Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, maggio 31, 2006

Incontro con Sigiswald Kuijken

L'attività concertistica lo impegna sempre molto, ma Sigiswald Kuijken non rinuncia a ritagliarsi larghi periodi di tempo da passare con la moglie e i cinque piccoli figli. La casa è in campagna, vicino a Bruxelles; la città ideale però è Bruges, "Venezia del Nord", dove il violinista ha trascorso l'infanzia, e che adora. Dotato di una grande carica umana e di comunicativa immediata, Kuijken pare aver adottato una linea morbida in tutto: dalla dottrina macrobiotica, cui trasgredisce senza sensi di colpa nelle allegre cene dopo-concerto, alla stretta osservanza filologica, dove il rigore scientifico si stempera nell'estro di una personalità fantasiosa e creativa. Le Sonate e Partite di Bach eseguite nel ciclo milanese di San Maurizio l'inverno scorso, come le Sonate di Mozart portate in giro per l'Italia nello stesso periodo con Gustav Leonhardt al fortepiano, ne sono stata la testimonianza più fresca. La qualità delle esecuzioni di Kuijken, al violino come a capo della sua orchestra da camera, la Petite Bande, si può comunque verificare nelle numerose incisioni Seon e Telefunken distribuite in Italia.

Lei si è dedicato molto, in passato, anche alla musica contemporanea. Un interesse sempre vivo?
Di tanto in tanto eseguo ancora repertori non "antichi", ma vedo che purtroppo se ci si dedica a una tecnica si perde l'esercizio con l'altra, quindi ormai faccio poca musica contemporanea e ottocentesca. Del Novecento non eseguo avanguardia, ma autori come Boulez, che amo molto e che per certi versi è già un classico della nostra epoca, o Schönberg, Webern... Diversi anni fa facevo parte di un gruppo, l'Ensemble Musiques Nouvelles: abbiamo fatto concerti anche in Italia, e la prima esecuzione di Votre Faust di Pousseur, su testo di Michel Butor, alla Piccola Scala: era il '69, e c'è molta gente a Milano che se ne ricorda, credo; è stato un piccolo scandalo, l'opera è stata presa molto male, c'erano persone furiose tra il pubblico, ma è normale, era una cosa un po' forte. Molto interessante, però. Comunque ora sono più legato a un certo repertorio e anche se amo parecchio l'Ottocento, ad esempio, e mi piacerebbe tanto suonare Brahms, evito di farlo: è molto importante variare, non seppellirsi troppo in una specializzazione, ma non si può neanche far tutto, e il problema, come le dicevo, è proprio il cambiamento di tecnica e di interesse stilistico.
I compositori contemporanei che scrivono per strumento antico fanno cose interessanti o rischiano di snaturare lo strumento?
Sono operazioni che possono avere un senso come un nonsense. Dipende. Pensi ad esempio a Gesti, il pezzo che Berio ha scritto per flauto dolce: non è la tecnica originale dello strumento, ma lui ne ha fatto qualcosa di molto valido, mi pare. Non è il flauto dolce "normale", non è per questo che lo strumento è stato pensato, ma non mi sembra grave: se la musica è buona, accettabile, lo strumento non è che uno strumento, ma quando la musica è stupida, anche se è molto rispettosa... posso immaginare che qualcuno scriva ora un pezzo per flauto dolce rispettandone la tecnica antica, ma secondo me sarà un pezzo ridicolo, dato che la nostra musica non è più quella.
Suo fratello Wieland, violoncellista, ha condiviso con lei l'esperienza dell'Ensemble Musiques Nouvelles. Ma sempre con Wieland e con un altro fratello, Barthold, flautista, lei è da sempre in prima linea fra gli esecutori di musica antica. Com'è nata questa passione familiare?
Non ci siamo ben resi conto neanche noi dei motivi per cui abbiamo scelto tutti e tre questa strada. Semplicemente, Barthold e Wieland, più anziani di me di qualche anno, furono mandati ancora ragazzini, durante l'estate del '59, ad un corso "di musica", generico, in Germania; così, tanto per tenerli occupati durante le vacanze. Lì costruirono una viella, l'anno successivo altre due, ci mettemmo a suonarle ed io a sette, otto anni prima ancora del violino suonavo queste vielle. Erano strumenti spaventosi, naturalmente, ma quando poi ho fatto il mio normale iter di studi in Conservatorio mi è rimasta la nostalgia della musica antica. Lo stesso, più o meno, è stato per Barthold e per Wieland. Il più "artista" della famiglia, però, non è uno di noi, ma uno degli altri nostri tre fratelli, pittore, un temperamento veramente estroso. Adesso, però, ha cambiato tutto: a quarantacinque anni si è messo a insegnare disegno tecnico e a scrivere libri di geometria: curioso, no?
Com'è nata la Petite Bande?
E' stato una dozzina d'anni fa: la Harmonia Mundi tedesca aveva chiesto a Leonhardt di registrare la musica di Lulli per il Bourgeois Gentilhomme di Molière; io fui incaricato di formare questo ensemble, di trovare le persone e comporre l'orchestra, che poi fu diretta da Leonhardt. Non c'era, assolutamente l'idea di creare un'orchestra da camera permanente, era proprio funzionale a quel disco; quando però abbiamo visto che andava bene, che era interessante, abbiamo ripetuto l'esperienza un anno dopo, ancora con Leonhardt, e l'anno dopo ancora, finché lui mi ha proposto di dirigere anch'io il gruppo; da allora siamo sempre io e lui, mai qualcun altro, sarebbe troppo pericoloso. C'è molta gente che vorrebbe utilizzare un'orchestra così, ricevo spesso telefonate, per esempio di complessi corali che vorrebbero fare, che so, la Passione secondo Matteo, ma non è possibile darsi in affitto, teniamo troppo alla nostra indipendenza. Dunque all'inizio abbiamo fatto questa musica francese, e poi musica italiana, i Concerti grossi di Corelli, le Quattro stagioni di Vivaldi, oltre ad opere di Händel e di Rameau: il piano generale della Petite Bande si basa in fondo sui due stili, e sulle commistioni come le Suites per orchestra di Bach. Su un punto in particolare penso che il nostro apporto interpretativo sia stato nuovo, importante: caratteristica della musica orchestrale francese di quel periodo è l'unisono di oboi e fagotti con gli archi; e abbiamo visto che anche altrove e successivamente, in sinfonie di Haydn o di Mozart, rimane il residuo di questa immagine sonora: è appassionante constatare come poi tutto il diciottesimo secolo sia attraversato, definito da questo unisono oboe-archi. Il flauto è sempre un po', diciamo così, à cóté, tranne che in occasioni speciali, ma il suono dell'orchestra barocca, quando sono previsti i fiati, è sempre colorato molto caratteristicamente dall'oboe. Dieci anni fa, siamo stati i primi a evidenziare questo fatto e a rinnovare l'interpretazione di questo repertorio. Prima non era stato fatto niente; sì, si suonava un po' di Lulli, qualche altro autore, ma non comme il fáut.
Che strumenti impiega per i diversi repertori?
Ho un Grancino, fatto a Milano nel 1700, con un manico abbastanza lungo, che penso corrisponda ai modelli di Stradivari. Io lo uso a partire da Monteverdi, qualche volta ci suono un po' di Frescobaldi, cose così, anche se, a voler essere molto severi dal punto di vista storico, è ad esempio uno strumento troppo tardivo per Monteverdi; ma allora, se si vuole essere molto molto severi, neanche uno Stradivarius andrebbe bene. Però mi sembrano scrupoli eccessivi. Con lo stesso strumento posso arrivare fino a Beethoven, ma con un'accordatura un po' più acuta, delle corde un po' più grosse ed un archetto pure più grosso rispetto a quelli che uso per Mozart. Infatti per Mozart ne impiego uno dei suoi tempi, leggero ma molto lungo e resistente, mentre per Beethoven occorre un arco già quasi moderno, ed io ne ho uno dell'epoca che va molto bene; per la musica barocca invece ne ho un altro ancora, un modello dell'inizio del diciassettesimo secolo, anche questo originale. Insomma, è possibile adattare molto bene lo strumento ai vari stili cambiando accordatura, corde e archetto, dunque il mio Grancino non è un violino, ma tre violini, più o meno. Per la musica più recente, per quella contemporanea, uso ovviamente uno strumento moderno, "il" violino.
C'è qualche vezzo, qualche caratteristica insopportabile di chi esegue musica antica su strumenti moderni?
Sposterei il problema: a prescindere dal repertorio, direi che un certo modo di suonare meccanico, routinier, si riscontra con maggiore facilità negli esecutori "moderni"; intorno ai grandi interpreti di questi strumenti si sono formate delle scuole, e ai loro precetti si rifà piattamente la maggior parte degli insegnanti, soprattutto nei Conservatori. Nella musica antica è un fenomeno meno diffuso, ma già si stanno formando delle scuole, e ho paura che si finirà per cadere nella stessa trappola.

Patrizia Luppi (Musica Viva, Anno VIII n.10, ottobre 1984)

