Musica e politica: un accostamento urtante, un legame impossibile, almeno se badiamo al significato delle parole. Per definizione, la politica è "reale"; la musica, direbbe subito un interlocutore saputo, interferendo, è "ideale". (Qualche crociano superstite, e ahimè ve ne sono, direbbe: "spirituale", né mancherebbe colui che ha capito tutto, proponendo: "morale"). Ma no, la vera contrapposizione a "reale" non è "ideale" né "spirituale" né "morale". La musica, come ogni arte che sia però se stessa e possieda grandezza, è propriamente un'alternativa alla cosiddetta realtà; è un grande "no" lanciato contro il reale e l'esistente. C'è un altro motivo d'incompatibilità, in linea di principio: la politica è l'effimero, la musica aspira alla lunga durata, possibilmente all'eternità, e ne è esempio il provvisorio inno nazionale di una repubblica tipicamente lavorativa e democratica, l'Italia. Infatti, il possente e bruckneriano Fratelli d'Italia fu definito "provvisorio" con saggia lungimiranza: era l'unica condizione affinché esso - in virtù dell'inimitabile legame tra pensiero e azione esistente in Italia - potesse durare per sempre. Ecco: intemperanti come al solito, abbiamo ragionato con l'accetta (Nietzsche filosofava con il martello, ma allora e nel suo Paese aveva qualcosa di duro da martellare, mentre a noi manca, qui e ora, la materia prima). Insomma, asserire che la politica sia l'effimero e la musica non lo sia è un discorso rozzo, tranchant. Fidando in ciò che scrive, il compositore mira a perdurare nel tempo, ma non è sempre stato così. Musicisti di genio e di varie epoche come John Dowland o Eduard Strauss erano convinti di produrre musiche di consumo, del tipo usa e getta, e invece a ogni nuovo ascolto ci imprigionano in una rete fatata: vogliamo quei songs e quei valzer, istituzionalizzati in loco, all'ingresso del Paradiso, se c'è. É un po' comico il fatto che i musici fra i più sublimi d'Occidente, i trovatori e i trovieri di Francia e d'Occitania, abbiano previsto vita assai breve, un anno tutt'al più, alle loro creature, mentre comminano gravemente mormorando dentro di sé "exegi monumentum aere perennius" certi probi docenti di Conservatorio che inondano le case dei colleghi di loro recentissime partiture, suscitando il malumore delle mogli o delle colf che non trovano mai il tempo di portare il tutto alla discarica. All'inverso, la politica non è sempre l'effimero (parliamo seriamente). Certo, nessun musicista ammetterebbe mai di aver composto musica per un partito, per una maggioranza di Governo: sarebbe peggio dell'essere al servizio di un principe settecentesco, ché almeno allora qualcosa di buono ne usciva, non essendo Bach e Haydn del tutto disprezzabili. Nessuno ammetterebbe di scrivere per l'uno o per l'altro Polo (la Sinfonia antartica di Vaughan Williams non c'entra), e magari lo si fa, ma velatamente: lo fecero due rinomati maestri italiani, uno oggi defunto e l'altro vivente ma disamorato, per il vecchio Pci, altri lo fecero per la vecchia Dc, ma i primi asserivano di farlo per la "sinistra" (suona meglio, ed è il caso di dire "suona"), i secondi per la "tradizione". Per non parlare di coloro che scrissero esplicitamente musica per Stalin (magari erano costretti) o per Mussolini, Hitler, Mao Tse-Dong (magari non erano costretti), o per qualche pool giudiziario (per carità, non nominiamoli: querelano!). Qualcuno, oggi, lo fa per il Papa, o, più pudicamente, "per l'Anno Santo". Ma insomma, almeno finora nessuno ha composto espressamente un inno per un partito politico o per una coalizione governativa: quel che è troppo è troppo, dal che si deduce quali siano gli oggetti che la società civile, nel breve istante in cui l' imperatore è nudo, sente impresentabili. Del resto, come dovrebbe essere l'inno di un partito? Un bel problema, soprattutto in Italia! C'è un raggruppamento parlamentare dagli occhi stralunati, un tantino pazzariello, il cui inno solenne e commovente potrebbe essere Funiculì funiculà, melodia, del resto, già nobilitata da Gustav Mahler (Wo die schonen Trompeten blasen), da