazione d'antenne. Quanto al lavoro di Esteban Buch, la centralità e la compiutezza del suo libro, d'ora in poi riferimento obbligato anche per l'insolita efficacia dello stile e per l'amore dell'essenzialità, sono dipendenti dal disegno d'insieme e dall'articolazione in dettagli: il significato un po' riduttivo del titolo ne è completato. C'è, in primo luogo, la definizione di un'idea cardine: non c'è vera musica "politica" prima dell'era moderna, ossia prima del consolidarsi nella coscienza e nell'immagine pubblica (oltre che nelle istituzioni e nei rapporti di forza, ciò che in fondo è più facile a un gruppo di potere cinicamente organizzato) degli Stati assoluti e centralizzati, ma anche, ex converso degli Stati europei che con qualche approssimazione chiameremo "liberali", o meglio, "meno illiberali di altri" (neppure a Venezia e in Olanda la vita era rose e fiori per le teste pensanti). Su tale idea, prima disegnata e poi affilata con inconsueta chiarezza, si svolge la prima parte del libro, e diciamo, a complemento di un'anticipazione prima offerta ai lettori, che l'esser venuto "da fuori" dà a questo studioso extraeuropeo di nascita e per giunta ibero-americano (ma di origine centro-europea, alla lontana) un'indole che è felicemente ibrida culturalmente e, forse proprio per questo, fresca come un terreno che abbia compiuto il periodo di rotazione. La vicenda nasce non in Francia, non in Germania, meno che mai in questo o in quello degli Stati italiani: nasce, superfluo dirlo, in Inghilterra. I contrassegni musicali che lasciano il solco nella vita politica inglese vengono alla luce quasi simultaneamente: nel 1740, Rule Britannia, di James Thomson e Thomas Augustin Arne; nel 1742, l'Hallelujah dal Messia di Handel, musica dinanzi alla quale il re si alzò in piedi fondando una tradizione; nel 1745, il God save the King, melodia di autore sconosciuto ma tanto vitale da divenire l'inno svizzero, prussiano eccetera, oltre che britannico. La Nona Sinfonia di Beethoven, ottant'anni dopo, non ebbe la stessa capacità di penetrazione "politica", ma dopo altri novant'anni, al tempo della prima guerra mondiale, divenne oggetto di contesa tra gli apostoli della Kultur e quelli della civilisation (la polemica che oppose tra loro i fratelli Thomas e Heinrich Mann). Dopo il 1918, quando nacque l'Unione Paneuropea di Richard Coudenhove-Kalergi, si cominciò a pensare: "E se fosse il Finale della Nona l'inno nazionale di una futura Europa?". In mezzo, una vicenda capillare e ricca di curiosità, compresa la passione di Bismarck per la musica, da lui amata come "premessa della guerra e dell' alcova".
Riuscirà, l'ode An die Freude, a essere l'inno dell' Europa unita? Domanda di contorno: riuscirà, l'Europa, a meritare un suo inno, malgrado le scempiaggini commesse a piene mani dai politici europei e malgrado il crollo dell'euro? La risposta parrebbe facile e positiva: prima il corpo, poi lo spirito. Non siamo d'accordo: forse, se si fosse chiacchierato meno di valuta e si fosse ascoltata più musica di qualità, in ambito eurocratico, entreremmo nel nuovo eone millenario con meno timore e tremore (abbiamo citato un grande europeo: per lui, la musica era un'arma micidiale).

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 25 settembre 1999)

sabato, agosto 02, 2008

Allevi: un "fenomeno" da evitare...?!

Personalmente, in questo mio pseudo-blog, non ho mai preso posizioni in merito ad alcun argomento, fatto o personaggio. Ma ora è piuttosto inevitabile: mi riferisco al "fenomeno" Giovanni Allevi.
Lui dice "Un'orchestra suona sempre nella mia testa"...
La chiama "Strega Capricciosa".
Vive nella sua testa e non gli dà mai tregua. Lo costringe incessantemente ad assorbire un vortice di musica, e a darle forma compiuta.
Ma Giovanni Allevi non osa definirsi un autore: "Sono un amanuense, un registratore, l'esecutore di una volontà superiore".
Allora, io, dico semplicemente: e se lo si evitasse?!
L'intervista che segue ne è, per quanto mi riguarda, la prova inconfutabile...
(Heinrich von Trotta)