lunedì, maggio 29, 2006

Hopkinson Smith: eseguire Bach senza suonare le sue note

Trentaseienne statunitense, laureatosi in musicologia ad Harvard, Hopkinson «Hoppy» Smith si è perfezionato in liuto barocco a Basilea con Eugène Dombois, dopo aver studiato chitarra classica, ed aver affrontato il repertorio vihuelistico con il decano degli studiosi del siglo de oro, Emilio Pujol. Da qualche anno anche Smith insegna alla Schola Cantorum di Basilea, dedicando i corsi alla realizzazione del basso continuo e all'improvvisazione su strumenti antichi a corde pizzicate. Serissimo studioso, non si arresta però davanti a scelte molto personali nella realizzazione dei sacri testi, se ritiene di aver validi motivi; interprete preparato, di saldissima tecnica e di affascinante sensibilità, fa «passare» a chi ascolta, con inarrivabile, raffinata semplicità, anche un repertorio spesso intellettualmente molto difficile come quello per liuto rinascimentale del Cinquecento italiano, ad esempio certe composizioni di Francesco da Milano o di Alberto da Mantova. Ma per allentare un po' l'impegno del pubblico è capace di infilare tra i bis un pezzo per pianoforte di Mompou, un compositore spagnolo del nostro secolo, che Hoppy stesso si è divertito a trascrivere per liuto barocco.
A parte questa buffa cosa di Mompou, qual è il tuo atteggiamento verso i contemporanei che scrivono per strumenti antichi?
Credo sia possibile trovare buoni pezzi scritti oggi: prendi ad esempio il famoso Moto perpetuo per clavicembalo in cui Ligeti utilizza una caratteristica molto speciale dello strumento, lo stesso tipo di ostinato che è servito a Bach nella cadenza del quinto Brandeburghese. Però quando ho accennato ad un giovane compositore spagnolo che studia con me a Basilea la possibilità di scrivere un pezzo per il suo strumento, la chitarra barocca, mi ha detto: sarebbe come scrivere un pezzo di teatro d'oggi nell'idioma dei Cinquecento. Mi pare un bel modo di formulare il problema. Ma per qualcuno di parere diverso, che non lo consideri un anacronismo, mi sembra ci siano molte possibilità. lo sono senz'altro pronto a farmi sedurre da una cosa buona, che mi interessa. In questo non sono affatto dogmatico.
Non lo sei anche per altri argomenti, mi sembra. Per esempio, hai osato suonare brani di Bach originali per liuto trasportandoli in una tonalità che non era quella prevista dall'autore.
C'erano dei motivi fondati: la Suite in sol minore BWV 995 ha diversi accordi impossibili a suonarsi sul liuto barocco normale, così come sono scritti sull'autografo bachiano. Non c'è da scandalizzarsi: anche nella prima versione della Matthäuspassion ci sono in un recitativo alcuni accordi non suonabili nella parte della viola da gamba. In più, in quella suite per liuto c'è anche un sol grave che lo strumento normale a tredici cori non ha. Siccome desideravo suonare la suite ho dovuto cercare qualche compromesso: ho provato ad alzarla di un tono. Il la grave sul liuto c'è, e, ciò che è interessante, quegli accordi insuonabili cadono bene per la mano sinistra. Ma è sempre un compromesso, perché il carattere di sol minore è piuttosto differente da quello di la minore sullo strumento, dà un'atmosfera forse più profonda, più rilassata, mentre il la minore è diciamo così più «attivo». Insomma, ora sono un po' meno entusiasta di quando ho fatto quella trascrizione, che era in definitiva una maniera di suonare tutte le note di Bach senza suonarne nessuna. Comunque ci sono altri punti dove le opere bachiane per liuto presentano problemi analoghi; e, se vuoi una frase di quelle «importanti», sono sempre convinto che non c'è niente di sacro in una tonalità se rende un pezzo insuonabile.
Scusa, ma come può Bach aver sbagliato degli accordi, e addirittura aver previsto una nota inesistente? Non essendo liutista non conosceva forse perfettamente lo strumento, d'accordo, ma non può darsi che usasse un liuto con bassi aggiunti?
E' possibile che fosse un liuto con quattordici cori, ma non si può sapere. E poi, «sbagliare» è un termine un po' forte. Diciamo che andava oltre lo strumento; sempre, anche nella musica per clavicembalo, Bach domanda delle cose tecniche che nessun esecutore arriva a fare. Certo, quella nota inesistente... Per concludere, in generale credo che si debba avere una grande apertura mentale, la disponibilità costante a trovare la soluzione che in un dato momento ti sembra dia il miglior servizio alla musica che suoni. Non credo ci siano soluzioni definitive, come non esistono interpretazioni definitive.
Nei primi tempi in cui si tornava a suonare la musica antica si era però molto ligi al testo.
Sì, ed è sempre necessario conoscerlo il meglio possibile, e sapere quanto più si può sull'epoca, sul compositore, su tutto ciò che ha relazione con quella particolare musica. Ma la voglia di sapere esattamente come bisogna fare, il bisogno di essere certi, quella è una nostra mania: ci sentiamo insicuri e vogliamo una base indubitabile per convincerci che è storico quello che facciamo. Mentre è importante sapere quelle cose, ma non fini a se stesse, perché più importante è il discorso musicale.
Tu come lavori su un pezzo che stai studiando? Come nasce una tua esecuzione?
Senti, non è precisamente un argomento liutistico, ma per il basso continuo può essere importante: in occasione di un piccolo seminario che abbiamo tenuto a Basilea su Caccini si è parlato fra l'altro della sua teoria sulla necessità per il cantante di conoscere bene i differenti affetti per poterne amministrare la varietà in un pezzo, e di osservare una certa sprezzatura. E' una cosa piuttosto specifica, ma è anche una porta aperta per tutto un mondo soggettivo: quello della sprezzatura, di questa libertà ritmica aderente al testo, è un concetto molto affascinante e interessante anche per il liutista che realizza il basso continuo. Così come quando Caccini dice più o meno che al matrimonio lo sposo non deve essere vestito come un vecchio vedovo, e vuol dire: stai attento a non essere troppo limitato nei mezzi espressivi all'interno di uno stesso brano. Conosciamo, no?, certi musicisti che possono fare molta impressione ma sono praticamente incapaci di esprimere cose differenti fra loro. E poi c'è ancora una cosina che voglio dire su Caccini: come è fondamentale la teoria del parlar cantando, o del cantar parlando, credo sia ugualmente importante per l'accompagnatore, quando realizza il basso continuo, suonar parlando, o parlar suonando: devi sviluppare sul tuo strumento un linguaggio tanto variabile e forte nelle differenti maniere di espressione, quanto il cantante con la lettera del testo. Devi saper costruire qualcosa di elegiaco come qualcosa di percussivo; devi, quando il testo è erotico, essere erotico con lo strumento; quando il testo grida, gridare con lo strumento.
Quanto c'è di improvvisato e quanto di preparato prima?
Dipende. Se ad esempio c'è un basso complicato e c'è solo il liuto a realizzarlo, senza viola da gamba o violoncello, sei troppo impegnato nella realizzazione per occuparti molto degli abbellimenti, o di una seconda voce, o di accordi speciali. Devi quindi prepararti abbastanza a fondo. Se invece il basso è molto aperto, come a volte in Monteverdi, o Caccini, o Peri, sei molto più disponibile a reagire alla voce del cantante.
Ti soddisfa suonare con la voce, o preferisci farlo da solo, o con altri strumenti?
Ho fatto parecchi concerti solistici soprattutto negli ultimi due/tre anni, e mi piace molto, perché è la realizzazione del sogno che credo facciamo tutti quando iniziamo a studiare uno strumento. Ma dopo qualche mese di lavoro da solo sono sempre contento di suonare con altri. La cosa fantastica del basso continuo, quando lo realizzi come io faccio sia col liuto rinascimentale che con quello barocco, con la tiorba, con la chitarra barocca, è che ti immergi immediatamente nel mondo della musica degli altri strumenti, che spesso è abbastanza diversa da quello del liuto solo. E' un'esperienza divertente e molto formativa per lo sviluppo della propria sensibilità musicale, per la possibilità di buone integrazioni alla propria concezione della musica liutistica.
Il primo strumento su cui ti sei formato è stata la chitarra cosiddetta «classica», come è successo a molti liutisti, soprattutto negli anni passati. Ora invece spesso si parte direttamente con la tecnica liutistica. Che differenze credi ci siano fra le due categorie di esecutori? Ti sono rimaste influenze di quello studio?
Si potrebbe fare il paragone con un americano che conosce molto bene il francese e poi impara l'italiano: sarà sicuramente aiutato dal fatto di sapere il francese; ma si può imparare subito l'italiano. Io comunque all'inizio usavo le unghie della destra per pizzicare le corde del liuto, come si fa con la chitarra; quando ho commissionato il mio primo liuto lo volevo con i tasti di metallo come quelli della chitarra, e quando il liutaio mi ha praticamente imposto quelli di budello ero poco convinto. Non ti dico la prima volta che mi sono tagliato le unghie: non va, non può andare, mi dicevo. Ma è bastato poco per cambiare completamente idea. Ora non credo di avere una tecnica fissa, sono sempre in cerca di qualcosa che possa aiutarmi a servire meglio la musica. Ma adesso suono la chitarra dell'Ottocento come il liuto: senza unghie, col mignolo appoggiato. Sono diventato più realista del re.

intervista di Patrizia Luppi (Musica Viva, Anno VII n.1, gennaio 1983)

sabato, maggio 27, 2006

Enigmi doppi per "Turandot"

Rimasta, com'è noto, incompiuta alla morte di Liù, in realtà Turandot possiede due finali: realizzati entrambi da Franco Alfano. L'esistenza del secondo finale storicamente il primo ad essere realizzato - era nota agli studiosi, ai possessori di alcuni spartiti d'epoca: il sospetto era venuto a molti appassionati che potevano riscontrare curiose differenze tra il testo di alcuni libretti ancora in uso e quanto dato da ascoltare. Ma finora la questione era rimasta a mollo, senza venire riportata in superficie, probabilmente per motivi editoriali - gli stessi che oggi impediscono l'esecuzione di Turandot senza il finale e che hanno congiurato a che la partitura della fatidica versione primitiva venisse "scoperta" nientedimeno che in archivio Ricordi... - e per una certa pruderie nei confronti di un intervento toscaniniano inaspettato.
La storia, in breve. Il completamento di Turandot venne commissionato da Ricordi ad Alfano nel luglio 1925: il compositore lavorò rapidamente, senza però poter utilizzare tutti gli schizzi manoscritti di Puccini né poter venire a conoscenza del resto di partitura, in fase di stampa. Difatti nel gennaio dell'anno successivo Alfano si rivolge a Ricordi chiedendo un adeguamento di compenso in considerazione del fatto che avrebbe dovuto rifare parte del lavoro poiché in ritardo gli erano stati dati altri appunti pucciniani riguardanti la strumentazione. Da due lettere partite da casa Ricordi, per Alfano e per Toscanini, si capisce che in un paio di settimane il povero compositore dovette riprendere in mano il tutto inserendo i suggerimenti pucciniani e soprattutto apportando diversi tagli e spostamenti che da New York Toscanini gli aveva imposto. Il direttore agiva in pieno rispetto dell'originale serie di appunti di Puccini, senza però tenere conto della personalità non impiegatizia del musicista (da lui raccomandato a casa Ricordi) che aveva voluto realizzare una partitura coerente e omogenea. Da un punto di vista puramente formale e musicale è dunque la prima versione a essere più valida; se invece valutiamo il rapporto rigoroso appunti di strumentazione - strumentazione definitiva non c'è dubbio che la versione oggi comunemente eseguita (abbreviata di 110 battute di musica: quando Toscanini chiedeva tagli, non scherzava) sia meno lontana dall'originale.
Alla luce di queste documentazioni come comportarsi oggi? Continuare a eseguire il finale nella versione sfrondata pesantemente che per potere inserire tutti gli appunti pucciniani ha subito anche sacrifici sul piano della drammaturgia (la rapidità dei trapassi psicologici di Turandot fa invidia a Pinocchio), oppure ritornare alla prima edizione, oggi messa a disposizione, già eseguita a Londra in forma concertistica e prevista per la Turandot 1984 di Torre del Lago?
Jürgen Maehder, il ricercatore a cui si devono tali notizie e valutazioni critiche, ha fatto di più proponendo una soluzione di compromesso a nostro parere onestissima ai fini rappresentativi, cioè dando la preferenza alla prima versione con l'inserimento delle prime sessanta battute della seconda che tengono conto di appunti pucciniani prima ignorati da Alfano. Ma il consiglio editoriale finale è salomonico: realizziamo una partitura critica che offra all'interprete e allo studioso in appendice la riproduzione di tutti gli appunti originali di Puccini (alcuni fogli sono stati finora vietati anche agli studiosi) e delle due versioni di Alfano. Anticipando e sintetizzando i dati emersi da una ricerca di un quadriennio (prossimamente pubblicata su Analecta Musicologica, volume XXII), dedicata appunto al capitolo Puccini-Alfano esaminato dal lato tecnico, Maehder ha poi ricordato che nel pieno rispetto delle altezze, delle armonie e dei ritmi Alfano realizzò in realtà un lavoro ottimo sotto il profilo creativo ma indiscutibilmente suo (alcuni confronti con la precedente Leggenda di Sakuntala sono illuminanti): equivocando in modo incredibile ad esempio il problema-timbro di Puccini, ma cercando di realizzare un quadro dallo sviluppo più naturale possibile. Definita felicemente da Maehder "La trasformazione interrotta della principessa", la questione del finale di Turandot - di cui è stato offerto l'ascolto della registrazione londinese - ha accentrato com'era prevedibile gli interessi per il convegno "Esotismo e colore locale pucciniani" tenuto a Torre del Lago nei primi giorni di agosto sotto la presidenza di Simonetta Puccini. Alla tre giorni coordinata dallo stesso Maehder ha preso parte anche Mosco Carner, autore di una relazione introduttiva presto superata dalle più spregiudicate analisi degli altri congressisti. Se le differenze tra i due finali di Turandot sono state usate da Cesare Orselli per spezzare una lancia (provocatoria?) a favore della complessiva mancanza di trapassi psicologici di tutta l'opera (quindi pollice levato alla seconda versione), la tesi di Maehder è parsa condivisa dagli altri intervenuti anche se tutte le relazioni che hanno sfiorato il pianeta-Turandot hanno posto l'accento sull'antinaturalismo radicale dell'opera, sul suo creare personaggi privi di reali connotazioni psicologiche. Fedele D'Amico, prima di addentrarsi in una "lettura" de Il Tabarro dimostrandone il peregrinare musicale attorno allo stesso disegno ritmico a terzine che evoca il fluire della Senna, ha posto ancora l'accento sulla ritualità livida di Turandot; Enzo Restagno ha ripercorso l'opera come un teatro di marionette grandiosamente crudeli, mentre le questioni direttamente connesse al termine esotismo hanno scatenato le analisi, fino alla sottile sottolineatura di Piero Santi che ha ipotizzato il vero esotìsmo di Madama Butterfly (esotismo, su questo erano quasi tutti d'accordo, inteso come costruzione di una realtà ambientale funzionale alla drammaturgia) nel ricorrere tra le linee strumentali dell'Inno Americano, cioè il "remoto" di Cio Cio San.
Le questioni inerenti a Turandot sono state sfiorate da molte relazioni. Mentre altre occasioni "esotiche" pucciniane sono state scandagliate dal 'rondinologo' Alfredo Mandelli (con l'analisi di episodi di Tosca e La Rondine), da Peter Ross (su Madama Butterfly), da Michael Saffle (sul colore armonico di Fanciulla del West e Turandot) da Susanne Strasse Vill e Olga Visentini su questioni laterali riguardanti il testo gozziano e quello esotico in genere, da Jürgen Lenkel (sugli elementi extramusicali presenti in Puccini), mentre una dimensione singolare del linguaggio pucciniano, equidistante dall'esotismo come dal colore locale eppure adiacente ad entrambe le 'tinte', come il settecentismo che cifra Manon Lescaut, è stata investigata originalmente da Michele Girardi.
A Sylvano Bussotti, tra reminiscenze di organizzatore, amori di pucciniano e seduzioni di poeta, la conclusione del convegno. Per dire: il primo organizzato nella cittadina natale. Mentre dalle finestre di Villa Orlando tra salici e canneti il lago imbronciato diffondeva umori pucciniani sottili.