Hugo Wolf (Variationen über "Funiculì funiculà") e Richard Strauss (Aus Italien). C' è un altro piccolo partito più serioso e rugoso, più che altro una componente del gruppo misto in Parlamento ma che tuttavia fa politica e dà e toglie la fiducia al Governo, per il cui inno partitico si potrebbe attingere a Rossini, al Duetto d'amore di due gatti (che, per rispetto verso il leader, potrebbero, nell'organico vocale, essere aumentati a quattro). Per un'altra forza politica, un po' più consistente e capace di far pulizia meglio dell'Amsa, il problema è opposto: c'è l'imbarazzo della scelta. Che cosa adottare? Il Lied di Mahler, Lob des hohen Verstandes, in cui l'asino fa da giudice (tra il cuculo e l'usignolo, s'intende) e alla fine dice, con piena autocoscienza, "sì", ma poiché parla tedesco pronuncia "j-a" con un formidabile raglio (pardon: intervallo) discendente di ottava fra il fonema j e il fonema a? Oppure il Lied des transferierten Zettel di Hugo Wolf, dove lo schakesperiano Bottom, trasformato in ciuco, raglia j-a ben otto volte? O magari la cantata Der Schulmeister di Telemann, dove il maestro di scuola dice, di chi non conosce e non capisce la musica, "ist ein Esel, j-a!"? (Nessun riferimento a questo o a quel ministro... del Settecento tedesco, s' intende!).
A volte, però, la politica è meno "reale", ha in sé l'energia del grande impulso, del grande progetto, persino dell'utopia. Allora non dispiace l'accostamento tra il sogno politico e una musica di vera qualità. Berlioz compose nel 1840 la Grande symphonie funèbre et triomphale per celebrare la Rivoluzione di Luglio di dieci anni prima. Weber e Beethoven esaltarono le vittorie alleate contro Napoleone, il primo con l'ouverture Jubel del 1818, in cui appare l'inno God save the King (ma inteso come inno prussiano, non britannico, avendo le due nazioni quella musica patriottica in comune), il secondo con il Wellingtons Sieg (1813) dove si combattono due melodie patriottico-militari, Marlborough se ne va alla guerra (i francesi) e Rule Britannia (gli inglesi), fra divertenti scariche di fucileria e colpi di cannone. In simili casi, l'occasionalità della composizione (spesso si tratta di una committenza) non riesce a render brutta la musica, che anzi sopravvive all'occasione storica: la "rivoluzione" orleanista fu politicamente cosa miserevole (si leggano i romanzi-capolavoro di Eugène Sue), Wellington non fu migliore di Napoleone come macellaio di soldati, mentre la Symphonie funèbre di Berlioz e le marginali composizioni di Weber e di Beethoven sono assai ben tagliate e si ascoltano sempre con piacere. In esse, probabilmente, c'è più patria e più senso politico che negli eventi celebrati. Tutto questo ci avvicina a un tema che non è centrale, nel nostro discorso, ma è il primo che viene in mente quando si parla di musica e politica: gli inni nazionali. Si tratta, si licet, di "arte applicata", e a volte il prodotto non è malvagio. Istruttivo è l'esame comparato. Piccoli Stati, quasi da operetta, hanno a volte inni più decorosi che non grandi potenze. Federico Consolo (Ancona 1841 - Firenze 1906) era un musicologo di modeste ambizioni locali ma di onesta competenza, di formazione francese (Vieuxtemps, Fétis, Liszt), e oltre a una Suite orientale dall'orchestrazione magistrale e a Melodie ebraiche compose la musica per l'inno della Repubblica di San Marino, Onore a te, su testo di Giosuè Carducci. Ebbene, il risultato è nobile: una melodia in La bemolle, prima discendente dalla dominante alla tonica sui tre grandi della triade, e poi una torsione chiaroscurale da Fa a Mi bemolle a Si bemolle con una modulazione avvincente. I versi di Carducci sono commossi (il poeta amò molto San Marino) e per nulla retorici. In Italia (che gli opuscoli turistici sammarinesi definiscono "la Potenza confinante") abbiamo, in parallelo, da un lato l'elmo di Scipio (che sa subito di scipito) e la schiava di Roma, oltre al sublime "su corriam", e dall'altro Michele Novaro (Genova 1822 - ivi 1885), autore di ballabili e di un'opera buffa in genovese, O mego per forza.