"Devo solo pormi sulle tracce di questo fenomeno che si impone a me, nota dopo nota, con la sua immensità". Eccolo qui, il genio del pianoforte. Tutta un'infanzia e un'adolescenza di solitudine, "sempre escluso dalle comitive: non giocavo a pallone, non mi invitavano alle feste. Poco tempo fa, una mia ex compagna di liceo ha detto a un'altra: 'Ma Allevi era in classe nostra?'". Lo emarginavano, e oggi è qualcosa di più di un talento da trecentomila e passa cd venduti: milioni di ragazzi lo considerano questo elfo capellone un maestro del pensiero, un portatore di sane verità. Lui ricambia sostenendo che "questa nuova generazione ha una sensibilità poetica straordinaria: sono giovani meravigliosamente complessi nella loro semplicità, e ci porteranno verso il Nuovo Rinascimento, lontano da quel Novecento la cui violenza è stata generata dalla ragione, dal non accettare il mistero che è dentro ogni individuo". Eppure, lo scopri spesso buttato in un angolo, estraniato da ogni evento, mentre "suona" su una tastiera immaginaria. La sente solo lui, quella melodia criptata. Magari resta con un dito a mezz'aria, perplesso, e poi confessa: "Ho appena sbagliato una nota". Ti racconta di sè, sorride timidamente tenendo strette fra le braccia le nuove partiture ("Sono la mia coperta di Linus, la mia difesa"), ma sai che nella sala prove della sua mente sta congiurando qualcosa. "Rincorro mille volte col pensiero quelle melodie, finché non assumono una sembianza definitiva, in ogni dettaglio. E non le cambio mai più. Altrimenti impazzirei. Farei la fine di Beethoven".