Angelo Foletto (Musica Viva, Anno VII n.10, ottobre 1983)

giovedì, maggio 25, 2006

Sergiu Celibidache a Napoli

Dal 1971 il direttore rumeno non metteva piede in Italia. Deluso dall'ambiente musicale, snobbato dagli addetti, in continua tensione con i professori d'orchestra di tutti i complessi se n'era andato malgrado l'affetto che lo lega al nostro paese. C'era l'occasione di riascoltarlo dopo tanti anni, a capo dell'orchestra Filarmonica di Monaco di cui è direttore stabile dal 1979, e soltanto il San Carlo s'è inserito nel percorso di una tournée che aveva fatto tappa in Spagna e in Francia. Già questo la dice lunga sulla considerazione di cui gode un interprete che per molti anni nel Dopoguerra era considerato l'unico concorrente degno di Karajan. Certo, l'essersi sottratto al meccanismo commerciale discografico ha fatto sì che il suo nome circolasse con minore intensità di quello del direttore austriaco, ma ugualmente stupisce l'avarizia di consensi ottenuta da Celibidache, sicuramente il direttore più pensante e, a ragione veduta, provocatorio espresso dalla generazione post-Furtwängler, a cui è legato da circostanze non sottovalutabili (a ventisei anni, nel 1938, Celibidache si perfeziona a Berlino; nel 1945 prende la direzione dei Filarmonici di Berlino fino al ritorno di Furtwängler, nel 1952). Del personaggioC elibidache ci occuperemo in un prossimo numero, con la testimonianza della piacevole conversazione combinata fortunosamente dopo il secondo concerto napoletano; qui ci limiteremo a elementi di riflessione sull'originale statura di musicista e di affascinante direttore.
Il programma napoletano proponeva un accostamento un po' azzardato spettacolarmente ma storicamente perfetto. L'ultima partitura sinfonica di Haydn (la Sinfonia n.104, conosciuta come «Salomon» o «London») con la Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore (meglio nota come «Romantica») di Bruckner, primo lavoro orchestrale bruckneriano che ebbe riconoscimenti pubblici. Se pensiamo a quanto di estraneo alla cultura viennese s'annida nel sinfonismo eclettico di Mahler, le due parti del concerto coprivano il cuore Il storico" del sinfonismo classico occidentale, in modo esemplare.
Due facce della medesima medaglia. Due facce dell'impostazione direttoriale di Celibidache che ideologizza le pulsazioni temporali mettendole in relazione con la "densità" del tessuto musicale complessivo: la sinfonia haydniana era infatti articolata in modo scorrevole, molto rilevata negli accenti e nelle cerniere formali inevitabili - tra l'altro i punti precisi gestualmente sottolineati con anticipo musicale vistoso - tutta giocata sulle sfumature agogiche e dinamiche sottilissime, soprattutto nelle risoluzioni o negli attacchi più segreti della trama orchestrale, uscendo lumeggiata con incisività, trasparenza e distaccata eleganza (come quella di un gesto affascinante, espressivo, implacabile anche quando si compiace di solleticare colori e vibrazioni con la bacchetta passata sussiegosamente alla sinistra).
Nella Quarta di Bruckner il procedimento applicato in modo contrario dà come primo esito la dilatazione ebbra dei tempi. La Sinfonia bruckneriana più popolare, anche perché la più breve, sembrava infinita; cronometrata avrebbe serbato delle sorprese. Ma non è certamente qui il punto interessante, piuttosto l'osservazione che la coerenza della lettura di Celibidache forniva alla partitura tutta una serie di motivazioni costruttive altrimenti ignorate. Ad esempio la parabola perfetta descritta dal lavoro era specchiata benissimo dall'esecuzione che "bloccava" per così dire, in un'articolazione spazialmente immensa (di qui l'impressione di granitica immobilità pure nella sensazione di un progressivo accumulo di tensioni e materiali musicali) le frange estreme dei movimenti esterni: l'arcano inizio della Sinfonia, il suo pigro costituirsi di temi e colori primigeni in un crescendo immane e fuori dal tempo - nello spazio, appunto - si rifletteva nell'ansiosità stagnante, nella decomposizione strutturale melodica cui l'ultimo movimento sembrava essere votato. L'indeterminazione timbrica e sentimentale vista nella fase di coscienza e poi in quella dell'irrimediabile distacco; possiamo anche azzardare il sostantivo nostalgia, ché la riflessione sulla «Romantica» stuzzicata dalla lettura densissima eppure così ariosa di Celibidache, lasciava spazio a un atteggiamento visionario, di riconquista e smarrimento, cui non erano estranee tinteggiature sensuali e naturalistiche (quelle mahleriane strutturali che aprono la Prima, e rievocano lo sprofondare wagneriano nel Reno). La stessa metamorfosi delle idee tematiche attraverso i vari movimenti della Sinfonia ne era evidente conferma; come la correlazione calcolata delle varie sezioni. Pensiamo al senso sollevante che accompagnava ogni irruzione del secondo tema nel «Mosso, ma non troppo presto» iniziale, in gara con l'ancora meno pensoso che cifrava gradualmente le riprese dello spunto iniziale. Pensiamo alla nascita, come dal nulla, del tema dei violoncelli nell'«Andante», alla tinta notturna e malinconica delle sommesse riesposizioni contrapposte alla riemersione del tema-base (ancora ai corni) tra il trasognato e il minaccioso; a sua volta in conflitto con la brillantezza ludica dell'episodio ripetitivo tra archi e fiati che prelude alla coda attraversata dal gioco imponente degli ottoni prima di sprofondare nel nulla. Dal nulla prende vita la fosforescente illustrazione dello Scherzo, mentre l'oasi «non troppo presto» del Trio veniva giostrata flessibilmente, tra rubati e ombreggiature timbriche lievi. Pennellate forti di luce e proporzioni sonore guidano invece il percorso del quarto tempo: una lettura geometrica, frammentaria quando non miniaturizzata, di aderenza totale al dettato disomogeneo della stesura sinfonica bruckneriana. Questa specie di trascendenza assaporata, rispetto alle procedure e al nitore costruttivo classico, tipica del mondo musicale di Bruckner era testimoniata dall'esecuzione in modo spaventosamente assiomatico.
Una lezione di civiltà musicale da lasciare ammutoliti e pensierosi, piuttosto che un'esecuzione da salutare con spontaneo entusiasmo di applausi unanimi. Ma non sono mancati di certo quelli per il maestro e la Filarmonica di Monaco, orchestra di rango, ben regolata in tutti i reparti (con una certa esuberanza dei fiati rispetto al resto), non eccezionale ma guidata con una professionalità e una forza di cui si può continuare a meravigliarsi.

di Angelo Foletto (Musica Viva. Anno VII n.11, novembre 1983)