Altre nazioni celebrano se stesse su musiche di Arne, di Handel, di Haydn, di Sibelius; noi avremmo avuto Vivaldi, Corelli, gli Scarlatti, autori geniali e nobilissimi, coevi più o meno ad Arne e a Handel. Quanto ai musicisti italiani contemporanei a Haydn, Paisiello e Cimarosa scrissero variamente inni patriottici vuoi per il Regno delle Due Sicilie, vuoi per la Repubblica giacobina. Non capolavori, ma almeno "in stile" decorosi. L'Italia repubblicana avrebbe potuto adottare quelle musiche, il cui settecentismo sarebbe stato assai meno sgradevole dell'oltraggioso strombazzamento popolar-melodrammatico di Novaro. Eppure, molti in Italia difendono, anche musicalmente, quell'abominio: è "nazional-popolare", e del resto il Brutto fa parte del politicamente e culturalmente corretto. Certo, non tutte le nazioni possono pretendere un canto ufficiale come quello olandese, il magnifico Wilhelmus van Nassouwe, il più antico inno europeo (testo attribuito a Philip Marnix van St. Aldegonde, melodia di autore ignoto): ma di mezzo non ci sono Mazzini o Garibaldi, ci sono Guglielmo d'Orange e il conte di Egmont e la leggenda di Thyl Ulenspiegel e la lotta dei gueux per la libertà, contro il duca d'Alba e Filippo II. Ci siamo spiegati? Piccola, l'Olanda: la grandezza del Paese non è di necessità proporzionale alla qualità dell'inno. Quello degli Stati Uniti, testo di Francis Scott Key, musica di John Stafford Smith (entrambi vissuti tra Settecento e Ottocento) è fra i più belli: ci emoziona quando lo udiamo in Madama Butterfly di Puccini. Quello russo zarista, Dio salvi lo Zar, su musica di L'vov, era di grande maestà (lo cita Ciajkovskij nell'ouverture 1812); quello sovietico (testo di Lebedev-Kumach, musica di Aleksandrov, istituzionalizzato nel 1943 e noto come "Inno di Stalin") fa musicalmente schifo. Tutt'altro tema è l'uso politico di musiche grandi o grandissime. Se gli inni nazionali sono materia capace di illuminare e divertire con tante piccole sorprese, in quest'altro ambito ci sentiamo diversi; siamo in una dimora dai tratti nobili, contempliamo un antico e splendido arazzo intessuto di cultura, storia e arte. Gran parte della bibliografia sull'argomento, finora, in realtà ha girato intorno ai temi centrali. Li affronta invece, con talento e freschezza, strumenti culturali di prim'ordine e purezza di spirito (tra poco ne diremo le ragioni), un giovane studioso nato in Argentina e trapiantato in Francia, Esteban Buch (La "Neuvième" de Beethoven, una histoire politique, Gallimard, Paris 1999, pagg. 368, Ff 165, vincitore del "Gran Prix des Muses" 1999). É doveroso segnalare che la "scoperta" da parte nostra di questo e di altri libri tedeschi, francesi e svizzeri è dovuta alla cortesia di un ricercatore tanto implacabile quanto solitario, Giacomo Di Vittorio, cui dovrebbe andare l'espressa gratitudine di molti editori italiani: pochi, come Di Vittorio, sanno bouquiner nei giacimenti librari antichi o prevedere le novità con una vibrazione d'antenne. Quanto al lavoro di Esteban Buch, la centralità e la compiutezza del suo libro, d'ora in poi riferimento obbligato anche per l'insolita efficacia dello stile e per l'amore dell'essenzialità, sono dipendenti dal disegno d'insieme e dall'articolazione in dettagli: il significato un po' riduttivo del titolo ne è completato. C'è, in primo luogo, la definizione di un'idea cardine: non c'è vera musica "politica" prima dell'era moderna, ossia prima del consolidarsi nella coscienza e nell'immagine pubblica (oltre che nelle istituzioni e nei rapporti di forza, ciò che in fondo è più facile a un gruppo di potere cinicamente organizzato) degli Stati assoluti e centralizzati, ma anche, ex converso degli Stati europei che con qualche approssimazione chiameremo "liberali", o meglio, "meno illiberali di altri" (neppure a Venezia