Allevi, sta componendo anche adesso, mentre parliamo?
«Ho terminato proprio in questo istante un pezzo per pianoforte solo. Fichissimo! Un ritmo indiavolato, come un treno inarrestabile. Sono già oltre il romanticismo struggente di questo mio nuovo lavoro per orchestra».
Che si intitola "Evolution", ed è prodigioso nella sua insinuante serenità. Verrà presentato in un tour che debutta da Assisi il 20 giugno: lei lo definisce un manifesto della "Nuova classica contemporanea".
«Ma non c'era la pretesa di categorizzare. Volevo solo dire che questi pezzi sono stati composti ai giorni nostri, e che tra archi e fiati nascondono il "battito" di questi tempi: dentro di me c'è una tradizione popolare che è quella dei Beatles, di Vasco, Jovanotti. Nessuno magari se ne accorgerà, ma io devo tenerne conto. Sul palco con me ci saranno i Virtuosi Italiani. E più che i musicisti, che doneranno nuova bellezza ai miei brani, sarò curioso di vedere la reazione del pubblico: è l'emozione della gente l'atto finale della creazione artistica».
Se le negassero la possibilità di esibirsi, proverebbe a far tacere la musica che le gira in testa?
«Avevo 21 anni quando a Napoli debuttai in concerto. In sala c'erano solo cinque persone: ma dai loro sorrisi intuii che il senso era in quest'atto di condivisione. Quella notte capii di dover dedicare la mia vita alla musica. Lo devo alla signora Giuditta, che con gli altri quattro spettatori mi applaudì, e che incontrai anni dopo in una serata da tutto esaurito».
E forse lo deve anche al suo coraggio di ragazzino, quando, con una classica ribellione freudiana, usò la chiave nascosta nel cassetto per aprire il pianoforte di suo padre.
«Sì, quella chiave era un feticcio dell'inconscio. L'emancipazione dalla mia famiglia, che pure è composta di musicisti, continua tuttora. Sono preoccupati per il mio futuro. Mi avrebbero voluto professore, ma mi sarei condannato a una vita di supplenze. Anche se qualche soddisfazione l'ho avuta, insegnando. C'era quel ragazzino ribelle, Antonio, che poi sorprendentemente ha preso a suonare il clarinetto. L'ho citato sul mio libro, ma lui non l'ha mai saputo. L'ho capito dalla mail che mi ha mandato giorni fa».
Lei sostiene di fermarsi con fragilità umana al limite della trascendenza. Davanti a una nota pensa mai "qui c'è Dio?".
«Mi succedeva da studente con Bach. La "Suite in Sol maggiore per violoncello" ti porta in un'altra dimensione, per un'esperienza che poi ricerchi continuamente. Ma l'umiltà mi spinge a non oltrepassare quella soglia».
Ha incontrato Papa Ratzinger. Ha guardato le sue mani?
«Lo faccio con tutti. Mi è proprio simpatico, perchè è un pianista, ama Bach, percepisce la musica come un rifugio. Mi presentarono a lui, ma fu un attimo e non ebbi il tempo di dirgli nulla. Tra noi solo un gioco di sguardi. Nei suoi occhi ravvisavo quella delicata solitudine che tanto bene conosco».
Se le consentissero di suonare a quattro mani con un gigante della storia della musica?
«Rischierei una figuraccia, ma forse dovrei accettare la sfida di sedermi alla sinistra di Franz Liszt».
Mai stato invidioso di un brano altrui?
«Beh, che dire di "Lezioni di piano" di Michael Nyman? E se devo scegliere una cosa pop, trovo irresistibile "Black or White" di Michael Jackson».
Prego?
«Quella chitarra è formidabile! A prescindere dalle vicende private, Jackson ha lasciato un'impronta indelebile nella musica nera. Forse mi piace perché io sono negato con il ballo. Danzo sulla tastiera».
E a volte dialoga con gli insetti, come quella volta che provò a seguire il canto di una cicala rallentando il tempo del piano, durante un concerto all'aperto.
«Era nascosta in un cespuglio: non assecondò il mio ritmo, fece giustamente di testa sua. A me non dà fastidio la natura mentre suono, anzi. L'anno scorso, alla prima esecuzione con l'orchestra di "300 anelli", il pezzo che chiude il nuovo disco, in migliaia si inerpicarono a piedi su un sentiero dolomitico per venirlo ad ascoltare. I bambini ne restarono affascinati, per la natura infantile di quella musica. Che per questo amo definire una "filastrocca fantascientifica"».
Ma cosa indicano quei "300 anelli"?
«L'età dell'abete che mi è stato donato. È da tre secoli in un bosco della Val di Fiemme. Sul tronco c'è una targa: "Appartengo a Giovanni Allevi"».
Ha mai usato la sua arte per conquistare una ragazza?
«Mai avuta l'indole del seduttore. E sarebbe stato un uso privato di una musica che arriva da fuori di me».
Neppure per il suo primo amore?
«Ne ho avuto uno solo. E lo sto vivendo tuttora».
Amore e musica: ce n'è di che campare a sufficienza. Niente hobby?
«Lavo i piatti a mano per rilassarmi. E mi piacciono i libri di Paulo Coelho. Una volta ero preso da Seneca. Mi soggiogava con le riflessioni sull'amicizia, la sicurezza con cui fondava i suoi pilastri dell'arte del vivere: ma visto come è morto, qualcosa non deve essergli andata per il verso giusto».
Ha fatto scalpore la sua definizione dell'attacco di panico come "un dono". A suo tempo, ne trasse anche un brano.
«Un'affermazione che spaventa anche me. In tanti mi hanno scritto per dirmi quanto era stata consolatoria per loro la mia idea. Molti psicoterapeuti, analisti, professori universitari hanno fatta propria la mia tesi, e mi hanno mandato le loro pubblicazioni. È un modo nuovo di vedere il panico: di solito lo si concepisce come la necessità di uscire da un ambiente o una situazione opprimente, ma quando accadde a me, fino a un attimo prima mi sentivo in Paradiso. In quel frangente compresi che il panico era la manifestazione di un'energia potentissima, che sovrasta la nostra quotidianità. E poi quella parola viene dal dio Pan, il Tutto».
Qual è la sua "casa"?
«A parte il mio incasinato e amatissimo bilocale di Milano? È il palco, dove trovo il piano che non possiedo. Anche se è pericoloso pensare che io abbia bisogno del pubblico, per dare significato alla mia vita. E per placare la Strega Capricciosa. Ma se un giorno mi ritroverò solo, ricomincerò. Finchè cinque persone non si siederanno in platea».

intervista di Stefano Mannucci (pubblicata su "Il Tempo" del 12/06/2008)