martedì, maggio 23, 2006

Schubert: in lode del Tokay

Guardiamo più da vicino l'ambiente dove Schubert ha vissuto nei mesi estivi dell'anno 1818, e vediamo come si svolgeva la sua vita. Zseliz, oggi in Cecoslovacchia (si chiama Zeliezovce), è una cittadina sul fiume Garam (in cecoslovacco Hron), un affluente di sinistra del Danubio, dove sfocia dirimpetto alla città ungherese di Esztergom, 50 chilometri a nord-ovest di Budapest. In questo splendido paesaggio collinoso, ricco di foreste e, a tratti, intensamente coltivato, sorgeva il piccolo castello degli Esterházy, non lontano da quell'altre castello abitato, qualche decennio prima, da Haydn: con la facciata coperta di glicine, il vastissimo parco e l'immensa proprietà fondiaria. Schubert vi era giunto ai primi di luglio, percorrendo con la carrozza di posta la strada lungo il Danubio. «Il nostro castello non è grande - serive agli amici l'8 settembre, - ma elegante. E' circondato da un meraviglioso giardino. Io abito nell'Ispettorato [una dipendenza del castello riservata alla servitù]. L'ambiente sarebbe abbastanza tranquillo, se non fosse per una quarantina di oche che a volte starnazzano così rumorosamente tutte insieme, che non si sente più la propria voce. Le persone che mi circondano sono tutta brava gente. Deve essere raro per i dipendenti di un conte andare tutti così d'accordo. Il signor Ispettore, uno slavo, è un brav'uomo, e ha una grande opinione del suo talento musicale. Suona sul liuto delle Danze Tedesche in 3/4 con abilità. Suo figlio studia filosofia, è qui per le vacanze, e io spero di poterlo frequentare. Sua moglie è una donna, e come tutte le donne si crede adorabile. L'amministratore è molto abile, è un uomo che ha uno straordinario intuito per le proprie tasche e la propria borsa. Il dottore, molto preparato, è malato a 24 anni come una vecchia signora. Ciò è innaturale. Il chirurgo, che mi è simpatico, è un bel vecchio di 75 anni sempre arzillo e contento. Possa Dio rendere tutti così contenti a quell'età. Il maggiordomo è una persona semplice, eccellente. Un amico del conte, un vecchio di allegra compagnia e un buon musicista, mi tiene spesso compagnia. Tutta brava gente: il cuoco, la cameriera, la governante, la bambinaia, il dispensiere e 2 stallieri. Il cuoco è uno scavezzacollo, la governante ha 30 anni, la cameriera è molto graziosa e mi tiene spesso compagnia, la bambinaia è una brava vecchia, il dispensiere è mio rivale. I due stallieri se l'intendono più coi cavalli che con gli uomini. Il conte è piuttosto burbero, la contessa altera ma più sensibile, le contessine delle brave bambine. Finora mi è stato risparmiato di mangiare con la servitù. Ora non ho più niente da dirvi; voi che mi conoscete, potete ben pensare come con la mia naturale sincerità mi trovi proprio bene con tutta questa gente».
Piuttosto che scherzoso, questo quadretto dipinto da Schubert è spietato. Con tutta questa "brava gente" non ci sono molte possibilità di avere buoni rapporti d'amicizia, non c'è quasi la possibilità di scambiare qualche buona parola. Non resta che la governante molto carina, la quale lascerà però a Schubert un terribile ricordo di sé, quella malattia venerea che sarà uno dei motivi della sua morte prematura a 31 anni.
Più che nei rapporti sociali, nel dialogo con la gente che lo circonda, Schubert troverà motivo di particolare interesse nel paesaggio, nella natura, nel lavoro: un interesse un po' insolito da parte del musicista che amava passare la maggior parte del suo tempo nelle case degli amici e nelle osterie. «Le messi sono meraviglios qui. Il frumento non è messo in grana come in Austria, ma se ne fanno enormi mucchi, che chiamano tristen [ ... ]. Sono eretti con tale abilità che la pioggia, che è fatta scorrer via, non provoca danni» Forse, in questa occasione, ebbe un primo contatto con la musica popolare ungherese, ma nella sua produzione non se ne trova ancora traccia. La si trova invece sei anni dopo, quando Schubert è nuovamente invitato dal conte Esterházy nel castello di Zseliz (metà maggio metà ottobre 1824). Il 2 settembre scrive una Melodia ungherese per pianoforte, e negli stessi giorni il Divertissement à la hongroise op. 54 per pianoforte a 4 mani (pubblicato da Artaria nel 1826) che riutilizza lo stesse tema del brano precedente. E' un'opera di vaste dimensioni e di grande interesse, per quel caratteristico tono di improvvisazione che la anima, per il ritmo vigoroso, per i caratteristici abbellimenti della linea melodica: il tutto visto come attraverso un alone di malinconica tenerezza, compresa la breve marcia centrale in do minore.
Ma anche questo soggiorno è povero di musica, e ricco di malinconia. Pare che Schubert si fosse innamorato di Karoline Esterházy, che aveva ormai diciannove anni, e alla quale dedicherà la splendida Fantasia in fa minore per pianoforte a 4 mani op. 103 (pubblicata postuma da Diabelli nel 1829); ma le sue lettere agli amici lontani sono sempre improntate alla più acuta nostalgia per Vienna. «Se solo fossimo insieme, tu, Schwind, Kupelwieser e io - scrive a Schober, - ogni disgrazia ci sembrerebbe una sciocchezza; ma siamo separati, ognuno in un angolo diverso, e questo mi rende tanto infelice. Io vorrei dire con Goethe: "un'ora sola di quell'incanto della beata lontana età!" [...] Ora me ne sto qui solo, nel cuore del paese magiaro, dove mi sono purtroppo lasciato attirare una seconda volta, senza avere una sola persona con cui poter dire una parola sensata. Ho scritto ben pochi Lieder dal momento che tu sei partito, ma ho esercitato la mano in alcune opere strumentali [...]. Nonostante che io stia bene in salute da 5 mesi, la mia allegria è frequentemente offuscata dall'assenza tua e di Kupel [Kupelwieser] e spesso trascorro giorni di grande miseria».
 
di Eduardo Rescigno (da "Grande Storia della Musica", Fratelli Fabbri 1978)

domenica, maggio 21, 2006

Il travestito

Tornando da una lunga tournée all'estero, al valico di ponte San Luigi, tra Mentone e Ventimiglia, esibii, come al solito, il passaporto. La mia macchina era stipata fino all'inverosimile, da bauli e valigie.
Alla domanda di rito del giovane doganiere, su cosa avessi da dichiarare, risposi candidamente: "Nulla, ciò che porto con me, sono, soprattutto, costumi teatrali. Sa.... sono un cantante lirico, io ... !". E così dicendo, gli feci vedere una fotografia del famigerato Rasputin, l'ambiguo personaggio che avevo appena interpretato.
Il giovane, disorientato ed alquanto insospettito, guardando la strana immagine, mi chiese: "Chi è questo barbone?". "Sono io, naturalmente", risposi con fierezza, al che lui, sgranando gli occhi, fissandomi intensamente e confrontandomi con la foto, minaccioso esclamò: "Ma allora, lei si traveste!? Lei usa barba e baffi?! Cambia connotati, insomma! Si metta da parte ed apra tutto!!!". Urlò.
Sotto gli sguardi divertiti di chi, invece, transitava velocemente, rimasi, ahimè, bloccato per ore alla frontiera.
Quella volta, la tanto decantata passione per la lirica non aveva funzionato.

dai "Ricordi teatrali" di Raffaele Arié

venerdì, maggio 19, 2006

Pierre Boulez: difesa di Alban Berg

Célestin Deliège - Sin dall'inizio lei ha parlato di Berg. Orbene, ci troviamo adesso ad evocare un periodo della sua evoluzione in cui Berg rappresentava un valore che lei non voleva affatto riconoscere. Ci si ricorda dell'articolo apparso nel secondo numero della rivista «Polyphonie» - ci aveva d'altronde colpito molto a quell'epoca -, in cui Berg era duramente malmenato dal polemista che lei già era. Ma mi sembra ora che questa posizione sia stata molto corretta. E' il mestiere di direttore d'orchestra che le ha fatto riassimilare Berg in modo differente o, forse, lei ha conservato la sua posizione originaria solo su certi aspetti dell'opera di Berg?
Pierre Boulez - No, avevo già riassimilato Berg prima di farlo con la direzione d'orchestra, quando avevo analizzato Wozzeck per i miei allievi, al corso di Basilea nel 1960. In ogni modo, Wozzeck è un'opera che mi ha sempre affascinato moltissimo (affascinato nel bene e nel male). Ma, allora in particolare (e nel 1945 in modo speciale), tutto il romanticismo mi infastidiva profondamente, specialmente per una ragione del tutto esteriore, l'ambiente sociale. In quel periodo difficile in cui si negava il valore di Schönberg e molto piú ancora quello di Webern, il solo compositore della scuola di Vienna ritenuto giustificabile era Berg perché, si diceva, era «umano», perché era «il solo che scrivesse della musica», perché s'occupava dell'«espressione», ecc. (Lei ha sentito questi argomenti come me, ed erano estremamente irritanti). Ecco una delle ragioni che mi hanno fatto scendere in guerra. Questo qualunquismo romantico - e ci metta tutte le virgolette che vuole - faceva la delizia del mondo musicale che s'incanagliva in Berg, ma non andava ad incanaglirsi in Webern: ecco, è stata proprio questa la molla della polemica. Sapevo anche benissimo che, per trovare un nuovo vocabolario, non era verso Berg che mi sarei orientato, perché, al contrario, era, oserei dire, da questo punto di vista, come la fine d'un mondo.
E' in seguito - le ho detto come si trae dalle persone il profitto che si vuole - che mi sono legato alla complessità di Berg. Ricordo molto bene che, molto presto, nel 1948, quindi pochissimo tempo dopo l'articolo che lei cita, ho studiato - per la prima volta avevo avuto la partitura lungamente in mano - il Kammerkonzert, un'opera che mi ha fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben altro che quella specie di romanticismo facile da cogliere al primo approccio. E, di scoperta in scoperta, ciò che mi ha appassionato via via, è la complessità di quello spirito: la proporzione dei rapporti interni, l'intrigo della costruzione musicale, l'esoterismo stesso di molti rapporti, la densità della struttura, tutto quell'universo che è in perpetuo movimento e che non cessa di ruotare su se stesso, tutto ciò è assolutamente affascinante. E' un universo che non è mai finito, un universo sempre in espansione, un fatto molto riflettere. Lí ho visto che in Berg c'era ben universo cosí profondo, cosí denso e cosí ricco, e che implica una tale conoscenza dell'opera per analizzarla, che si può tornarvi quattro o cinque volte; vi si trovano dei rapporti estremamente sfuggenti che si colgono solo alla terza o alla quarta lettura.
Viceversa l'opera di Webern, una volta che se ne è capita l'essenza ed il vocabolario (specialmente nelle ultime opere, beninteso) non esige una serie di letture differenti. E' come un quadro di Mondrian. Lei ne vede la perfezione, ed è molto sorprendente perché questa giunge sino alla spogliazione piú totale, sino ad una perfezione che è veramente un'ascesi; ma quando lei rivede quel quadro (o quei quadri) piú tardi, non ha piú nulla da prendere. Per lo meno, è il mio parere, o le dico quel che ne traggo: è finito, rivedo il quadro tale quale, ma non ho diversi livelli di lettura. Viceversa - prendo apposta un esempio in un passato storico, in un'epoca che non mi riguarda piú -, se contemplo certi quadri di Cézanne, ho tali e tanti livelli di lettura, secondo la complessità dell'opera, secondo i rapporti, secondo i dettagli infiniti dell'architettura o della struttura stessa, che, veramente, posso leggere questo quadro cinque, dieci volte e la struttura mi lascia sempre in ombra dei particolari che non sono mai completamente sicuro di avere esaurito. Ebbene, in Berg, in molti momenti, ho quest'impressione, d'un'opera molto difficile, di cui è molto arduo esaurire la struttura. A dispetto della sua comunicazione abbastanza facile, nella maggior parte dei casi, è un'opera che si può riprendere cinque, sei volte, soprattutto se è di vaste dimensioni.
Questa idea dei «livelli di lettura» in un'opera è un'idea che mi è molto cara. L'ho detto numerose volte: per me l'opera dev'essere come un labirinto, ci si deve poter perdere. Un'opera di cui si scoprono i percorsi in modo definitivo in una volta sola è un'opera piatta, che manca di mistero. Il mistero dell'opera sta, giustamente, in questa polivalenza dei livelli di lettura. Sia essa un libro, un quadro o un pezzo di musica: questa polivalenza dei livelli di lettura è, per me, qualcosa di fondamentale nella mia concezione dell'opera.
Célestine Deliège - Si potrebbe dunque dire che, se il mondo musicale dell'epoca si teneva caro Berg in cui vedeva il solo compositore «umano» dei tre viennesi, era perché non ne aveva percepito gli strati profondi. Tuttavia, sta di fatto che a quell'epoca lei non lottava soltanto contro un luogo comune e, per esempio, mi ricordo che lei prendeva di mira quel passaggio del Concerto per violino in cui c'è contraddizione linguistica tra il corale di Bach ed il linguaggio della parte violinistica che gli si oppone. Ritiene, ora, piú «virtuosa» questa forma di coesistenza delle grammatiche e degli stili in quest'opera?
Pierre Boulez - Sono ancora fermamente persuaso che non ci sia coesistenza possibile. Nel caso che lei cita, direi che si tratta di un gesto drammatico. Non penso che sia un gesto molto profondo, al contrario, è piuttosto un gesto d'inquietudine, può darsi anche di rifiuto d'una norma di comportamento tipicamente contemporaneo. Cè una specie di nostalgia del mondo antico che si è ritrovata molto dopo, in opere molto piú recenti. Ho un amico che aveva per questo una espressione molto graziosa, diceva: «Ci sono dei compositori che vogliono a tutti i costi riscoprire il gruppetto». Trovo questa espressione abbastanza incisiva, ma molto ben scelta, poiché, in effetti, i tentativi di ricupero non hanno alcun interesse per il futuro. Secondo me, se si vogliono conservare certi aspetti del passato ed integrarli nel nostro pensiero attuale, bisogna farlo in modo estremamente astratto. Si può prendere come forma interessante del passato lo schema di una scrittura obbligata - eventualmente d'una scrittura canonica - e di una scrittura libera. Cosí, il voler mantenere il principio della scrittura canonica è valido, ed impone una responsabilità estremamente severa rispetto agli intervalli che si scrivono: ammetto una trascrizione in questo senso; ma non per questo voglio rifare dei canoni in senso accademico. Parimenti, è possibile riscoprire delle funzioni armoniche...
A questo proposito, ecco un punto in cui i tre viennesi avevano d'altronde molte altre preoccupazioni -, sono stati abbastanza deboli. Pensi, in particolare, ai temi melodici di Schönberg, il tema delle Variazioni op.31 per orchestra, per esempio: è una melodia e Schönberg credeva che fosse sufficiente aggiungervi i complementari cromatici per arrivare a fare un'armonia conveniente. Era una specie di dogma astratto, per cui si mettevano tre o sei suoni, poi gli altri sei, e ciò doveva produrre un'armonia funzionale. Era una concezione assai debole, le funzioni armoniche sono di tutt'altra natura, non sono solo funzioni di complementarietà. Se si vogliono riscoprire delle funzioni armoniche, cosa in effetti molto importante, bisogna sapere che non le si riscoprirà nel nostro vocabolario attuale cercando semplicemente di ricollocarvi il ciclo delle quinte o di riprendere il vocabolario tonale allargato e di fargli dire ciò che non può esprimere. Tali mezzi portano ad una contraddizione completa, fanno sorgere connotazioni che, non solo rompono l'unità d'uno stile, ma rompono completamente il progetto estetico. In questo senso ci sono delle forze centrifughe nella composizione che non c'è mezzo di unire. Forse talvolta, ma non sempre, visivamente, i pittori hanno potuto provare a fare certi collages con un materiale sufficientemente neutro. In questi casi, in generale, essi prendevano un materiale che poteva integrarsi in una nuova forma, proprio perché era veramente neutro. Orbene, il materiale musicale, per sua stessa definizione, non è neutro. Esprime una qualità stilistica, e, nel momento in cui questa qualità è ricollocata all'intemo d'un materiale piú generale, c'è un buco, vale a dire che questo pezzo di carta incollata, o piú esattamente di musica incollata, semplicemente si disintegra: allora, non solo non esiste alcuna funzione globale che potrà particolarizzarsi in questo o quel riferimento ad un dato stile, ma al contrario, un pulviscolo di frammenti che non hanno piú assolutamente alcuna unità formale; e questo perché anche la forma in musica dipende essenzialmente dal materiale. Quando il materiale diventa un campionario, la forma, anch'essa, diventa un'accumulo di campioni.
No, veramente da quel tempo di cui lei parla, non ho assolutamente cambiato il mio punto di vista; sono, al contrario, forse piú severo ancora di quanto non fossi a quell'epoca: la nostalgia mi interessa sempre meno!
intervista a Pierre Boulez (da "Per volontà e per caso"), Nuovo Politecnico 94 - Einaudi 1977