e in Olanda la vita era rose e fiori per le teste pensanti). Su tale idea, prima disegnata e poi affilata con inconsueta chiarezza, si svolge la prima parte del libro, e diciamo, a complemento di un'anticipazione prima offerta ai lettori, che l'esser venuto "da fuori" dà a questo studioso extraeuropeo di nascita e per giunta ibero-americano (ma di origine centro-europea, alla lontana) un'indole che è felicemente ibrida culturalmente e, forse proprio per questo, fresca come un terreno che abbia compiuto il periodo di rotazione. La vicenda nasce non in Francia, non in Germania, meno che mai in questo o in quello degli Stati italiani: nasce, superfluo dirlo, in Inghilterra. I contrassegni musicali che lasciano il solco nella vita politica inglese vengono alla luce quasi simultaneamente: nel 1740, Rule Britannia, di James Thomson e Thomas Augustin Arne; nel 1742, l'Hallelujah dal Messia di Handel, musica dinanzi alla quale il re si alzò in piedi fondando una tradizione; nel 1745, il God save the King, melodia di autore sconosciuto ma tanto vitale da divenire l'inno svizzero, prussiano eccetera, oltre che britannico. La Nona Sinfonia di Beethoven, ottant'anni dopo, non ebbe la stessa capacità di penetrazione "politica", ma dopo altri novant'anni, al tempo della prima guerra mondiale, divenne oggetto di contesa tra gli apostoli della Kultur e quelli della civilisation (la polemica che oppose tra loro i fratelli Thomas e Heinrich Mann). Dopo il 1918, quando nacque l'Unione Paneuropea di Richard Coudenhove-Kalergi, si cominciò a pensare: "E se fosse il Finale della Nona l'inno nazionale di una futura Europa?". In mezzo, una vicenda capillare e ricca di curiosità, compresa la passione di Bismarck per la musica, da lui amata come "premessa della guerra e dell' alcova".
Riuscirà, l'ode An die Freude, a essere l'inno dell' Europa unita? Domanda di contorno: riuscirà, l'Europa, a meritare un suo inno, malgrado le scempiaggini commesse a piene mani dai politici europei e malgrado il crollo dell'euro? La risposta parrebbe facile e positiva: prima il corpo, poi lo spirito. Non siamo d'accordo: forse, se si fosse chiacchierato meno di valuta e si fosse ascoltata più musica di qualità, in ambito eurocratico, entreremmo nel nuovo eone millenario con meno timore e tremore (abbiamo citato un grande europeo: per lui, la musica era un'arma micidiale).
A volte, però, la politica è meno "reale", ha in sé l'energia del grande impulso, del grande progetto, persino dell'utopia. Allora non dispiace l'accostamento tra il sogno politico e una musica di vera qualità. Berlioz compose nel 1840 la Grande symphonie funèbre et triomphale per celebrare la Rivoluzione di Luglio di dieci anni prima. Weber e Beethoven esaltarono le vittorie alleate contro Napoleone, il primo con l'ouverture Jubel del 1818, in cui appare l'inno God save the King (ma inteso come inno prussiano, non britannico, avendo le due nazioni quella musica patriottica in comune), il secondo con il Wellingtons Sieg (1813) dove si combattono due melodie patriottico-militari, Marlborough se ne va alla guerra (i francesi) e Rule Britannia (gli inglesi), fra divertenti scariche di fucileria e colpi di cannone. In simili casi, l'occasionalità della composizione (spesso si tratta di una committenza) non riesce a render brutta la musica, che anzi sopravvive all'occasione storica: la "rivoluzione" orleanista fu politicamente cosa miserevole (si leggano i romanzi-capolavoro di Eugène Sue), Wellington non fu migliore di Napoleone come macellaio di soldati, mentre la Symphonie funèbre di Berlioz e le marginali composizioni di Weber e di Beethoven sono assai ben tagliate e si ascoltano sempre con piacere. In esse, probabilmente, c'è più patria e più senso politico che negli eventi celebrati. Tutto questo ci avvicina a un tema che non