mercoledì, maggio 17, 2006

Giuseppe Verdi: Messa da Requiem

La composizione è introdotta dal tradizionale Requiem aeternam, cantato dal coro, su un intervento leggerissimo degli archi, sottovoce, il più piano possibile, come prescrive la stessa partitura, nel corpo della quale Verdi fa largo uso di indicazioni di pianissimo: le partiture di Verdi sono ricchissime di segni dinamici e di indicazioni di "coloritura", come pure di ulteriori raccomandazioni (per esempio, nel Requiem: "le corde ben tese onde questo contrattempo riesca secco e molto forte"; "allentate le corde"; "estremamente piano pppp con voce cupa e tristissima"; "sempre cupo e pianissimo", ecc.).
Il coro prosegue con Te decet hymnus, riprende poi brevemente il Requiem aeternam che introduce il Kyrie, nel quale si presentano i quattro solisti (soprano, mezzosoprano, tenore, basso) con brani di appassionata cantabilità. Esplode quindi l'apocalittico Die irae: lo annunciano quattro accordi di tutta l'orchestra, secchi e tesi, seguiti da gruppi di note rapidissime a disegno discendente. Su un lungo tremolo di due note (sol-fa diesis) e nota (sol) tenuta dai bassi della sezione corale, si snodano i cromatismi discendenti dei soprani, contralti e tenori del coro, in unisono: ogni semifrase è intercalata ancora dai quattro accordi (con la grancassa in contrattempo) e dai gruppi di note rapidissime e raccolte in serie discendenti. Si genera in tal modo un clima espressivo acceso di violenza e terrore. Il movimento si chiude con accenti cupi, ai quali segue l'enunciazione del Tuba mirum, contraddistinto dagli squilli delle trombe, sia presenti nell'orchestra, sia celate, così da sembrar lontane; interviene, poi, al verso "Mors stupebit", il basso solista.
Liber scriptus è intonato dal mezzosoprano solista. Una progressione in crescendo degli archi e del coro reintroduce il Dies irae. Al termine di questa seconda ripresa del brano principale, è ancora il mezzosoprano, con l'accompagnamento lamentoso del fagotto, che intona Quid sum miser. Si uniscono gli altri solisti; maestosamente i soli bassi, dapprima seguiti dai tenori poi da tutto il coro, che introducono Rex tremendae majestatis.
Il brano successivo è tutto incentrato su soprano e mezzosoprano, che recitano una preghiera, Recordare, cui fanno seguito un'aria da chiesa per il tenore solista, Ingemisco, dolce e rasserenante, e Confutatis maledictis, per il basso solista, una sorta di implorazione.
Viene repentinamente riesposto il Dies irae, al quale segue il doloroso e lirico Lacrymosa, che si conclude con un reiterato "Dona eis requiem". Dopo l'Offertorio, sereno e contemplativo, nel quale si esibiscono le quattro voci solistiche, il Sanctus pone in primo piano il doppio coro con sonorità splendenti; segue l'Agnus Dei, una arcaicizzante "idea guida" esposta in tono maggiore da soprano e mezzosoprano: si alternano quindi coro e soliste che ripetono la frase iniziale in tono minore e concludono infine il brano insieme ai coristi. Il successivo Lux aeterna è interpretato dai cantanti solisti (escluso il soprano); il basso interviene con frequenti e gravi "Requiem aeternam".
Il movimento finale, Libera me, che si riferisce al Giudizio Universale, si apre con una invocazione del soprano solista ("Libera me, Domine, de morte aeterna, in dies illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra"), che assume accenti disperati, canta sempre più piano (e sulla parola "timeo" le "p" di Verdi divengono quattro); questi toni estremamente sommessi creano la tensione necessaria a far riemergere drammaticamente l'ultima citazione del Dies irae. Il soprano riprende l'implorante Libera me prima che inizi l'episodio fugato condotto dal coro: torna quindi l'invocazione del soprano solista che chiude, alternandosi al coro, l'intera partitura, con rassegnazione, pacatezza e mestizia.

lunedì, maggio 15, 2006

Giorgio Graziosi: Come suonava la propria musica Mahler?

Queste registrazioni che ci tramandano la voce di musicisti illustri, voci di almeno mezzo secolo fa e che, affidate a mezzi ancora incerti, pure si sono salvate dal tempo e da due guerre, queste registrazioni, dicevamo, conservano un interesse umano che talvolta eguaglia quello artistico. Ad esempio: nelle lettere e biografie di Gustav Mahler non pare sia reperibile un cenno a sue incisioni discografiche o simili. C'è allora da domandarsi: perché quel grande e musicalissimo direttore d'orchestra, quel vigilante e gelosissimo compositore si sarà fatto mai indurre a sedersi davanti a un pianoforte e a trascrivervi l'ultimo tempo della sua Quarta Sinfonia, inoltre facendo anche a meno della voce del soprano pur prevista dalla partitura? E perché non si preoccupò, almeno, di surrogare la voce suonandone la parte sullo strumento? E tutto questo, proprio in Mabler che alla parola chiedeva il coronamento dell'idea musicale... Timore di rendere la pagina piú ardua? Atto polemico contro se stesso? Ingenuo gusto di provare comechessia il nuovo mezzo, per poi «risentirsi», anche cosí dimezzato?
Propendiamo per l'ultima ipotesi. Quest'artista che fu toccato da bagliori tragici, ch'ebbe della sua arte un concetto quasi messianico, c'è ancora piú caro immaginarlo, del tutto incurante di noi posteri, spinto da una curiosità quasi infantile, farsi registrare proprio nella «vita celestiale». Con perfetta naturalezza le mani che sul podio gli erano di continuo agitate e frementi si fecero qui delicate e ferme. Senza sbavature di suono, senza sottintesi «intelligenti», senza ironia, ma senza neppure certo infantilismo ora tronfio ora sonnolento che qualche direttore d'orchestra cala in questa come in altre musiche mahleriane, quelle mani dipingono con maestria di tocco l'unico paradiso nel quale Mahler, probabilmente, credesse senza riserva alcuna: quello per i bambini.
 
Gustav Mahler al pianoforte: Sinfonia n.4 in sol maggiore - 4. Satz: "Das Himmlische Leben". Welte-Mignon 1905.
di Giorgio Graziosi (da "L'interpretazione musicale", Einaudi 1952)

sabato, maggio 13, 2006

Roland de Candè: Preludio al Dizionario di Musica

Chi sfogliasse distrattamente queste pagine non vi vedrebbe che un dizionario tascabile; mi auguro che non si lasci ingannare dall'apparenza della classificazione alfabetica. Non abbia timore di perdersi in un labirinto di definizioni date a mezzo dei contrari, né di trovar ostacoli nel mutismo ironico delle radici greche o latine; ma non s'aspetti da quest'opera l'abbondante superfluo con cui non pochi dizionari postulano la dignità enciclopedica.
Lungi dal voler dare una risposta «de omni re scibili et quibusdam aliis», ho cercato, al contrario, in uno spirito di sintesi, di riunire i dati essenziali del sapere musicale in qualche articolo principale, cui rinviano articoli secondari, il tutto a formare quell'insieme di conoscenze che possono essere utili a ogni persona che ami la musica.
Numerosi esempi (illustrazioni, citazioni musicali e precisi riferimenti a dischi selezionati) renderanno, spero, più familiari nozioni circondate da un'aureola di mistero, chiarendo alcune definizioni tradizionalmente o necessariamente sibilline. In questo modo il lettore capirà in poco tempo che cos'è esattamente una FUGA o una SONATA e quel che s'intende per ANTICIPAZIONE o APPOGGIATURA. L'ascolto dei dischi raccomandati lo aiuterà nella comprensione delle nozioni rimaste ancora confuse e una lettura più attenta dei paragrafi principali di ogni rubrica gli consentirà di fondare su basi più solide la propria concezione dell'universo sonoro. Quanto al brillante intenditore, che diagnostica con disinvoltura una FALSA RELAZIONE in una partitura complicata, o la mancanza di un COMMA in un unisono approssimativo, troverà forse in queste pagine il piacere di consolidare una scienza esitante. E' un complemento d'informazione necessario che vorrei tentare di dargli.
Questo libro si rivolge a tutti i musicofili o dilettanti di musica, ai collezionisti di dischi e agli allievi musicisti che desiderino conoscere i segreti della più misteriosa fra le arti, con il solo fine di trovare nuove profonde soddisfazioni nelle loro sorprendenti scoperte.
Poiché la musica è un'arte meravigliosa in cui perfino i piú assuefatti professionisti trovano a ogni età nuove emozioni, motivi di stupore e ragioni d'apprendere.
Immateriale, o quasi, quest'arte è nondimeno piú diretta e penetra in noi piú profondamente delle altre. Ma nessuna teoria scientifica ha potuto ancora dimostrare come e perché. La scienza cerca di misurare fenomeni di piccolissime proporzioni con strumenti che l'udito sovente supera in sensibilità, se non in esattezza, rendendo quindi necessario quasi sempre il controllo auditivo. La fisiologia e la fisica sono incapaci di spiegare alcune particolarità dell'ascolto; nessuno scienziato soprattutto, è mai riuscito a dimostrare i rapporti di causa ed effetto che provocano l'emozione musicale e i filosofi hanno invano cercato nella natura segreta del Bello i fondamenti essenziali della sua legittimità.
Non si «capisce» la musica come si capisce l'inglese o il tedesco; nessuno la comprende in questo modo. Tutt'al piú si capiscono le leggi dell'acustica, quelle del contrappunto, dell'armonia ecc.... o, piú esattamente, s'imparano. Ma tutto ciò non è la musica: la musica è fra le note. Per questo è così difficile darne una definizione adeguata. I piú grandi ingegni lo hanno tentato, piú o meno senza riuscirvi:
  • La musica è la scienza dell'ordine in ogni cosa (i Pitagorici).
  • La musica è l'arte dei movimenti ben eseguiti (Sant'Agostino).
  • La musica è la scienza del numero rapportata ai suoni (J. de Garlande, XIII secolo).
  • La musica è un esercizio d'aritmetica segreta e colui che vi si dedica ignora di servirsi dei numeri (Leibniz).
  • La musica è l'arte di combinare i suoni in modo piacevole per l'orecchio (J.-J. Rousseau): definizione adottata dal «Petit Larousse».
  • La musica è una rivelazione piú alta della scienza è della filosofia (Beethoven).
  • La musica è l'immagine adeguata della Volontà stessa (Nietzsche).
  • La musica è innanzi tutto un'arte d'espressione profonda e sublime (Paul Dukas).
  • La musica, a cagione della sua essenza lente a «esprimere» alcunché (Strawinsky)
  • La musica è il solo dominio nel quale l'uomo realizza il presente (Strawinsky)
E' sorprendente che nessuno si sia presto stancato di cercare una definizione impossibile! Mi stupisce anche l'importanza che il profano (raramente l'amatore illuminato) annette in musica al fatto d'«intendersene»: ci si può commuovere senza particolari conoscenze, davanti a un bel paesaggio di montagna! Ma di che cosa poi, esattamente, si vuole avere una «competenza»? Si tratta di acquisire un vocabolario da conversazione o una conoscenza completa della tecnica e della storia musicali? Si vuole poter accompagnare un cantante, assumersi il compito della REALIZZAZIONE di un basso continuo, decifrare una partitura (o accarezzarla con gli occhi), comporre una fuga in meno di un'ora, o sapere a memoria le date di nascita e di morte di tutti i grandi musicisti, nonché l'elenco delle loro composizioni principali?
"Intendersene" può assomigliare a tutto ciò, ma «intendere», capire, la musica è tutt'altra cosa. E poiché è dimostrato, che non la si può capire, «intendere» la musica significa amarla... ; amarla a forza d'ascoltarla, se non si ha la fortuna di praticarla. Sempre più numerosi sono coloro che ascoltano la musica, si direbbe, a lume di naso o con gli occhi: bisogna ascoltarla con gli orecchi. La lettura della partitura (per chi s'interessa a questa pratica) deve venire in un secondo momento: non può risultare utile che a questa condizione e con la riserva di non attribuirvi più efficacia di quanta ne abbia. La partitura non è la musica; è una rappresentazione grafica, una NOTAZIONE, è quel che sarebbe una carta idealmente particolareggiata in rapporto a un bel paesaggio.
Nell'incapacità in cui ci troviamo di cogliere la musica nelle trame della ragione, e poiché occorre dar meno importanza alla scienza che all'amore dell'arte, perché, si dirà, si sono pubblicati questo libro e tanti altri, perché proseguirne la lettura, a qual scopo si costituirebbero le basi di ciò che si è convenuto chiamare «una buona cultura musicale»?
Innanzi tutto per soddisfare la legittima curiosità che si prova nei confronti di ciò che si ama; senza di che lo spirito, frustrato, è distolto dalla salutare applicazione che potrebbe riservare all'oggetto amato. Ma si deve anche conoscere ciò di cui si parla per rispetto di se stessi e degli altri. Ora, la totale assenza di cultura musicale ci espone, durante una conversazione sulla musica, al rischio di usare una parola per un'altra, ciò che è scorretto, perlomeno quanto essere in ritardo a un appuntamento. Conoscere il nome di un oggetto e chiamarlo in modo appropriato sarà pur sempre un indizio d'intelligente correttezza.
Alcune improprietà di linguaggio sono consacrate dall'uso, al punto che è impossibile liberarsene: che siano almeno commesse con cognizione di causa. Cosí, per esempio, si suol dire di un suono che è «alto» o «basso» secondo la grandezza. del numero che indica la sua frequenza. E' evidente che un suono non ha altezza. Gli aggettivi alto e basso si applicano, in buona lingua, a oggetti piú o meno lontani dal centro della terra: e basta. Sulla tastiera di pianoforte i suoni acuti sono a destra; sul violoncello, lo strumentista è obbligato a scendere con la mano sinistra per produrli. Se è vano voler riformare un modo d'esprimersi inveterato, bisogna almeno saperne riconoscere l'assurdità, per non prendere sul serio quella sorta d'ingenuità di cui si fa beffe Berlioz in A' travers chants: «Ho notato una volta in un'opera una scala discendente vocalizzata, una "roulade" (gorgheggio), su queste parole: Je roulais dans l'abìme, il cui proposito imitativo è dei piú ameni».
In cosa consiste una giusta cultura musicale? Ci sono non pochi modi di rispondere a questa domanda, pur senza dover stabilire norme assolute, dato che l'autorità non ha posto nelle questioni affettive... Si può soltanto immaginare una forma ideale di cultura musicale, che riunisca armoniosamente cinque elementi principali:
  1. Filosofia generale della musica. Dopo aver preso in esame il maggior numero possibile di definizioni, si mediti sull'essenza della musica, su ciò che principalmente la distingue dalle altre arti e, di conseguenza, su quanto vi è di comune fra un MOTETTO medioevale, una CANTATA di Bach, una SINFONIA romantica, un VALZER di Strauss, un canto del folklore africano, ecc. Questa meditazione verrà opportunate stimolata dalla lettura di testi che trattino piú o meno direttamente di estetica musicale.
  2. «Anatomia» e «Fisiologia» elementari della musica. Si cerchi di dar risposta alla domanda: «Molto sommariamente, com'è fatta la musica e come agisce?». Non è tanto importante studiare l'ARMONIA, il CONTRAPPUNTO e la STRUMENTAZIONE, quanto sapere esattamente in cosa consistono queste discipline. Allo stesso modo come, per esempio, sarebbe possibile informarsi sui principi dell'energia atomica, senza dovere per questo acquisire il formidabile bagaglio matematico che è indispensabile per accedere alle speculazioni della fisica contemporanea. Lo scopo del presente lavoro è proprio quello di facilitare questo accostamento alla fisiologia musicale. Poiché la curiosità è una virtú, giunti a un certo punto sarà possibile preoccuparsi, con cognizione di causa, della validità dei rapporti fra la teoria a sensazione, quali vengono posti dai compositori: la complessità del tutto intellettuale di certi sistemi è percepita dall'ascoltatore?
  3. Sociologia della professione musicale. Molto spesso l'appassionato di musica desidera entrare in rapporto d'intimità con i musicisti: nulla di piú legittimo e non v'è alcun motivo d'innalzare tra il pubblico e gli artisti una barriera che ponga questi ultimi in una sfera mitologica. Si trarrà molto profitto dalla lettura degli scritti di musicisti:
    - BENEDETTO MARCELLO - Il Teatro alla moda, Ricordi, 1956
    - BEETHOVEN - Lettere e colloqui, Longanesi, 1950
    - BERLIOZ - Memorie, 2 vol., Suvini Zerboni, Milano 1947
    - DEBUSSY - Il Signor Croche, antidilettante, Bompiani,
    - WAGNER - La mia vita, UTET, (autobiografia molto particolareggiata)
    - SCHUMANN - La musica romantica, a cura di Luigi Ronga, Einaudi, 1950 e Mondadori, 1958
    - G.F.MALIPIERO - Il filo d'Arianna - Saggi e fantasie, Einaudi, 1966
    - BUSONI - Scritti e pensieri sulla musica, a cura di Luigi Dallapiccola e Guido M. Gatti, Ricordi, 1954
    - SCHOENBERG - Stile e Idea, a cura di Luigi Pestalozza, Rusconi e Paolazzi, 1960
    - BARTOK - Scritti sulla musica popolare, a cura di Diego Carpitella, Einaudi, 1955
    - STRAWINSKY - Poetica della musica, Curci, 1954
    - STRAWINSKY - Cronache della mia vita, a cura di Alberto Mantelli, Minuziano, 1947
    - CASELLA - Strawinsky, «La Scuola» Editrice, 1951
  4. Storia della musica. La sua conoscenza va sempre piú diffondendosi, soprattutto fra collezionisti di dischi, che profittano della lettura delle note illustrative a tergo delle copertine. Si abbia cura però di mantenere una visione eclettica della storia della musica, nel suo insieme, considerando che questa storia non comincia nel Settecento, con le grandi opere di Bach, per concludersi duecento anni dopo con quelle di Debussy, Ravel o Strawinsky.
  5. Una buona cultura musicale dev'essere completata, nei limiti del possibile, dalla pratica, anche elementare, di uno strumento. Molti esordienti si scoraggiano perché pretendono di far troppo: lavorano con accanimento e, benché non vi siano costretti da necessità di professione, consacrano talvolta tutto il loro lavoro alla preparazione di «pezzi» brillanti da offrire all'indulgente ammirazione dei loro familiari e amici. Nell'accecamento delle loro ambizioni da acrobati molti dimenticano che un FRASEGGIO sensibile e intelligente è piú importante del banale virtuosismo manuale. Ci si è mai chiesto come verrebbe proseguito lo studio di uno strumento se si vivesse su un'isola deserta, con tutte le partiture del mondo a propria disposizione?
    Vi sono strumenti musicali per ogni borsa e per tutti i gusti. I pianoforti "che si sentono nei quartieri signorili", di cui Laforgue ha cantato il compianto, questi poveri pianoforti dai tasti ingialliti, semiscorticati e le viscere sferraglianti ricoperti di broccati e cianfrusaglie, vittime innocenti della negligenza o della mancanza d'iniziative dei loro proprietari, non devono suscitare alcuna invidia in coloro che non ne possiedono: il nobile pianoforte non è, fra gli strumenti, il sovrano assoluto. S'ignorano spesso, pare, i titoli di nobiltà della CHITARRA dal repertorio vasto e le infinite possibilità; a questo meraviglioso strumento (suonato da Berlioz e Paganini) si è troppo sovente attribuito soltanto una funzione d'accompagnamento in repertori di canzonette. Si dimentica anche talora che il flauto a becco, a otto fori, di cui esistono quattro modelli per formare quartetto, è stato usato, da Medio Evo al Settecento, da grandi maestri, fra i quali J.S. Bach e Haendel. Esiste infine uno strumento di cui quasi tutti dispongono: la VOCE. Benché la pratica dei canto sia stata ormai da tempo inesplicabilmente trascurata in Italia e in Francia, qualsiasi voce può essere coltivata, senza che siano necessarie qualità eccezionali, né di bellezza di timbro, né di volume sonoro. Quanto al glorioso strumento in nero e bianco, tradizionale fondamento delle esperienze musicali, esso offre molteplici possibilità, dal bel pianoforte a coda da concerto fino al piú modesto dei pianoforti verticali. Occorre aggiungere che si trovano buoni pianoforti a noleggio e che, in ogni caso, un piccolo pianoforte verticale in buono stato, che "tenga" l'accordatura, è da preferirsi a qualsiasi piano a coda lasciato in disuso, con i feltri preda delle tarme e le caviglie indisciplinate che non consentirebbero píú una rigorosa accordatura?
    L'esattezza dell'accordatura non è un lusso, ma una necessità assoluta, sia per il dilettante che per il professionista. Qualsiasi strumento che non permetta di soddisfare a questa esigenza dev'essere riparato o affidato al servizio di raccolta dei rifiuti. Non si pensa mai abbastanza all'errore pedagogico che si commette consentendo che i giovani allievi ancora in formazione possano accontentarsi di approssimazioni e foggiarsi criteri di bellezza e di probità a contatto con modelli di bruttezza e d'imprecisione. In ogni caso, sia che si scelga d'insegnare a un ragazzo il pianoforte, oppure il violino, la chitarra, il flauto a becco o «flauto dolce» o perfino l'armonica a bocca, malgrado i dubbi che possono sorgere sulla sua dignità estetica, dei genitori che amino la musica e non intendano considerare questi strumenti come giocattoli avranno a cuore di ricercarne la qualità: non necessariamente la spesa sarà maggiore. Si possono trovare buoni violini, che non siano degli Stradivari, e buone chitarre spagnole, anche se non sono di de Torres.