è centrale, nel nostro discorso, ma è il primo che viene in mente quando si parla di musica e politica: gli inni nazionali. Si tratta, si licet, di "arte applicata", e a volte il prodotto non è malvagio. Istruttivo è l'esame comparato. Piccoli Stati, quasi da operetta, hanno a volte inni più decorosi che non grandi potenze. Federico Consolo (Ancona 1841 - Firenze 1906) era un musicologo di modeste ambizioni locali ma di onesta competenza, di formazione francese (Vieuxtemps, Fétis, Liszt), e oltre a una Suite orientale dall'orchestrazione magistrale e a Melodie ebraiche compose la musica per l'inno della Repubblica di San Marino, Onore a te, su testo di Giosuè Carducci. Ebbene, il risultato è nobile: una melodia in La bemolle, prima discendente dalla dominante alla tonica sui tre grandi della triade, e poi una torsione chiaroscurale da Fa a Mi bemolle a Si bemolle con una modulazione avvincente. I versi di Carducci sono commossi (il poeta amò molto San Marino) e per nulla retorici. In Italia (che gli opuscoli turistici sammarinesi definiscono "la Potenza confinante") abbiamo, in parallelo, da un lato l'elmo di Scipio (che sa subito di scipito) e la schiava di Roma, oltre al sublime "su corriam", e dall'altro Michele Novaro (Genova 1822 - ivi 1885), autore di ballabili e di un'opera buffa in genovese, O mego per forza.
Altre nazioni celebrano se stesse su musiche di Arne, di Handel, di Haydn, di Sibelius; noi avremmo avuto Vivaldi, Corelli, gli Scarlatti, autori geniali e nobilissimi, coevi più o meno ad Arne e a Handel. Quanto ai musicisti italiani contemporanei a Haydn, Paisiello e Cimarosa scrissero variamente inni patriottici vuoi per il Regno delle Due Sicilie, vuoi per la Repubblica giacobina. Non capolavori, ma almeno "in stile" decorosi. L'Italia repubblicana avrebbe potuto adottare quelle musiche, il cui settecentismo sarebbe stato assai meno sgradevole dell'oltraggioso strombazzamento popolar-melodrammatico di Novaro. Eppure, molti in Italia difendono, anche musicalmente, quell'abominio: è "nazional-popolare", e del resto il Brutto fa parte del politicamente e culturalmente corretto. Certo, non tutte le nazioni possono pretendere un canto ufficiale come quello olandese, il magnifico Wilhelmus van Nassouwe, il più antico inno europeo (testo attribuito a Philip Marnix van St. Aldegonde, melodia di autore ignoto): ma di mezzo non ci sono Mazzini o Garibaldi, ci sono Guglielmo d'Orange e il conte di Egmont e la leggenda di Thyl Ulenspiegel e la lotta dei gueux per la libertà, contro il duca d'Alba e Filippo II. Ci siamo spiegati? Piccola, l'Olanda: la grandezza del Paese non è di necessità proporzionale alla qualità dell'inno. Quello degli Stati Uniti, testo di Francis Scott Key, musica di John Stafford Smith (entrambi vissuti tra Settecento e Ottocento) è fra i più belli: ci emoziona quando lo udiamo in Madama Butterfly di Puccini. Quello russo zarista, Dio salvi lo Zar, su musica di L'vov, era di grande maestà (lo cita Ciajkovskij nell'ouverture 1812); quello sovietico (testo di Lebedev-Kumach, musica di Aleksandrov, istituzionalizzato nel 1943 e noto come "Inno di Stalin") fa musicalmente schifo. Tutt'altro tema è l'uso politico di musiche grandi o grandissime. Se gli inni nazionali sono materia capace di illuminare e divertire con tante piccole sorprese, in quest'altro ambito ci sentiamo diversi; siamo in una dimora dai tratti nobili, contempliamo un antico e splendido arazzo intessuto di cultura, storia e arte. Gran parte della bibliografia sull'argomento, finora, in realtà ha girato intorno ai temi centrali. Li affronta invece, con talento e freschezza, strumenti culturali di prim'ordine e purezza di spirito (tra poco ne diremo le ragioni), un giovane studioso nato in Argentina e trapiantato in Francia, Esteban Buch (La "Neuvième" de