Il confronto di opinioni differenti, in materia estetica, porta di solito a feconde riflessioni, purché si rinunci al tono di esaltante intransigenza che può assumere chi si ritenga investito del patrocinio di una causa. Poiché ogni giudizio estetico, od ogni critica di tale giudizio, fa ricorso tanto a nozioni metafisiche che psicologiche, e perfino fisiologiche, occorrerà sempre rimettere in discussione l'universalità di una bellezza ideale e preoccuparsi della natura delle emozioni estetiche. Il Bello esiste o appartiene all'eterna Utopia dell'uomo avido di Verità? Affermare l'esistenza di una bellezza assoluta obbliga sfortunatamente a enunciarne la definizione; a meno di ammettere che la scoperta del Bello sia una forma di rivelazione superiore, tanto estranea a ogni rettorica quanto lo sono le esperienze mistiche... Spesso, fin dal primissirno contatto, si sosterrà che un'opera d'arte è bella; il vicino si sarà convinto, anch'egli nello stesso istante, del contrario. Sia l'uno che l'altro rifiuteranno di dare a questi giudizi immediati la forma piú conveniente di un'osservazione soggettiva: «Sin dal primo momento quest'opera mi piace... mi emoziona... mi è indifferente... m'irrita... mi dà un'impressione spiacevole e non so ancora perché». L'unico arbitrato ragionevole consisterebbe nel comparare lungamente l'opera considerata al modello-campione di bellezza, al capolavoro universale, al Bello incarnato. Dove trovare questo modello assoluto? Quale numero sarà celato dalla sua forma?
Ogni uomo, tuttavia, sarebbe pronto a testimoniare della bellezza nell'universo. Tutti sono concordi nel trovar belli, assolutamente, le forme e i movimenti della natura o le grandi opere dell'ingegno umano (dissociati dai loro oggetti, che introducono una stonatura concreta, talvolta tragica, in questo dominio dell'ideale). E poiché la realtà del Bello può essere dimostrata mediante l'osservazione dei suoi effetti (molte prove dell'esistenza di Dio si fondano sull'analoga ipotesi), si considereranno con interesse le frequenti manifestazioni di grandi emozioni collettive spontanee in presenza della Bellezza indiscussa.
Da Platone in poi, il Bello è uno degli attributi della perfezione divina, la quale è necessariamente unica e universale come Dio stesso: il Bello assoluto sarebbe l'essenza stessa della Creazione prima di essersi materializzata. Considerato in tal modo, il Bello è una chimera che s'insegue per puro piacere intellettuale, poiché il suo principio non consente di spiegare la diversità delle manifestazioni artistiche. L'arte espressiva dell'Ottocento, per esempio, può rappresentare tutte le emozioni, tutti i caratteri e porre l'accento sulla sofferenza, la bruttezza o il vizio: non per questo è meno bella, finché il mestiere, o piuttosto l'«arte», è efficace («ars» esprime contemporaneamente una certa saggezza nel mestiere e una certa efficacia del sapere). In generale, tutto ciò che evoca la perfezione è bello, persino la rappresentazione di oggetti orribili:
«Il n'est point de serpent ni de monstre odieux. Qui, par l'art imité, ne puisse plaire aux yeux». (BOILEAU, Art Poétique)
Questa concezione artigianale della bellezza è legata a una gerarchia di valori, a una nozione di valutazione, di preferenza (uno dei principi dell'arte non consiste nella ricerca istintiva del meglio?) e conseguentemente all'esistenza di un soggetto che preferisce. Per l'esistenza del Bello ideale la condizione sarebbe che questo soggetto fosse Dio: «L'ideale è il gusto di Dio», scriveva Victor Hugo.
Soltanto una definizione soggettiva del Bello mi sembra ragionevole, dato che sotto forma di un'idea astratta, cui si cerca vanamente di far corrispondere una realtà unica, il Bello è l'oggetto molteplice e impreciso dell'ammirazione degli uomini. Non bisogna dire, quindi: «L'uomo ammira il Bello» (poiché, cos'è il Bello?), ma piuttosto: «Il Bello è ciò che l'uomo ammira» e alla vana ricerca del Bello assoluto si sostituisce un appassionante studio della sensibilità umana.
Per quanto interessante possa essere l'analisi musicale, si capisce come essa sia incapace di spiegare la bellezza di un'opera, ossia le ragioni della nostra ammirazione. Eppure la musica, in cui facciamo intervenire, piú che altrove, il «genio», per spiegare il vuoto che produce nella nostra ragione, è un'arte minuziosa, esatta, ove lo spirito di metodo e il sapere hanno una funzione di primaria importanza. Il rigore e la complessità dei metodi di composizione, la difficoltà della notazione e la stessa scipitezza di questo mezzo grafico, nulla di tutto ciò sembra favorire quella incarnazione quasi miracolosa del Bello che è il prodotto del genio.
Se si cerca di avvicinare la musica con uno spirito nuovo ciò che colpisce, dapprima, è l'importanza della scelta dei materiali, che rappresenta già di per sé un momento dell'attività creativa. Nella musica di tutti i popoli conosciuti si è sempre proceduto a una scelta esclusiva e rigorosa di certi rapporti di frequenze (o INTERVALLI) e di certi rapporti di durata (RITMI). Sono numeri privilegiati. L'altezza del suono varia sempre per gradi e non in maniera continua: il musicista non utilizza dunque tutti i suoni possibili, quali teoricamente li produce la sirena. La stessa continuità si osserva nel ritmo musicale: all'opposto di quanto avviene nella frase parlata, la musica fa intervenire una scelta di durate che sono tra loro in rapporti matematici semplici (multipli semplici o frazioni i cui due termini sono inferiori a 10). Le regole che determinano queste selezioni primordiali sono la base delle scienze musicali. Il loro carattere generalmente arbitrario spiega le variazioni che esse hanno subito attraverso le varie epoche, quanto meno nella musica europea.
La scelta e l'agglomerarsi dei suoni e delle durate, che costituiscono il principio stesso della composizione e che si possono rappresentare con numeri, sono gli elementi fondamentali del Bello musicale? Indubbiamente; ma la musica non può essere ridotta a questa sola aritmetica. La sua vera natura si rivela nei moti psicologici che i numeri musicali producono nell'ascoltatore. La musica è dunque la piú soggettiva delle arti, non potendo essere giudicata che nello specchio più o meno deformante dell'udito e dell'intelletto umani. E' questa la ragione per cui non s'insisterà mai abbastanza sul fatto che la musica debba essere ascoltata e non soltanto letta. La lettura si rapporta al ricordo della percezione auditiva, infinitamente variabile e complessa, e la partitura non è che un sussidio mnemonico, o un insieme di dati, che consente agli "interpreti" di provocare in loro stessi e nei loro ascoltarori un'emozione già conosciuta. Per giudicare rettamente un'opera nuova alla lettura della partitura non è sufficiente la sola analisi; occorre essere capaci di un'interpretazione immaginativa dell'opera, la cui correttezza dipende da una pratica illuminata.
Da quanto precede risulta che, per valutate la bellezza di una composizione, ossia la natura dell'emozione provata all'ascolto, sarebbe necessario definire un modello psico-estetico di riferimento e studiare, relativamente a questo tipo, le cause prime dell'emozione musicale. E' difficile per l'intelletto concepire un altro metodo che consenta di giudicare rettamente del Bello in musica, ove s'intenda rispettare l'autonomia di quest'arte, evitando i confronti con la natura.
Queste poche riflessioni dimostrano che la realtà musicale si allontana come un miraggio da colui che l'insegue. La musica, come il pensiero esoterico che ispira le grandi religioni, può essere paragonata a quelle strane scatole di cui si servono gli illusionisti; ogni scatola, che sembra una e indivisibile ne contiene un'altra, indefinitamente... La verità, scopo supremo delle nostre ricerche, è sempre al di là delle osservazioni.
L'incresciosa mania di attribuire ai capolavori significati di pura invenzione allontana, purtroppo, molti ascoltatori dalla realtà musicale. Non lo si ripeterà mai troppo: la musica non è un linguaggio, che si attraversa senza incontrare ostacoli, una rappresentazione grafica o fonetica convenzionale d'oggetti o di sentimenti, l'espressione di un pensiero distinto dalla sua sostanza. Il linguaggio vero e proprio è un mezzo e ciò che ci invita a conoscere è al di là di esso. Al contrario, la musica è l'oggetto stesso che si propone alla nostra attenzione, eventualmente alla nostra ammirazione. Musica e linguaggio hanno soltanto una legge comune: quella del tempo.
Di certo, la musica può far sorgere in noi determinati sentimenti, quando l'emozione dell'arte ci innalza a una sorta d'identificazione con il creatore. La musica «esprime» infatti la personalità del suo autore, inconsapevolmente nei classici, deliberatamente nei romantici. Ma questa espressione non costituisce la sua essenza; spesso, anzi, è indiscernibile (divina spensieratezza del Quintetto in mi bemolle, composto da Mozart nel suo ultimo, doloroso anno di vita; contrasto fra lo Schubert senza età, scialbo e impacciato, quale lo conobbero i suoi contemporanei, e l'angelo fraterno che si manifesta con cosí evidente perfezione nei Lieder e nella musica da camera). Il «sentimento» musicale è ineffabile, inseparabile dalla sua forma. E' perciò assurdo opporre, in musica, idea e stile, contenuto e forma.
La natura di quest'arte, la sua vera bellezza, può essere percepita senza studio preliminare, poiché il piacere musicale o, se si vuole, la «comprensione» della musica, non è subordinato all'acquisizione di conoscenze tecniche. Massimo Mila scrive, non senza humour: «Non è affatto necessario aver studiato l'armonia per capire la musica; al contrario è indispensabile capire la musica per conoscere l'armonia». Un'analisi armonica non è che una nomenclatura priva di significato e non può, da sé sola, fornire ragguagli sulla qualità intrinseca di un'opera. Nondimeno, ascoltare la musica con il desiderio di esaurirne le risorse emozionali presuppone un intervento dell'intelletto: è in questo senso che si tratta di «capire» l'arte dei suoni. E' infatti rischioso pensare di dovervisi abbandonare, come la Bella addormentata nel bosco al proprio destino. Bisogna invece sforzarsi di «percepire» le necessità che fanno succedere una nota a un'altra (anche se non si è in grado di darne una spiegazione in termini appropriati), in modo che l'accordo finale risulti una conclusione logica, che trae il suo valore, la sua importanza, da tutto ciò che è venuto prima. Solo il ritmo e il timbro si rivolgono esclusivamente all'istinto e agiscono sui sensi indipendentemente dagli interventi dell'intelletto: sono gli elementi magici.
Naturalmente, se non bisogna abbandonarsi in maniera passiva ai sortilegi della musica, non si deve nemmeno credere di poterla comprendere logicamente a forza di ragionamenti. Non v'è, per convincersene, che studiare metodicamente la teoria musicale. Lo studio elementare del fenomeno fisico semplice (suono puro), poi complesso (suono musicale) ne rivela la vanità: il suono non esiste che in funzione dell'ascolto. Si osserverà dunque il curioso meccanismo della sensazione auditiva, per constatare come essa si elabori in modo particolare e come la nozione classica di percezione perda, in musica, la sua importanza: i suoni vi agiscono indipendentemente dal loro rapporto con un oggetto qualunque. Mentre in scultura, per esempio, la sensazione elementare è soltanto quella di una luce bianca o grigia, un insieme di suoni musicali, al contrario, provoca immediatamente reazioni psicologiche insolite, moti indescrivibili dell'anima in armonia con l'opera... L'analisi musicale propriamente detta finirà col dimostrare che l'essenza del Bello ci sfugge sempre piú, oltre gli studi particolari che ricavano i loro strumenti dall'aritmetica, dalla fisica, dalla fisiologia, dalla psicologia, dall'estetica.
Se si perviene ad analizzare il Bello musicale, o piuttosto (con compiacente approssimazione) le condizioni dell'emozione musicale, la nostra mente è turbata da un mistero: quello relativo alle corrispondenze segrete fra queste condizioni (che possono essere tradotte in cifre) e l'emozione stessa. Attraverso quale misterioso meccanismo gli uomini hanno riconociuto come CONSONANZE, quindi come intervalli da prediligere, quelli il cui valore medio è una frazione semplice, che si vale soltanto dei sei primi numeri interi?
Il matematico Eulero, rifacendosi ai pitagorici, suppone che noi restiamo piacevolmente sorpresi, in musica come altrove, a partire dal momento in cui scopriamo un certo ordine logico, una certa armonia aritmetica. Quando i numeri di vibrazioni al secondo (o frequenze) di due suoni sono tra loro in un rapporto semplice, sentiamo inconsciamente la coincidenza periodica dei due movimenti vibratorii, e questa coincidenza tanto piú spesso si produce quanto piú il rapporto delle frequenze è semplice, ossia quanto piú l'intervallo è consonante; così, per esempio, constatiamo che nell'intervallo di QUINTA tre vibrazioni di uno dei suoni corrispondono nel tempo a due vibrazioni dell'altro. Questa ipotesi è ingegnosa, ma non spiega perché una consonanza leggermente alterata suoni quasi altrettanto bene di una consonanza giusta, benché in tal caso il rapporto numerico delle frequenze sia molto complicato. Inoltre essa non precisa come la nostra sensibilità e il nostro intelletto possano apprezzare il rapporto numerico delle frequenze di due suoni simultanei.
Il grande compositore Rameau, partecipando all'utopia degli Enciclopedisti, secondo cui tutto ciò che ha rapporto con la natura è buono, trova la giustificazione della consonanza nell'osservazione del fenomeno naturale della risonanza dei corpi sonori: l'analisi di un suono complesso dimostra che i primi ARMONICI formano fra di loro consonanze tanto piú perfette quanto il loro ordine è meno elevato (a. 1 = unissono; a. 2 = ottava; a. 3 = quinta; a. 4 = quarta. La teoria di Rameau pecca a causa del postulato contestabile dell'equivalenza delle ottave, ma ha il merito di essere fondata (indubbiamente per la prima volta) su basi scientifiche e non metafisiche.
Molti altri pensatori hanno tentato di comprendere il «modus operandi» della musica, ma, per la maggior parte, hanno integrato a forza le loro formule estetiche in sistemi filosofici generali, indifferenti, nella loro inclinazione all'universale, alle particolarità dell'esperienza musicale. Alcuni hanno tentato l'analisi della loro emozione, ma nessuno è giunto a stabilire delle relazioni di causalità fra i mezzi impiegati nella musica e i risultati emozionali.
Gli antichi teorici cinesi paragonano i cinque suoni della loro gamma ai cinque elementi fondamentali distinti dalla loro filosofia (acqua, fuoco, legno, metallo, terra). Per i pitagorici la concezione dei rapporti musicali è di natura esclusivamente matematica; attuando un accordo armonioso dell'intelletto e dell'immaginazione, ritenevano di trovare nelle distanze dei corpi celesti dal fuoco centrale originario i rapporti numerici che reggono la musica («armonia delle sfere»). Nella Repubblica e Le Leggi, ma soprattutto nel Timeo (§ 47), Platone tratta spesso d'estetica musicale; purtroppo, però, il suo discorso è inframmezzato da idee sul valore etico della musica fondantisi sempre sull'affermazione che i movimenti musicali sono analoghi ai moti dell'anima umana, per cui la musica, potendo contribuire all'elevazione dell'anima, costituisce un grado che conduce alla filosofia e alla serenità. In virtú del principio «Dio fa sempre geometria» (opinione tutta pitagorica), Platone avrebbe potuto cercare l'espressione matematica della «buona» musica, della musica virtuosa, quella che si confonde nell'opera di Dio!... Aristotele, nel «29° Problema», pone la domanda seguente: «Perché i ritmi e le melodie si prestano a esprimere i moti dell'anima, mentre lo stesso non avviene con i gusti, i colori e i profumi? Forse perché sono dei movimenti, come gli atti? L'energia propria alle melodie e ai ritmi proviene da una disposizione dell'anima e agisce su di essa... ».