Beethoven, una histoire politique, Gallimard, Paris 1999, pagg. 368, Ff 165, vincitore del "Gran Prix des Muses" 1999). É doveroso segnalare che la "scoperta" da parte nostra di questo e di altri libri tedeschi, francesi e svizzeri è dovuta alla cortesia di un ricercatore tanto implacabile quanto solitario, Giacomo Di Vittorio, cui dovrebbe andare l'espressa gratitudine di molti editori italiani: pochi, come Di Vittorio, sanno bouquiner nei giacimenti librari antichi o prevedere le novità con una vibrazione d'antenne. Quanto al lavoro di Esteban Buch, la centralità e la compiutezza del suo libro, d'ora in poi riferimento obbligato anche per l'insolita efficacia dello stile e per l'amore dell'essenzialità, sono dipendenti dal disegno d'insieme e dall'articolazione in dettagli: il significato un po' riduttivo del titolo ne è completato. C'è, in primo luogo, la definizione di un'idea cardine: non c'è vera musica "politica" prima dell'era moderna, ossia prima del consolidarsi nella coscienza e nell'immagine pubblica (oltre che nelle istituzioni e nei rapporti di forza, ciò che in fondo è più facile a un gruppo di potere cinicamente organizzato) degli Stati assoluti e centralizzati, ma anche, ex converso degli Stati europei che con qualche approssimazione chiameremo "liberali", o meglio, "meno illiberali di altri" (neppure a Venezia e in Olanda la vita era rose e fiori per le teste pensanti). Su tale idea, prima disegnata e poi affilata con inconsueta chiarezza, si svolge la prima parte del libro, e diciamo, a complemento di un'anticipazione prima offerta ai lettori, che l'esser venuto "da fuori" dà a questo studioso extraeuropeo di nascita e per giunta ibero-americano (ma di origine centro-europea, alla lontana) un'indole che è felicemente ibrida culturalmente e, forse proprio per questo, fresca come un terreno che abbia compiuto il periodo di rotazione. La vicenda nasce non in Francia, non in Germania, meno che mai in questo o in quello degli Stati italiani: nasce, superfluo dirlo, in Inghilterra. I contrassegni musicali che lasciano il solco nella vita politica inglese vengono alla luce quasi simultaneamente: nel 1740, Rule Britannia, di James Thomson e Thomas Augustin Arne; nel 1742, l'Hallelujah dal Messia di Handel, musica dinanzi alla quale il re si alzò in piedi fondando una tradizione; nel 1745, il God save the King, melodia di autore sconosciuto ma tanto vitale da divenire l'inno svizzero, prussiano eccetera, oltre che britannico. La Nona Sinfonia di Beethoven, ottant'anni dopo, non ebbe la stessa capacità di penetrazione "politica", ma dopo altri novant'anni, al tempo della prima guerra mondiale, divenne oggetto di contesa tra gli apostoli della Kultur e quelli della civilisation (la polemica che oppose tra loro i fratelli Thomas e Heinrich Mann). Dopo il 1918, quando nacque l'Unione Paneuropea di Richard Coudenhove-Kalergi, si cominciò a pensare: "E se fosse il Finale della Nona l'inno nazionale di una futura Europa?". In mezzo, una vicenda capillare e ricca di curiosità, compresa la passione di Bismarck per la musica, da lui amata come "premessa della guerra e dell' alcova".
Riuscirà, l'ode An die Freude, a essere l'inno dell' Europa unita? Domanda di contorno: riuscirà, l'Europa, a meritare un suo inno, malgrado le scempiaggini commesse a piene mani dai politici europei e malgrado il crollo dell'euro? La risposta parrebbe facile e positiva: prima il corpo, poi lo spirito. Non siamo d'accordo: forse, se si fosse chiacchierato meno di valuta e si fosse ascoltata più musica di qualità, in ambito eurocratico, entreremmo nel nuovo eone millenario con meno timore e tremore (abbiamo citato un grande europeo: per lui, la musica era un'arma micidiale).
di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 25 settembre 1999)
Nessun commento:
Posta un commento