Più vicini a noi, i grandi filosofi tedeschi si sono accostati all'estetica musicale con ineguale fortuna. Nietzsche, senza una precisa dottrina, si occupa spesso di musica con forsennato entusiasmo, lancia in resta per o contro chiunque o qualsiasi cosa: «La musica è un'eco di stati la cui espressione concettuale era il misticismo; un sentimento di trasfigurazione, d'illuminazione nell'individuo...». "Fare musica è un modo di dar figli" (!!). Per Schopenhauer, buon musicista (suonava il flauto), l'Arte non è che la contemplazione, intuitiva, disinteressata della Volontà (o «Volontà di vivere») per mezzo delle Idee: soltanto la musica ha il potere di giungere direttamente all'essenza delle cose senza questo mezzo. Hegel, che sembra non aver mai avuto la rivelazione della musica allo stato puro, afferma che essa è una «espressione sensibile dell'Idea», inferiore alla letteratura in questa funzione; difende il principio dell'unità dell'arte, che viene applicato nel dramma wagneriano. Contro questo principio si leva il grande critico e studioso d'estetica Hanslick, amico di Brahms. Nella sua opera Del bello nella musica (1854), egli dimostra che la musica non è in grado, per sua «natura», di esprimere sentimenti: essa non può «esprimere» che le proprie qualità, come un'emanazione della propria sostanza. «La musica, scrive ha realmente un soggetto o contenuto, ma di natura del tutto musicale...».
Ecco infine, secondo il grande studioso d'estetica francese Charles Lalo, le sette funzioni psico-fisiologiche della musica (confuse nell'intuizione spontanea di un'opera):
  1. Sensazione sonora: materia prima, dato immediato della coscienza musicale, oggetto delle esperienze fisiche e fisiologiche di Helmholtz.
  2. Percezione sotto forma statica: coscienza di una relazione fra piú sensazioni. La sensazione s'innalza dal piano degli eventi a quello dei valori.
  3. Percezione sotto forma dinamica: percezione dei moti «dinamogenici» inerenti a ogni atto musicale: variazioni di movimento, tensioni e riposi (armonica o ritmica).
  4. Irradiazione cinestèsica: «scarica nervosa diffusa» che percorre quasi tutto il nostro sistema nervoso; emozione indefinibile, di cui s'ignora la causa motrice.
  5. Irradiazione per suggestione: irraggiamento soggettivo della musica, risveglio di sentimenti extra-musicali, o «anestetici» a opera dell'immaginazione.
  6. Espressione psichica: risonanza mentale risultante dalle analogie che si pongono fra certe strutture musicali e certe altre, soprattutto di ordine affettivo... Moti viscerali, in relazione ai moti affettivi. E' probabilmente quel che provava in modo indistinto Mallarmé, quando ritornava, inquieto, dai concerti Colonne.
  7. Espressione descrittiva: scoperta di simboli piú o meno semplici, fondata su analogie di struttura esteriori (come l'«espressione psichica» si basava su analogie interiori).
Insomma, i filosofi non sono andati piú lontano dei fisici nella definizione del Bello musicale. Tutti, però, ammettono implicitamente che questo Bello esista, non fosse altro perché lo nominano e ne ricercano i caratteri generali. Forse, ponendosi molto al di sopra dei pregiudizi e delle «allergie» musicali correnti, si potrebbe vedere questa Bellezza essenziale unica nella sua diversità e sfuggente alla ragione come il simbolo trinitario cristiano. Essa sarebbe il punto d'incontro dei sentimenti estetici piú puri e si sarebbe tentati d'identificarla mediante una somma di testimonianze, con il metodo detto dell'«identificazione automatica». Al miraggio del Bello assoluto, nel senso platonico del concetto, si sostituirebbe utilmente la realtà intellettuale di una bellezza «a posteriori», specie di luogo geometrico ideale degli oggetti d'ammirazione di tutte le sensibilità musicali.
Se il Bello musicale esistesse sotto questa forma, non sarebbe piú ragionevole contestare il valore assoluto dei giudizi avvertiti e sinceri, e non vi sarebbero piú falsi saggi a interrompere feconde discussioni con un perentorio: «sui gusti non ...»! Se ne discute invece e, sempre, dopo anni (o talvolta secoli) le persone di buona fede finiscono per accordarsi sui capolavori: è il risultato di una sorta di «identificazione del processo interiore della coscienza con la dinamica della forma musicale» (Massimo Mila).
Il vero artista può sentire confusamente certi rapporti nascosti. Ma quale mente superiore saprà fare la sintesi degli elementi cosí diversi che sono stati accennati or ora: dati numerici della scienza, conclusioni ipotetiche del ragionamento filosofico, imperativi irrazionali e conoscenza intuitiva dell'arte? Se l'ambizione del lettore potesse attirarlo (anche impercettibilmente) verso questa appassionante ricerca, la mia propria ambizione sarebbe soddisfatta. Ma, s'gli ancora dubitasse del vantaggio che ne trarrebbe approfondendo la conoscenza della musica, aggiungerei che due facoltà sono essenziali al piacere musicale: l'attenzione e la memoria, che prosperano nel modo piú fecondo se favorite dalla conoscenza. Questa conoscenza costituirà il punto di partenza di una curiosità senza posa ravvivata da sempre nuove scoperte.
 
Roland de Candé (Preludio al Dizionario di Musica, 1961) - Bompiani, 1968